Margaret Weis - Raistlin. L'Alba Del Male

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MARGARET WEIS RAISTLIN L'ALBA DEL MALE (The Soulforge, 1998)  Dedicato con amore e amic izia a Tracy Raye Hickman  RINGRAZIAMENTI Un ringraziamento agli amici di Krynn  sull'alt. fan. dragonlance newsg roup.  Essi hanno attraversato quell a magica landa più recentemente di quanto non abbia fatto io e perciò sono stati in grado di fornirmi delle informazioni inestimabili. Grazie a voi tutti! Vorrei ringraziare Terry Phillips, la cui opera originale, un Adventure Book, The Soulforge è stata la principale fonte d'ispirazione della mia storia. PROLOGO Sono passati oltre dieci anni da quando ci siamo radunati nel mio  piccolo appartamento per una partita. A quel tempo Dragonlance era noto soltanto ad una manciata di noi, un neonato pieno di promesse non ancora realizzate, e stavamo giocando la prima avventura di quella che si sarebbe riv elata un' esp erienza mer avi gli osa per milioni di per son e... anche se

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MARGARET WEIS

RAISTLIN L'ALBA DEL MALE

(The Soulforge, 1998)

 Dedicato con amore e amiciziaa Tracy Raye Hickman

 RINGRAZIAMENTI 

Un ringraziamento agli amici di Krynn

 sull'alt. fan. dragonlance newsgroup. Essi hanno attraversato quella magica landa più

recentemente di quanto non abbia fatto ioe perciò sono stati in grado di fornirmi delleinformazioni inestimabili. Grazie a voi tutti!

Vorrei ringraziare Terry Phillips, la cui operaoriginale, un Adventure Book, The Soulforge

è stata la principale fonte d'ispirazionedella mia storia.

PROLOGO

Sono passati oltre dieci anni da quando ci siamo radunati nel mio piccolo appartamento per una partita. A quel tempo Dragonlance era notosoltanto ad una manciata di noi, un neonato pieno di promesse non ancora

realizzate, e stavamo giocando la prima avventura di quella che si sarebberivelata un'esperienza meravigliosa per milioni di persone... anche se

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quella notte, stando a quanto ricordo, per lo più non avevamo idea diquello che stavamo facendo. Io dirigevo il gioco basandomi sull'insiemedelle mie annotazioni preparato in tutta fretta e sia mia moglie siaMargaret erano nella schiera di quanti stavano lottando per trovare il loro personaggio nella massa di figure indistinte che avevamo fornito loro. Chierano questi Eroi delle Lance? Qual era il loro aspetto effettivo?

Stavamo ormai cominciando a giocare quando mi sono girato verso ilmio buon amico Terry Phillips e gli ho chiesto cosa intendesse fare il suo personaggio. Terry mi ha risposto... e il mondo di Krynn è cambiato per sempre: la sua voce rauca, il suo sarcasmo e la sua amarezza che servivanoa mascherare un'arroganza e un potere che non avevano mai bisogno diessere dichiarati divennero improvvisamente reali e tutti noi nella stanza

rimanemmo paralizzati e terrorizzati. Ancora oggi Margaret persiste nelgiurare che quella notte Terry aveva indosso una veste nera.

Terry Phillips aveva scelto Raistlin come suo personaggio, e con quellascelta aveva dato vita ad uno dei più duraturi personaggi di Dragonlance.Terry ha perfino scritto un Adventure Gamebook relativo alle provesostenute da Raistlin e dotato dello stesso titolo del volume che avete orain mano; Krynn... per non parlare di Margaret e di me... ha un notevoledebito di gratitudine nei suoi confronti per averci donato Raistlin.

Altri personaggi di Dragonlance possono anche appartenere a diversicreatori, ma fin dall'inizio Margaret ha messo bene in chiaro che quelloche riguardava Raistlin era di sua esclusiva pertinenza e noi non ci siamomai risentiti di questo suo accaparrarsi il mago oscuro perché lei sembravala sola capace di confortare il suo personaggio e di dare sollievo alla suamente turbata. La verità è che Raistlin spaventava il resto di noi,inducendoci a prendere le distanze, e che solo Margaret ha capito comevarcare quell'insuperabile abisso.

Adesso avete fra le mani la storia di Raistlin come l'ha narrataMargaret... la persona che lo conosce meglio di chiunque altro: forse nonsarà un viaggio confortevole, ma varrà la pena di compierlo, perchéMargaret è sempre stata una maestra nell'arte della narrazione e questa èuna vicenda che desiderava raccontarvi da tempo.

E se Terry sta leggendo queste pagine... dovunque si trovi adesso... gliauguro di avere la pace.

TRACY HICKMAN10 Ottobre 1997

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Le leghe prodotte dai primi uomini che lavorarono il ferro... eranoottenute riscaldando masse di minerale di ferro e di carbone in una fucinao fornace che avesse un tiraggio d'aria forzato. Sotto questo trattamento ilminerale veniva ridotto ad una spugna di ferro piena di scorie composte diimpurità metalliche e di cenere di carbone. Questa spugna di ferro venivarimossa dalla fornace quando era ancora incandescente e percossa con pesanti martelli per eliminare le impurità e uniformare e consolidare ilferro... Di tanto in tanto capitava che questa tecnica per la fabbricazionedel ferro portasse per caso alla creazione di vero acciaio...1

1 "Produzione dell'Acciaio" Microsoft Encarta Encyclopedia, 1993-1995.

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LIBRO PRIMO

 L'anima di un mago viene forgiata nel crogiuolo della magia.ANTIMODES DALLA VESTE BIANCA

CAPITOLO PRIMO

Quando viaggiava, non indossava mai la veste bianca.A quell'epoca, del resto, prima che la grande e terribile Guerra delle

Lance riversasse il proprio calderone su tutto Ansalon e lo bruciasse comeolio bollente, erano ben pochi i maghi che osassero farlo in quanto quelloera un tempo, circa quindici anni prima della guerra, in cui il fuoco sotto il

calderone era appena stato acceso, la Regina delle Tenebre e i suoi seguaciavevano appena generato le scintille che ne avrebbero fatto divampare lafiamma; all'interno del calderone, l'olio era quindi ancora freddo, nero edenso, ma sul fondo stava cominciando a scaldarsi.

La maggior parte degli abitanti di Ansalon non avrebbe mai visto ilcalderone e tanto meno l'olio che ribolliva al suo interno fino a quandoesso non le fosse stato rovesciato sulla testa, insieme al fuoco dei draghi eagli altri innumerevoli orrori della guerra, e in questo periodo di relativa

 pace la gente di Ansalon non si prendeva per lo più la briga di guardareverso l'alto e neppure a destra e a sinistra per vedere cosa stessesuccedendo nel mondo circostante, preferendo fissare i propri piedi nelvivere una polverosa giornata dopo l'altra, sollevando al massimo la testaogni tanto per controllare che una pioggia improvvisa non rovinassequalche scampagnata.

Pochi avvertivano il calore di quel fuoco appena acceso e tenevanoattentamente d'occhio il turgido liquido nero racchiuso nel calderone:

 pervasi di un crescente disagio, questi pochi stavano iniziando a elaboraredei piani nel vedere che esso si andava riscaldando.

Il nome del mago in questione era Antimodes, era umano e originario diuna buona famiglia di mercanti di Porto Balifor; essendo il più giovane ditre fratelli, era stato allevato con la previsione di essere inserito nel ramod'affari della famiglia, che si occupava di sartoria, e a tutt'oggi eraorgoglioso di mostrare le cicatrici lasciate dalle punture d'ago sul ditomedio della mano destra. Quest'esperienza giovanile aveva conferito ad

Antimodes un insolito senso degli affari abbinato ad un gusto eccellentenel vestire e nella scelta di stoffe pregiate, il che costituiva uno dei motivi

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 per cui capitava di rado di vederlo con indosso la veste bianca.Alcuni maghi avevano paura di portare la veste bianca, simbolo della

loro professione, in quanto sapevano di non essere amati e ben visti inAnsalon, mentre Antimodes non aveva paura ma evitava comunque diindossarla per il semplice motivo che lasciava vedere troppo lo sporco e luidetestava arrivare a destinazione cosparso di schizzi di fango troppoevidenti.

Il mago era solito viaggiare solo, cosa che in quei giorni di disagiosignificava che lui era uno stolto, un kender o una persona estremamente potente; Antimodes peraltro non era né uno stolto né un kender e viaggiavasolo perché preferiva la compagnia di se stesso e della sua asina, Jenny, aquella della maggior parte delle persone che conosceva; quanto alle

guardie del corpo, di solito erano volgari e stupide, oltre che costose, ecomunque in caso di bisogno il mago era perfettamente in grado didifendersi da solo in maniera adeguata.

La necessità di difendersi si era peraltro presentata di rado nei suoi oltrecinquant'anni di vita, perché in genere i ladri preferivano cercare prede cheapparissero spaventate, ubriache o sventate, e anche se il suo elegantemantello di lana blu scuro dai fermagli d'argento indicava senza dubbioche lui era un uomo facoltoso, Antimodes lo portava con un'aria piena di

sicurezza, cavalcando eretto e a testa alta sulla sua asina dal passocadenzato, con lo sguardo acuto che notava tutto ciò che lo circondava,dagli scoiattoli fra i rami ai rospi nel fossato.

Anche se all'apparenza non aveva armi, le sue ampie maniche e gli altistivali di cuoio avrebbero potuto nascondere con facilità un pugnale, lesacche di cuoio lavorato a mano che gli pendevano dalla cinturacontenevano senza dubbio componenti per incantesimi e la custodiad'avorio che lui portava appesa al petto mediante una cinghia di cuoio era

 probabilmente piena di pergamene magiche, tutti indizi che qualsiasi ladroche meritasse i propri grimaldelli non poteva mancare di notare. Diconseguenza, le figure indistinte che si tenevano annidate fra le siepi checosteggiavano la strada, in genere si allontanavano da lui per andare incerca di vittime più facili.

Quel giorno Antimodes era in viaggio alla volta della Torre dellaSomma Stregoneria di Wayreth e per andarvi aveva scelto il percorso piùlungo, dal momento che avrebbe potuto con tutta facilità imboccare i

corridoi della magia per arrivare alla Torre dalla sua città natale, PortoBalifor. Il mago aveva però ricevuto da Par-Salian, capo dell'Ordine delle

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Vesti Bianche e del Conclave dei Maghi e quindi suo diretto superiore, larichiesta di effettuare il viaggio nel modo convenzionale. Anche se Par-Salian era il suo superiore, lui e Antimodes erano peraltro intimi amici findall'epoca in cui entrambi erano giovani ed erano giunti alla Torre nellostesso giorno per sottoporsi alla faticosa e a volte letale Prova imposta atutti gli aspiranti maghi. Entrambi avevano dovuto aspettare nella stessaanticamera della Torre e là ciascuno aveva condiviso con l'altro il propriotimore e la propria trepidazione trovando il conforto, la consolazione e ilsostegno di cui aveva bisogno, cosa che aveva creato fra le due VestiBianche un'amicizia che durava da allora.

Di conseguenza, contrariamente a come avrebbe fatto con chiunquealtro, Par-Salian non aveva ordinato ad Antimodes di scegliere la strada

 più lunga ma si era limitato a chiederglielo. Nel corso di questo viaggio, Antimodes doveva conseguire due obiettivi.

Il primo era quello di sbirciare in ogni angolo buio, di ascoltare senza parere ogni conversazione sussurrata, di scrutare dietro le imposte di ognifinestra sprangata; il secondo consisteva nel trovare nuovi giovani dotati ditalento magico. Il primo di questi due incarichi era pericoloso in quanto lagente non si mostrava bendisposta verso i ficcanaso, soprattutto quandoaveva qualcosa da nascondere, e il secondo era noioso perché in genere

comportava l'avere a che fare con i bambini, che Antimodes detestava.Tutto considerato, il mago preferiva decisamente l'attività di spionaggio.

 Nel corso del viaggio, Antimodes aveva scritto su un diario il propriorapporto con la sua ordinata e precisa calligrafia da sarto in modo da poterlo consegnare a Par-Salian al suo arrivo, e nel procedere lungo lastrada in sella alla sua asina, dono del fratello maggiore che aveva assuntoil controllo dell'attività di famiglia ed era adesso un agiato sarto di PortBalifor, ne stava ora revisionando mentalmente ogni parola, utilizzando

come di consueto il tempo trascorso viaggiando per meditare su tutto ciòche aveva visto o sentito, in quanto nulla era di per sé significativo matutto poteva essere importante.

«Par-Salian troverà interessante la lettura del mio rapporto», commentò,rivolto a Jenny che rispose scrollando la testa e rizzando gli orecchi insegno di assenso. «Non vedo l'ora di consegnarglielo», proseguì intantoAntimodes. «Lui lo leggerà, mi farà delle domande ed io gli spiegheròtutto quello che ho visto o sentito, sorseggiando al tempo stesso

dell'eccellente vino elfico. E tu, mia cara, cenerai a base di avena».Jenny manifestò la propria sentita approvazione, memore del fatto che in

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alcuno dei posti in cui si erano fermati era stata costretta a mangiare fienoumido e ammuffito o anche di peggio... una volta le avevano offertoaddirittura delle bucce di patata.

Adesso i due erano prossimi alla conclusione del loro viaggio: entro unmese Antimodes sarebbe arrivato alla Torre della Somma Stregoneria diWayreth, o per meglio dire la Torre sarebbe arrivata da lui, in quantonessuno poteva mai trovare la magica Torre di Wayreth e i visitatorivenivano invece rintracciati da essa se il suo signore così desiderava.

Quella notte Antimodes aveva in programma di fermarsi nella città diSolace. Dal momento che era soltanto mezzogiorno e che era ormai tarda primavera avrebbe anche potuto proseguire avendo a disposizione ore diluce diurna in abbondanza, ma amava Solace, apprezzava la sua famosa

locanda, la Locanda dell'Ultima Casa, era affezionato al suo proprietario,Otik Sandetti, e, soprattutto, trovava decisamente di suo gusto la sua birra,al punto che stava assaporando mentalmente quella birra gelata, scura eschiumosa fin da quando aveva cominciato a respirare la polvere dellastrada.

Il suo arrivo a Solace passò inosservato contrariamente a quello chesuccedeva in ogni altra città di Ansalon, dove uno straniero veniva subitoconsiderato un ladro, un portatore di peste, un assassino o un rapitore di

 bambini. Solace era però diversa dalla maggior parte delle città di Ansalon perché era stata fondata da profughi che nel corso del Cataclisma eranofuggiti per salvarsi la vita e avevano arrestato la loro fuga quando eranoinfine giunti in quel luogo: essendo stati essi stessi un tempo stranieri incammino, i fondatori di Solace avevano avuto quindi un atteggiamento piùamichevole nei confronti degli stranieri, atteggiamento che avevano poitrasmesso ai loro discendenti con il risultato di fare di Solace un rifugiosicuro per i fuoricasta, i solitari, gli inquieti e gli avventurosi.

Gli abitanti della città erano cordiali e tolleranti... fino ad un certo punto, perché era risaputo che l'illegalità dilagante non faceva bene agli affari e lagente di Solace teneva molto alla propria economia.

Essendo posizionata su una strada molto trafficata che costituiva la principale arteria che dal settentrione di Ansalon portava ad ogni zona delsud del continente, Solace era abituata a intrattenere i viaggiatori, ma nonfu questo il motivo per cui ben pochi si accorsero dell'arrivo di Antimodes bensì per il fatto che la maggior parte della popolazione di Solace non lo

vide neppure passare in quanto si trovava molto più in alto rispetto a lui,nelle abitazioni per lo più costruite fra i folti e giganteschi rami degli

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immensi alberi di vallenwood.I primi abitanti di Solace si erano letteralmente rifugiati sugli alberi per 

sottrarsi ai loro nemici, scoprendo che vivere lassù era più sicuro eavevano costruito di conseguenza le proprie dimore fra i grossi rami diquelle piante, una tradizione che poi era stata portata avanti dai lorodiscendenti.

Piegando il collo all'indietro, Antimodes guardò verso l'alto, in direzionedei ponti di assi di legno che passavano da un albero all'altro e cheondeggiavano vistosamente ogni volta che qualcuno degli abitanti delvillaggio li percorreva a passo svelto per andare da qualche parte. Essendoun uomo azzimato e vivace, sempre pronto a notare una bella dama,Antimodes cercò quindi di intravedere una caviglia snella o una gamba

 ben tornita... possibilità sempre esistente anche se le donne di Solace badavano a tenere sotto controllo le ampie gonne nel percorrere i ponti... ementre era impegnato in questa piacevole occupazione venne d'un trattodistolto da essa da un echeggiare di grida acute che lo indusse ad abbassarelo sguardo, scoprendo così che lui e Jenny erano stati raggiunti da una banda di ragazzini dalle gambe nude e dalla pelle abbronzata che brandivano spade di legno e lance fatte con dei rami e parevano impegnatia combattere contro un esercito di nemici immaginari.

I ragazzi non avevano avuto intenzione di travolgere Antimodes, ma ilvorticare della battaglia li aveva trascinati nella sua direzione, a mano amano che l'esercito di invisibili orchetti o orchi o chissà che altro si ritiravasempre più in direzione del Lago Crystalmir. Spaventato da quella massadi ragazzini che urlavano e agitavano le spade, l'asina del mago scartò ecaracollò, con gli occhi dilatati per il terrore.

Dopo tutto, la cavalcatura di un mago non era un cavallo da guerra, nonera addestrata a galoppare in mezzo al chiasso, al sangue e alla confusione

di una battaglia o a fronteggiare delle lance senza sussultare, e il peggio acui l'asina di Antimodes aveva mai dovuto abituarsi era l'odore sgradevoledi qualche componente per incantesimi e occasionali bagliori luminosi. Di per sé, Jenny era un animale placido, forte e sano, con un'incredibile abilitàad evitare sassi e radici sporgenti, cosa che garantiva a chi la cavalcava unviaggio tranquillo e comodo, ma di recente aveva dovuto tollerare cibocattivo, alloggiamenti inadeguati e compagni di stalla spiacevoli, e unesercito di ragazzetti armati di bastoni era una cosa che esulava dalla sua

residua capacità di sopportazione. Notando dall'agitarsi degli orecchi e dal modo in cui esso stava

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snudando i denti gialli che l'asina era prossima a sgroppare e a scalciare...cosa che non avrebbe danneggiato molto i ragazzi ma avrebbe di certodisarcionato il suo cavaliere... Antimodes cercò di tenere sotto controllo lacavalcatura senza però avere molta fortuna. Pervasi dal sacro furore della battaglia, i più giovani fra i ragazzi non si accorsero neppure della presenza del cavaliere in difficoltà e gli vorticarono intorno agitando lespade e lanciando acute grida di trionfo, e Antimodes si stava già preparando a fare il suo ingresso a Solace sul proprio posteriore quando unragazzo più grande... di circa dodici anni... emerse dalla calca e dalla polvere e prese le redini di Jenny, calmando l'asina terrorizzata con la propria presenza e con un tocco gentile.

«Allontanatevi!» ordinò quindi il ragazzo agli altri, agitando la propria

spada di legno che aveva passato nella mano sinistra. «Sparite, ragazzi!State spaventando l'asina».

I ragazzini più giovani, che avevano un'età dai sei anni in su, obbedironodi buon grado e si allontanarono senza cessare di fare chiasso, levandogrida e risate che echeggiarono fra gli enormi alberi di vallenwood.

Il ragazzo più grande rimase invece sul posto e con un accento che nonera di quella parte di Ansalon rivolse le proprie scuse al mago, senzacessare di accarezzare il muso morbido dell'asina per calmarla.

«Perdonaci, buon signore, eravamo tanto intenti a giocare che non cisiamo accorti del tuo arrivo. Spero che tu non abbia riportato danni».

Il ragazzo aveva dritti capelli biondi che portava tagliati all'altezza degliorecchi secondo uno stile popolare soltanto in Solamnia e in nessun'altraarea di Krynn; i suoi occhi erano fra il grigio e l'azzurro e lui sfoggiava uncomportamento rigido e serio che contrastava con la sua età, un nobile portamento di cui pareva estremamente conscio. Anche il suo modo di parlare colto e forbito indicava che non si trattava del figlio di un

contadino o di uno zotico di campagna.«Ti ringrazio, giovane signore», rispose Antimodes, vagliando al tempo

stesso con attenzione la sua scorta di componenti per incantesimi al fine diaccertarsi che gli scossoni subiti non avessero allentato i lacci di qualcunadelle sacche che portava alla cintura; accennò quindi a chiedere il nome diquel ragazzo, che aveva destato il suo interesse, ma nel sollevare losguardo scoprì che stava fissando le sacche dei componenti per incantesimicon un'espressione sprezzante e piena di disapprovazione dipinta sul volto.

«Se sei certo di stare bene, Sir Mago, e di non aver riportato danno acausa dei nostri giochi, permettimi di prendere congedo da te», aggiunse

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quindi il ragazzo con un rigido inchino, lasciando andare le redinidell'asina, poi si girò verso un compagno che aveva più o meno la sua età eche si era fermato a studiare con interesse lo straniero e domandò in tono brusco: «Vieni, Kit?».

«Fra un momento, Sturm», rispose l'interpellato, e soltanto quando losentì parlare Antimodes si rese conto che quel ragazzo ricciuto cheindossava pantaloni e giustacuore di cuoio era in effetti una ragazza.

Osservandola meglio, il mago notò che si trattava in effetti di unaragazza molto attraente che avrebbe potuto essere definita già una"giovane donna" perché anche se era ancora un'adolescente la sua figuraera ben definita, i suoi movimenti erano molto aggraziati e il suo sguardoera ardito e deciso mentre lei lo studiava a sua volta manifestando un

interesse intenso e meditabondo che Antimodes trovò difficile dacomprendere. Essendo infatti abituato a incontrare reazioni di disprezzo edi avversione, era in grado di constatare che l'interesse di quella giovanedonna non era dettato da mera curiosità e che nel suo sguardo non c'eratraccia di antipatia... piuttosto, sembrava che lei stesse prendendo unadecisione in merito a qualcosa.

Antimodes era all'antica per quanto riguardava il suo atteggiamento neiconfronti delle donne, che gli piacevano morbide e profumate, amorevoli e

gentili, con le guance che tendevano ad arrossire e lo sguardodecorosamente abbassato; naturalmente si rendeva conto che in quell'epocadi potenti maghe e di forti guerriere il suo era un atteggiamento retrogrado,ma d'altro canto era l'unico che lo facesse sentire a proprio agio.Accigliandosi leggermente per indicare la propria disapprovazione a quellagiovane sfrontata, incitò quindi Jenny ad avviarsi in direzione delle stalle pubbliche, che si trovavano vicino alla bottega del fabbro, gli unici dueedifici di Solace, oltre a quello del fornaio che conteneva forni immensi,

che si trovassero al livello del suolo.Mentre oltrepassava la giovane donna, però, Antimodes continuò ad

avvertire su di sé lo sguardo perplesso e riflessivo dei suoi occhi castani.

CAPITOLO SECONDO

Dopo aver controllato che Jenny fosse sistemata comodamente, con unadose extra di foraggio a disposizione e la promessa da parte del garzone di

stalla di fornirle ogni possibile cura e attenzione, il tutto naturalmente pagato in buone monete d'acciaio di Krynn di cui il mago fu tutt'altro che

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 parco, Antimodes imboccò la scala più vicina che portasse ai ponti dilegno.

I gradini erano parecchi, e quando arrivò in cima era ormai accaldato econ il respiro affannoso, ma l'ombra fornita dal fitto fogliame deivallenwood lo rinfrescò e gli fornì un riparo sotto cui camminare; dopoessersi concesso un momento per riprendere fiato, Antimodes si avviòquindi sul ponte che portava alla Locanda dell'Ultima Casa.

Lungo il tragitto oltrepassò numerose piccole case appollaiate in alto frai rami; a Solace, la progettazione delle abitazioni era quanto mai varia, inquanto ogni edificio si doveva conformare all'albero su cui sorgeva e poiché per legge era vietato tagliare, bruciare o molestare in qualsiasimodo una pianta viva ogni edificio aveva almeno una parete costituita

dall'ampio tronco e le travi del soffitto formate dai rami. Quanto al pavimento, esso non era mai del tutto piano e nel corso delle tempeste divento era possibile avvertire un evidente movimento ondulatorio dellecostruzioni... imperfezioni che avrebbero fatto impazzire Antimodes e cheerano invece considerate affascinanti dagli abitanti di Solace.

La Locanda dell'Ultima Casa era la più grande costruzione della città, posta a circa quindici metri dal suolo e costruita intorno al tronco di unmassiccio vallenwood che faceva parte dell'interno dell'edificio, sostenuto

da un vero e proprio boschetto di travi. La sala comune e la cucina sitrovavano al piano più basso e sopra di esso erano situate delle camere per la notte che potevano essere raggiunte attraverso un ingresso separato, inmodo da evitare che chi preferiva una certa riservatezza fosse costretto adattraversare la sala comune.

Le finestre della locanda erano fatte di vetro multicolore che, secondouna leggenda locale, era stato spedito fin lì da Palanthas e che costituivaun'eccellente pubblicità, in quanto i suoi colori scintillavano nell'ombra

delle foglie e attiravano l'attenzione dei passanti, evitando che la locanda passasse inosservata in mezzo al fogliame.

Avendo consumato soltanto una leggera colazione, Antimodes eraaffamato quanto bastava per rendere appieno giustizia alla rinomata cucinadel proprietario della locanda, e il suo appetito era stato ulteriormenteaguzzato dal salire le scale e dagli aromi che giungevano dalle cucine. Alsuo ingresso, l'arcimago venne accolto personalmente da Otik, un grasso eallegro individuo di mezz'età che lo riconobbe subito anche se il mago non

era più stato suo ospite da almeno un paio d'anni.«Benvenuto, amico, benvenuto», salutò Otik, inchinandosi e dondolando

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la testa come faceva con tutti i clienti, nobili o contadini che fossero. Il suogrembiule era immacolato e non chiazzato di grasso come lo erano a voltequelli dei locandieri, e la locanda stessa era altrettanto pulita perchéquando non servivano i clienti le cameriere erano impegnate a spazzare, alavare o a lucidare lo splendido bancone di legno che era parte viva delvallenwood.

Mentre Antimodes esprimeva il proprio compiacimento per esseretornato a visitare la locanda, Otik dimostrò di ricordarsi bene di luiaccompagnandolo al suo tavolo preferito, che si trovava vicino alle finestree permetteva di godere di un'eccellente panorama del Lago Crystalmir attraverso i vetri colorati di verde; senza aspettare che gli venisse ordinato,Otik provvide quindi a riempire un boccale di birra scura e a posarlo

davanti al mago.«Signore, ricordo che l'ultima volta che sei stato qui hai mostrato di

gradire la mia birra», commentò.«In effetti, locandiere, non ne ho mai assaggiata di così buona», replicò

Antimodes, notando al tempo stesso come Otik avesse evitato di accennarein qualsiasi modo al fatto che lui fosse un mago, una delicatezza che gliriusciva gradita anche se non aveva intenzione di celare a nessuno chi ocosa fosse. «Voglio una stanza per la notte, con pranzo e cena», aggiunse

quindi, sollevando la propria borsa che era ben rifornita pur non essendo piena in maniera indecente.

Dichiarandosi onorato della sua presenza, Otik garantì che c'erano unaquantità di camere libere fra cui lui avrebbe potuto scegliere, poi loinformò che quel giorno il pranzo era costituito da fagioli di tredici diversevarietà cotti in casseruola con erbe e prosciutto, mentre per cena ci sarebbestata carne con contorno di quelle patate speziate per le quali la locandaandava famosa.

Rilassandosi, Antimodes lasciò scorrere lo sguardo sugli altri clienti. Dalmomento che l'ora abituale per il pranzo era ormai passata, la locanda eraquasi vuota perché i viandanti si erano ritirati nella loro stanza per smaltiredormendo il pasto abbondante, i braccianti erano tornati al loro lavoro, gliuomini d'affari stavano sonnecchiando sui libri della contabilità e le madristavano mettendo a letto i bambini per il sonnellino pomeridiano. Diconseguenza il solo altro cliente della locanda era un nano, che a giudicaredall'aspetto doveva essere un nano delle colline che aveva abbandonato la

sua comunità ed era venuto a vivere in mezzo agli umani di Solace.Il suo abbigliamento, che era costituito da una camicia di fine stoffa fatta

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in casa, da calzoni di cuoio di qualità e dal grembiule di cuoio richiesto dalsuo mestiere, indicava che il nano se la stava cavando ottimamente con la propria attività; un paio di striature argentee nella barba castana rivelavanoinvece che era al massimo di mezz'età, anche se le linee che gli segnavanoil volto erano insolitamente profonde e scure per un nano ancoraabbastanza giovane, segno che la sua non era stata una vita facile. Gliocchi castani, infine erano più caldi di quelli dei suoi simili che nonvivevano in mezzo agli umani e che sembravano sempre scrutare quanti liattorniavano da dietro alte barricate. Intercettando lo sguardo di quegliocchi luminosi, Antimodes sollevò il boccale in un gesto di salutoall'indirizzo del nano.

«Dagli attrezzi che porti alla cintura deduco che lavori i metalli»,

osservò, nella lingua dei nani. «Possa Reorx guidare il tuo martello,signore».

«Che la tua via sia dritta e asciutta, viandante», replicò in tono brusco ilnano, nella lingua comune, sollevando a sua volta il boccale con uncompiaciuto cenno del capo.

Dal momento che non sembrava propenso ad avere compagnia,Antimodes non ritenne opportuno invitare il nano a dividere il propriotavolo e dopo un momento rivolse lo sguardo fuori della finestra per 

ammirare il paesaggio, godendo del piacevole calore che gli si stavadiffondendo nel corpo e che creava un gradevole contrasto con il frescosollievo che la birra stava dando alla sua gola riarsa. Al tempo stesso, poiché uno dei suoi incarichi era quello di ascoltare qualsiasiconversazione gli capitasse, il mago protese un orecchio a cogliere ciò cheil nano e la cameriera si stavano dicendo, anche se non pareva che stesserodiscutendo di qualcosa di sinistro o di fuori dal comune.

«Ecco qui, Flint», stava dicendo la ragazza, nel posare davanti al nano

una ciotola fumante piena di fagioli. «Una porzione extra, con il paneincluso. Vedo che ti stiamo facendo ingrassare... a proposito, pensi di partire presto?».

«Sì, ragazza. Le strade si stanno riaprendo e sono già in ritardo, ma stoaspettando che Tanis torni dalla sua visita ai parenti che ha a Qualinesti.Sarebbe dovuto arrivare già da quindici giorni ma ancora non c'è tracciadella sua brutta faccia».

«Spero che stia bene», commentò la cameriera in tono partecipe. «La

verità è che non mi fido di quegli elfi, e poi ho sentito dire che non vad'accordo con i suoi parenti».

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«È come un uomo con un dente guasto», borbottò il nano. «Devecontinuare a tormentarlo per essere certo che gli dolga ancora. Tanis tornaa casa pur sapendo che i suoi parenti elfi non sopportano di vederlo econtinua a sperare che magari questa volta le cose andranno in manieradiversa... soltanto per scoprire che quel dannato dente è guasto ancoracome la prima volta che lo ha toccato e che non migliorerà di certo fino aquando non si deciderà a strapparlo via».

 Nel parlare, il nano si era arrossato progressivamente in volto per l'indignazione a mano a mano che procedeva nella sua arringa.

«E tutto questo quando ci sono dei clienti che ci aspettano!» concluseincongruamente, bevendo un lungo sorso di birra.

«Non hai motivo di definirlo brutto», si lamentò intanto la cameriera,

imbronciandosi. «Tanis ha l'aspetto di un umano e in lui non c'è nulla dielfico. Per quanto mi riguarda, sarò lieta di rivederlo. Ti ricorderai di dirgliche ho chiesto di lui, Flint?».

«Sì, sì, tu e ogni altra donna della città», ribatté il nano, borbottando però quelle parole fra sé in modo da non farsi sentire dalla ragazza chestava intanto tornando in cucina.

Traendo le inevitabili deduzioni da ciò che aveva sentito, Antimodes prese mentalmente nota del fatto che un nano e un mezzelfo erano soci

d'affari. Un mezzelfo che era stato bandito da Qualinesti... no, questo nonera esatto, perché se fosse stato messo al bando quel Tanis non sarebbe potuto tornare a casa come aveva fatto seppure saltuariamente. A quanto pareva, lui aveva lasciato volontariamente la propria terra natale, cosa peraltro poco sorprendente se si pensava che per quanto gli elfi diQualinesti avessero una mentalità più liberale rispetto ai loro cugini diSilvanesti per quanto concerneva la purezza razziale, comunque ai loroocchi un mezzelfo era pur sempre in realtà un mezzo umano e quindi una

creatura contaminata.Questo spiegava perché quel mezzelfo avesse abbandonato la sua casa

 per venire a Solace ed entrare in società con un nano delle colline che probabilmente aveva a sua volta lasciato il proprio thane e il proprio clan one era stato bandito. Seguendo il filo di quelle riflessioni, Antimodes sichiese come quei due si fossero incontrati, supponendo che dovessetrattarsi di una storia interessante che lui peraltro non aveva molte probabilità di apprendere.

 Nel frattempo, il nano aveva cominciato a divorare i fagioli e di lì a pocoarrivò anche il piatto di Antimodes, che a quel punto dedicò al pranzo la

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completa attenzione che esso meritava.Aveva appena finito ed era impegnato a raccogliere quello che restava

del sugo con l'ultimo pezzo di pane, quando la porta della locanda si aprìed Otik accorse per accogliere il nuovo ospite, restando sconcertato neltrovarsi davanti una giovane donna dai capelli ricciuti, la stessa cheAntimodes aveva incontrato in precedenza lungo la strada.

«Kitiara!» esclamò il locandiere. «Cosa ci fai qui, bambina? Deviassolvere ad un incarico per conto di tua madre?».

La giovane donna gli scoccò un'occhiata che parve incenerirlo e scrollòcon disprezzo la massa di capelli scuri e ricci.

«Le tue patate hanno più cervello di te, Otik», sbuffò quindi. «Io nonassolvo incarichi per conto di nessuno».

Oltrepassò poi il locandiere con una spinta e si guardò intorno nella salacomune, fissando infine la propria attenzione su Antimodes con estremostupore e irritazione di quest'ultimo.

«Sono venuta per parlare con uno dei tuoi ospiti», annunciò intanto laragazza, ignorando l'imbarazzato agitarsi delle mani di Otik.

«Suvvia, Kitiara», protestò questi, «non credo sia il caso che tuimportuni questo gentiluomo».

Senza badargli, Kitiara si diresse verso Antimodes, fermandosi accanto

al suo tavolo e abbassando lo sguardo su di lui.«Tu sei un mago, vero?» chiese dopo un momento.Antimodes manifestò la propria irritazione evitando di alzarsi in piedi

come avrebbe fatto per salutare qualsiasi altra donna, e poiché si aspettavache quella sfrontata dai modi incivili lo deridesse o tentasse di circuirloassunse un'espressione severa e carica di disapprovazione.

«Ciò che sono riguarda soltanto me, giovane signora», replicò, dandoun'enfasi sardonica all'ultima parola, poi spostò deliberatamente lo sguardo

sul panorama esterno per indicare che la conversazione era finita.«Kitiara...» interloquì intanto Otik, che si era avvicinato con aria

ansiosa, «questo gentiluomo è mio ospite, e questo non è certo il momentoo il luogo per...».

Continuando a ignorarlo, la giovane donna posò le mani abbronzate sul piano del tavolo e si appoggiò ad esso, protendendosi in avanti. Ormaieffettivamente irritato per quell'intrusione, Antimodes riportò la propriaattenzione su di lei e suo malgrado si trovò ad ammirare la curva dei suoi

seni sotto il giustacuore di cuoio, così rigogliosa da non poter sfuggireall'attenzione di qualsiasi essere umano di sesso maschile.

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«Io conosco qualcuno che vuole diventare un mago», disse intanto laragazza, con voce seria e intensa. «Voglio aiutarlo ma non so come procedere, non so cosa fare», proseguì, sollevando una mano in un gestocarico di frustrazione. «Dove devo andare? A chi mi devo rivolgere? Tu dicerto puoi dirmelo».

Se la locanda si fosse improvvisamente spostata sui rami che lasostenevano e lo avesse scaricato fuori da una finestra, Antimodes nonsarebbe rimasto più stupefatto: tutto questo era terribilmente irregolare! Non si poteva procedere in questo modo, esistevano i canali prescritti...

«Mia cara ragazza...» cominciò.«Per favore», insistette Kitiara, protendendosi maggiormente in avanti.I suoi occhi erano di una liquida tonalità castana, incorniciati da lunghe

e tolte ciglia scure, le sue sopracciglia brune s'inarcavano in una lineadelicata al di sopra delle orbite e spiccavano sulla pelle dorata dal sole,segno che lei era solita condurre una vita all'aria aperta. Il suo corpo snelloma muscoloso aveva ormai superato la goffaggine dell'adolescenza per acquisire una grazia di movimenti che non era quella propria di una donnama piuttosto di un gatto in caccia. Avvertendo intensamente il suo fascino,Antimodes se ne lasciò attrarre pur essendo abbastanza maturo ed espertoda sapere che lei non gli avrebbe mai permesso di avvicinarlesi troppo:

quella era una donna che avrebbe concesso a pochi uomini di arrivare ascaldarsi al suo fuoco interiore, e che gli dèi aiutassero quei pochi prescelti.

«Kitiara, lascia cenare in pace questo gentiluomo», intervenne ancoraOtik, sfiorando un braccio della ragazza, ma fu pronto a ritrarsi quando leisi girò di scatto e lo trafisse con lo sguardo senza dire neppure una parola.

«È tutto a posto, Mastro Sandeth», fu pronto a intervenire Antimodes, perché era affezionato ad Otik e non voleva che si venisse a trovare nei

guai. Al tempo stesso si accorse che il nano aveva finito di pranzare estava osservando con interesse la scena, come stavano facendo anche duedelle cameriere, e si affrettò ad aggiungere: «Questa giovane signora ed ioabbiamo alcuni affari di cui discutere. Per favore, signora, siediti».

Mentre la ragazza prendeva posto sulla sedia di fronte alla sua, accennòquindi ad alzarsi e a inchinarsi leggermente, ignorando la cameriera che siera avvicinata per portare via i piatti... e per cercare di soddisfare la propriacuriosità.

«Vuoi qualche altra cosa?» chiese ad Antimodes.«Desideri mangiare qualcosa?» domandò questi alla sua giovane ospite,

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lanciandole un'occhiata cortese.«No, grazie», rifiutò Kitiara, concisa. «Torna pure al tuo lavoro, ti

chiameremo se avremo bisogno di qualcosa», aggiunse rivolta allacameriera.

Offesa, la ragazza si allontanò con fare rigido e al tempo stesso Otik rivolse ad Antimodes un'impotente occhiata di scusa a cui il mago risposecon un sorriso, a indicare che non era per nulla infastidito. Scrollando lespalle grassocce, Otik si allontanò con aria angosciata, ma ben prestovenne per fortuna distratto dalle sue preoccupazioni dall'arrivo di un nuovocliente che gli diede qualcosa da fare.

Kitiara intanto intrecciò le mani davanti a sé e si dispose ad affrontare laconversazione con un'intensa serietà che riscosse l'approvazione di

Antimodes.«Chi è questa persona?» chiese il mago.«Il mio fratellino... ecco, fratellastro», rispose Kitiara, correggendosi

come per un ripensamento.Ricordando l'occhiata rovente che lei aveva scoccato ad Otik quando

questi aveva menzionato sua madre, Antimodes suppose che fra madre efiglia non corresse buon sangue.

«Quanti anni ha il bambino?» domandò.

«Sei».«E come sai che vuole studiare la magia?» proseguì Antimodes, pur 

ritenendo di conoscere già la risposta a quella domanda... un genere dirisposta che sentiva anche troppo spesso.

 Adora travestirsi e fingere di essere un mago, ed è così abile... dovrestivederlo gettare in aria della sabbia e fingere di pronunciare unincantesimo. A dire il vero noi non approviamo, signore, non ti offendere,ma non è il genere di vita che avevamo in mente per il nostro ragazzo,

quindi se tu potessi parlargli e dirgli quanto è difficile...«Lui fa dei trucchi», rispose però la ragazza.«Trucchi?», ripeté Antimodes, accigliandosi. «Che sorta di trucchi?».«Sai cosa intendo, trucchi come tirare fuori una moneta dal naso di una

 persona oppure gettare un sasso in aria e farlo scomparire, o tagliare unasciarpa in due con un coltello e restituirla integra e nuova».

«Giochi di prestigio», commentò il mago. «Naturalmente ti rendi contoche questa non è magia, vero?».

«Naturalmente!» sbuffò Kitiara. «Cosa credi che sia... un'idiota? Mio padre... il mio vero padre... mi ha portata una volta a vedere una battaglia,

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e c'era un mago che faceva delle vere magie. Magie di guerra. Mio padre èun cavaliere di Solamnia», aggiunse, con voce pervasa di un orgoglioingenuo che la fece sembrare d'un tratto una ragazzina.

Antimodes non le credette, almeno per quanto riguardava il fatto che suo padre fosse un cavaliere di Solamnia, perché nulla spiegava per qualemotivo la figlia di un cavaliere solamnico vivesse ora qui a Solace e sicomportasse come un monello da strada. Ciò che non faticava a credereera che la ragazza fosse interessata a tutto ciò che concerneva la guerra,considerato il modo in cui continuava ad abbassare la mano verso il fiancosinistro, come se fosse stata abituata a portare la spada o a fingere di portarne una.

Intanto lo sguardo di Kitiara si staccò da Antimodes per rivolgersi fuori

della finestra e spingersi sempre più lontano, pervaso di un desiderio diterre lontane e di avventura, di porre fine alla noia che probabilmentecominciava a soffocarla. Di conseguenza la sua affermazione successivanon sorprese affatto il mago.

«Presto io andrò via da qui, signore, e quando sarò lontana i miei fratelliminori dovranno badare a se stessi.

«Caramon se la caverà senza problemi perché ha la stoffa del veroguerriero», proseguì, continuando a contemplare le colline velate di

caligine e le acque azzurre e scintillanti del lago. «Io gli ho insegnato tuttoquello che so e non faticherà a imparare il resto lungo la strada».

Da come si esprimeva, pareva che quella ragazzina fosse un brizzolatoveterano che parlasse di una nuova recluta e non una ragazza di tredicianni che parlava di un moccioso, e per poco Antimodes non scoppiò aridere. Lei però era così seria, così intensa, che invece il mago si trovò adosservarla e ad ascoltarla affascinato.

«Chi mi preoccupa però è Raistlin», continuò intanto Kitiara,

aggrottando la fronte con aria perplessa. «Lui non è come gli altri, non ècome me e non lo capisco. Ho cercato di insegnargli a combattere, ma èmalaticcio e non riesce ad essere all'altezza degli altri bambini, si stanca infretta e gli manca sempre il respiro. Io me ne devo andare di qui», conclusetornando a fissare Antimodes, «ma prima di partire voglio sapere cheRaistlin avrà modo di prendersi cura di se stesso e di guadagnarsi davivere, ed ho pensato che se lui avesse potuto studiare per diventare unmago non avrei più dovuto preoccuparmi».

«Quanti... quanti anni hai detto che ha il ragazzo?» domandò Antimodes.«Sei», replicò Kitiara.

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«Ma... cosa mi dici dei suoi genitori? Di certo i vostri genitori...».Antimodes si arrestò perché la ragazza non lo stava più ascoltando e

aveva assunto quell'espressione di estrema pazienza che i giovani usanocon gli adulti quando questi si dimostrano particolarmente noiosi,alzandosi in piedi prima che lui potesse finire la frase.

«Ora vado a cercarlo, perché voglio che tu lo conosca», disse.«Mia cara...» accennò a protestare Antimodes, perché se da un lato gli

era piaciuto conversare con questa giovane donna interessante e attraente,d'altro canto il pensiero di avere a che fare con un bambino di sei anni gliriusciva quanto mai sgradito.

La ragazza però ignorò le sue proteste e uscì dalla locanda prima che luiavesse il tempo di fermarla; dalla finestra Antimodes la vide correre con

 passo leggero giù per la scala, spintonando le persone che le bloccavano il passo o andando loro a sbattere contro.

D'un tratto il mago si rese conto di essere di fronte ad un problema, perché non voleva essere costretto ad accollarsi quel bambino e adesso chese n'era andata non voleva più avere nulla a che fare con quella giovanedonna. Kitiara aveva infatti l'effetto di sconvolgerlo e di dargli un senso didisagio simile ai disturbi derivanti dall'aver bevuto troppo vino: parlarecon lei era stato piacevole, ma ora sentiva insorgere un'emicrania.

Mentre chiedeva il conto pensò che non gli restava altro da fare che battere in tutta fretta in ritirata nella sua stanza, e al tempo stesso si reseconto con irritazione che da quel momento sarebbe rimasto virtualmente prigioniero in essa per tutta la durata della sua permanenza. Nel sollevarelo sguardo, incontrò poi quello del nano, che aveva sentito rispondere alnome di Flint, e si accorse che questi stava sorridendo.

Molto probabilmente Flint non si stava curando affatto di Antimodes, edera possibile che stesse sorridendo fra sé nel pensare al pasto delizioso che

aveva appena assaporato o alla birra che stava bevendo, o che stessesorridendo perché era soddisfatto del mondo in generale, ma in virtù delsenso d'importanza che Antimodes attribuiva di solito a se stesso, ritenneche Flint stesse sogghignando alle sue spalle, divertito dal fatto che un potente mago come lui stesse fuggendo davanti a due bambini.

Ferito nell'orgoglio, decise quindi di non dare al nano una similesoddisfazione e di non lasciarsi sloggiare dalla piacevole sala comune:sarebbe rimasto dove si trovava e si sarebbe liberato della ragazza dando

una rapida occhiata a suo fratello in modo da porre fine a quella spiacevolesituazione.

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«Ti andrebbe di unirti a me, signore?» chiese quindi al nano, che reagìscoccandogli un'occhiataccia per poi arrossire e nascondere il volto nel boccale della birra borbottando al tempo stesso che avrebbe preferito farsi bollire la barba prima di dividere il tavolo con un mago.

Quella reazione strappò ad Antimodes un freddo sorriso: i nani eranorinomati per la loro avversione e diffidenza nei confronti dei maghi, eadesso poteva essere certo che sarebbe stato lasciato in pace. Flint intantosi affrettò a finire quello che restava della sua birra, gettò una moneta sultavolo e uscì dalla locanda dopo aver rivolto al mago un secco cenno disaluto.

Un attimo dopo la ragazza fu di ritorno accompagnata non da uno ma dadue bambini.

Sospirando, Antimodes ordinò un bicchiere dell'ottimo sidro di Otik,invecchiato di due anni, perché aveva la sensazione che gli sarebbe servitauna bevanda più alcolica della birra.

CAPITOLO TERZO

L'incontro prometteva di essere ancora più sgradevole di quantoAntimodes avesse previsto. Uno dei ragazzi, quello che il mago suppose

essere il maggiore, era un bambino attraente o almeno lo sarebbe stato senon fosse stato così sporco: di costituzione massiccia, con braccia e gamberobuste, aveva un volto aperto e cordiale illuminato da un sorriso sdentatoe stava fissando Antimodes con occhi pieni di interesse e di curiosità, per nulla intimidito da questo sconosciuto dagli abiti eleganti.

«Salve, signore, sei davvero un mago? Kit dice che lo sei. Potrestimostrarci qualche trucco... il mio gemello ne sa fare, vorresti vederlo?Raist, fagli vedere come tiri fuori una moneta dal naso e...».

«Sta' zitto, Caramon», ribatté l'altro bambino con voce sommessa, poiaggiunse con aria accigliata: «Ti stai comportando da sciocco».

Suo fratello accolse l'osservazione senza offendersi e ridacchiò con unascrollata di spalle, ma al tempo stesso smise di parlare. Antimodes intantostava osservando con attenzione il bambino che sapeva fare i trucchi e cheaveva un aspetto tutt'altro che attraente in quanto era magro come unospettro, sporco e vestito in maniera trasandata, con le gambe e i piedi nudie con addosso quell'odore particolare e sgradevole proprio dei bambini

 piccoli e sudati. I suoi lunghi capelli castani erano arruffati e avevano bisogno di essere lavati.

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Dopo aver studiato attentamente i due per qualche momento, Antimodestrasse infine alcune deduzioni.

Era infatti evidente che non c'era una madre amorevole che si prendessecura di loro, che pettinasse quei capelli arruffati o li rimproverasse per nonessersi lavati dietro gli orecchi. Non si poteva dire che i due avesserol'aspetto avvilito e timido dei bambini maltrattati, ma senza dubbio eranomolto trascurati.

«Come ti chiami?» chiese infine il mago al più magro dei due.«Raistlin». fu la risposta.A suo favore si poteva dire almeno una cosa, e cioè che nel parlare

guardava dritto in faccia al suo interlocutore. La cosa che Antimodesdetestava maggiormente nei bambini piccoli era la loro abitudine di fissare

i propri piedi o il pavimento o qualsiasi altra cosa tranne lui, come se sifossero aspettati di essere aggrediti e divorati da un momento all'altro, maquesto bambinetto magro e trascurato era in grado di sostenere lo sguardodi un adulto, i suoi occhi azzurro chiaro non mostravano tracce di timore odi esitazione nel fissare quelli dell'arcimago e al tempo stesso nontradivano nulla né rivelavano aspettative di sorta.

Quelli erano occhi che nascondevano un sapere eccessivo, che avevanovisto troppe cose nell'arco di sei anni di vita... troppo dolore, troppa

sofferenza: quegli occhi avevano guardato sotto il letto e avevano scopertoche in effetti c'erano dei mostri che si aggiravano nell'ombra.

 Allora, giovanotto, scommetto che da grande ti piacerebbe diventare unmago!

Questa era la frase banale con cui Antimodes era solito aprire laconversazione in circostanze del genere, ma questa volta il buon senso lotrattenne dal pronunciarla, perché non si trattava di parole che potevanoessere rivolte ad occhi che sapevano già tante cose.

In quel momento l'arcimago avvertì un formicolio alla nuca chericonobbe come il tocco delle dita del dio. Controllando a stento la propriaeccitazione, si rivolse quindi alla sorella del bambino.

«Vorrei parlare da solo con tuo fratello», disse. «Forse tu e il suogemello potreste...».

«Certamente», assentì subito Kitiara. «Vieni, Caramon».«Non senza Raistlin», replicò immediatamente Caramon.«Vieni, Caramon!» ripeté con impazienza Kitiara, tirandolo con forza

 per un braccio.Caramon oppose però resistenza allo strattone impaziente della sorella, e

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 poiché era un bambino robusto parve evidente che lei non sarebbe riuscitaa smuoverlo se non lo avesse sollevato di peso.

«Noi siamo gemelli, signore, e facciamo tutto insieme», dichiarò intantoCaramon, fissando Antimodes negli occhi.

Il mago lanciò allora un'occhiata al più debole dei due per vedere comestesse affrontando la situazione e notò che le guance di Raistlin apparivanoleggermente arrossate: senza dubbio lui era imbarazzato dalcomportamento di Caramon, ma al tempo stesso ne pareva anchecompiaciuto, cosa che generò in Antimodes un lieve senso di gelo. Ilcompiacimento dimostrato dal bambino di fronte alla fedeltà del gemellonon era infatti tanto il piacere che poteva derivare da una manifestazione diaffetto fraterno quanto quello che un uomo trae dallo sfoggiare i talenti di

un cane a cui sia affezionato.«Va' pure, Caramon», disse intanto Raistlin. «Forse lui mi insegnerà

qualche trucco nuovo ed io te lo farò vedere questa sera, dopo cena».Caramon però si mostrò ancora incerto e Raistlin gli scoccò da sotto i

capelli arruffati un'occhiata che era un ordine, in reazione alla qualeCaramon abbassò lo sguardo e tornò di colpo a mostrarsi allegro,afferrando la mano della sorella maggiore.

«Ho sentito dire che Sturm ha trovato la tana di un tasso e che vuole

tentare di farlo uscire fischiando. Credi che ci riuscirà, Kit?».«Che me ne importa?» ribatté la ragazza in tono irritato, avviandosi per 

lasciare la locanda e assestando al tempo stesso alla nuca di Caramon uncolpo che lo fece barcollare. «La prossima volta che ti dico di farequalcosa obbedisci, hai capito? Che razza di soldato diventerai se non saineppure obbedire agli ordini?».

«Io obbedisco agli ordini, Kit», protestò Caramon, sussultando emassaggiandosi la testa, «ma tu mi hai detto di lasciare solo Raistlin, e tu

sai che devo vegliare su di lui».Intanto i due avevano raggiunto la porta e si stavano avviando giù per le

scale senza cessare di discutere.«Per favore, siediti», disse intanto Antimodes, riportando lo sguardo

sull'altro bambino.In silenzio, Raistlin sedette sulla sedia di fronte a quella del mago, con i

 piedi che penzolavano senza arrivare al pavimento perché lui era piccolo per la sua età. Una volta seduto, rimase quindi del tutto immobile, senza

agitarsi o contorcersi, senza dondolare le gambe o prendere a calci quelledella sedia: congiunte le mani sul tavolo, fissò in volto Antimodes e attese.

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«Vuoi qualcosa da bere o da mangiare?» domandò questi, e subitoaggiunse: «Naturalmente sei mio ospite».

Raistlin scosse il capo: anche se era sporco e vestito come unmendicante, non era certo patito e senza dubbio non lo era il suo gemello,segno che qualcuno provvedeva a che i due bambini venissero nutritiregolarmente. Quanto alla magrezza eccessiva di Raistlin, Antimodes intuìche essa doveva essere causata da un fuoco che ardeva in profondità negliintimi recessi della sua anima, un fuoco che consumava il cibo prima cheesso potesse nutrire il corpo e che lasciava nel bambino una fame perpetuache lui non era ancora in grado di comprendere.

Di nuovo Antimodes avvertì il tocco santificante del dio.«Raistlin, tua sorella mi ha detto che vorresti andare a scuola per 

studiare e diventare un mago», esordì infine, per introdurre l'argomento.«Sì, suppongo di sì», annuì Raistlin, dopo un momento di esitazione.«Lo  supponi?» ripeté Antimodes in tono tagliente, deluso. «Non sai

neppure che cosa vuoi?».«Non ci ho mai pensato», replicò Raistlin, scrollando le spalle magre in

un gesto notevolmente simile a quello del suo più robusto gemello. «Adandare a scuola, intendo... non sapevo neppure che ci fossero delle scuoledove studiare la magia e credevo che la magia fosse soltanto una... una

 parte di noi stessi, come le mani o i piedi».Le dita del dio martellarono sull'anima di Antimodes, che però aveva

 bisogno di altre informazioni prima di potersi ritenere del tutto certo.«Dimmi, Raistlin, nella tua famiglia c'è qualcuno che è un mago?»

chiese, e nel notare l'espressione sofferente e contorta apparsa sul volto del bambino si affrettò ad aggiungere: «Non voglio essere indiscreto, te lochiedo soltanto perché abbiamo scoperto che la nostra è un'arte che viene per lo più trasmessa nel sangue».

Raistlin si umettò le labbra e abbassò lo sguardo sulle proprie mani lecui dita, snelle e agili per un bambino tanto giovane, s'incurvaronoistintivamente.

«Mia madre», rispose infine, in tono piatto. «Lei vede delle cose, coselontane. Vede altre parti del mondo, osserva quello che fanno gli elfi ecosa fanno i nani sotto la montagna».

«È una veggente», sintetizzò Antimodes.«La maggior parte della gente pensa che sia pazza», ribatté Raistlin,

scrollando ancora le spalle, poi sollevò lo sguardo con espressione piena disfida, pronto a difendere sua madre, e quando scoprì che Antimodes lo

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stava invece fissando con comprensione si rilassò, lasciando fluire le parole come sangue da una vena aperta. «A volte si dimentica dimangiare... ecco, non è che si dimentichi, è come se avesse mangiatoaltrove. Inoltre non fa nessun lavoro in casa perché in realtà lei non è lì, stavisitando posti meravigliosi e vedendo cose splendide... io lo so perchéquando torna indietro è triste», spiegò, «come se non avesse volutodavvero tornare. A volte ci guarda e non ci riconosce neppure».

«Parla di quello che ha visto?» domandò con gentilezza Antimodes.«Un po', con me, ma non molto», rispose il ragazzo. «A mio padre la

cosa non piace e mia sorella... hai visto Kit, lei non ha pazienza con quelleche definisce le "crisi" di nostra madre, quindi non posso biasimare lamamma se preferisce allontanarsi da noi», aggiunse in tono tanto

sommesso che Antimodes dovette protendersi in avanti per riuscire asentirlo. «Se potessi andrei con lei e non torneremmo indietro, mai più».

Antimodes prese a sorseggiare il sidro, servendosi di quella scusa per restare in silenzio fino a quando non avesse riportato sotto controllo la propria ira: quella era una vecchia storia che aveva visto ripetersiun'infinità di volte, e la povera donna che ne era vittima non era diversa dainnumerevoli altre. Senza dubbio era nata con il talento per la magia maesso era stato negato, probabilmente messo in ridicolo e senza dubbio

scoraggiato da membri della sua famiglia che consideravano tutti i maghi progenie del demonio, con la conseguenza che invece di ricevere ladisciplina e l'addestramento necessari ad imparare ad usare quel talento avantaggio proprio e degli altri, quella poveretta ne era stata schiacciata esoffocata. Quello che era stato un dono era diventato una maledizione, e seancora non era pazza presto lo sarebbe diventata.

Adesso salvarla non era più possibile, ma forse per suo figlio c'eraancora speranza.

«Che lavoro fa tuo padre?» volle sapere Antimodes. «È un taglialegna»,rispose Raistlin, più a suo agio adesso che avevano cambiato argomento,come indicavano le mani ora rilassate sul tavolo. «È grosso comeCaramon, e lavora duramente per cui non lo vediamo molto», aggiunse,senza apparire particolarmente turbato da questo particolare.

Per un momento rimase quindi in silenzio, poi aggrottò le sopraccigliacon aria riflessiva.

«Questa scuola non è lontana, vero?» chiese. «Non posso lasciare mia

madre sola molto a lungo, e poi c'è Caramon: come ha detto, noi siamogemelli e abbiamo cura l'uno dell'altro».

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 Presto me ne dovrò andare, aveva detto Kitiara, e allora i miei fratellinidovranno badare a se stessi.

Come se stesse stipulando un patto, Antimodes strinse mentalmente econ forza la mano del dio, Solinari.

«C'è una scuola che è molto vicina, in quanto si trova ad appena settechilometri da qui, in un bosco isolato», replicò quindi. «La maggior partedella gente non sa neppure che essa esista. Fare sette chilometri a piediavanti e indietro ogni giorno è però eccessivo per un bambino anche se può non esserlo per un uomo adulto, quindi tu potresti alloggiare presso lascuola come fanno molti studenti, soprattutto quelli che vengono da partilontane di Ansalon. La scuola è attiva soltanto otto mesi all'anno, perché ilmaestro è solito trascorrere i mesi estivi alla Torre di Wayreth, quindi in

quel periodo potresti restare con la tua famiglia. Prima di tutto però devo parlare con tuo padre, perché è lui quello che ti deve iscrivere alla scuola.Credi che approverà?».

«A mio padre non importerà e credo anzi che ne sarà sollevato, perchéha paura che finisca come la mamma», rispose Raistlin, mentre un accesorossore gli affiorava di colpo sulle guance pallide. «Se però la scuola costamolto denaro non ci potrò andare», aggiunse.

«Quanto al denaro», garantì Antimodes, che aveva già preso una

decisione al riguardo, «noi maghi provvediamo alle necessità dei nostriallievi».

Il bambino non riuscì però a capire il senso delle sue parole.«A mio padre non piacerebbe affatto che ricevessi la carità», avvertì.«Non si tratta di carità», dichiarò in tono deciso Antimodes. «Abbiamo

dei fondi destinati agli studenti meritevoli e potremo aiutarti a pagarel'insegnamento e le altre spese. Posso incontrarmi con tuo padre stanottestessa, in modo da spiegargli tutte queste cose?».

«Sì, stanotte dovrebbe essere a casa perché il lavoro che sta facendo èquasi finito. Lo accompagnerò qui, perché con il buio la nostra casa èdifficile da trovare», rispose Raistlin, in tono di scusa.

Dentro di sé Antimodes sentì il cuore che gli si contraeva per la compas-sione, in quanto non faticava a immaginare una casa triste, infelice,trascurata e solitaria, che si nascondeva nell'ombra e custodiva il suo cuposegreto.

Quel bambino era così fragile e magro che una forte folata di vento

avrebbe potuto gettarlo a terra, quindi era possibile che la magia fosse loscudo destinato a proteggere quel fisico delicato, il bastone a cui lui

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 potesse appoggiarsi quando si fosse sentito debole e stanco. D'altro canto però la magia sarebbe potuta diventare anche un mostro divoratore,succhiando la vita da quel fragile corpo e lasciandosi alle spalle un gusciovuoto ed essiccato, quindi era anche possibile che Antimodes stesseavviando quel bambino su una strada che lo avrebbe portato ad una morte prematura.

«Perché mi fissi in quel modo?», domandò Raistlin, in tono incuriosito.Antimodes gli segnalò di alzarsi dalla sedia e di venirsi a mettere davanti

a lui, poi si protese per stringergli le mani e il ragazzino reagì sussultandoe cercando di liberarsi dalla sua stretta.

Pur rendendosi conto che a Raistlin non piaceva essere toccato,Antimodes mantenne la presa perché voleva sottolineare le proprie parole

con il contatto fisico, voleva che il bambino comprendesse le sue paroleoltre che sentirle.

«Ascoltami, Raistlin», cominciò, e subito lui s'immobilizzò mentre ilmago si rendeva d'un tratto conto che quella era una conversazione su un piano di parità e non il discorso che si poteva fare ad un bambino. «Lamagia non risolverà i tuoi problemi, servirà solo ad aumentarli, nonindurrà la gente a trovarti gradevole ma aumenterà la sua diffidenza, nondarà sollievo alla tua sofferenza ma si contorcerà e brucerà dentro di te al

 punto da indurti a volte a pensare che perfino la morte sarebbe preferibile».

Antimodes fece una pausa, senza lasciar andare le mani del bambino,che erano calde e secche come se lui fosse stato in preda alla febbre, e altempo stesso si frugò nella mente alla ricerca di un genere di spiegazioneche il suo giovane interlocutore potesse comprendere. Infine, il martellareche saliva dalla bottega del fabbro gli fornì la metafora di cui aveva bisogno.

«L'anima di un mago viene forgiata nel crogiuolo della magia», disse.«Se sceglierai volontariamente di entrare nel fuoco le sue fiamme ti potrebbero distruggere, ma se sopravviverai ad esse ogni colpo di martelloservirà a modellare il tuo essere, ogni goccia d'acqua che ti verrà strappataservirà a temprare e a rinforzare la tua anima. Riesci a capirlo?».

«Lo capisco», annuì il bambino.«Hai qualche domanda da farmi, Raistlin?» domandò infine Antimodes,

accentuando la propria stretta.

«Mio padre dice che prima di poter operare la magia, i maghi vengonocondotti in un posto buio e orribile dove devono lottare contro terribili

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mostri, e afferma che alcuni di essi muoiono. È vero?».«In realtà la Torre è un luogo adorabile, una volta che ci si abitua ad

essa», rispose Antimodes, poi fece una pausa e nel riprendere a parlarescelse con cura le parole, perché anche se non voleva mentire al bambinod'altro canto sapeva che c'erano cose che esulavano dalla comprensione diun ragazzino di sei anni, per quanto questi potesse essere precoce.«Quando diventa grande, molto più grande di quanto tu lo sia adesso, unmago si reca alla Torre della Grande Stregoneria dove si sottopone ad una prova. In effetti a volte alcuni maghi muoiono, perché il potere cheutilizzano è molto grande e quelli che non sono in grado di controllarlo odi votare ad esso la vita non sono desiderati all'interno del nostro ordine».

 Notando che il bambino lo stava fissando con occhi sgranati nel volto

 pallido e solenne, Antimodes gli strinse le mani con fare rassicurante e glisorrise.

«Questo però succederà fra molto, molto tempo, Raistlin, un tempodavvero lungo. Io non ti voglio spaventare, ma desidero che tu sappia acosa ti trovi di fronte».

«Sì, signore, lo capisco», replicò Raistlin, in tono sommesso.Antimodes infine lo lasciò andare e Raistlin indietreggiò

involontariamente di un passo, portando le mani dietro la schiena in un

gesto inconscio.«Adesso, Raistlin, ho io una domanda per te», affermò intanto

Antimodes. «Perché vuoi diventare un mago?».«Mi piace avvertire la magia dentro di me», spiegò Raistlin, con un

 bagliore negli occhi azzurri, poi lanciò un'occhiata in direzione di Otik,che era impegnato vicino al bancone, e aggiunse con un pallido sorriso: «E perché voglio che un giorno i grassi locandieri s'inchinino davanti a me».

Sconcertato, Antimodes lo fissò per vedere se stava scherzando e scoprì

che non era così.La mano che il dio gli aveva posato sulla spalla fu percorsa da un

tremito improvviso.

CAPITOLO QUARTO

Esattamente un mese più tardi, Antimodes era comodamente insediatonelle eleganti camere di Par-Salian delle Vesti Bianche, capo del Conclave

dei Maghi.I due uomini erano molto diversi l'uno dall'altro, tanto che in circostanze

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normali non sarebbero di certo diventati amici: anche se erano tutti e duesulla cinquantina, infatti, Par-Salian era un topo di biblioteca mentreAntimodes era un uomo di mondo che amava viaggiare, era portato per gliaffari, sapeva apprezzare la buona birra, le donne graziose e le locandeaccoglienti, oltre a essere curioso e indagatore, meticoloso nelle abitudini enel vestiario.

Par-Salian, per contro, era uno studioso il cui sapere nel campo delle artidella magia era innegabilmente più vasto di quello di qualsiasi altro magodi tutto Krynn, detestava viaggiare, non amava mescolarsi alle altre persone e aveva amato una donna soltanto... una storia sbagliata di cui sirammaricava ancora adesso; in aggiunta a tutto questo Par-Salian aveva ben poca cura del suo aspetto esteriore e non badava alle comodità al

 punto che se si lasciava assorbire dai suoi studi dimenticava spesso anchedi mangiare.

Era di conseguenza responsabilità di alcuni apprendisti badare che il loromaestro mangiasse a sufficienza, cosa che essi facevano insinuandoglisenza parere una pagnotta sotto il braccio mentre lui era intento a leggere,con la certezza che Par-Salian si sarebbe messo a sbocconcellarladistrattamente. Spesso gli apprendisti erano soliti scherzare fra lorosostenendo che avrebbero potuto sostituire al pane una pagnotta fatta di

segatura senza che Par-Salian si accorgesse della differenza, ma d'altrocanto il rispetto e la reverenza che nutrivano nei suoi confronti era tale chenessuno di essi aveva mai osato effettuare davvero un esperimento delgenere.

Quella sera Par-Salian aveva come ospite il suo vecchio amico e diconseguenza aveva rinunciato, sia pure con un certo rincrescimento, aconcentrarsi sui suoi amati libri. Antimodes gli aveva portato in dono parecchie pergamene di magia oscura di cui era entrato in possesso per 

 puro caso nel corso dei suoi viaggi. Una delle Sorelle dalle Vesti Nere, unamaga malvagia, era infatti stata uccisa da una folla inferocita, e Antimodesera arrivato sul posto troppo tardi per cercare di salvarla, cosa che avrebbecomunque fatto sia pure con scarso entusiasmo perché tutti i maghi eranovincolati gli uni agli altri dalla loro magia, indipendentemente dal dio odalla dea a cui si erano votati.

L'arcimago era però riuscito a persuadere i superstiziosi e ignorantiabitanti della città a permettergli di prelevare gli effetti personali della

maga dalla sua casa prima che ad essa venisse appiccato il fuoco,decidendo di portare le pergamene in dono a Par-Salian e tenendo per sé

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un amuleto che serviva ad evocare gli spiriti non-morti. Naturalmente luinon poteva usare di persona l'amuleto né avrebbe mai cercato di farlo perché i non-morti erano disgustosi e fetidi, almeno secondo il suo mododi vedere, però era intenzionato a offrire l'amuleto a qualcuna delle Vesti Nere che vivevano nella Torre per avere in cambio qualche manufatto chelui potesse utilizzare.

Anche se apparteneva all'ordine delle Vesti Bianche ed era quindicompletamente votato al dio Solinari, Par-Salian era comunque in grado dileggere e di comprendere le pergamene della maga malvagia sia pure a prezzo di una certa sofferenza fisica, perché era uno dei pochissimi maghiche avessero mai avuto il potere di cambiare alleanza a loro piacimento. Naturalmente lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere, ma tale potere

gli permetteva di prendere nota delle parole usate per attuare l'incantesimo,dei componenti necessari per metterlo in atto, della sua durata e di ognialtra informazione interessante in cui gli capitava di imbattersi, una ricercache sarebbe stata registrata negli annali della Torre di Wayreth, mentre le pergamene sarebbero state depositate nella biblioteca della Torre insieme auna valutazione.

«Un modo terribile di morire», commentò Par-Salian, versando al suoospite un bicchiere di vino elfico, freddo al punto giusto, dolce e con

appena un accenno di aroma di caprifoglio che evocava a beneficio di chilo beveva l'immagine di verdi foreste e di radure rischiarate dal sole. «Laconoscevi?».

«Esmilla? No», rispose Antimodes, scuotendo il capo. «Del resto, si può praticamente dire che si sia andata a cercare quello che le è successo. Ilaici possono anche ignorare la scomparsa saltuaria di qualche bambino,ma se si comincia a far circolare monete false...».

«Oh, suvvia, mio caro Antimodes!» esclamò Par-Salian, che non era

famoso per il suo senso dell'umorismo, assumendo un'espressionesconvolta. «Spero che tu stia scherzando!».

«Ecco... forse sì», sogghignò Antimodes, sorseggiando il vino.«In ogni caso, capisco cosa intendi dire», continuò Par-Salian, calando

con impazienza il pugno sul bracciolo della sua sedia a schienale alto.«Perché questi stolti maghi persistono a sprecare la loro abilità e il lorotalento durre monete di scarsa qualità che qualsiasi bottegaio fra qui e leisole dei minotauri riesce a riconoscere come false alla prima occhiata? È

una cosa che per me non ha senso».Considerato lo sforzo che bisogna fare per riuscire a produrre con la

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magia anche soltanto due o tre monete d'acciaio, un mago potrebbededicarsi con minor fatica e maggior guadagno ad attività più mondane»,convenne Antimodes. «Se la nostra defunta sorella avesse continuato avendere i pro-ori servigi per tenere la città libera dai topi, come facevaormai da anni, senza dubbio sarebbe ancora viva. Sono state le monetecreate con la magia a gettare tutti nel panico, perché da un lato la maggior  parte delle persone credeva che fossero maledette e aveva paura ditoccarle, mentre quelli che non pensavano che fossero maledette avevano paura che lei cominciasse a sfornare monete in quantità tale da rivaleggiarecon il Signore di Palanthas, con il risultato di possedere ben presto l'interacittà e tutto ciò che c'è in essa».

«Questo è proprio il motivo per cui abbiamo stabilito la regola relativa

alla produzione di monete del regno», ribatté Par-Salian. «Ogni giovanemago prima o poi ci prova, come sono certo abbia fatto tu stesso».

Antimodes annuì e scrollò le spalle.«La maggior parte di noi impara però ben presto che non vale la pena di

sprecare tempo e fatica, per non parlare del grave impatto che una simileattività da parte nostra potrebbe avere sui diversi settori dell'economia diAnsalon. Senza dubbio questa donna era abbastanza matura da sapere tuttociò, e mi chiedo cosa sperasse di ottenere».

«Chi può saperlo? Forse non era più del tutto lucida di mente, o magariera soltanto avida. In ogni caso aveva senza dubbio destato le ire del suodio, considerato che Nuitari l'ha abbandonata alla sua sorte come dimostrail fatto che tutti gli incantesimi di difesa a cui lei aveva fatto ricorso sonofalliti».

«Lui non è solito permettere un uso frivolo dei talenti che elargisce»,dichiarò Par-Salian, in tono severo e solenne.

Antimodes spostò leggermente la propria sedia in modo da avvicinarsi

maggiormente al fuoco che crepitava nel focolare. Quando veniva in visitaalla Torre della Somma Stregoneria si sentiva sempre estremamente vicinoa tutti gli dèi della magia, quello luminoso, quello grigio e quello oscuro, etale vicinanza gli creava un senso di disagio, come se qualcuno gli stessealitando sulla nuca. Questo disagio spiegava perché Antimodes nonvolesse vivere nella Torre e avesse scelto invece di risiedere nel mondoesterno, per quanto esso potesse essere pericoloso per i maghi.

«Parlando di bambini...» cominciò, ansioso di cambiare argomento.

«Ne stavamo parlando?» sorrise Par-Salian.«Certamente. Io ho fatto un commento sul rapimento di bambini».

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«Ah, sì; lo ricordo. D'accordo, allora, stavamo parlando di bambini:cos'hai da dire a loro riguardo? Se ben ricordo, a te non piacciono».

«In genere no, ma durante il mio viaggio fin qui ho incontrato unragazzino davvero interessante, a cui ritengo sia il caso di dedicare unacerta attenzione, cosa che mi pare abbiano già fatto in tre», spiegòAntimodes, guardando fuori della finestra in direzione del cielo notturno,nel quale brillavano due delle tre lune sacre agli dèi della magia, eaccennando verso di esse con l'aria di chi la sa lunga.

«Il bambino in questione ha un talento innato?» chiese Par-Salian,mostrandosi interessato. «Lo hai messo alla prova? Quanti anni ha?».

«Ha circa sei anni e non l'ho messo alla prova, perché ero alloggiatonella locanda di Solace e quello non era né il momento né il luogo per cose

del genere, senza contare che non ho mai avuto un'eccessiva fiducia inquelle stupide prove. No, quello che mi ha impressionato è stato ciò chequel bambino ha detto, e come lo ha detto... non mi vergogno adammettere che mi ha spaventato perché in lui c'è una buona dose di freddaambizione che fa paura in un soggetto tanto giovane. Naturalmente, è possibile che sia un tratto che deriva dalla sua situazione personale,considerato che non proviene da una famiglia abbiente».

«Che hai fatto di lui?».

«L'ho affidato al Maestro Theobald. Sì, so che Theobald non è il miglior insegnante presente nel Conclave perché è lento, privo d'immaginazione,carico di pregiudizi e antiquato, ma con lui quel ragazzo otterrà delle basisolide e si vedrà imporre una rigida disciplina, cosa che non gli farà maleconsiderato che a quanto ho dedotto sta conducendo un'esistenza piuttostoselvaggia, allevato da una sorellastra maggiore d'età che è lei stessa unsoggetto alquanto particolare».

«Theobald è costoso», obiettò Par-Salian, «e tu hai appena sottolineato

che la famiglia del ragazzo è povera».«Ho pagato io stesso il suo primo semestre», rispose Antimodes,

accantonando con un gesto distratto qualsiasi accenno al fatto che il suo potesse essere stato un atto lodevole. «Bada però che la famiglia non dovràmai saperlo. A suo beneficio ho inventato che alla Torre abbiamo dei fondistanziati per gli studenti meritevoli».

«Non sarebbe una cattiva idea», osservò Par-Salian con aria pensosa,«anzi, è un'idea che si potrebbe mettere in pratica, soprattutto adesso che

gli irragionevoli pregiudizi nei nostri confronti stanno cominciando adissolversi. Anche se purtroppo stolti come Esmilla continuano a metterci

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in una cattiva luce, sono convinto che la gente si sia fatta in generale piùtollerante e che cominci ad apprezzare quello che facciamo per aiutarla. Tuhai appena viaggiato a lungo e allo scoperto, amico mio, cosa che nonavresti potuto fare una quarantina di anni fa».

«Questo è vero», ammise Antimodes, «però credo che in generale ilmondo sia diventato di recente un luogo alquanto oscuro. Ad Haven misono imbattuto in un ordine religioso che adora un dio noto come Belzor, ela mia impressione è che quella gente abbia intenzione di rifriggere lestesse assurdità che abbiamo sentito pronunciare dal Re-prete di Istar  prima che gli dèi... sia benedetto il loro cuore... gli facessero cadereaddosso una montagna».

«Davvero? Allora me ne devi parlare», replicò Par-Salian,

appoggiandosi più comodamente allo schienale della sedia, poi prelevò daltavolo che aveva accanto un libro rilegato in cuoio, lo aprì ad una pagina bianca e vi annotò la data, preparandosi a scrivere: finalmente stavano per  passare alle questioni importanti di cui dovevano discutere quella sera.

In prevalenza, l'incarico di Antimodes consisteva nel fare un rapportosulla situazione politica del continente di Ansalon che, come accadevaquasi sempre, era un groviglio alquanto confuso. Il suo rapporto inclusequel nuovo ordine religioso, che venne accantonato sommariamente dopo

una breve discussione.«C'è un capo carismatico originario di Haven», riferì Antimodes.

«Attualmente ha soltanto una manciata di seguaci e promette il solitoassortimento di miracoli, incluso il risanamento. Non ho avuto modo diincontrarlo, ma da quanto ho sentito si deve trattare con ogni probabilità diun illusionista molto abile che possiede anche qualche conoscenza dell'usodelle erbe. Nel campo del risanamento non sta facendo nulla che i Druidinon facciano già da anni, ma per la gente dell'Abanasinia si tratta di una

cosa del tutto nuova ed è possibile che un giorno o l'altro noi si sia costrettia smascherarlo per il truffatore che è. Per adesso, però, non stadanneggiando nessuno e sta anzi arrecando del bene, quindi consiglierei dinon essere noi a scatenare dei problemi in quanto la cosa potrebberiflettersi molto male sul nostro ordine perché la gente si schiererebbe tuttadalla sua parte».

«Sono d'accordo con te», convenne Par-Salian, stilando una breveannotazione sul suo libro. «Cosa mi dici degli elfi? Sei passato da

Qualinesti?».«L'ho soltanto costeggiato, perché gli elfi sono stati molto cortesi ma

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non mi hanno permesso di spingermi oltre. Per quanto li concerne nulla ècambiato nell'arco degli ultimi cinquecento anni, e a patto che il mondoesterno li lasci in pace non cambierà mai nulla. Quanto agli elfi diSilvanesti, continuano a nascondersi nei loro boschi magici sotto la guidadi Lorac. Sono consapevole che non ti sto dicendo nulla che tu già nonsappia», aggiunse Antimodes, versandosi un altro bicchiere di vino elficoin quanto l'argomento gli aveva ricordato che esso aveva un saporeeccellente. «Di certo avrai avuto l'occasione di parlare con qualcuno deiloro maghi».

«Sono venuti alla Torre ma soltanto per affari», replicò Par-Salian,scuotendo il capo. «Si sono mostrati assai taciturni, parlando con noiumani soltanto quando era assolutamente necessario, e non hanno voluto

condividere con noi la loro magia anche se sono stati più che lieti di usarela nostra».

«Hanno qualcosa che ci possa interessare?» domandò Antimodes, conun sorriso vagamente divertito.

«Non per quanto concerne le pergamene», rispose Par-Salian «Èsconvolgente vedere quanto siano diventati immobilisti i maghi diSilvanesti, anche se ciò non è del tutto sorprendente alla luce della loroterribile sfiducia e del loro timore di qualsiasi tipo di cambiamento. La

sola mente creativa che ci sia in mezzo a loro appartiene ad un giovanemago di nome Dalamar, e sono certo che non appena scopriranno di cosalui si stia interessando gli altri lo esilieranno senza pensarci due volte.Quanto ai capi delle loro Vesti Bianche, si sono mostrati molto interessatia ottenere parte del nuovo lavoro che stiamo svolgendo qui, in particolare per quanto concerne gli incantesimi evocativi di natura difensiva.

«Inoltre ci volevano pagare in oro, che di questi tempi è privo di valore,ed io ho dovuto essere estremamente rigido nell'insistere che pagassero in

acciaio... che naturalmente non avevano... o che ricorressero al baratto. Ilrisultato è stato che loro hanno cercato di rifilarmi alcuni vecchiincantesimi magici che erano già considerati antiquati all'epoca di mio padre, e alla fine ci siamo accordati su alcuni componenti per incantesimi,dal momento che a Silvanesti coltivano piante adorabili e insolite e che iloro gioielli sono splendidi. Gli elfi hanno concluso il baratto e se ne sonoandati, e da allora non li ho più visti, cosa che m'induce a chiedermi se aSilvanesti stiano fronteggiando qualche minaccia o se abbiano appreso con

la divinazione che una minaccia sta per sopraggiungere. Il loro re, Lorac, èun mago potente e un notevole veggente».

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«Se pure hanno previsto qualcosa noi non lo sapremo mai perché gli elfi preferirebbero veder annientato il loro popolo piuttosto che rivolgersi a noi per avere aiuto», sbuffò Antimodes, che non nutriva un particolare affetto per gli elfi di Silvanesti, i cui maghi dalla Veste Bianca appartenevano alConclave dei Maghi ma non mancavano mai di far notare che parteciparealle sue riunioni era da parte loro un atto di estrema condiscendenza.

Gli elfi non amavano gli umani, e manifestavano questa loro avversionein ogni modo, per esempio fingendo di non saper parlare la lingua comuneche era propria a tutti i popoli di Krynn, oppure allontanando condisprezzo qualsiasi umano che osasse dissacrare la lingua elfica provandoa parlarla. Dotati di una vita dalla durata incredibilmente lunga, essivedevano ogni cambiamento come una cosa da temere e ai loro occhi gli

esseri umani, con la loro vita più breve e frenetica, e con il loro costante bisogno di "migliorare", costituivano tutto ciò che essi aborrivano. Per contro, gli elfi di Silvanesti non avevano più avuto un'idea creativa daalmeno duemila anni.

«Gli elfi di Qualinesti, d'altro canto, tengono attentamente d'occhio iloro confini ma permettono ai popoli di altre razze di oltrepassarli, a pattoche il Portavoce del Sole dia il suo permesso», proseguì Antimodes. «Ifabbri umani e quelli dei nani sono tenuti in alta considerazione e vengono

incoraggiati a visitare Qualinesti... anche se non ad insediarvisi... e gliartigiani elfici visitano di frequente altre terre, incontrando purtroppospesso odio e pregiudizi», aggiunse con rammarico, in quanto conosceva eapprezzava molti elfi di Qualinesti e gli dispiaceva vedere come venivanotrattati. «Parecchi dei loro giovani e in particolare il figlio maggiore delPortavoce.... com'è che si chiama?».

«Il Portavoce? Solostaran».«No, suo figlio maggiore».

«Ah, senza dubbio ti riferisci a Porthios».«Sì, Porthios. Lui ha detto che a suo parere hanno ragione gli elfi di

Silvanesti e che nessun umano dovrebbe poter entrare nelle terre diQualinesti».

«Non lo si può biasimare, considerate le cose terribili che sono successequando gli umani hanno invaso Qualinesti, dopo il Cataclisma, però noncredo che ci si debba preoccupare. Gli elfi continueranno a litigare fra loroal riguardo per tutto il prossimo secolo, a meno che qualcosa li spinga

nell'una o nell'altra direzione».«Infatti», annuì Antimodes, che aveva notato un sottile cambiamento

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nella voce di Par-Salian. «Tu pensi che qualcosa possa esercitare questa pressione?».

«Ho sentito dei borbottii, come di tuoni lontani», replicò Par-Salian.«Io non ho sentito questi tuoni», rispose Antimodes. «Le poche Vesti

 Nere che ho incontrato si sono però comportate in maniera un po' troppotranquilla, come se il guano di pipistrello in mano loro non prendessefuoco».

«E alcune delle più potenti sono scomparse dalla circolazione», aggiunsePar-Salian.

«Di chi si tratta?».«Di Dracart, tanto per cominciare. Era solito passare di qui in maniera

regolare per vedere quali nuovi manufatti fossero arrivati e se c'erano

 possibili apprendisti, ma i soli maghi delle Vesti Nere che si sono fattivedere di recente sono stati quelli di basso rango, che di certo non potevano sapere nulla dei segreti dei loro superiori, e perfino loroapparivano un po' nervosi».

«Devo allora dedurre che non hai visto neppure la bella Ladonna»,osservò Antimodes, con un astuto sorriso.

Par-Salian abbozzò a sua volta un sorriso e scrollò le spalle, perché quelfuoco si era spento ormai da anni e lui era troppo vecchio e troppo assorto

nel suo lavoro per essere irritato o compiaciuto della provocazione del suoamico.

«No, è da un anno che non parlo con Ladonna, e soprattutto hol'impressione che lei mi stia tenendo deliberatamente nascosto quello chesta facendo, qualsiasi cosa sia. Infatti ha rifiutato di partecipare allariunione dei capi degli ordini, cosa che non aveva mai fatto in passato, edha mandato a rappresentarla un uomo il quale ha detto in tutto soltanto tre parole, che sono state "passatemi il sale"», replicò scuotendo il capo. «La

Regina Takhisis è rimasta tranquilla per troppo tempo, segno che qualcosasta bollendo in pentola».

«Tutto quello che possiamo fare è stare in guardia e aspettare, amicomio, ed essere preparati ad agire quando si rendesse necessario», affermòAntimodes, sorseggiando il vino elfico. «In mezzo a tutto questo hoalmeno una buona notizia, e cioè che i Cavalieri di Solamnia stannofinalmente cominciando a riprendersi. Molti di essi hanno reclamato letenute di famiglia che erano state loro tolte e hanno cominciato a

ricostruire la loro dimora. Il loro nuovo capo, Lord Gunthar, è un acuto politico che sa pensare con la sua testa e non con il suo elmo, e si è

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accattivato la popolazione locale distruggendo alcune roccaforti diorchetti, annientando alcuni banditi e sponsorizzando giostre e tornei insvariate parti di Solamnia... non c'è nulla che alla folla piaccia di piùvedere degli uomini adulti che si prendono a vicenda a colpi di spada».

«Io non le considero buone notizie, Antimodes», ribatté Par-Salian, conaria grave e perfino allarmata. «I Cavalieri non hanno nessuna simpatia per noi e spero che si limitino a dare la caccia agli orchetti, anche se temo siasoltanto questione di tempo prima che decidano di aggiungere i maghi allaloro lista di nemici, come facevano in passato. Qualcosa del genere è perfino scritto nella Misura».

«Dovresti incontrarti con Lord Gunthar», suggerì Antimodes, sorridendodivertito nel vedere Par-Salian inarcare di scatto le sopracciglia, poi

aggiunse: «Parlo sul serio. Non ti sto suggerendo di invitarlo qui, ma...».«Non credo proprio che sarebbe il caso», convenne Par-Salian, in tono

rigido.«Ma dovresti andare tu stesso a trovarlo e garantirgli che abbiamo a

cuore soltanto il bene di Solamnia».«Come posso garantirgli una cosa del genere, considerato che lui

 potrebbe farmi notare a ragione che molti dei nostri ordini non hanno acuore il bene di Solamnia? I Cavalieri diffidano della magia, diffidano di

noi, di tutti noi, e devo ammettere che io stesso non sono particolarmente propenso a fidarmi di loro. Mi sembra quindi più saggio e più prudentetenerci alla larga da loro e non fare nulla che possa attirare la loroattenzione».

«Magius era amico di Huma», lo provocò Antimodes.«E se ben ricordo quella leggenda, Huma non era particolarmente

rispettato dagli altri Cavalieri proprio per questo motivo», ribatté in tonoasciutto Par-Salian. «Che notizie ci sono da Thorbardin?» chiese quindi,

cambiando bruscamente argomento per indicare che la questione erachiusa.

Pur essendo abbastanza diplomatico da evitare di insistere, Antimodesdecise peraltro fra sé di recarsi a Solamnia, magari sulla via del ritornoanche se questo avrebbe significato deviare di parecchio dalla strada chedoveva seguire per tornare al nord. D'altro canto era curioso quanto unkender per quanto concerneva i Cavalieri di Solamnia, che per moltotempo erano stati disprezzati e perfino avversati da persone che in passato

avevano guardato ai cavalieri di quell'ordine come ai difensori della leggee ai loro protettori. Adesso, però, pareva che i Cavalieri stessero

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recuperando in parte la posizione perduta, e Antimodes era curioso diverificare la cosa con i propri occhi e di vedere se in qualche modo potevatrarne profitto. Naturalmente, non intendeva accennare alla propriadecisione con Par-Salian, ma del resto le Vesti Nere non erano i solimembri del Conclave ad avere dei segreti.

«I nani di Thorbardin sono ancora a Thorbardin, suppongo, soprattutto perché nessuno li ha visti andare via. Sono del tutto autosufficienti, senzanessun bisogno di avere contatti con il resto del mondo, e comunque nonvedo perché dovrebbero averne. I nani delle colline stanno intantoespandendo il loro territorio e molti di essi cominciano a viaggiare in altreterre. Alcuni si sono addirittura insediati lontano dalle loro dimoremontane», aggiunse, ricordando il nano che aveva incontrato a Solace.

«Quanto agli gnomi, sono come i nani di Thorbardin con una solaeccezione... supponiamo che abitino sempre all'interno del Monte NonImporta perché nessuno lo ha ancora visto esplodere. I kender sembrano più prolifici che mai, vanno dappertutto, vedono tutto, rubano la maggior  parte di ciò che vedono, perdono il resto e non servono assolutamente anulla».

«Oh, invece credo che siano utili», replicò in tono serio Par-Salian; delresto, era risaputo che lui aveva simpatia per i kender, soprattutto (come

commentava sempre acidamente Antimodes) perché rimaneva isolato nellasua torre e non aveva mai a che fare con loro. «I kender sono i veriinnocenti di questo mondo, ci ricordano che consumiamo una quantità ditempo e di energia preoccupandoci di cose che in realtà non sonoimportanti».

«In tal caso», brontolò Antimodes, «quando possiamo aspettarci divederti abbandonare i tuoi libri per afferrare un bastone da kender emetterti a girovagare sulle strade?».

«Non credo di aver mai preso in considerazione una simile eventualità,amico mio», sorrise Par-Salian, «anche se ritengo che sarei alquanto abilenell'uso di un bastone da kender se si considera che da bambino lo eronell'uso della fionda. Ah, bene, si sta facendo tardi», aggiunse quindi, asegnalare che il colloquio era finito. «Ci rivedremo domattina?» domandòsubito dopo, con una lieve ansietà che Antimodes non faticò acomprendere.

«Non mi sognerei mai di interferire con il tuo lavoro, amico mio»,

rispose questi. «Darò un'occhiata ai manufatti, alle pergamene e aicomponenti per incantesimi, soprattutto se avete qui dei prodotti elfici

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 perché ci sono un paio di cose che mi interessano, poi mi rimetterò incammino».

«Sei tu quello che sarebbe stato un buon kender», dichiarò Par-Salian,alzandosi. «Non ti fermi mai in un posto abbastanza a lungo da lasciareche la polvere si posi sulle tue scarpe. Dove andrai, da qui?».

«Oh, di qua e di là», rispose in tono vago Antimodes. «Non ho nessunafretta di tornare a casa perché mio fratello è del tutto capace di gestire gliaffari anche senza di me e ho preso tutti gli accordi necessari per far investire la mia parte di introiti, con il risultato che continuo a guadagnareanche quando sono lontano... un modo di vivere molto più facile e proficuo dell'intonare incantesimi su un pezzo di minerale di ferro. Buonanotte, amico mio».

«Buona notte e buon viaggio», rispose Par-Salian, stringendo con vigorela mano all'amico, poi fece una pausa e continuò a trattenere nella propriala mano di Antimodes, che lo fissò con stupore mentre lui aggiungeva:«Sta' attento, Antimodes, perché non mi piacciono i segni e i portenti chesto vedendo. Per ora il sole splende su di noi, ma le punte di ali oscure già proiettano lunghe ombre. Continua a mandarmi i tuoi rapporti, perché liritengo di inestimabile valore».

«Starò attento», promise Antimodes, leggermente turbato dalle parole

dell'amico.L'arcimago era perfettamente consapevole che Par-Salian non gli aveva

detto tutto quello che sapeva, che doveva essere molto di più perché ilcapo del Conclave era molto abile a leggere nel futuro ed era per di più unnoto favorito di Solinari, il dio della magia bianca. Ali oscure... che cosa poteva significare? Era forse un riferimento alla Regina delle Tenebre, lacara, vecchia Takhisis scomparsa ma non dimenticata? Coloro chestudiavano il passato, che sapevano di quali malvagità lei fosse capace,

non osavano infatti rischiare di dimenticarla.Ali oscure... avvoltoi, magari? Aquile? Simboli di guerra? Grifoni o

 pegasi? Del resto, quelle erano bestie magiche che non si vedevano difrequente, di questi tempi. Draghi?

Levando un'invocazione mentale a Paladine, Antimodes decise chequello era un motivo aggiuntivo per cercare di scoprire che cosa stessesuccedendo a Solamnia.

Scambiata con l'amico un'ultima stretta di mano, si stava avviando verso

la porta quando Par-Salian lo fermò ancora.«Quel tuo giovane pupillo... quello di cui mi hai parlato... come si

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chiama?» domandò.Antimodes impiegò un momento a cambiare l'orientamento dei suoi

 pensieri, e un altro per cercare di ricordare il nome.«Raistlin, Raistlin Majere».Par-Salian annotò quel nome sul suo libro.

CAPITOLO QUINTO

A Solace era primissima mattina e il sole non era ancora sorto quando i bambini si svegliarono nella loro piccola casa annidata nell'ombra di unvallenwood; con le imposte che chiudevano male, le tende lise e le pianteinselvatichite o morenti, la casa aveva un aspetto desolato e trascurato

quasi quanto quello dei bambini che vi abitavano.Quella notte il padre dei due ragazzi, Gilon Majere... un uomo grosso dal

volto ampio e allegro la cui espressione naturalmente placida era alteratasoltanto da una perpetua linea di preoccupazione fra le sopracciglia... nonera tornato a casa perché era dovuto andare lontano da Solace per svolgereun lavoro per conto di un nobile che aveva una tenuta sul lago Crystalmir;la madre dei due era invece a casa ed era già sveglia, ma del resto nonaveva più dormito dalla mezzanotte.

Rosamun Majere sedeva sulla sua sedia a dondolo con una matassa fra lemani sottili, intenta ad avvolgere la lana in uno stretto gomitolo per poidisfare il tutto e ricominciare daccapo; mentre lavorava, la donnacanticchiava fra sé con un timbro di voce strano e acuto, oppure sisoffermava a conversare con persone che non erano visibili per nessunotranne che per lei.

Se fosse stato a casa suo marito, che era un uomo gentile e premuroso, sisarebbe sforzato di persuaderla di smetterla di "lavorare a maglia" per 

andare a dormire, cosa che peraltro sarebbe servita a ben poco perchéanche a letto lei avrebbe continuato a cantare fra sé per poi alzarsi dinuovo nel giro di un'ora.

Rosamun aveva anche dei giorni buoni, dei periodi di lucidità in cui eraconsapevole di gran parte di quello che le accadeva intorno anche se nonmanifestava mai un particolare interesse a prendervi parte. Figlia di unabbiente mercante, era stata abituata ad avere dei servi che provvedevanoad ogni sua necessità, e adesso che la famiglia non poteva permettersi

servitori di sorta lei non sapeva da che parte cominciare a gestire una casada sola. Se aveva fame capitava che si cucinasse qualcosa e che rimanesse

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abbastanza cibo per il resto della famiglia, a patto che lei non sidimenticasse del tutto dì quello che stava preparando e lo lasciasse a bruciare nella pentola.

Quando immaginava di essere impegnata a rammendare si sedeva sullasua sedia a dondolo con in grembo un cesto pieno di abiti strappati erimaneva a guardare fuori della finestra, oppure a volte si gettava sullespalle il suo logoro mantello e andava a "fare visite", il che significava chesi metteva a girovagare lungo i ponti ombrosi fino a quando si decideva afermarsi a parlare con qualcuno dei vicini, che in genere stavano benattenti a individuarla per tempo in modo da allontanarsi prima di poter essere intercettati. Inoltre, era anche capitato che lei si dimenticasse didove si trovava e rimanesse a casa di qualcuno per ore, fino a quando i

suoi figli la trovavano e la riportavano a casa.A volte, si metteva a raccontare storie inerenti al suo primo marito,

Gregor uth Matar, un furfante e un rubacuori di cui lei era stupidamenteorgogliosa e che amava ancora, anche se l'aveva abbandonata ormai daanni.

«Gregor era un Cavaliere di Solamnia», diceva, rivolgendosi adascoltatori invisibili, «e mi amava moltissimo. Era l'uomo più avvenente ditutta Palanthas e le ragazze impazzivano per lui. Gregor però ha scelto me,

mi ha regalato delle rose e ha cantato canzoni sotto la mia finestra, mi ha portata a cavalcare sul suo cavallo nero. Adesso è morto, so che è morto perché altrimenti sarebbe tornato da me. È morto da eroe, sapete».

L'unica cosa certa era che Gregor uth Matar era stato dichiarato morto, perché nessuno aveva più sue notizie né lo aveva più visto da anni ed eraconvinzione comune che se pure non era morto avrebbe dovuto esserlo. Ingenerale, la sua perdita non era particolarmente sentita, perché anche se erastato un Cavaliere di Solamnia era stato bandito dall'ordine ormai da anni

ed era risaputo che lui, sua moglie e la loro bambina avevano dovutolasciare in fretta Palanthas nel cuore della notte. Le voci li avevano seguitida Solamnia a Solace, sussurrando che Gregor avesse commesso unomicidio e si fosse sottratto al boia soltanto grazie al suo denaro e ad uncavallo veloce.

Gregor uth Matar era un uomo dotato di una sorta di cupa bellezza,fascino e arguzia ne facevano una compagnia gradita in qualsiasi taverna,come pure il suo coraggio... sul quale neppure i suoi nemici trovavano a

ridire... e la sua disponibilità a bere, giocare e combattere. Nelleaffermazioni di Rosamun sul suo conto c'era soltanto una cosa vera, e cioè

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che le donne lo adoravano.Dotata di una fragile bellezza, con i capelli ramati, gli occhi del colore di

una foresta estiva e la pelle bianca e setosa, Rosamun era riuscita aconquistarlo perché Gregor si era innamorato di lei con tutta l'esuberanzadella sua natura passionale ed era rimasto innamorato più a lungo diquanto sarebbe stato logico aspettarsi. Lui era però un uomo che nonriusciva più a riattizzare la fiamma dell'amore una volta che essa si eraspenta.

A Solace la famiglia aveva vissuto bene, grazie ai viaggi periodici cheGregor faceva a Solamnia, soprattutto quando il denaro cominciava ascarseggiare, in quanto pareva che la sua altolocata famiglia fosse dispostaa pagarlo bene pur di tenerlo lontano dalla propria vita. Poi era giunto un

anno in cui lui era tornato a mani vuote, accompagnato da voci secondocui la sua famiglia si era infine decisa ad allontanarlo definitivamente. Icreditori avevano cominciato ad esercitare su di lui serie pressioni e allafine Gregor si era recato al nord, a Sanction, per vendere la propria spada achiunque fosse disposto ad assumerlo. Da quel momento aveva continuatoa condurre quel genere di vita, tornando a casa negli intervalli fra unlavoro e il successivo senza però fermarsi mai a lungo, e Rosamun avevacominciato a provare una gelosia sfrenata, accusandolo di lasciarla sola per 

cercare altre donne e scatenando liti che erano state sentite in quasi tuttaSolace.

Infine, un giorno Gregor era partito per non tornare più, e le voci eranostate concordi nel ritenere che fosse morto... per un colpo di spada o più probabilmente per una coltellata nella schiena.

Una persona soltanto rifiutava di credere che lui fosse morto: Kitiaraviveva in attesa del momento in cui avrebbe potuto lasciare Solace per andare in cerca di suo padre.

Come sempre, anche quel giorno non parlò quasi d'altro mentre con isuoi modi impazienti provvedeva a preparare il fratello minore per ilviaggio fino alla scuola; i pochi vestiti del ragazzo... un paio di camicie,alcuni calzoni e un mucchietto di calzini rammendati troppo spesso...erano già raccolti in un fagotto insieme a uno spesso mantello per l'inverno.

«Allora questo è un addio. Molto probabilmente partirò entro la primavera, perché questo è un posto troppo stupido in cui vivere», disse,

mentre allineava i due ragazzini per esaminarli, poi afferrò Raistlin per unaspalla e indicò i suoi piedi nudi e impolverati, esclamando: «Cosa credi di

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fare? Non puoi andare a scuola conciato in questo modo! Devi indossare lescarpe».

«D'estate?» domandò Caramon, stupefatto.«Le mie non mi calzano più bene», protestò Raistlin, che quella

 primavera era cresciuto un poco ed era adesso alto quanto il gemello,anche se pesava la metà di lui ed aveva la circonferenza della vita che eraun quarto della sua.

«Avanti, usa queste», replicò Kit, rintracciando un paio di vecchiescarpe di Caramon che risalivano all'inverno precedente e gettandole aRaistlin.

«Mi faranno male alle dita», si lamentò il ragazzo, contemplandole conaria cupa.

«Mettile lo stesso», ordinò Kit. «Tutti gli altri ragazzi della scuola portano le scarpe, giusto? Soltanto i contadini girano scalzi, o almeno cosìdice mio padre».

Senza replicare, Raistlin infilò i piedi nelle scarpe logore, poi Kit afferròuno strofinaccio sporco e lo immerse nel secchio dell'acqua, procedendo astregare con esso la faccia e gli orecchi del ragazzo con tanto vigore chequesti si sentì certo che gli stesse asportando almeno metà della pelle.

Mentre era in corso quell'operazione, Rosamun lasciò cadere per terra il

gomitolo di lana. La sua bellezza era svanita, come svanisce un arcobalenoquando le nubi di tempesta coprono il sole, e adesso i suoi capelli eranospettinati e opachi, gli occhi pervasi di quella lucentezza eccessiva chedenota la pazzia o uno stato febbrile, la pelle pallida era sfumata di grigio. Notando che sua madre stava fissando in modo vago le proprie manivuote, come se si stesse chiedendo come utilizzarle, Caramon raccolse lalana e gliela porse.

«Prendi, mamma», disse.

«Grazie, figlio mio», rispose lei, sollevando lo sguardo vacuo a fissarloin volto. «Gregor è morto, lo sai?».

«Sì, mamma», rispose Caramon, senza neppure ascoltare ciò che leistava dicendo.

Rosamun faceva spesso simili affermazioni prive di senso ed essendoviabituati in genere i suoi figli le ignoravano; questa mattina però Kitiara sirivoltò contro sua madre con furia improvvisa e insolita.

«Lui non è morto! Cosa ne puoi sapere, tu? Non gli è mai importato di

te, quindi non dire più cose del genere, vecchia strega pazza!» inveì.Sorridendo, Rosamun riprese ad avvolgere la lana canticchiando fra sé,

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mentre i suoi figli assistevano alla scena in silenzio, contrariati perché le parole di Kit li avevano feriti più di quanto avessero fatto a Rosamun, chenon stava prestando la minima attenzione a sua figlia.

«Lui non è morto! Io lo so e riuscirò a trovarlo!» ribadì intanto Kitiara,con voce ora bassa e intensa.

«Come fai a sapere che Gregor è vivo?» chiese infine Caramon, fissandola sorella. «E se lo è, come farai a trovarlo? Ho sentito dire che a Solamniaci sono una quantità di persone, più di quante ce ne siano qui a Solace».

«Lo troverò perché lui mi ha detto come fare», replicò Kit, consicurezza, poi indugiò a contemplare i fratelli con aria riflessiva e dopo unmomento aggiunse: «Sentite, questa è probabilmente l'ultima volta che mivedete, starò via per parecchio tempo. Venite qui, vi mostrerò qualcosa, se

mi promettete di non dirlo a nessuno».Conducendo i ragazzi nella piccola stanza in cui dormiva, tirò quindi

fuori da sotto il materasso una rozza sacca di cuoio fatta a mano.«Ecco, qui dentro c'è la mia fortuna», annunciò con orgoglio.«Del denaro?» domandò Caramon, illuminandosi in volto.«No!» replicò però Kitiara, accantonando con disprezzo un'idea del

genere. «È qualcosa di meglio del denaro, è la mia eredità».«Lasciami vedere!» implorò Caramon.

«Ho promesso a mio padre che non l'avrei mai mostrata a nessuno»rifiutò però Kitiara, «e per ora non intendo farlo. Un giorno però potraivederla, quando tornerò ricca e potente, cavalcando alla testa dei mieieserciti».

«Noi faremo parte del tuo esercito, vero, Kit?» esclamò Caramon. «Raisted io, intendo».

«Sarete entrambi capitani, anche se naturalmente io sarò il comandantesupremo», replicò Kitiara, in tono pratico.

«Mi piacerebbe essere un capitano» dichiarò Caramon, in tono pienod'entusiasmo. «Tu che ne dici, Raist?».

«A me non importa», replicò questi, scrollando le spalle, e dopo aver scoccato un'ultima, lunga occhiata alla sacca di cuoio aggiunse in tonoquieto: «Adesso dobbiamo andare, altrimenti faremo tardi».

«Immagino che ve la caverete», commentò Kit, adocchiando i fratellicon le mani piantate sui fianchi. «Tu, Caramon, bada a tornare subito acasa dopo aver lasciato Raistlin a scuola, perché voi due vi dovrete

abituare a restare separati».«D'accordo, Kit», borbottò Caramon, incupendosi.

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Raistlin intanto si avvicinò alla madre e le prese una mano.«Arrivederci, mamma», mormorò, con voce incrinata.«Arrivederci, caro. Non dimenticare di coprirti la testa quando è

umido», rispose lei, e quella fu l'unica benedizione che ebbe da elargire alfiglio.

Raistlin si era sforzato di spiegarle dove stava andando, ma lei non eraassolutamente riuscita a capirlo.

«A studiare la magia? Per quale motivo? Non essere sciocco», avevaribattuto, e alla fine Raistlin si era arreso.

Quando infine lui e Caramon uscirono di casa, il sole stava cominciandoa tingere d'oro la sommità degli alberi.

«Sono contento che Kit non sia venuta con noi perché c'è qualcosa che ti

devo dire», sussurrò Caramon, guardandosi alle spalle con timore, precauzione peraltro inutile perché dopo aver assolto al proprio doveremattutino sua sorella era già tornata a letto.

I bambini percorsero più in fretta che potevano i ponti fra gli alberi per  poi scendere di corsa una lunga scala che portava al suolo della forestadove una stretta strada che era poco più di un paio di solchi scavati dalleruote, fra cui correva un tratto di terra battuta, portava nella direzione incui dovevano andare.

Mentre camminavano, entrambi si misero a mangiare un pezzo di panestantio che avevano staccato da una pagnotta lasciata sul tavolo.

«Guarda, c'è qualcosa di azzurro sul mio pane», osservò d'un trattoCaramon, fra un boccone e l'altro.

«È muffa», rispose Raistlin.«Oh», mormorò Caramon, poi procedette a mangiare il pane con tutta la

muffa, commentando che «non è cattivo, soltanto un po' amaro».Raistlin invece rimosse con cura la parte della sua porzione coperta di

muffa e dopo averla esaminata con attenzione la ripose in una sacca che portava con sé dappertutto e che entro la fine della giornata era sempre piena di svariati esemplari di vita animale e vegetale, al cui studio luidedicava le sue serate.

«La strada fino alla scuola è lunga», commentò intanto Caramon,strisciando i piedi nudi nella polvere della strada. «Nostro padre ha dettoche sono quasi sette chilometri, e una volta che sarai là dovrai restare tuttoil giorno seduto ad un banco senza muoverti, e non ti permetteranno di

uscire o di giocare. Sei certo di volere una cosa del genere, Raist?».Raistlin aveva visto l'interno della scuola soltanto una volta, constatando

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che essa consisteva di una vasta stanza priva di finestre perché non ci potessero essere distrazioni esterne. Il pavimento era di pietra e i banchierano sopraelevati in modo che d'inverno il freddo del pavimento nonghiacciasse i piedi degli studenti, che sedevano su alti sgabelli; il maestrooccupava invece un'ampia cattedra posta sul davanti della stanza e lungodue pareti erano disposti scaffali che contenevano vasi pieni di erbe e dialtre cose che andavano dall'orribile e disgustoso al piacevole o almisterioso: i componenti per gli incantesimi. Un'altra parete era inveceoccupata da custodie per le pergamene, per lo più bianche e destinate adessere utilizzate dagli studenti. Alcune di esse, però, recavano scritti degliincantesimi.

Pensando a quella stanza buia e tranquilla, alle ore che vi avrebbe

trascorso studiando serenamente senza essere distratto dal suo esuberantegemello, Raistlin sorrise.

«Sono certo che non mi dispiacerà», disse.Caramon intanto aveva raccolto un bastone e lo stava usando per 

sferzare l'aria, fingendo che fosse una spada.«So per certo che io non vorrei andare là», dichiarò. «E poi quel maestro

ha la faccia di un rospo e sembra cattivo. Credi che ti picchierà?».In effetti l'insegnante, il Maestro Theobald, aveva l'aria cattiva e per di

 più nel corso del loro primo incontro si era rivelato un uomo altezzoso, pieno di sé e probabilmente meno intelligente della maggioranza dei suoiallievi. Incapace di conquistarne il rispetto, senza dubbio lui doveva esseresolito ricorrere a mezzi d'intimidazione fisica, come confermava il lungoramo di salice che Raistlin aveva notato posato in bella vista accanto allacattedra.

«Se dovesse farlo, sarà soltanto un altro colpo di martello», replicò, pensando alle parole di Antimodes.

«Credi che ti colpirà con un martello?» esclamò Caramon, inorridito,arrestandosi nel centro della strada. «Non dovresti proprio andare in quel posto, Raistlin».

«No, non era questo che intendevo, Caramon», replicò Raistlin,cercando di essere paziente di fronte all'ignoranza del suo gemello... dopotutto la sua affermazione era stata alquanto bizzarra. «Ora cercherò dispiegarti cosa volevo dire. Adesso stai combattendo con un bastone, ma ungiorno possederai una spada vera, giusto?».

«Ci puoi scommettere. Kit me ne porterà una, e la porterà anche a te segliela chiederai».

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«Io ho già una spada, Caramon», replicò Raistlin, «ma non è come latua, non è fatta di metallo. Questa spada è dentro di me e per il momentonon è un'arma di qualità, ha bisogno di essere modellata a colpi dimartello, ed è per questo che sto andando a scuola».

«Per imparare a fabbricare spade?» chiese Caramon, accigliandosi nellosforzo di capire. «Allora è una scuola per fabbri?».

«Non sto parlando di spade reali, Caramon, ma di spade mentali»,sospirò Raistlin. «La magia sarà la mia spada».

«Se lo dici tu. In ogni caso, se quel maestro dovesse picchiarti, avvertimie ci penserò io», affermò Caramon, serrando i pugni, poi sospirò e ripeté:«Senza dubbio questa strada è molto lunga».

«Sì, è lunga», convenne Raistlin, consapevole che avevano percorso

soltanto un quarto della distanza e che lui era già stanco, anche se nonvoleva ammetterlo. «Comunque, non sei obbligato a venire con me, sai».

«È ovvio che devo farlo!» protestò Caramon, mostrandosi stupito. «Cosasuccederebbe se venissi attaccato dagli orchetti? Hai bisogno che io tidifenda».

«Con una spada di legno», commentò Raistlin, in tono asciutto.«Come hai detto tu stesso, un giorno ne avrò una vera», rispose

Caramon, rifiutando di permettere che la logica raffreddasse il suo

entusiasmo. «Kitiara me l'ha promessa... ehi, questo mi ricorda che c'è unacosa che ti devo dire. Credo che Kit si stia preparando ad andare daqualche parte perché ieri l'ho vista scendere le scale di quella taverna allimitare della città, L'Abbeveratoio».

«Cosa ci faceva là?» domandò Raistlin, interessato. «E già che ci siamo,cosa ci facevi tu in quel posto? Non è un locale che abbia una buonafama».

«Direi proprio di no!» convenne Caramon. «Sturm Brightblade dice che

è frequentato da ladri e tagliagole, e questo è il motivo per cui sono andatolà: volevo vedere un tagliagole».

«E ne hai visto uno?» domandò Raistlin, con un accenno di sorriso.«No, o almeno non credo!» rispose Caramon, in tono disgustato. «Tutti i

clienti avevano un aspetto comune e i più sembravano gente come nostro padre, anche se non erano altrettanto grossi».

«Il che è esattamente l'aspetto che dovrebbe avere un buon assassino»,gli fece notare Raistlin.

«Dovrebbe somigliare a nostro padre?».«Certamente, in modo da potersi avvicinare alla sua vittima senza che

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questa si accorga di lui. Che aspetto credevi che avesse un assassino?Pensavi che fosse vestito tutto di nero con un lungo mantello e unamaschera sulla faccia?» domandò Raistlin, in tono sarcastico.

«Ecco... sì», ammise Caramon, dopo un momento di riflessione.«Sei davvero un idiota, Caramon», dichiarò Raistlin.«Suppongo di sì», ammise Caramon, avvilito, e per qualche momento si

contemplò i piedi con aria contrita, sollevando nuvolette di polvere dallastrada. Non era però nella sua natura rimanere a lungo depresso, e dopo unmomento riprese in tono allegro: «Se davvero i tagliagole hanno un'ariatanto comune, allora forse ne ho davvero visto qualcuno!».

«Ciò che hai visto è stata nostra sorella» sbuffò Raistlin. «Cosa ci facevalà? A nostro padre non piacerebbe di certo sapere che lei frequenta posti

del genere».«È quello che le ho detto io», annuì Caramon, con aria virtuosa, «ma lei

mi ha dato uno schiaffo e ha detto che nostro padre non poteva arrabbiarsi per le cose che non sapeva e che io avrei dovuto tenere la bocca chiusa.Quando sono arrivato stava parlando con due uomini, che però se ne sonoandati non appena mi hanno visto, e lei aveva in mano qualcosa chesembrava una mappa. Io ho provato a chiederle cosa fosse, ma mi ha pizzicato il braccio fino a farmi male», proseguì, sfoggiando un livido

rosso e nero, «poi mi ha portato al cimitero e mi ha fatto giurare su unatomba che non avrei mai detto nulla a nessuno se non volevo che una notteo l'altra un non-morto venisse a prendermi».

«Lo hai detto a me», sottolineò Raistlin. «Hai infranto la promessa».«Lei non si riferiva a te!», ribatté Caramon. «Tu sei il mio gemello e

 parlarne con te è come parlarne con me stesso, senza contare che Kitsapeva che te lo avrei detto. In ogni caso, ho giurato a nome di tutti e due,quindi se un non-morto dovesse venire a prendere me prenderà anche te.

Sai, a me non dispiacerebbe vedere un non-morto, Raist, e a te?».Raistlin levò gli occhi al cielo ma non replicò per risparmiare fiato,

consapevole di essere già esausto anche se non era ancora neppure arrivatoalla scuola; nel suo intimo, detestava il proprio corpo fragile che sembravadeciso a frustrare ogni suo piano, a rovinare ogni speranza, a devastareogni desiderio, e come sempre si trovò a scoccare un'occhiata piena digelosia al suo robusto e sano gemello.

La gente narrava che un tempo c'erano stati degli dèi che avevano

governato la razza umana, ma che essi se n'erano andati perché si eranoinfuriati con gli uomini. Prima di svanire, gli dèi avevano scagliato una

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montagna di fuoco su Krynn, devastando il mondo, e poi avevanoabbandonato l'uomo al suo destino. Raistlin non faticava a credere chequella storia potesse essere vera, perché di certo nessun dio dotato di onoreavrebbe mai potuto giocargli uno scherzo tanto crudele, dividendo una sola persona in due e dando ad un gemello una mente senza corpo e all'altro uncorpo senza mente.

Al tempo stesso, sarebbe però stato confortante pensare che ci fosse unamotivazione intelligente, uno scopo, dietro una simile decisione, sarebbestato piacevole sapere che lui e il suo gemello non erano soltanto unoscherzo della natura, che c'erano degli dèi a cui era possibile addossare il biasimo.

Kitiara gli aveva spesso raccontato di come lui per poco non fosse morto

e di come lei gli avesse salvato la vita quando la levatrice le aveva dettoche il neonato aveva ben poco da vivere, lasciando il piccolo solo adesalare l'ultimo pietoso respiro. Nel raccontare la cosa, Kit si mostravasempre un po' seccata che Raistlin non le fosse adeguatamente grato, maessendo dotata a sua volta di un fisico forte non poteva sapere che a volteRaistlin imprecava contro di lei nel cuore della notte, quando il suo corpoardeva per la febbre, i muscoli gli dolevano in maniera intollerabile e la bocca era riarsa da una sete inestinguibile.

Kitiara era però anche l'artefice del suo ingresso nella scuola di magia,cosa che compensava il suo precedente errore.

Adesso tutto ciò che Raistlin si augurava era di riuscire ad arrivare finoalla scuola senza avere prima un collasso.

La sua salvezza risultò essere il carro di un contadino, che li raggiunse dilì a poco. Fermatosi, l'uomo chiese ai due ragazzi dove fossero diretti e pur accigliandosi nel sentire quale fosse la destinazione di Raistlin acconsentìa dare loro un passaggio.

«Hai intenzione di fare questa strada tutti i giorni?» chiese quindi nelguardare Raistlin, che stava tossendo a causa della polvere mista alla pulache si levava dai campi di grano.

«No, signore», rispose Caramon per conto del fratello, che in quelmomento non poteva parlare. «Lui sta andando alla scuola di magia per imparare a fabbricare spade e rimarrà là da solo, perché non mi permetteranno di restare con lui».

«Sentite, ragazzi», propose il contadino, un uomo gentile che aveva a

sua volta dei figli piccoli, «io faccio questa strada tutti i giorni, e se dimattina verrete ad aspettarmi al crocevia potrò darvi un passaggio per poi

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venire a riprendervi al pomeriggio, sulla via del ritorno. In questo modo»,aggiunse, rivolto a Raistlin, «potresti almeno tornare a casa la sera, dallatua famiglia».

«Sarebbe splendido!» esclamò Caramon.«Noi non ti possiamo pagare», disse contemporaneamente Raistlin,

rosso in volto per la vergogna.«Sciocchezze! Non mi aspetto di essere pagato» ribatté il contadino, con

aria decisa, poi scoccò un'occhiata in tralice ai due ragazzi, soffermandosicon lo sguardo sul robusto Caramon, e aggiunse: «Quello che invece mi potrebbe servire è un po' di aiuto nei campi, perché i miei figli sono ancoratroppo piccoli per potermi dare una mano».

«Io potrei lavorare per te», si offrì prontamente Caramon. «Potrei

aiutarti mentre Raistlin è a scuola».«Allora siamo d'accordo».Caramon e il contadino sputarono ciascuno sul proprio palmo e si

strinsero la mano per sigillare l'accordo.«Perché hai acconsentito a lavorare per lui?» domandò Raistlin, una

volta che lui e il fratello si furono sistemati sul retro del carro vuoto, con i piedi che penzolavano appena al di sopra della strada.

«In modo che tu potessi andare e tornare da scuola con il carro», rispose

Caramon. «Perché? C'è qualcosa che non va in questo?».Raistlin si morse la lingua, perché anche se sapeva che avrebbe dovuto

ringraziare il fratello le parole necessarie gli si erano bloccate in gola comeun medicinale dal sapore sgradevole.

«È solo che... ecco, non mi piace che tu lavori a causa mia...».«Suvvia, Raist, noi siamo gemelli» ribatté Caramon, con un allegro

sorriso, assestando al fratello una gomitata nelle costole mentreaggiungeva: «Tu faresti lo stesso per me».

Ripensando a quelle parole, mentre il carretto lo portava verso la Scuola per Maghi del Maestro Theobald, Raistlin non si sentì per nulla certo cheavrebbe davvero fatto altrettanto per suo fratello.

Quel pomeriggio il carretto del contadino passò puntuale a prelevarli e alsuo ritorno a casa Raistlin scoprì che sua madre non si era neppure accortadella sua assenza e che suo padre non aveva ancora fatto ritorno. Kitiaradal canto suo si mostrò sorpresa di vederlo e volle sapere perché fossetornato, irritata come sempre quando i suoi piani venivano frustrati: nella

sua mente lei si era convinta che Raistlin dovesse alloggiare presso lascuola e adesso non era contenta di scoprire che lui aveva invece deciso di

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fare diversamente.Kitiara pretese di sentire due volte la storia del loro incontro con il

contadino, e anche allora continuò a dichiararsi certa che fosse un poco di buono e a mostrarsi furente all'idea che Caramon lavorasse per lui,commentando con disgusto che in questo modo suo fratello sarebbediventato a sua volta un contadino, con gli stivali sporchi di letame inveceche di sangue.

Caramon ribatté che non sarebbe successo nulla del genere e i duediscussero per qualche tempo mentre Raistlin andava a letto a causa diun'emicrania incombente. Quando si svegliò scoprì che la lite era cessata perché Kitiara pareva avere altri pensieri per la mente, come indicava ilfatto che appariva più assorta e irascibile del solito, cosa che indusse i due

ragazzi a tenersi alla larga dalle sue mani. Nonostante tutto lei provvide però a nutrirli, friggendo un po' di pancetta dall'aspetto poco appetitosoche servì insieme a quanto restava del pane ammuffito.

A tarda notte, mentre Kitiara dormiva, le piccole e agili mani di Raistlinsfilarono dalla sua cintura la sacca che vi era appesa e le sue dita dal toccoleggero quanto quello delle zampe di una farfalla ne estrassero ilcontenuto: un lacero foglio di carta e uno spesso pezzo di cuoio ripiegato,che lui portò in cucina per esaminarli alla tenue luce del fuoco che covava

sotto le ceneri.Sul pezzo di carta era disegnato uno stemma di famiglia che raffigurava

una volpe che si ergeva vittoriosa sul corpo di un leone morto, effigieaccompagnata dal motto "Nessuno è troppo possente", sotto il quale erascritto il nome "Matar", mentre sul cuoio era tracciata una rozza mappadella strada che correva fra Solace e Solamnia.

Rapide, le mani di Raistlin ripiegarono la carta e il cuoio, riposero iltutto nella sacca e riattaccarono quest'ultima alla cintura di Kit.

Raistlin badò comunque a non parlare con nessuno di ciò che avevascoperto, perché aveva già imparato che il sapere equivaleva a potere,soprattutto se si trattava della conoscenza dei segreti degli altri.

Il mattino successivo al risveglio scoprì che Kitiara se n'era andata.

CAPITOLO SESTO

 Nella scuola per maghi faceva molto caldo perché un fuoco ruggente che

ardeva nel focolare riscaldava l'aula priva di finestre fino a portarla ad unatemperatura quasi intollerabile, e la voce del Maestro Theobald echeggiava

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monotona e uniforme attraverso le correnti di calore che era possibileveder irradiare dal focolare. L'incantesimo del fuoco era l'unico che ilmaestro riuscisse a utilizzare con effettiva abilità, e lui era sempre prontoad esibire il proprio talento ogni volta che gli era possibile.

Raistlin trovava quel calore meno fastidioso di quanto esso risultasse per gli altri ragazzi, e lo avrebbe addirittura apprezzato se non fosse stato per ilfatto che presto sarebbe dovuto uscire al freddo e in mezzo alla neve: passare da un estremo all'altro e avventurarsi all'esterno con indosso levesti umide di sudore era una cosa che metteva a dura prova il suo fisicofragile, come dimostrava il fatto che stava cominciando soltanto adesso ariprendersi da un mal di gola accompagnato da febbre alta che lo aveva privato della voce per parecchi giorni e lo aveva costretto a restare a casa,

a letto.Perdere giorni di scuola era una cosa che detestava, perché in cuor suo

sapeva di essere più intelligente del Maestro Theobald ed era anche certodi essere un mago migliore di lui; d'altro canto c'erano cose che il maestro poteva insegnargli e che lui aveva bisogno d'imparare, perché il fuocodella magia che gli ardeva dentro come una febbre era doloroso e ciò che ilMaestro Theobald sapeva e che lui ancora ignorava era come controllarequesto fuoco, come indurre la magia ad asservirsi a chi la usava, come

trasporre la febbre in parole che potessero essere scritte e pronunciate,come usarla in modo creativo.

D'altro canto, il Maestro Theobald era un insegnante così inetto chespesso Raistlin aveva l'impressione di essere in agguato, in attesa di calaresulla prima informazione utile che per puro caso fosse giunta nella suadirezione.

Seduti sui loro alti sgabelli, gli allievi si stavano sforzandodisperatamente di restare svegli, cosa tutt'altro che facile dopo

l'abbondante pasto di mezzogiorno; d'altro canto, tutti sapevano che chi sifosse assopito sarebbe stato ridestato dal calare del sottile ramo di salicesulle sue spalle. Pur essendo un uomo grosso e flaccido, il MaestroTheobald sapeva muoversi in fretta e in silenzio quando desiderava farlo, eniente gli piaceva più del sorprendere un allievo a sonnecchiare.

Raistlin aveva parlato con disinvoltura a suo fratello dell'essere statofrustato il primo giorno di scuola, ma da allora aveva continuato a sentirelo schiocco del ramo di salice sulle spalle sottili, un dolore che gli aveva

ferito più l'anima della carne. In precedenza lui non era mai stato percosso,tranne qualche schiaffo occasionale da parte di sua sorella che peraltro era

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stato vibrato con spirito fraterno, per cui anche se a volte Kitiara colpivainvolontariamente più forte del dovuto, entrambi i fratelli sapevano che ciòche contava era l'intenzione che l'aveva mossa.

Il Maestro Theobald vibrava invece il ramo di salice con un bagliorenello sguardo e un sorriso sul volto tali da non far dubitare che infliggere punizioni fosse per lui una cosa piacevole.

«Nel linguaggio della magia», stava dicendo il Maestro Theobald, con lasua voce monotona, «la lettera a non si pronuncia "aa" come nel vernacolocomune e neppure "ah" come nella lingua elfica o "ach" come nella linguadei nani».

"Coraggio, vieni al dunque", pensò con aria avvilita Raistlin. "Smettiladi fare sfoggio del tuo sapere, grosso e vecchio idiota, considerato che

 probabilmente non hai mai parlato con un elfo in tutta la tua vita".«Nel linguaggio della magia, la lettera a si pronuncia "ai"».Raistlin si fece d'un tratto attento, consapevole che quella era una delle

informazioni di cui aveva bisogno, e ascoltò con la massimaconcentrazione mentre il Maestro Theobald ripeteva la pronuncia.

«"Ai". Adesso, giovani signori, ripetetelo insieme a me».Un assonnato coro di ai echeggiò nella stanza soffocante, unito ad un

singolo, deciso ai scandito con fermezza da Raistlin. Di solito, la sua voce

era la più sommessa di tutte perché non gli piaceva attirare su di sél'attenzione, che era in genere dolorosa, ma la sua eccitazione alla prospettiva di imparare qualcosa di utile e il fatto di essere uno dei pochidel tutto svegli e intenti ad ascoltare lo avevano portato a parlare con voce più alta di quanto fosse stata sua intenzione.

Immediatamente ebbe a che pentirsene perché il Maestro Theobald locontemplò con occhi pieni di approvazione... o almeno con quel poco che poteva vedersi degli occhi in mezzo alle sacche di grasso che li

circondavano... e batté con delicatezza il ramo di salice sulla cattedra.«Molto bene, Mastro Raistlin», commentò.I vicini di banco di Raistlin gli scoccarono subito di nascosto occhiate in

tralice da cui lui comprese che gli avrebbero fatto pagare il complimentoricevuto, poi il ragazzo alla sua destra, Gordo, che aveva quasi tredici annie che era stato mandato presso la scuola perché i suoi genitori nonsopportavano più di averlo in casa, si protese verso di lui.

«Ho sentito dire che gli baci il posteriore ogni mattina, "Mastro

Raistlin"», sussurrò, facendo schioccare le labbra in un verso volgare a cuiquanti sedevano nelle sue vicinanze reagirono ridendo sommessamente.

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Sentendo quel ridacchiare represso, il Maestro Theobald si girò verso ilgruppetto e si alzò in piedi, inducendo i ragazzi a tacere immediatamentenel vederlo dirigersi verso di loro con il ramo di salice in pugno; lungo iltragitto, però, il maestro venne distratto dalla vista di un allievo moltogiovane che stava dormendo profondamente, con la testa appoggiata alle braccia e gli occhi chiusi.

Sorridendo, Theobald calò il ramo di salice su quelle piccole spalle el'allievo si raddrizzò di scatto con un grido di sorpresa e di dolore.

«Come ti permetti di dormire durante le mie lezioni?» tuonò il maestroall'indirizzo del giovane colpevole, che si ritrasse di fronte alla sua ira e siasciugò senza parere una lacrima.

 Nel frattempo, Raistlin registrò una certa attività alle proprie spalle, una

sorta di suono strisciante, ma non si prese la briga di girarsi a guardare dicosa si trattava perché il comportamento degli altri allievi gli sembravastupido e meschino, e non riusciva a capire perché essi sprecassero il loro prezioso tempo con simili stupidaggini.

In tono sommesso, ripeté invece fra sé il suono "ai" fino a quando fucerto di aver assimilato la sua pronuncia, e addirittura scrisse lacombinazione di vocali sulla propria lavagna in modo da potersi esercitarein seguito nella sua pronuncia. Assorto nel suo lavoro, ignorò le risate

soffocate che gli echeggiavano intorno e attese che il Maestro Theobaldtornasse alla cattedra dopo aver finito di demoralizzare il bambino che siera addormentato; sedutosi pesantemente, il maestro si accinse quindi ariprendere la lezione.

«La seconda vocale del linguaggio dell'arcano è la o, che non si pronuncia "oo" e neppure "och", bensì "oa". La pronuncia è estremamenteimportante, giovani signori, quindi vi suggerisco di prestare attenzione, perché pronunciare un incantesimo nel modo sbagliato significa che esso

non funzionerà. Mi ricordo che quando ero l'allievo di un grande mago...».Raistlin si agitò in preda all'irritazione nell'accorgersi che il maestro

stava per lanciarsi in uno dei suoi aneddoti, tutte storie noiose e insulse cheservivano invariabilmente ad elogiare il suo mediocre talento per la magia.Raistlin era impegnato a scrivere con cura la lettera o insieme alla sua pronuncia fonetica "oa" quando di colpo lo sgabello gli saettò via di sotto elui crollò al suolo.

La caduta del tutto inattesa fu piuttosto violenta e lui avvertì un'intensa

fitta di dolore lungo il polso di cui si era istintivamente servito per cercaredi puntellarsi mentre alle sue spalle lo sgabello si rovesciava

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rumorosamente al suolo e gli altri ragazzi scoppiavano a ridere per poizittirsi immediatamente allorché il Maestro Theobald scattò in piedi con ilvolto purpureo sullo sfondo delle vesti rosse, tremando di rabbia come unmucchio di budino alla vaniglia.

«Mastro Raistlin! Come mai ti permetti di disturbare la miaspiegazione?» tuonò.

«Si è addormentato ed è caduto dallo sgabello, signore», si affrettò aspiegare Gordo.

Accoccolato al suolo e intento a massaggiare il polso dolorante, Raistlinscoprì intanto il cordino che era stato legato ad una gamba dello sgabello,ma nel momento stesso in cui si protese per afferrarlo esso venne staccatocon uno strattone dallo sgabello rovesciato e scivolò sul pavimento per 

scomparire nella manica di Devon, uno degli amici di Gordo che occupavail banco dietro il suo.

«Si è addormentato! E mi ha interrotto!» esclamò intanto il MaestroTheobald, afferrando il ramo di salice e calando su Raistlin che, nel veder arrivare il colpo incurvò le spalle e sollevò un braccio in modo da proteggersi e da offrire il più ridotto bersaglio possibile.

Il primo colpo del ramo di salice gli lacerò la pelle del braccio sollevato,mancando di stretta misura la faccia, poi il maestro si accinse a colpire

ancora e al tempo stesso Raistlin si sentì pervadere da un'ira intensa edivorante come il fuoco di una fucina, che consumò la sua paura e la suasofferenza, destando in lui l'impulso di scattare in piedi per aggredire a suavolta il maestro.

Un barlume di gelido buon senso gli scivolò però lungo il corpo, e luil'avvertì come una sensazione fisica, una sorta di gelo che gli feceformicolare le terminazioni nervose e gli strappò un brivido nonostante ilcalore rovente della sua furia mentre s'immaginava nell'atto di attaccare il

maestro e si vedeva fare la figura dello stupido... una piccola e debolecreatura dalle braccia sottili che strideva con voce acuta e colpivaimpotente con i pugni minuscoli. La cosa peggiore era però che in questomodo sarebbe passato dalla parte del torto e il Maestro Theobald avrebbetrionfato a sue spese mentre gli altri ragazzi, i suoi tormentatori, avrebberoriso e gongolato.

 No, sarebbe stato lui ad uscire vincitore da quel confronto.Emettendo un sussulto soffocato, Raistlin si accasciò sul pavimento con

gli occhi chiusi e giacque del tutto inerte in posizione supina, con le gambe piegate ad angolo e le ginocchia congiunte, lasciando che una mano gli

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scivolasse sul pavimento e tenendo l'altra ripiegata flaccidamente sul pettomagro; al contempo, si sforzò di rendere il proprio respiro il più lento eleggero che gli fosse possibile.

 Nella sua breve vita gli era capitato molte volte di essere malato esapeva bene come ci si sentisse e come fingere uno stato di malessere,quindi non gli costò fatica giacere immoto, pallido, affranto e all'apparenzasenza vita, ai piedi del maestro.

«Accidenti!» esclamò Devon, il ragazzo che aveva legato il cordino allosgabello. «Lo hai ucciso!».

«Sciocchezze!» ribatté il Maestro Theobald, con voce che suonò peròincrinata, mentre abbassava il ramo di salice. «E... è soltanto svenuto, eccotutto. È svenuto. Gordo...». Interrompendosi, il maestro si schiarì la gola

 prima di riprendere a parlare. «Gordo, va' a prendere un po' d'acqua».L'interpellato si affrettò ad obbedire e Raistlin lo sentì attraversare di

corsa la stanza dal pavimento di pietra e armeggiare vicino al secchiodell'acqua mentre lui continuava a rimanere disteso dov'era caduto,immobile e con gli occhi chiusi, senza emettere il minimo suono,scoprendo al tempo stesso che gli piaceva essere oggetto di tante attenzionie causare negli altri paura e sgomento.

Gordo tornò poi indietro di corsa con il mestolo pieno d'acqua,

rovesciando la maggior parte del suo contenuto sul pavimento e sulla vesterossa del maestro.

«Goffo idiota! Dallo a me!» ordinò il Maestro Theobald, assestando aGordo uno schiaffo e togliendogli di mano il mestolo per poiinginocchiarsi accanto a Raistlin e bagnargli le labbra con estremadelicatezza, chiamandolo per nome con voce sommessa e lamentosa:«Raistlin! Raistlin, riesci a sentirmi?».

Una risata salì gorgogliante nella gola di Raistlin, che fu costretto ad

esercitare una dose spropositata di autocontrollo al fine di reprimerla. Per un minuto ancora rimase del tutto immobile, poi mosse lentamente la testadi qua e di là con un flebile lamento proprio quando cominciava adavvertire la mano del maestro che prendeva a tremare per l'ansia.

«Bene!» commentò il Maestro Theobald, con un sospiro di sollievo. «Sista riprendendo. Indietreggiate, ragazzi, lasciatelo respirare. Adesso lo porterò nel mio alloggio».

Sentendosi sollevare dalle braccia grasse ma forti del maestro, Raistlin

lasciò penzolare inerti le gambe, le braccia e la testa, tenendo gli occhisempre chiusi ed emettendo di tanto in tanto un gemito mentre Theobald lo

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trasportava con ogni cura nel proprio alloggio, seguito da tutti gli altriragazzi nonostante le sue frequenti e rabbiose intimazioni di tornarenell'aula.

Adagiato Raistlin su un divano, il maestro rimandò quindi i ragazzi inclasse, e sbirciando attraverso una palpebra socchiusa Raistlin si accorseche si stava servendo soltanto delle minacce e non del ramo di salice.Allontanati infine i ragazzi, il Maestro Theobald chiamò a gran voce la suaserva e tornò verso il divano mentre Raistlin si decideva infine ad apriregli occhi e badava per un momento a mantenere lo sguardo sfocato primadi spostarlo sul maestro.

«Cosa... cosa è successo?» chiese con voce debole, guardandosi intornocon aria vaga e cercando di sollevarsi. «Dove sono?».

Lo sforzo si rivelò eccessivo per le sue forze e lui ricadde all'indietro suldivano con il respiro affannoso, con il Maestro Theobald che si chinava ascrutarlo con fare ansioso.

«Hai... hai fatto una brutta caduta», spiegò questi, evitando di guardaredirettamente il ragazzo e scoccandogli nervose occhiate in tralice. «Seiscivolato dallo sgabello».

Raistlin abbassò lo sguardo sul braccio, dove un brutto gonfiore rossospiccava sulla pelle pallida, poi fissò negli occhi il maestro.

«Mi fa male il braccio», si lamentò in tono sommesso.Theobald contemplò con imbarazzo il pavimento, poi sollevò lo sguardo

con sollievo quando la donna di mezz'età che si occupava di cucinare, di pulire e di accudire i ragazzi, entrò nella stanza. La serva era estremamente brutta, con la faccia sfregiata e priva di capelli su un lato della testa doveera rimasta ustionata, a quanto si diceva a causa di un fulmine che l'avevasfiorata, cosa che forse spiegava i suoi processi mentali alquanto lenti.

Marm, così era chiamata la donna, teneva pulita la scuola e non aveva

ancora avvelenato nessuno con la sua cucina, ma questo era tutto ciò che di buono si poteva dire sul suo conto, e i ragazzi sussurravano fra loro che leifosse il risultato di uno degli incantesimi del Maestro Theobald che nonera andato per il verso giusto, e che lui la tenesse presso di sé per un sensodi colpa.

«Il ragazzo ha fatto una brutta caduta, Marm», spiegò il MaestroTheobald. «Vorresti prenderti cura di lui? Io devo tornare in classe».

Scoccata un'ultima ansiosa occhiata a Raistlin, il maestro lasciò quindi la

stanza, facendo appello a quanto restava del suo orgoglio per riuscire adassumere una posa eretta.

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La serva intanto se ne andò a sua volta per tornare di lì a poco con un panno freddo e bagnato che sbatté sulla fronte di Raistlin, e con un biscottoche gli mise in mano. Il panno era troppo bagnato e grondava acqua untache stava colando negli occhi di Raistlin, mentre il biscotto aveva il fondo bruciato e sapeva di carbone, ma Marm non parve badarci e con ungrugnito lasciò Raistlin a se stesso per tornare a ciò che stava facendo...che a giudicare dall'acqua unta doveva essere il lavaggio dei piatti.

 Non appena lei se ne fu andata, Raistlin si tolse dalla fronte il panno bagnato e lo gettò da un lato con aria disgustata per poi buttare il biscottonel focolare, dove ardeva il solito onnipresente fuoco, quindi si adagiòcomodamente sul divano, annidandosi fra i morbidi cuscini e ascoltando lavoce del maestro, che aveva ripreso ad echeggiare in tono più dimesso e

che era chiaramente udibile attraverso la porta aperta.«La lettera u si pronuncia "uh". Ripetete con me».«"Uh"» - mormorò Raistlin fra sé, in tono compiaciuto, e nell'osservare

le fiamme che consumavano un ceppo sorrise fra sé.Il Maestro Theobald non avrebbe mai più provato a picchiarlo.

CAPITOLO SETTIMO

Quel giorno la lezione riguardava l'esatto uso della penna, perché unmago non doveva essere soltanto in grado di pronunciare correttamente le parole della magia ma anche di scriverle nel modo giusto, dando ad ognilettera la sua giusta forma. Le parole dell'arcano dovevano essere stilatesulla pergamena con precisione, esattezza, ordine e cura, altrimenti nonavrebbero funzionato: per esempio, se avesse scritto la parola shirak con laa schiacciata e la k storta, un mago intenzionato ad ottenere luce sarebberimasto al buio.

Com'è proprio della natura goffa dei bambini, per lo più gli allievi delMaestro Theobald erano tutt'altro che abili nella scrittura, le penne d'ocache dovevano appuntire personalmente avevano la tendenza a rompersi o agocciolare, a piegarsi o a schizzare via dalle loro dita contratte, con ilrisultato che invariabilmente i ragazzi finivano per sporcare loro stessi piùche scrivere sulla pergamena, quando non rovesciavano addirittura ilcalamaio come succedeva piuttosto frequentemente.

Qualsiasi visitatore che fosse entrato nell'aula durante i pomeriggi

dedicati agli esercizi di scrittura avrebbe potuto immaginare di esserefinito per errore nell'Abisso nel trovarsi di fronte a innumerevoli piccoli

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demoni dal volto e dalle mani sporchi d'inchiostro.Un pensiero di questo genere affiorò nella mente di Antimodes nel

momento stesso in cui varcò la porta dell'aula, accompagnato dal fugacericordo dei giorni che lui stesso aveva trascorso in un'aula di scuola,evocato soprattutto dall'odore di tutti quei piccoli corpi scaldatieccessivamente dal fuoco, della zuppa di cavolo che avevano mangiato per  pranzo, dell'inchiostro e della cartapecora calda.

«L'arcimago Antimodes», annunciò la serva, o almeno cercò di farlo dalmomento che riuscì a storpiare completamente il nome del mago.

Antimodes si soffermò sulla soglia e subito dodici piccoli volti accaldati,sporchi d'inchiostro e frustrati si sollevarono a fissarlo con occhi pieni disperanza, augurandosi di trovare in lui un salvatore che li liberasse da

quella fatica senza speranza. Un tredicesimo volto si sollevò quindi conmaggiore lentezza degli altri, concentrando la propria attenzione sulvisitatore soltanto dopo aver ultimato il lavoro a cui era intento.

Antimodes si sentì molto soddisfatto nel constatare che quel volto particolare era quasi del tutto pulito, tranne per una macchia d'inchiostrolungo il sopracciglio sinistro, e che la sua espressione non era tanto disollievo quanto piuttosto di irritazione per essere stato interrotto mentrelavorava.

L'irritazione si dissolse peraltro in fretta non appena il volto in questionericonobbe Antimodes, che a sua volta lo aveva già riconosciuto.

 Nel frattempo il Maestro Theobald si affrettò ad alzarsi in piedi, formalee noioso, insicuro e geloso come sempre. Theobald non provava nessunasimpatia per Antimodes perché sospettava, a ragion veduta, che questi sifosse opposto alla sua nomina a maestro della scuola e avesse votatocontro di lui nel Conclave. Antimodes era peraltro stato messo inminoranza perché Par-Salian in persona aveva presentato

un'argomentazione irrefutabile a favore di Theobald, e cioè il fatto chequesti era il solo candidato e che comunque non poteva essere utilizzato innessun'altra veste.

Perfino gli amici di Theobald erano concordi nel ritenere che lui nonsarebbe mai stato un mago più che mediocre, mentre altri fra cuiAntimodes si chiedevano come fosse mai riuscito a superare la Prova,argomento su cui Par-Salian si dimostrava sempre evasivo ogni volta cheAntimodes lo sollevava, inducendo così l'arcimago a supporre che

Theobald fosse stato aiutato a superare la Prova a patto che accettasse lacarica di insegnante, un lavoro che nessun altro voleva.

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Antimodes non aveva potuto offrire un suggerimento migliore in quantolui stesso avrebbe preferito andare al Monte Non Importa per istruire glignomi nell'uso dei fuochi d'artificio piuttosto che insegnare la magia ad un branco di mocciosi umani, e alla fine era stato costretto ad allinearsi conriluttanza al parere della maggioranza.

Con il passare del tempo, Antimodes aveva poi dovuto ammettere chePar-Salian e gli altri avevano avuto ragione perché pur non essendo unmaestro particolarmente abile, Theobald era almeno in grado di provvedere a che i suoi ragazzi - le ragazze avevano una loro scuola aPalanthas, gestita da una maga appena più competente di Theobald -imparassero le necessarie nozioni di base. Senza dubbio Theobald nonsarebbe mai riuscito ad accendere il sacro fuoco del sapere nello studente

medio, ma sarebbe riuscito ad attizzarlo negli animi in cui esso già ardeva.A causa della presenza dei bambini, i due maghi furono costretti a

salutarsi con una fittizia patina di cordialità.«Come stai, signore?».«E tu come stai, mio caro signore?».Antimodes si mostrò cortese nei suoi saluti e non mancò di elogiare

l'aspetto dell'aula, per quanto dal suo punto di vista essa fosse calda inmodo intollerabile, afosa e sporca; dal canto suo, il Maestro Theobald lo

accolse con la massima cordialità, certo che Antimodes fosse statomandato da Par-Salian per controllare il suo operato, e pieno di amarorisentimento di fronte alla disinvoltura con cui l'arcimago sfoggiava unosplendido mantello di lana d'agnello di ottima qualità il cui costo dovevaequivalere al salario di un anno di un insegnante.

«Allora, arcimago, le strade sono ancora intasate dalla neve?» domandò.«No, no, maestro, sono del tutto percorribili, anche nel nord».«Allora arrivi dal nord, arcimago?».

«Da Lemish», rispose con disinvoltura Antimodes, che in effetti si eraspinto molto più a nord di quella bizzarra cittadina boschiva ma non avevanessuna intenzione di discutere dei propri viaggi con Theobald.

Quest'ultimo, che non amava affatto viaggiare, inarcò un sopraccigliocon aria contrariata e manifestò la propria disapprovazione volgendo lespalle al visitatore e ponendo così fine alla conversazione.

«Ragazzi», annunciò, «è mio grande onore presentarvi l'ArcimagoAntimodes, un mago delle Vesti Bianche».

I ragazzi risposero in coro con un saluto pieno di entusiasmo.«Ci stavamo esercitando nella scrittura», proseguì Theobald, «ma la

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lezione stava per volgere al termine. Ti andrebbe forse di vedere qualcunodei nostri lavori, arcimago?».

In realtà Antimodes era interessato ad un allievo soltanto, ma si misecomunque a gironzolare con aria solenne fra i banchi contemplando confalso interesse le lettere che avevano ogni forma possibile tranne quellagiusta e una partita a X e O che il giocatore aveva cercato invano dinascondere rovesciandovi sopra il calamaio.

«Non c'è male», commentò Antimodes, «non c'è proprio male. Alcuni diquesti ragazzi sono davvero... creativi». Mentre parlava arrivò infine al banco di Raistlin, che era stato dall'inizio la sua meta effettiva, earrestandosi accanto ad esso aggiunse con effettiva sincerità eapprovazione: «Un buon lavoro».

Un ragazzo alle spalle di Raistlin emise un verso volgare che indusseAntimodes a girarsi di scatto.

«Mi dispiace, signore», si scusò il ragazzo, con aria all'apparenzacontrita. «Abbiamo mangiato cavolo per pranzo».

Antimodes sapeva benissimo che il rumore non era stato provocato dalcavolo e cosa esso implicasse, e si rese subito conto dell'errore commessonel ricordare come fossero soliti comportarsi i ragazzini... da giovane luistesso era stato un soggetto alquanto irrequieto. Non avrebbe mai dovuto

lodare apertamente Raistlin, perché gli altri ragazzi erano gelosi einvidiosi, e adesso si sarebbero vendicati su di lui.

Con l'intento di rettificare il proprio errore, l'arcimago decise dievidenziare qualche sbaglio commesso dal suo pupillo, dopo tutto nessunoera perfetto, e tornò a spostare lo sguardo su Raistlin scoprendo così sullesue labbra un sorriso soddisfatto che poteva quasi essere definito unsogghigno.

Stupito, Antimodes trattenne le parole che era stato sul punto di

 pronunciare, rischiando quasi di strozzarsi per riuscirci: tossendo, si schiarìla gola e riprese a camminare fra i banchi anche se da quel momento la suaattenzione si rivolse interiormente e lui guardò ogni cosa senza vederladavvero fino a quando si venne a trovare di nuovo a faccia a faccia conTheobald e si rese conto di essere ancora nell'aula.

«Oh... ehm... i tuoi allievi hanno svolto davvero un buon lavoro, MaestroTheobald, proprio buono», disse, fermandosi di colpo con un sussulto. «Senon ti dispiace, adesso mi piacerebbe parlarti in privato».

«Non dovrei assentarmi dalla classe...».«Soltanto per un momento. Sono certo che questi eccellenti giovani

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signori provvederanno a studiare per conto loro durante la tua assenza»,insistette Antimodes, rivolgendo un sorriso agli allievi.

In realtà era perfettamente consapevole che quegli eccellenti giovanisignori avrebbero invece approfittato dell'opportunità per giocare a biglie,tracciare disegni osceni sulle pergamene da esercitazione e sporcarsi avicenda con l'inchiostro.

«Vorrei che mi dedicassi soltanto un momento del tuo tempo, MaestroTheobald», ribadì, con il massimo rispetto.

Accigliandosi, Theobald uscì con passo pesante dall'aula e precedette ilvisitatore nel suo alloggio privato, chiudendo la porta e girandosi per fronteggiare Antimodes.

«Allora, signore, ti prego di essere rapido».

«Se non ti dispiace, Maestro Theobald, mi piacerebbe parlareindividualmente con ciascuno degli allievi e porre loro qualche domanda»,disse Antimodes, sentendo il finimondo che si stava già scatenandonell'aula.

Il Maestro Theobald accolse le sue parole inarcando le sopracciglia inmodo tanto deciso da dare l'impressione che esse stessero per staccarglisidalla testa, poi le contrasse con aria accigliata sopra le palpebre gonfie eassunse un'espressione piena di sospetto: in tutti i suoi anni

d'insegnamento non era mai capitato che un arcimago si fosse preso ildisturbo di visitare la sua scuola e tanto meno di richiedere di conferire in privato con gli studenti, quindi la conclusione a cui poteva giungere erauna soltanto, e lui piombò su di essa a piè pari.

«Se il Conclave non trova soddisfacente il mio lavoro...» cominciò, intono altezzoso.

«Tutt'altro, lo apprezza moltissimo», si affrettò a rassicurarloAntimodes. «Si tratta soltanto di una ricerca che sto portando avanti»,

aggiunse, agitando una mano con fare noncurante. «Sto indagando suimotivi filosofici che inducono i giovani a scegliere di dedicare il lorotempo a questo particolare genere di studi».

Il Maestro Theobald si limitò a sbuffare in tono incredulo.«Ti prego di mandarli qui uno per volta», ribadì comunque Antimodes.Sbuffando ancora, Theobald girò sui tacchi e tornò con passo pesante

nell'aula, mentre Antimodes prendeva posto su una sedia e si chiedevacosa mai avrebbe potuto dire a quei marmocchi. In effetti, lui desiderava

 parlare con un allievo soltanto, ma non osava favorire nuovamenteRaistlin; di conseguenza stava ancora riflettendo su quel dilemma quando

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il primo allievo, il ragazzo più grande della scuola, entrò nella stanza e siarrestò davanti a lui con aria imbarazzata e dimessa.

«Mi chiamo Gordo, signore», si presentò, con un goffo inchino.«Allora, Gordo, ragazzo mio», replicò Antimodes, altrettanto

imbarazzato ma deciso a nascondere il proprio stato d'animo, «come pensidi incorporare l'uso della magia nella tua vita di ogni giorno?».

«Ecco, s... signore», balbettò Gordo, manifestamente sconcertato, «adire il vero non lo so».

Antimodes si accigliò e il ragazzo si mise subito sulla difensiva.«Io sono qui soltanto perché mia madre mi obbliga a venirci», protestò.

«Non voglio avere nulla a che fare con la magia».«E cosa vorresti fare?».

«Voglio diventare un macellaio», fu pronto a rispondere Gordo.«Forse», sospirò Antimodes, «dovresti parlare con tua madre e spiegarle

la cosa».«Ci ho provato», rispose il ragazzo, scrollando le spalle. «Non importa,

signore, rimarrò qui fino a quando sarò abbastanza grande da farel'apprendista, poi lascerò la scuola».

«Ti ringrazio, apprezziamo la tua considerazione», ribatté Antimodes, intono asciutto. «Per favore, mandami il prossimo ragazzo».

Al termine del quinto colloquio, l'antipatia che Antimodes nutriva neiconfronti del Maestro Theobald si era trasformata in una profondacompassione e al tempo stesso lui si sentiva allarmato e sgomento, inquanto nei quindici minuti di conversazione con quei cinque ragazzi avevaappreso più di quanto avesse scoperto nel corso di cinque mesi di viaggi per Ansalon.

L'arcimago era consapevole - cosa di cui lui e Par-Salian discutevanospesso - che i maghi erano visti con sospetto e diffidenza dalla popolazione

in generale, ma riteneva che questa fosse una cosa giusta perché la magiadoveva essere sempre ammantata da un alone di mistero, gli incantesimidovevano poter ispirare reverenza e una giusta dose di timore.

In quei ragazzi lui non aveva però riscontrato né reverenza né timore, eneppure molto rispetto. Senza dubbio avrebbe potuto attribuirne la colpa alMaestro Theobald, che con ogni probabilità era in parte responsabile del problema in quanto non faceva nulla per ispirare i suoi allievi, per elevarlial di sopra della fangosa ignoranza quotidiana in cui si crogiolavano, ma

era peraltro consapevole che non si trattava soltanto di questo. Nella scuola non c'erano figli di nobili, e per quanto gli risultava i figli

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dei nobili erano ben pochi in tutte le scuole di magia di Ansalon. Soltantofra gli elfi lo studio della magia era considerato un tipo di apprendimentoadeguato alle classi superiori, che peraltro venivano scoraggiate daldedicare ad esso la loro vita, come dimostrava il fatto che Re Lorac erastato uno degli ultimi elfi di sangue reale a sottoporsi alla Prova. I piùerano invece come Gilthanas, il figlio minore del Portavoce del Sole diQualinesti, che sarebbe stato un mago eccellente se avesse dedicato deltempo allo studio della magia ma che si limitava ad un interessesuperficiale per quell'arte, rifiutando di votarsi ad essa e di assoggettarsialla Prova.

Quanto agli umani, i bambini presenti nella scuola provenivano per lo più dalla classe media, il che di per sé non era un male considerato che lo

stesso Antimodes aveva origini di questo tipo. Lui però era almeno statoconsapevole di quello che voleva ed era stato disposto a lottare per ottenerlo, dal momento che i suoi genitori erano del tutto contrari all'ideache lui si dedicasse allo studio della magia, mentre questi bambini eranostati mandati qui perché i loro genitori non sapevano che altro fare di loroe li avevano avviati allo studio della magia perché non li ritenevano capacidi fare niente altro.

Possibile che i maghi fossero tenuti davvero in così bassa

considerazione?Depresso, Antimodes si raggomitolò sulla poltrona imbottita, che aveva

trascinato il più lontano possibile dal fuoco, e rifletté su quelleconsiderazioni, sentendo crescere la depressione che lo affliggeva fin daquando era andato a Solamnia.

I Cavalieri e le loro famiglie si erano mostrati cortesi come lo sarebberocomunque stati con qualsiasi viandante umano abbiente e dai modieducati, lo avevano invitato a fermarsi nelle loro dimore e gli avevano

servito carni arrostite e vini eccellenti, intrattenendolo con i loromenestrelli... ma mai una volta avevano discusso di magia o gli avevanochiesto di aiutarli con i suoi incantesimi o accennato in qualche modo alfatto che lui era un mago. Quando Antimodes aveva provato a parlare dellacosa essi si erano limitati a reagire con un vago sorriso e a cambiareargomento. Pareva quasi che ai loro occhi lui soffrisse di una sorta dideformità o di malattia: i Cavalieri erano troppo cortesi ed educati per evitarlo o per offenderlo apertamente, ma al tempo stesso Antimodes era

stato consapevole delle loro occhiate in tralice quando non si erano resiconto di essere osservati: la verità era che lui li disgustava.

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E adesso l'arcimago si sentiva a sua volta disgustato di se stesso, perché per la prima volta si stava vedendo attraverso gli occhi di questi bambini esi rendeva conto della sottomissione con cui aveva accettato il freddotrattamento dei Cavalieri, cercando di ottenere il loro favore nel modomeno dignitoso immaginabile, al punto che nel corso di quel viaggio nonaveva tirato fuori dal bagaglio la sua veste bianca neppure una volta ed eragiunto a sfilarsi dalla cintura le sacche colme dei componenti per gliincantesimi e a nascondere sotto il letto la custodia con le pergamene.

«Alla mia età avrei dovuto comportarmi meglio», si disse in tono acido.«Ho fatto senza dubbio la figura dello stolto e loro devono aver levato gliocchi al cielo e sospirato di sollievo quando me ne sono andato. È davveroun bene che Par-Salian non sappia nulla di tutto questo... sono proprio

contento di non avergli fatto cenno della mia intenzione di andare aSolamnia».

«Ben ritrovato, arcimago», salutò in quel momento una voce infantile.Sbattendo le palpebre, Antimodes tornò al presente e si accorse che

Raistlin era entrato nella stanza. L'arcimago aveva atteso con impazienzaquesto incontro perché fin da quando lo aveva conosciuto quel ragazzoaveva destato in lui un acuto interesse, e le conversazioni con gli altri bambini erano state soltanto una scusa per poter incontrare in privato

questo ragazzino davvero straordinario. Le sue recenti scoperte lo avevano però devastato a tal punto che ora non riusciva a trarre nessun piacere dal parlare infine con l'unico studente che dimostrava almeno un minimo di propensione per la magia.

Che futuro si prospettava per questo ragazzo? Un futuro in cui i maghivenivano lapidati? Con non poca amarezza, l'arcimago pensò che se nonaltro la popolazione aveva avuto paura di Esmilla, la Maga dalla Veste Nera, e la paura sottintendeva di per sé una certa dose di rispetto. Quanto

sarebbe stato peggio se la gente si fosse limitata a ridere di lei! Era dunquequesta la sorte a cui si stavano avviando, quella di vedere l'uso della magiafinire nelle mani di frustrati aspiranti macellai?

In quel momento, Raistlin emise un lieve colpetto di tosse e si agitònervosamente, e d'un tratto Antimodes si rese conto che aveva continuato afissarlo in silenzio abbastanza a lungo da metterlo a disagio.

«Ti chiedo scusa, Raistlin», disse, segnalando al ragazzo di venireavanti. «Ho viaggiato molto e sono stanco, senza contare che il mio

viaggio non è stato del tutto soddisfacente».«Me ne dispiace, signore», replicò Raistlin, fissando l'arcimago con quei

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suoi occhi azzurri che erano troppo maturi e troppo saggi.«Volevo anche scusarmi per aver lodato il tuo lavoro, di là nell'aula»,

aggiunse Antimodes, con un sorriso contrito. «Avrei dovuto sapere chenon era il caso di farlo».

«Perché, signore?» domandò il ragazzo, in tono perplesso. «Il miolavoro non era forse buono quanto tu hai detto?».

«Ecco, i tuoi compagni di classe... non avrei dovuto mostrare un particolare interesse per te. Sai, conosco i ragazzi della tua età e temo didover ammettere di essere stato un vero discolo. La mia paura è che possano comportarsi male con te».

«Sono ignoranti», replicò Raistlin, scrollando le spalle sottili.«Uhm... ecco...», borbottò Antimodes, accigliandosi con aria di

disapprovazione, perché se da un lato non c'era nulla di male che lui, unadulto, fosse di questo parere, d'altro canto gli pareva in qualche modosbagliato, sleale, sentire lo stesso parere dalle labbra di un bambino.

«Non riescono a salire al mio livello», proseguì intanto Raistlin, «quindimi vogliono far abbassare al loro e a volte... mi fanno male» concluse,fissando Antimodes con i suoi occhi azzurri limpidi e scintillanti come ilsole sul ghiaccio.

«Mi... mi dispiace» mormorò Antimodes, consapevole che era

un'affermazione insulsa ma al tempo stesso tanto sconcertato dallafreddezza e dalle intelligenti osservazioni di questo bambino da nonriuscire a pensare a nulla di più pertinente.

«Non ti dispiacere per me!» esplose Raistlin, con un impeto d'ira simileal divampare del fuoco sul ghiaccio, poi tornò a scrollare le spalle eaggiunse con maggiore calma: «A me non importa, perché in realtà è unasorta di complimento. Loro mi temono».

 La popolazione aveva avuto paura di Esmilla, la Maga dalla Veste

 Nera, e la paura sottintendeva di per sé una certa dose di rispetto. Quanto sarebbe stato peggio se la gente si fosse limitata a ridere di lei!

 Nel rammentare i propri pensieri di poco prima, che stavano oratrovando eco in quella voce infantile, l'arcimago sentì un brivido correrglilungo la schiena perché un bambino non avrebbe dovuto essere tantosaggio, non avrebbe dovuto essere costretto a sopportare già ad una cosìgiovane età il fardello di una saggezza tanto cinica.

«È un colpo del martello», affermò intanto Raistlin, con un sorriso.

«Ripenso spesso a quello che mi hai detto, signore, al modo in cui i colpidi martello forgiano l'anima e l'acqua la tempra. Io però non piango, o se lo

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faccio bado che loro non mi possano vedere», concluse in tono di voce piùduro.

Antimodes lo fissò stupefatto e confuso: una parte di lui volevaabbracciare questo precoce bambino, mentre un'altra parte avrebbe volutoafferrarlo e scagliarlo nel fuoco, schiacciarlo come avrebbe fatto con unuovo di vipera, e quella dicotomia di emozioni lo stava sconvolgendo al punto che fu costretto ad alzarsi in piedi e a gironzolare per la stanza per un po' prima di sentirsi in grado di riprendere la conversazione.

Raistlin intanto attese con pazienza, in silenzio, che il mago finisse diconcedersi lo strano e inesplicabile comportamento che spesso era propriodegli adulti, distogliendo al tempo stesso lo sguardo da Antimodes per fissarlo con avidità sugli scaffali carichi di libri.

Quel particolare ricordò ad Antimodes qualcosa che era statointenzionato a dire al ragazzo e che aveva poi quasi dimenticato a causadella sconvolgente conversazione che avevano avviato. Tornato sulla poltrona, si protese in avanti con aria seria.

«C'è una cosa che ti volevo dire, giovanotto: ho avuto modo d'incontraretua sorella quando ero... nel corso dei miei viaggi».

«Kitiara?» esclamò Raistlin, riportando su di lui lo sguardo ora caricod'interesse. «L'hai vista?».

«Sì, e posso dirti che sono rimasto notevolmente stupito perché non miaspettavo... ecco, una ragazza di quell'età...».

L'arcimago s'interruppe, non sapendo esattamente come proseguire, maRaistlin comprese lo stesso.

«Lei se n'è andata da casa poco tempo dopo che io ero entrato in questascuola, arcimago», replicò. «Credo che volesse andarsene già da tempo mache fosse preoccupata per Caramon e per me, soprattutto per me. Senzadubbio pensa che adesso io possa badare a me stesso».

«Sei ancora un bambino che ha soltanto sei anni», gli ricordò Antimodesin tono severo, ritenendo che la precocità di Raistlin si stesse spingendo un po' troppo oltre.

«Ma sono in grado di badare a me stesso», ribadì Raistlin, mentre quelsorriso simile a un sogghigno che Antimodes aveva già notato in precedenza tornava ad affiorargli sulle labbra, accentuandosi quandoattraverso la porta si sentì chiaramente echeggiare la voce stentorea delMaestro Theobald. «Kitiara è tornata a casa per un paio di mesi, prima che

arrivasse l'inverno», proseguì quindi il ragazzo. «Ha dato a nostro padre un po' di denaro per pagarsi il vitto e l'alloggio, insistendo perché lo prendesse

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e dichiarando che non voleva più accettare nulla da lui. Kitiara aveva alfianco una vera spada, sporca di sangue secco, e ha dato una spada anche aCaramon, ma nostro padre si è arrabbiato e gliel'ha tolta. Kitiara non èrimasta a casa a lungo. Dove l'hai vista?».

«Non ricordo con esattezza il nome di quel posto», rispose Antimodes, badando a rimanere evasivo. «Queste piccole città si somigliano tutte,dopo un po'. Lei era in una taverna con alcuni... compagni».

Il mago si trattenne a stento dal dire che si era trattato di compagni pocoraccomandabili perché non voleva turbare il bambino che apparivasinceramente affezionato alla sorellastra. In realtà aveva visto Kitiara inmezzo ad un gruppo di mercenari del genere peggiore, uomini chevendevano la loro spada e che erano disposti a vendere anche l'anima se

incontravano qualcuno pronto ad acquistarla.«Lei mi ha raccontato una storia sul tuo conto», proseguì quindi il mago,

in modo da non dare al bambino l'opportunità di fare altre domande. «Miha detto che quando tuo padre ti ha portato per la prima volta qui presso ilMaestro Theobald tu sei entrato nella biblioteca, questa stessa stanza, e tisei seduto a leggere un libro di magia».

In un primo momento Raistlin si mostrò stupito, poi sfoggiò un sorrisoche non era il sogghigno di poco prima ma un'espressione da monello che

aiutò Antimodes a ricordare che in effetti il suo interlocutore era soltantoun ragazzo di sei anni.

«Una cosa del genere non sarebbe stata possibile», replicò poi Raistlin,scoccando ad Antimodes un'occhiata in tralice. «Sto imparando soltantoadesso a leggere e a scrivere la magia».

«So che non è possibile», annuì Antimodes, sorridendo a sua volta,consapevole che quando lo voleva quel ragazzo riusciva ad essere davveroaccattivante, «ma allora da cosa può essere derivata una storia del

genere?».«Da mio fratello», rispose subito Raistlin. «Eravamo nell'aula e mio

 padre e il maestro stavano discutendo della mia ammissione alla scuola, perché il maestro non mi voleva accettare».

«Come lo sai?» chiese Antimodes, inarcando le sopracciglia. «Lo hadetto apertamente?».

«Non proprio, però ha detto che non ero stato allevato nel modo giusto,che avrei dovuto parlare soltanto quando mi si rivolgeva la parola, tenere

lo sguardo basso e non "fissarlo in modo sfacciato". Ha detto anche che ioero impertinente, troppo loquace e irrispettoso».

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«In effetti lo sei, Raistlin», ammonì Antimodes, ritenendo che fossedoveroso da parte sua. «Dovresti dimostrare un maggiore rispetto per ilmaestro e per i tuoi compagni di classe».

Raistlin accantonò il maestro e i compagni con una scrollata di spalle e proseguì con la sua storia.

«Dopo un po' mi sono seccato di sentire mio padre che continuava ascusarsi per me, quindi io e Caramon siamo andati in esplorazione e siamoarrivati qui. Io ho prelevato un libro dallo scaffale, ma era soltanto un librocon gli incantesimi da addestramento, perché so che il maestro tiene quelli più potenti chiusi a chiave in cantina».

La voce del bambino era fredda e seria, nei suoi occhi scintillavaun'evidente avidità di sapere che allarmò Antimodes e lo indusse a

 prendere mentalmente nota della necessità di avvertire Theobald che i suoi preziosi libri d'incantesimi non erano ben riposti quanto lui credeva.

«È possibile che io abbia detto a Caramon che il libro era autentico...non lo ricordo», continuò intanto Raistlin, tornando ad essere un bambinoqualsiasi e sfoggiando nuovamente il suo sorriso da monello. «In ognicaso, il Maestro Theobald è entrato a precipizio, sbuffante e furibondo, miha rimproverato per aver girovagato e aver "invaso la sua privacy", equando si è accorto che stavo guardando il libro si è infuriato ancora di più

anche se io non stavo leggendo nessun incantesimo perché non ero ingrado di farlo».

«Tuttavia», proseguì Raistlin, scoccando ad Antimodes un'occhiataastuta, «in città c'è un illusionista di nome Waylan, che pare utilizzi lamagia, ed io ho memorizzato alcune delle parole che lui impiega. So chegli incantesimi non possono funzionare, ma li uso per divertirmi quandogli altri ragazzi giocano alla guerra. Quel giorno, Caramon si è eccitato eha detto a nostro padre che io stavo per evocare un demone dall'Abisso, al

che il Maestro Theobald è diventato veramente rosso in faccia e mi hatolto di mano il libro. Lui sapeva che non ero in grado di leggerlo, mavoleva una scusa per liberarsi di me», precisò con freddezza.

«Il Maestro Theobald ti ha accettato nella sua scuola e non si è "liberatodi te", per usare le tue parole», obiettò Antimodes, in tono severo. «Inoltrequello che hai fatto è stato sbagliato, perché non avresti dovuto prendere illibro senza il suo permesso».

«Ha dovuto accettarmi perché qualcuno aveva già pagato perché fossi

iscritto», precisò Raistlin in tono piatto, e fissò con estrema durezzaAntimodes che, essendosi aspettato qualcosa del genere, badò ad assumere

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un'espressione di blanda innocenza.Avendo infine incontrato qualcuno in grado di stargli alla pari, il

 bambino distolse lo sguardo e lo spostò sugli scaffali di libri, contraendoun angolo della bocca.

«È possibile che Caramon abbia raccontato ogni cosa a Kitiara. Sai, eradavvero convinto che avrei evocato un demone, ma del resto lui è come unkender e crede a qualsiasi cosa gli si dica».

«Vuoi bene a tuo fratello?» domandò impulsivamente Antimodes.«Certamente, è il mio gemello», rispose con blanda scioltezza Raistlin.«Già, voi  siete gemelli», annuì Antimodes, con aria riflessiva. «Mi

chiedo se tuo fratello abbia del talento per la magia. Sembrerebbelogico...».

D'un tratto s'interruppe, confuso e sconcertato di fronte all'occhiata cheRaistlin gli aveva scoccato e che lo colpì con un impatto quasi fisico, comese lui gli avesse sferrato un pugno... anzi, lo avesse trafitto con un coltello.

Sgradevolmente sorpreso dalla malevolenza che stava scorgendo nellosguardo del bambino, Antimodes si ritrasse: la sua era stata una domandaretorica e innocua, e di certo non si era aspettato una reazione del genere.

«Posso tornare in classe, signore?» chiese intanto Raistlin in tonocortese; adesso il suo volto era tornato ad avere un'espressione normale,

 pur apparendo ancora alquanto pallido.«Uh, sì... io... uh... mi ha fatto piacere rivederti», replicò Antimodes.Senza commenti, Raistlin gli rivolse il cortese inchino che veniva

insegnato a tutti i ragazzi e si diresse alla porta, aprendola e avviandosi per tornare nell'aula.

Un'ondata di chiasso e di calore accompagnata da un odore di bambini,di cavolo bollito e d'inchiostro, penetrò nella biblioteca e indusseAntimodes a pensare al riversarsi della marea sulle spiagge sporche di

Flotsam, poi la porta si richiuse alle spalle del ragazzo.Per un lungo momento Antimodes rimase del tutto immobile sulla

 poltrona. Riprendersi gli riuscì inizialmente difficile perché continuava avedere quegli occhi azzurri taglienti come lame che scintillavano in predaall'ira e gli trapassavano la carne con il loro sguardo. Alla fine, rendendosiconto che la giornata stava volgendo al termine e ricordandosi della propria intenzione di trascorrere la notte alla Locanda dell'Ultima Casa, sicostrinse a liberarsi dell'effetto della sgradevole scena e fece ritorno

nell'aula per congedarsi dal Maestro Theobald.Al suo ingresso, Raistlin non sollevò neppure la testa.

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Il successivo tragitto lungo la strada in sella alla placida Jenny, in mezzoa campi tinti di verde e cosparsi dei primi boccioli primaverili ebbel'effetto di lenirgli l'anima, e quando infine arrivò alla locanda si sentì perfino pronto a ridere di se stesso con contrizione, ammettendo di aver sbagliato a porre una domanda tanto personale e accantonando l'incidentecon una scrollata di spalle. Sistemata Jenny nelle stalle pubbliche, sidiresse quindi alla locanda, dove annegò le sue preoccupazioni nell'ottimosidro al miele di Otik e dormì profondamente per la prima volta da unmese.

Per molti anni dopo quell'incontro Antimodes non vide più Raistlin, pur mantenendo un vivo interesse nei suoi confronti e tenendosi aggiornato sul

 progredire dei suoi studi. Ogni volta che veniva convocato il Conclave deiMaghi, Antimodes aveva cura di cercare il Maestro Theobald per interrogarlo su quel particolare allievo, e al tempo stesso continuò a pagaregli studi del ragazzo e a ritenere che fosse denaro ben investito a giudicaredai progressi che il suo pupillo stava facendo.

Al tempo stesso non dimenticò però mai la domanda che gli aveva postoin merito al suo gemello... e neppure come Raistlin aveva risposto ad essa.

LIBRO SECONDO

 Io lo farò. Nella mia vita nulla ha importanza tranne questo momento,il solo che esista per me: sono nato in questo momento,

e se dovessi fallire esso sarà anche quello della mia morte.RAISTLIN MAJERE

CAPITOLO PRIMO

«Raist, sono qui!» chiamò Caramon, agitando la mano dall'alto del carroda contadino che stava guidando; tredicenne, ma tanto alto e ampio dispalle che spesso veniva creduto più maturo, era diventato il miglior lavorante del Fattore Sedge.

I suoi capelli ricciuti formavano morbidi cerchi ramati intorno allafronte, gli occhi erano allegri, cordiali e innocenti, gli occhi di uncredulone, e lui era l'idolo dei bambini che lo adoravano, così come lo

adoravano tutti gli imbroglioni, i mendicanti e gli artisti da quattro soldiche passavano da Solace. Insolitamente forte per la sua età, Caramon

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aveva peraltro un carattere insolitamente gentile ma poteva essere terribilenella sua ira se veniva provocato; tuttavia, la sua miccia era sepolta così in profondità e impiegava così tanto tempo ad accendersi, che di solito lui sirendeva conto di essere infuriato soltanto quando la lite si era già conclusada tempo.

Le uniche occasioni in cui essa esplodeva subitanea e incontenibile eraquando qualcuno minacciava il suo gemello.

Lieto di vedere Caramon, di vedere un qualsiasi volto amico, Raistlinsollevò a sua volta la mano in risposta al grido del fratello.

Sette inverni prima, Raistlin aveva deciso di alloggiare presso la scuoladel Maestro Theobald nel corso dei mesi più freddi dell'anno, unasistemazione che aveva comportato per i due gemelli la prima separazione

da quando erano nati.Da allora erano trascorsi sette inverni nei quali Raistlin era rimasto

lontano da casa e i gemelli si erano ricongiunti a primavera, quando il soleveniva a sciogliere la neve e faceva spuntare le prime foglie e i primi boccioli dorati sui vallenwood.

Ormai da tempo Raistlin aveva rinunciato alla speranza che un giornonel guardarsi allo specchio si sarebbe visto come l'immagine del proprioavvenente gemello; con i suoi lineamenti fini, gli occhi grandi e i morbidi

capelli rossicci che gli scendevano fino alle spalle, Raistlin sarebbe statosenza dubbio il più avvenente dei due se non fosse stato per i suoi occhi,che trattenevano troppo a lungo lo sguardo degli altri, vedevano troppo etroppo in profondità, e contenevano sempre una vaga espressione didisprezzo, dovuta al fatto che lui vedeva con chiarezza le menzogne, gliartifici e le assurdità delle persone e ne era al tempo stesso divertito edisgustato.

Saltato giù dal carro, Caramon abbracciò con entusiasmo il gemello, che

 però non restituì l'abbraccio e si servì della scusa del fagotto di vestiti cheteneva con entrambe le mani per evitare un'aperta manifestazione d'affettoche gli appariva al tempo stesso poco dignitosa e irritante. Anche se il suocorpo s'irrigidì in reazione all'abbraccio, Caramon non se ne accorse acausa del proprio entusiasmo, affrettandosi ad afferrare il fardello diRaistlin e a gettarlo sul retro del carro.

«Vieni, ti aiuto io», si offrì quindi.Raistlin dal canto suo cominciò a pensare di non essere forse tanto lieto

di vedere il suo gemello quanto aveva inizialmente creduto, perché avevadimenticato quanto Caramon riuscisse a volte ad essere irritante.

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«Sono del tutto capace di salire su un carro senza bisogno di aiuto»,ribatté.

«Oh, certo, Raist», sorrise Caramon, per nulla offeso.Era troppo stupido per offendersi.Raistlin si arrampicò quindi sul carretto e Caramon balzò a cassetta,

afferrando le redini e facendo schioccare le labbra per indurre il cavallo agirarsi e ad avviarsi lungo la strada in direzione di Solace.

«Chi sono quelli?» chiese d'un tratto, girandosi di scatto a guardare indirezione della scuola.

«Non badare a loro, fratello», consigliò Raistlin in tono sommesso.Le lezioni erano finite e come sempre il maestro aveva approfittato di

quel momento della giornata per "meditare", il che significava che era

 possibile trovarlo nella biblioteca con accanto un libro chiuso e una bottiglia aperta di quel vino di porto per cui Ergoth Settentrionale erafamoso, uno stato meditativo in cui lui sarebbe rimasto fino all'ora di cena,quando la governante sarebbe andata a svegliarlo. In teoria, i ragazziavrebbero dovuto usare quel tempo per studiare, ma il Maestro Theobaldnon controllava mai cosa facessero e questo significava che erano lasciati aloro stessi. Quel giorno, un gruppetto di allievi si era raccolto sul retrodella scuola per salutare Raistlin.

«Ciao, Furbacchione!» stavano gridando all'unisono, guidati da unragazzo alto con i capelli rosso carota e il volto coperto di lentiggini, cheera giunto da poco alla scuola.

«Furbacchione!» ripeté Caramon, guardando verso il fratello. «Siriferiscono a te, vero?» aggiunse quindi, aggrottando le sopracciglia inun'espressione seccata mentre faceva fermare il carro.

«Caramon, lascia perdere», consigliò Raistlin, posando una mano sul braccio muscoloso del fratello.

«Invece non lo farò, Raist», ribatté Caramon, serrando i pugni che per un tredicenne erano davvero formidabili. «Non dovrebbero offenderti inquel modo!».

«Caramon, no!» ordinò però Raistlin, in tono brusco. «Mi occuperò io diloro a mio modo e a tempo debito».

«Ne sei certo, Raist?» insistette Caramon, scoccando un'occhiata roventein direzione del gruppetto di ragazzi. «Non ti potranno più insultare seavranno le labbra spaccate».

«Non potranno farlo oggi, forse, ma domani io dovrò comunque tornarequi», gli fece notare Raistlin. «Avanti, avvia il carro, voglio arrivare a casa

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 prima che scenda il buio».Caramon obbedì, come faceva sempre quando il gemello gli impartiva

un ordine: come era pronto ad ammettere allegramente, fra loro due il pensatore era Raistlin e da tempo Caramon aveva finito per dipenderedalla guida del gemello nella maggior parte delle aree della sua vita,compresi i giochi che facevano con gli altri ragazzi, come Palla Orchetto,Tieni Lontano il Kender e Thane Sotto la Montagna. A causa della salutemalferma, Raistlin non poteva partecipare a questi giochi esuberanti maosservava con attenzione il loro svolgersi e con la sua mente rapidaelaborava strategie vincenti che confidava al fratello.

Senza i consigli di Raistlin, Caramon tendeva a segnare per errore dei punti a favore degli avversari in Palla Orchetto, finiva invariabilmente per 

rivestire il ruolo del kender in Tieni Lontano il Kender e in Thane Sotto laMontagna cadeva costantemente vittima delle tattiche militari del piùmaturo Sturm Brightblade; quando invece Raistlin era presente aricordargli qual era l'estremità giusta del campo di gioco o a suggerirglischemi astuti con cui sconfiggere gli avversari, accadeva spesso cheCaramon uscisse vincitore dai giochi.

Incitato di nuovo il cavallo a mettersi in movimento, Caramon feceavviare il carro lungo la strada segnata da solchi e alle loro spalle i

richiami cessarono ben presto, perché i ragazzi si erano ormai stancati diquel divertimento.

«Non capisco perché non hai lasciato che li pestassi», protestò Caramon.«Perché», rispose silenziosamente Raistlin, «sapevo benissimo cosa

sarebbe successo e come sarebbe andata a finire: tu li avresti pestati adovere, per usare la tua elegante definizione, poi li avresti aiutati arialzarsi, avresti assestato loro una pacca sulla schiena affermando che non portavi rancore, e alla fine sareste diventati tutti ottimi amici... tutti tranne

me, tranne il Furbacchione. No, questa è una lezione che impartirò a modomio, e allora loro scopriranno cosa significhi essere furbi».

Raistlin avrebbe probabilmente continuato a rimuginare e a elaborare piani in silenzio, meditando sui torti subiti, se non fosse stato per suofratello, che prese a parlare dei loro genitori, dei loro amici e del climaeccellente. Quel giorno l'aria era calda e tiepida, pervasa del profumo delle piante in crescita che si mescolava all'odore del cavallo e del fieno appenatagliato, aromi decisamente migliori del puzzo di cavolfiore e di ragazzi

che si lavavano soltanto una volta alla settimana.Raistlin inspirò a fondo quell'aria calda e fragrante senza mettersi a

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tossire, e mentre il sole diffondeva nel suo corpo un piacevole calore sitrovò ad ascoltare con divertimento la conversazione del fratello.

«Nostro padre è lontano da tre settimane e con ogni probabilità torneràsoltanto alla fine del mese. La mamma si è ricordata che oggi tu sarestitornato a casa», riferì Caramon, scoccando un'occhiata in tralice algemello. «Sai, sta molto meglio ultimamente, Raist, al punto che tiaccorgerai anche tu del cambiamento. È così da quando la Vedova Judithha preso l'abitudine di venire a tenerle compagnia durante le sue giornate più brutte».

«La Vedova Judith?» ripeté Raistlin, in tono tagliente. «Chi è questaJudith? E cosa vuol dire che tiene compagnia alla mamma durante le suegiornate più brutte? Cosa fate tu e nostro padre?».

«Questo è stato un inverno duro, Raist», spiegò Caramon, agitandosi adisagio sul sedile. «Tu eri lontano, e nostro padre doveva lavorare, non poteva smettere perché altrimenti saremmo morti di fame. Quando ilFattore Sedge è rimasto bloccato dalla neve e non ha più avuto bisogno dime, mi sono procurato un lavoro alle stalle, dove nutrivo i cavalli erimuovevo il letame. Abbiamo cercato di lasciare la mamma da sola, ma...ecco, non ha funzionato: un giorno lei ha rovesciato una candela senzaaccorgersene e per poco non ha bruciato la casa. Abbiamo fatto del nostro

meglio, Raist».Raistlin non ribatté e sprofondò in un iroso silenzio, furente con suo

 padre e con suo fratello che non avrebbero dovuto affidare la mamma allecure di un'estranea, e con se stesso perché riteneva che non avrebbe dovutolasciarla.

«La Vedova Judith è davvero gentile, Raist», continuò intanto Caramon,sulla difensiva. «Nostra madre la trova molto simpatica, e come ti ho dettosta molto meglio da quando c'è lei. Judith viene ogni mattina, aiuta la

mamma a vestirsi e le pettina i capelli, poi le fa mangiare qualcosa e simette a cucire o a fare altri lavori con lei, parlandole di continuo eimpedendole di avere le sue crisi... scusa, volevo dire che le impedisce dientrare in trance», si corresse Caramon, guardando il fratello con aria piena di disagio.

«Di cosa parlano?» volle sapere Raistlin.«Non lo so... cose di donne, immagino», rispose Caramon, mostrandosi

sorpreso. «Non le ho mai ascoltate».

«E come possiamo permetterci di pagare questa donna?».«Non la paghiamo, Raist, è questo il bello!» sorrise Caramon. «Lei non

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vuole nulla in cambio».«Da quando in qua accettiamo la carità?» insistette Raistlin.«Non è carità, Raist. Noi ci siamo offerti di pagare, ma lei non vuole

nulla perché aiutare gli altri fa parte della sua religione. Si tratta di quelnuovo ordine sorto ad Haven, di cui abbiamo sentito parlare... i Belzoriti, oqualcosa del genere. Lei è una di loro».

«Tutto questo non mi piace, perché nessuno fa niente per niente»,dichiarò Raistlin. «Cosa vuole questa donna?».

«Cosa vuole? Cosa potrebbe volere, considerato che la nostra casa non pullula certo di gioielli? La Vedova Judith è soltanto una persona gentile,Raist... fai tanta fatica a crederlo?».

A quanto pareva, Raistlin faticava davvero a convincersi, perché

continuò a porre domande.«Come vi siete imbattuti in questa "persona gentile," fratello mio?» volle

sapere.«In effetti è stata lei a venire da noi», rispose Caramon, dopo aver 

impiegato un momento a ricordare. «Un giorno si è presentata alla porta eha detto di aver sentito che nostra madre non si sentiva bene. Sapendo chenoi uomini dovevamo andare a lavorare», spiegò Caramon, manifestandoun certo orgoglio nell'usare la formula plurale, «si è offerta di tenere

compagnia alla mamma durante la nostra assenza. Ha detto di essere unavedova con figli adulti che vivevano per conto loro e di sentirsi quindi asua volta sola. Inoltre ha spiegato che il Sommo Sacerdote di Belzor ordina ai suoi seguaci di aiutare gli altri».

«Chi è Belzor?» domandò Raistlin, in tono sospettoso.Ormai perfino la proverbiale pazienza di Caramon si era esaurita.«L'Abisso mi è testimone che non lo so, Raistlin!» sbottò. «Chiediglielo

tu stesso, però bada di essere gentile con lei perché è ci stata molto utile,

d'accordo?».Raistlin non si prese neppure la briga di rispondere e scivolò in un cupo

silenzio meditabondo.Lui stesso non aveva idea del perché quella notizia lo avesse sconvolto

tanto: forse era soltanto una conseguenza del proprio senso di colpa per aver abbandonato sua madre alle cure di un'estranea, ma al tempo stessoaveva la sensazione che in quella faccenda ci fosse qualcosa che nonquadrava. Suo padre e Caramon erano troppo fiduciosi, troppo pronti a

credere nella bontà della gente, e di conseguenza erano facili da ingannare,mentre lui era convinto che nessuno potesse dedicare la propria giornata

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alla cura di un'altra persona senza trarne un guadagno di qualche tipo. Nessuno.

«Non sei arrabbiato con me, vero, Raist?» domandò d'un trattoCaramon, scoccando al fratello un'occhiata ansiosa e preoccupata. «Midispiace di averti risposto male, ma... ecco, tu non hai ancora conosciuto lavedova, e...».

«Sembri godere di ottima salute, fratello mio», lo interruppe Raistlin,che non voleva sentir parlare ancora della Vedova Judith.

«Sono cresciuto di dodici centimetri dallo scorso autunno», dichiaròCaramon, ergendosi con orgoglio sulla persona. «Nostro padre mi hamisurato a ridosso dello stipite della porta. Adesso sono più alto di tutti inostri amici, perfino di Sturm».

Raistlin si era già accorto della cosa, e non aveva potuto fare a meno diconstatare che Caramon non era più un bambino: nel corso di quell'invernosi era trasformato in un giovane avvenente: robusto, alto per la sua età, conuna massa di capelli ricciuti e con grandi occhi castani di un'onestà quasiintollerabile. Caramon era d'indole allegra e cordiale, cortese con gliadulti, pronto a divertirsi e a stare in compagnia, ed era sempre disposto aridere di uno scherzo anche se ne era lui stesso la vittima. Grazie a questesue doti, era considerato un amico da ogni persona giovane di Solace, dal

severo e in genere introverso Sturm Brightblade ai bambinetti del fattoreSedge, che chiedevano sempre di essere trasportati sulle sue ampie spalle.

In quanto agli adulti, i loro vicini e in particolare le donne provavanocompassione per quel ragazzone così solo e lo invitavano di continuo a pranzo con la loro famiglia; considerato che lui non rifiutava mai un pastoche gli veniva offerto anche se aveva appena finito di mangiare, Caramonera probabilmente il ragazzo meglio nutrito di tutta Solace.

«Ci sono notizie di Kitiara?» domandò infine Raistlin.

«Non abbiamo saputo nulla per tutto l'inverno», rispose Caramon,scuotendo il capo. «Ormai è passato un anno dall'ultima volta che abbiamoavuto suo notizie. Credi, voglio dire, forse è morta...».

I due fratelli si scambiarono una lunga occhiata che rese evidente la lorosomiglianza, che di solito passava inosservata, poi scossero entrambi ilcapo e infine Caramon scoppiò a ridere.

«D'accordo, non è morta. Ma in tal caso, dov'è?».«A Solamnia», replicò Raistlin.

«Cosa?» esclamò Caramon, stupefatto. «Come fai a saperlo?».«Dove altro potrebbe essere andata, considerato che era decisa a cercare

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suo padre o almeno la sua famiglia?».«Perché dovrebbe avere bisogno di loro?» obiettò Caramon. «Lei ha

noi».Raistlin si limitò a sbuffare senza rispondere.«In ogni caso, tornerà a prenderci», continuò Caramon, con sicurezza.

«Tu andrai con lei, Raistlin?».«Forse, dopo che avrò superato la Prova».«La Prova? È come quelle a cui ci sottopone nostro padre?» domandò

Caramon, con aria indignata. «Basta sbagliare una sola, miserabileaddizione e si viene mandati a letto senza cena. In questo modo una persona potrebbe morire di fame! E poi, che se ne fa un guerrierodell'aritmetica?» rincarò, sferzando l'aria con una spada immaginaria con

tanto vigore da spaventare il cavallo. «Ehi! Ooops. Scusami, Bess, midispiace. Immagino che potrei aver bisogno di conoscere l'aritmetica per  poter contare le teste di tutti gli orchetti che ucciderò o quanti pezzi di tortatagliare, ma niente di più. Di certo non mi serviranno i quadrati, i dividendie i divisori e tutte quelle altre cose».

«In tal caso crescerai ignorante quanto un nano dei fossi», ribatté in tonofreddo Raistlin.

«Non m'importa» dichiarò Caramon, battendogli una pacca sulla spalla.

«Potrai sempre calcolare tu i quadrati al mio posto».«Potrebbe arrivare un tempo in cui io non ti sarò più accanto, Caramon»,

avvertì Raistlin in tono quieto.«Noi staremo sempre insieme, Raist», replicò compiacente Caramon.

«Noi siamo gemelli, io ho bisogno di te per calcolare i quadrati e tu hai bisogno che mi occupi di te».

Raistlin sospirò interiormente, ammettendo suo malgrado che Caramonaveva ragione e pensando che dopo tutto non sarebbe stato poi così brutto

combinare la forza del suo gemello con la forza della propria mente...«Ferma il carro!» ingiunse d'un tratto.Sorpreso, Caramon assestò uno strattone alle redini e fece arrestare il

cavallo.«Cosa c'è? Devi urinare? Hai bisogno che venga con te? Cosa

succede?».«Resta qui e aspettami, non ci metterò molto», rispose Raistlin,

scendendo dal carro.

Atterrato sulla strada di terra battuta se ne allontanò per addentrarsi nelfitto dei cespugli e delle erbacce, al di là dei quali c'era un campo di grano

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che ondeggiava come un lago dorato che si riversasse contro una rivacoperta di pini verde scuro. Spingendo di lato con impazienza le erbacce,Raistlin cercò quella chiazza bianca che aveva intravisto dall'alto del carroe finalmente l'individuò: fiori bianchi dai petali cerei che si allargavanosullo sfondo di ampie foglie verde scuro dai bordi seghettati e coperte disottili filamenti. Arrestandosi, esaminò la pianta e l'identificò senzadifficoltà, riflettendo al tempo stesso su come fare per raccoglierla senzadanni. Dopo un momento tornò di corsa al carro.

«Cosa c'è?» domandò Caramon, allungando il collo nel tentativo divedere meglio. «Hai trovato un serpente?».

«È una pianta» rispose Raistlin mentre allungava la mano all'interno delcarro e afferrava il proprio fagotto di indumenti, prelevandone una camicia

e tornando alla pianta che aveva trovato.«Una pianta...» ripeté intanto Caramon, con aria perplessa, poi s'illuminò

in volto e chiese: «È commestibile?».Senza replicare, Raistlin s'inginocchiò accanto alla pianta con la camicia

avvolta intorno alla mano destra, usando la sinistra per staccare dallacintura un piccolo coltello; muovendosi con cautela in modo da evitare chela mano esposta entrasse in contatto con i filamenti che coprivano lefoglie, ne tagliò quindi alcune dallo stelo, raccogliendole con la mano

 protetta dalla camicia per poi trasportarle con cautela fino al carro.«Tutto per un mucchietto di foglie?» esclamò Caramon, fissandolo con

sconcerto.«Non le toccare!» avvertì Raistlin.«Perché no?» chiese Caramon, ritraendo di scatto la mano.«Vedi quei piccoli filamenti che coprono le foglie?».«Fila... cosa?».«Dei peli... quei sottili peli sulle foglie. Questa pianta si chiama "ortica",

e se tocchi le foglie ti farà venire delle vesciche sulla pelle. È una cosamolto dolorosa, e a volte ci sono persone che hanno una reazione tantoviolenta da morirne».

«Accidenti!» esclamò Caramon, sbirciando le foglie di ortica sparse sulfondo del carro. «A cosa ti serve una pianta del genere?».

«Io studio le piante», rispose Raistlin, tornando a salire a cassetta.«Ma potresti farti del male», protestò Caramon. «Perché vuoi studiare

una cosa che potrebbe farti del male?».

«Tu ti eserciti con quella spada che Kitiara ti ha portato. Ricordi la prima volta che hai provato ad usarla? Per poco non ti sei staccato un

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 piede!».«Ho ancora la cicatrice», ammise con aria contrita Caramon. «Sì,

suppongo che tu abbia ragione».Da quel momento i due fratelli parlarono di altri argomenti, con

Caramon che portava avanti la maggior parte della conversazione,raccontando le novità successe a Solace: chi era arrivato in città e chi sen'era andato, chi era nato e chi era morto; oltre alle piccole avventure delloro gruppo di amici, costituito dai bambini con cui erano cresciuti.Caramon passò quindi alla notizia più sensazionale di tutte: un kender siera stabilito a Solace, lo stesso che aveva causato tanta agitazione durantela fiera e che adesso era andato a vivere insieme al burbero nano chelavorava i metalli. Quest'ultimo si era infuriato e aveva protestato ma

aveva dovuto rassegnarsi perché l'unico modo per liberarsi del kender, che pareva prossimo ogni giorno a fare una fine prematura per questo o quelmotivo, sarebbe stato annegarlo. Mentre Caramon parlava Raistlin loascoltava in silenzio, lasciando che la voce del fratello si riversasse su dilui, riscaldandolo come il tiepido sole primaverile.

Al tempo stesso le chiacchiere allegre e distratte di Caramon ebberol'effetto di cancellare almeno in parte il timore che lui provava all'idea ditornare a casa e di rivedere sua madre, la cui salute gli appariva sempre più

cagionevole. Gli inverni la prosciugavano e le stroncavano le forze, edogni primavera al suo ritorno lui la trovava un po' più pallida, un po' piùmagra, un po' più immersa nel suo mondo di sogno. Quanto al fatto chequesta Vedova Judith la stesse davvero aiutando, ci avrebbe credutoquando lo avesse visto con i propri occhi.

«Se vuoi posso lasciarti al crocevia, Raistlin, perché devo lavorare neicampi fino al tramonto», disse infine Caramon. «Oppure puoi venire conme e riposare nel carro fino all'ora di andare a casa. In questo modo

 potremo tornare indietro insieme a piedi».«Verrò con te, fratello mio», rispose in tono pacato Raistlin.Caramon arrossì per la soddisfazione e cominciò a parlare della famiglia

del fattore Sedge e dei suoi bambini.A Raistlin non interessava minimamente quella gente, ma era soddisfatto

di aver rinviato il momento in cui sarebbe dovuto tornare a casa e di aver fatto in modo di non essere solo quando infine avesse rivisto Rosamun,senza contare che aveva anche reso felice Caramon. Del resto, bastava così

 poco a farlo felice!Lanciando un'occhiata alle foglie di ortica che aveva raccolto, Raistlin si

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accorse che stavano cominciando ad avvizzire a causa del sole e provvidead avvolgerle con cura nella camicia per proteggerle.

«Jon Farnish», chiamò il Maestro Theobald, seduto come sempre allasua cattedra, davanti agli allievi. «Il compito che ti ho assegnato era diraccogliere sei erbe che potessero essere usate come componenti per incantesimi. Vieni avanti e mostraci cosa hai trovato».

Jon Farnish, con i capelli rossi puliti e pettinati, e con il voltolentigginoso atteggiato ad un'espressione solenne e studiosa, almeno finchéera in presenza del maestro, scese dall'alto sgabello e si portò sul davantidella classe, inchinandosi al Maestro Theobald che rispose con un sorriso eun cenno del capo perché aveva preso in simpatia quel ragazzo

lentigginoso che non mancava mai di mostrarsi estremamenteimpressionato ogni volta che lui usava anche il più insignificante fra gliincantesimi.

Volgendo le spalle al maestro in modo da fronteggiare i compagni diclasse, Jon Farnish intanto roteò gli occhi, gonfiò le guance e incurvòverso il basso gli angoli della bocca in modo da creare una caricatura delmaestro, con il risultato che gli altri ragazzi si nascosero la bocca per celare il riso o si affrettarono a distogliere lo sguardo. Uno di essi scoppiò

addirittura in una risata che cercò di trasformare in un colpo di tosse, con ilrisultato di finire quasi per strozzarsi.

«Silenzio, per favore», ingiunse il Maestro Theobald, accigliandosi.«Jon Farnish, non lasciarti infastidire da questi individui chiassosi».

«Cercherò di evitarlo, maestro», rispose Jon Farnish.«Continua, per favore».«Sì, maestro», assentì Jon Farnish, infilando la mano destra nella sacca

che teneva nella sinistra. «La prima pianta che ho raccolto...».

All'improvviso il ragazzo s'interruppe, trattenne il respiro con unsussulto poi urlò di dolore e scagliò al suolo la sacca, agitando la manodestra.

«Qualcosa... qualcosa mi ha punto!» balbettò. «Ow! Brucia come ilfuoco! Ow!».

Con le lacrime che gli scorrevano lungo le guance infilò la mano destrasotto l'ascella sinistra e prese a saltellare per l'agonia davanti all'interaclasse.

Adesso soltanto uno dei suoi compagni stava sorridendo.Alzandosi in piedi, il Maestro Theobald si affrettò ad avvicinarglisi e gli

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afferrò la mano, esaminandola ed emettendo infine un grugnito seccato.«Va' in cucina e chiedi alla cuoca di darti un po' di burro da spalmarci

sopra», ordinò.«Ma cos'è stato?» annaspò il ragazzo, fra un gemito e l'altro. «Una

vespa? Un serpente?».Raccolta la sacca, il maestro sbirciò al suo interno.«Sciocco ragazzo, hai raccolto delle foglie di ortica. Forse d'ora in poi

starai più attento durante le lezioni. Adesso va' e smettila di piagnucolare.Raistlin Majere, vieni avanti».

Raistlin si avvicinò alla cattedra e rivolse un cortese inchino al maestro prima di girarsi per fronteggiare i compagni di classe, lasciando vagare losguardo per l'aula mentre gli altri lo fissavano a loro volta con aria cupa e

con le labbra serrate per poi distogliere lo sguardo di fronte alla suaespressione trionfante.

Loro sapevano. Loro avevano capito.Infilando una mano nella propria sacca, Raistlin esibì alcune foglie

fragranti.«La prima pianta di cui parlerò oggi è la maggiorana, una spezia così

chiamata in onore di uno degli antichi dèi, Majere...».

CAPITOLO SECONDO

I primi giorni dell'estate in cui Raistlin aveva tredici anni furonoinsolitamente caldi, al punto che le foglie dei vallenwood pendevano inertie flosce nell'aria afosa, e il sole abbronzò la pelle di Caramon e scottòquella di Raistlin nel corso del viaggio avanti e indietro da scuola che essicompivano quotidianamente sul carro del fattore.

A scuola, gli allievi si mostravano distratti e intontiti a causa del caldo,

trascorrendo le loro giornate a combattere contro le mosche e ad assopirsisoltanto per essere risvegliati dai colpi di ramo di salice del MaestroTheobald. Alla fine, perfino il maestro stesso dovette riconoscere che conquel caldo era impossibile ottenere risultati degni di questo nome, senzacontare che era prossimo un Conclave dei Maghi a cui lui desiderava partecipare, quindi concesse agli allievi una vacanza di otto settimane,comunicando che la scuola sarebbe ripresa in autunno, dopo il raccolto.

Raistlin fu grato di quella vacanza, che avrebbe almeno costituito un

cambiamento nella routine quotidiana, ma non aveva ancora trascorso acasa un intero giorno che già si trovava a desiderare di essere di nuovo a

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scuola, e nel ricordare le provocazioni degli altri allievi, la zuppa di cavoloe il Maestro Theobald si chiese per quale motivo non fosse contento diessere a casa, rendendosi infine conto che non sarebbe stato felice danessuna parte perché si sentiva irrequieto e insoddisfatto.

«Hai bisogno di una ragazza», gli consigliò Caramon.«Non credo proprio», ribatté Raistlin, in tono acido, lanciando

un'occhiata in direzione di tre sorelle che stavano fingendo di essereimpegnate a stendere il bucato sui rami del vallenwood ma che nonstavano dedicando la loro attenzione a gonne e camicie, e continuavanoinvece a guardare in direzione di Caramon e a lanciargli sorrisi. «Ti rendiconto di quanto apparite sciocchi tu e gli altri, fratello mio? Gonfiate il petto, flettete i muscoli, scagliate le asce contro gli alberi oppure vi

 prendete a pugni a vicenda e per che cosa? Soltanto per ottenerel'attenzione di una ragazza!».

«Io ottengo qualcosa di più della loro attenzione, Raistlin», replicòCaramon, con una strizzata d'occhio. «Vieni con me e ti presenterò a Lucy,che ha detto di trovarti piacevole».

«Anch'io ho gli orecchi, Caramon», precisò con freddezza Raistlin. «Ciòche lei ha detto è stato che trovava piacevole il tuo fratellino».

«Non intendeva quello che pensi, Raist», protestò Caramon, arrossendo

 per il disagio. «Lei non sapeva che eravamo gemelli, e quando le hospiegato che abbiamo la stessa età e...».

Raistlin gli volse le spalle e si allontanò. Le parole sventate di quellaragazza lo avevano ferito in profondità, causandogli un dolore che loirritava perché in realtà voleva essere tanto superiore da non interessarsi aquello che gli altri pensavano di lui. La colpa era tutta del suo corpotraditore, che prima lo aveva danneggiato con la sua fragilità e la sua salutecagionevole, e adesso lo torturava con vaghi desideri che non riusciva

neppure a comprendere e che considerava comunque disgustosi: a suo parere, Caramon si stava comportando come un cervo durante la stagionedegli amori.

In ogni caso le ragazze, o il fatto di non averne una per sé, non erano ilsuo problema principale, di cui non riusciva a discernere la natura.

Una notte la calura cessò poi di colpo con una violenta tempesta, eRaistlin rimase sveglio nel letto a osservare i fulmini che scaturivano dallenubi ribollenti con spettrali bagliori arancione e rosa, godendo del fragore

dei tuoni che scuotevano i vallenwood e vibravano attraverso il pavimento.Poi ci fu un bagliore accecante seguito da una violenta esplosione, da un

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odore di zolfo e da un fragore di legno infranto, segno che il fulmine si eraabbattuto poco lontano. Di lì a poco grida di allarme che avvertivano delloscoppio di un incendio echeggiarono soffocate dal frastuono dei tuoni esubito Caramon e Gilon uscirono sotto la pioggia torrenziale per aiutare acombattere le fiamme in quanto esse erano il peggior nemico di Solace:anche se gli alberi di vallenwood erano più resistenti al fuoco dellamaggior parte delle altre piante, un incendio incontrollato avrebbe potutoinfatti distruggere l'intera città. Raistlin intanto rimase accanto a suamadre, che stava piangendo e continuava a chiedere perché suo marito nonera rimasto a casa a confortarla mentre Raistlin osservava il progrediredelle fiamme con il libro d'incantesimi stretto sotto il braccio nel caso chelui e sua madre avessero dovuto darsi alla fuga.

La tempesta cessò all'alba, lasciandosi alle spalle un solo albero distruttoe tre abitazioni bruciate anche se per fortuna le famiglie erano fuggite intempo e nessuno era rimasto ferito. Intorno, il terreno era cosparso difoglie e di rami, l'aria era intrisa dell'odore nauseante del fumo e del legnoumido, e tutti i ruscelli e i torrenti che scorrevano nelle vicinanze dellacittà erano straripati. I campi che fino al giorno prima erano riarsi per lacalura erano adesso inondati.

Uscito di casa per verificare i danni, come stavano facendo praticamente

tutti gli abitanti di Solace, Raistlin si avviò lungo il limitare della foresta eindugiò a contemplare il torrente il cui livello stava salendo sempre più:nel fissare quelle acque di solito placide ed ora ribollenti, schiumose edecise a consumare rabbiosamente le rive che per tanto tempo le avevanotenute confinate, Raistlin si sentì in perfetta sintonia con esse.

Giunse l'autunno, portando giorni freddi e pungenti, notti rischiaratedalle lune piene e una marea di rossi e di tinte dorate. Il frusciare e ilvorticare delle foglie che cadevano non contribuì certo a migliorare

l'umore di Raistlin e il cambiamento di stagione, quella malinconia fra ildolce e l'amaro che era propria dell'autunno, che portava con sé sia ilraccolto sia le prime gelate, servirono soltanto ad esacerbare il suo cattivoumore.

Quel giorno lui sarebbe tornato a scuola e avrebbe ripreso a risiedere presso il Maestro Theobald, e stava aspettando quel momento con la stessaansia con cui aveva atteso quello di tornare a casa, perché, se non altro, sitrattava di un cambiamento che avrebbe dato al suo cervello qualche altra

cosa da fare a parte tormentarlo con immagini di riccioli dorati, di dolcisorrisi, di seni rigogliosi e di ciglia maliziose.

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L'alba di tardo autunno sorse gelida, con la brina che scintillava sullefoglie rosse e oro dei vallenwood e copriva i ponti di legno rendendoliscivolosi e infidi fino a quando il sole non li avesse asciugati. Sopra iPicchi delle Sentinelle le nubi incombevano grigie e basse, e nell'aria siavvertiva già l'odore della neve, segno che sulle montagne avrebbecominciato a nevicare entro la fine della settimana.

Preparandosi a partire, Raistlin ripose in una sacca alcuni vestiti: duecamicie fatte in casa, biancheria, un paio di mutandoni di scorta e calzinidi lana. La maggior parte di quegli indumenti erano nuovi, fatti per lui dasua madre, e in effetti ne aveva avuto bisogno perché quell'estate eracresciuto fino a raggiungere la statura di Caramon, anche se gli mancavasempre la mole del suo più massiccio fratello con il risultato che la più alta

statura serviva soltanto a sottolineare la sua eccessiva magrezza.«Cosa stai facendo, figlio?» chiese Rosamun, entrando nella stanza e

soffermandosi ad osservarlo con i suoi sbiaditi occhi azzurri.Sollevando lo sguardo con fare guardingo, Raistlin constatò che i

morbidi capelli castani di sua madre erano spazzolati, pettinati e raccolti inmodo ordinato sotto un cappellino; quel giorno lei indossava una gonna eun corpetto puliti sopra una nuova blusa che si era cucita da sola sotto laguida della Vedova Judith.

 Nel sentire il suono della voce di sua madre, Raistlin si era irrigiditoistintivamente ma adesso si rilassò nel constatare che quella era un'altradelle sue buone giornate. A dire il vero, Rosamun non aveva più avuto unagiornata di crisi durante tutta l'estate, cosa di cui Raistlin supponeva sidovesse ringraziare la Vedova Judith.

Personalmente, lui non sapeva come classificare quella donna. Al suorientro era stato pronto a diffidare di lei, si era aspettato di scoprire sul suoconto qualcosa di nefasto, un motivo egoistico che la inducesse a mostrarsi

tanto disponibile, ma finora i suoi sospetti erano risultati infondati e lei erarisultata essere ciò che sembrava... una vedova sulla quarantina, con unvolto piacevole e mani lisce dalle dita lunghe e aggraziate, dotata di unavoce melodiosa e di una notevole abilità di parola abbinata ad una risataaccattivante che non mancava mai di far affiorare un sorriso sul volto pallido e magro di Rosamun.

Adesso la casa dei Majere era pulita e ben organizzata, una cosa che nonsi era mai vista prima dell'arrivo della Vedova Judith, Rosamun mangiava

ad orari regolari, dormiva per tutta la notte, andava al mercato e andava afare visite... sempre accompagnata dalla Vedova Judith.

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La donna si mostrava cordiale con Raistlin anche se non quanto lo eracon Caramon: quando aveva a che fare con Raistlin lei appariva piùriservata, e a poco a poco lui si era reso conto che la vedova sembravasorvegliarlo, al punto che in casa non poteva fare nulla senza sentirsiaddosso il suo sguardo.

«Lei sa di non piacerti, Raist», aveva commentato al riguardo Caramon,in tono di accusa.

Raistlin si era limitato a scrollare le spalle perché quell'affermazione eravera, anche se lui non avrebbe saputo spiegare il perché della suaavversione. Sapeva soltanto che quella donna non gli piaceva e che eraquasi certo di non piacerle a sua volta.

Uno dei motivi della sua avversione avrebbe potuto essere il fatto che

Rosamun, Gilon, Caramon e la Vedova Judith formavano una famiglia dicui lui, Raistlin, non faceva parte... non perché non fosse stato invitato adentrarvi ma perché aveva volutamente scelto di restarne fuori. Nelle sere incui Gilon era a casa i quattro sedevano fuori della porta, scherzando eraccontandosi storie, mentre Raistlin rimaneva dentro e si concentravasullo studio delle sue annotazioni scolastiche.

Adesso che sua moglie era stata salvata dalla follia che le divorava lamente e sembrava essere giunta ad un porto sicuro, Gilon appariva un

uomo diverso: le rughe di preoccupazione erano infatti scomparse dallasua fronte, lui rideva più spesso e riusciva addirittura a portare avanti conRosamun delle conversazioni relativamente normali.

D'estate era possibile trovare lavoro più vicino a casa, e questo permetteva a Gilon di tornare più spesso dalla famiglia, cosa che faceva piacere a tutti tranne a Raistlin, che aveva finito per abituarsi alle assenzedi suo padre e si sentiva soffocato quando quell'uomo massiccio era incasa. Inoltre non gli piaceva molto neppure il cambiamento avvenuto in

sua madre perché sentiva la mancanza delle fantasticherie di un tempo edei momenti che loro due avevano passato insieme da soli: il nuovo caloreche si era sviluppato fra lei e Gilon lo contrariava perché era un'intimitàche lo faceva sentire ancor più isolato.

Caramon era senza ombra di dubbio il favorito di Gilon, che lui adoravaa sua volta. Il grosso boscaiolo cercava d'interessarsi anche all'altrogemello, ma lui era come gli alberi che abbatteva, lento a crescere, amuoversi e a pensare, quindi non riusciva a capire l'amore di Raistlin per la

magia e pur avendo accettato di mandarlo alla scuola per maghicontinuava segretamente a sperare che il ragazzo finisse per trovarla

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noiosa e per abbandonarla. Gilon persisteva nel nutrire quella segretasperanza un anno dopo l'altro, e si mostrava sempre deluso quando infinegiungeva il giorno in cui la scuola ricominciava e Raistlin si preparava a partire. Misto alla delusione adesso era però possibile scorgere anche uncerto sollievo, perché quell'estate Raistlin era stato come uno sconosciutoche avesse alloggiato presso la famiglia, uno sconosciuto ostile e irritabile:sebbene non fosse disposto ad ammetterlo neppure con se stesso, Gilon eracontento di vedere che suo figlio stava per ripartire.

Quel sentimento era del resto reciproco. A volte Raistlin si sentivadispiaciuto per la propria incapacità di amare maggiormente suo padre,così come percepiva in modo vago che anche Gilon era rammaricato dinon riuscire ad amare questo suo strano figlio.

Mentre arrotolava i calzini per riporli, Raistlin si confortò pensando chel'indomani sarebbe partito: gli sembrava incredibile, ma era davveroimpaziente di avvertire di nuovo l'odore dei cavoli che cuocevano.

«Cosa stai facendo con i tuoi vestiti, Raistlin?» domandò Rosamun.«Sto facendo i bagagli, mamma. Domani tornerò presso il Maestro

Theobald e ci rimarrò per tutto l'inverno» rispose Raistlin, sforzandosi disorridere. «Lo hai dimenticato?».

«No», replicò Rosamun, in tono più gelido della brina. «Speravo però

che non saresti tornato in quel posto».Raistlin smise di lavorare per fissare sua madre con stupore, in quanto

quelle erano parole che si sarebbe piuttosto aspettato di sentire da suo padre.

«Non dovrei tornare ai miei studi?» esclamò infine. «Cosa ti ha indotto a pensare una cosa del genere, mamma?».

«Quel posto è malvagio, Raistlin!» esclamò Rosamun, con unaveemenza e una passione spaventose per la loro intensità. «È malvagio, ti

dico!» ribadì, battendo a terra un piede ed ergendosi sulla persona. «Ti proibisco di tornarci ancora!».

«Mamma...» cominciò Raistlin, sconvolto, allarmato e perplesso, nonsapendo cosa dire perché prima di allora sua madre non aveva mai protestato in merito al genere di studi che lui aveva scelto d'intraprendere,tanto da indurlo a volte a chiedersi se Rosamun sapesse che stavastudiando la magia, e se la cosa le importasse. «Mamma, alcune persone pensano male dei maghi, ma ti assicuro che si sbagliano», affermò infine.

«Gli dèi del male!» recitò lei, con voce opaca. «Voi adorate gli dèi delmale, e in loro onore eseguite atti innaturali e riti immondi!».

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«Mamma, la cosa più innaturale che ho fatto finora è stato rischiare dirompermi la testa cadendo dal mio sgabello», ribatté Raistlin, in tonoasciutto: quelle accuse erano tanto ridicole che gli riusciva difficile prendere sul serio quella conversazione. «Mamma, io trascorro le miegiornate ripetendo le cose che dice il mio maestro, imparando a dire "ah" e"oo" e "uh", mi ricopro d'inchiostro e di tanto in tanto riesco a scrivere suuna pergamena qualcosa che sia quasi leggibile, oppure mi aggiro neicampi per raccogliere fiori. Questo è tutto quello che faccio, mamma»aggiunse con amarezza, «e ti garantisco che spalare letame nelle stalle eraccogliere il grano come fa Caramon è molto più interessante ed eccitantedella magia!».

D'un tratto smise di parlare, stupefatto di se stesso e dei propri

sentimenti: adesso capiva, ora sapeva cosa lo avesse tormentato per tuttal'estate e comprendeva la causa dell'ira e della frustrazione che gliribollivano dentro come metallo fuso... ira e frustrazione miste a paura e adubbi su se stesso.

Inchiostro e fiori, recitare parole senza senso un giorno dopo l'altro.Dov'era la magia? Quando sarebbe venuta a lui?

E poi, sarebbe davvero venuta a lui?Raistlin rabbrividì, percorso da un brivido improvviso, e subito

Rosamun gli circondò la vita con un braccio, appoggiando la guanciacontro quella di lui.

«Hai visto? La tua pelle è calda al tatto e credo che tu abbia la febbre. Non tornare in quell'orribile scuola! Così facendo otterrai soltanto diammalarti. Resta invece qui con me ed io ti insegnerò tutto quello che hai bisogno di sapere, leggeremo insieme dei libri e faremo aritmetica comequando eri piccolo, tenendoci compagnia».

Raistlin ci pensò sopra e scoprì che l'idea lo tentava in maniera

sorprendente. Basta con le futilità del Maestro Theobald, basta con le nottisilenziose e solitarie in dormitorio, rese ancor più solitarie dal fatto chenon era veramente solo, basta con questo tormento interiore, con questointerrogarsi continuo.

Cosa era successo alla magia? Dov'era finita? Perché il suo sangue bruciava per qualche stupida ragazza ridacchiante più di quanto facessequando lui ricopiava gli oa e gli ai?

A quanto pareva aveva perso la magia, oppure essa non c'era mai stata e

lui si era ingannato. Era giunto il momento di ammettere la sconfitta, diammettere di aver fallito e di tornare a casa per rinchiudersi in questa

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calma accogliente, calda e sicura, circondato dall'amore di sua madre. Inquesto modo avrebbe potuto prendersi cura di lei e mandare via la VedovaJudith.

 Non volendo lasciar vedere la sua amara infelicità Raistlin chinò il capo,ma Rosamun non si accorse di nulla mentre gli accarezzava una guancia elo induceva scherzosamente a girarsi verso lo specchio che aveva portatocon sé da Palanthas e che costituiva la sua proprietà più preziosa, unricordo della giovinezza.

«Passeremo momenti meravigliosi insieme, tu ed io. Guarda!» lo incitò,contemplando con compiaciuto orgoglio i due volti riflessi nello specchio.«Guarda quanto siamo simili!».

Raistlin non era superstizioso, ma quelle parole pur pronunciate con

assoluta innocenza suonarono così nefaste da strappargli un altro brivido.«Stai tremando!» esclamò Rosamun, preoccupata. «Ti avevo detto che

hai la febbre. Avanti, sdraiati».«No, mamma, sto bene. Mamma, per favore...» protestò Raistlin,

tentando di ritrarsi perché il tocco di lei, che poco prima gli era parsoconfortante, aveva adesso qualcosa di disgustoso, e pur sentendosisgomento e vergognoso all'idea di provare una cosa del genere neiconfronti di sua madre, lui non riusciva a tollerarlo.

Rosamun accentuò però la sua stretta e appoggiò la guancia sul bracciodel figlio, che la superava ora in altezza di tutta la testa.

«Sei così magro», disse, «troppo magro. Il cibo non ti aderisce alle ossae tu lo consumi con le preoccupazioni. Inoltre sono certa che è quellascuola che ti sta facendo ammalare, perché la Vedova Judith dice che lamalattia è una punizione per tutti coloro che non seguono la via dei giusti».

Raistlin non recepì quelle parole perché non la stava più ascoltando inquanto si sentiva soffocare come se qualcuno gli stesse premendo un

cuscino sul naso e sulla bocca. Tutto ciò che voleva era riuscire a liberarsidalla stretta di sua madre per correre fuori, dove avrebbe potuto trarre profonde boccate d'aria fresca. Voleva mettersi a correre e continuare acorrere nella notte profumata, imboccare una strada che lo portasse lontanoda lì, non importava dove.

In quel momento avvertì un'intensa affinità con la sua sorellastra Kitiarae comprese perché lei se ne fosse andata e come dovesse essersi sentita,invidiando la libertà della sua vita e imprecando contro il proprio fragile

corpo che lo teneva incatenato al focolare domestico e impastoiatonell'aula della scuola.

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Aveva sempre supposto che la magia lo avrebbe liberato, nello stessomodo in cui Kitiara era* stata liberata dalla sua spada, ma cosa avrebbefatto se questo non fosse successo? Se la magia non fosse affiorata in lui?Cosa avrebbe fatto se davvero aveva perduto il suo talento?

Il suo sguardo si posò di nuovo sullo specchio, sul volto di sua madredevastato dai sogni ad occhi aperti, e lui si affrettò ad abbassare le palpebre per combattere l'insorgere della paura.

CAPITOLO TERZO

Dal momento che nevicava, i ragazzi vennero lasciati liberi per tempo perché andassero fuori a giocare fino all'ora di cena con la scusa che fare

esercizio fisico al freddo era salutare e serviva ad espandere i polmoni,anche se tutti i ragazzi sapevano che in realtà il solo motivo per cuivenivano mandati fuori era che il Maestro Theobald voleva liberarsi diloro.

Il maestro era parso stranamente assorto durante tutta quella giornata,come se la sua mente fosse stata altrove, e aveva tenuto le consuete lezionicon fare distratto e dando l'impressione che non gli importasse se gli allieviassimilavano o meno ciò che lui stava loro insegnando. In aggiunta a tutto

questo, non aveva fatto ricorso al ramo di salice neppure una volta, anchese uno dei ragazzi si era addormentato poco dopo il pranzo e aveva russatorumorosamente per tutto il resto del pomeriggio.

Per la maggior parte dei ragazzi quella disattenzione da parte delmaestro era stata un piacevole cambiamento, ma tre di essi l'avevanoinvece trovata particolarmente sgradevole a causa del fatto che di tanto intanto il Maestro Theobald era scivolato in lunghi e vacui momenti disilenzio durante i quali il suo sguardo si era posato insistentemente su di

loro, che erano i tre allievi più anziani della classe.Uno di essi era Raistlin.Una volta all'esterno, i ragazzi sfruttarono l'abbondante nevicata per 

costruire un fortino, formare degli eserciti e tempestarsi a vicenda con le palle di neve, ma Raistlin preferì avvolgersi in uno spesso e caldomantello, che stranamente era un dono di commiato da parte della VedovaJudith, e lasciare gli altri ai loro stupidi giochi per passeggiare in mezzo ai pini che crescevano lungo il lato settentrionale della scuola.

Dal momento che non c'era vento, la terra era ammantata nella quieteovattata che la neve portava sempre con sé, soffocando ogni suono e

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 perfino gli strilli acuti degli altri ragazzi. Raistlin era avvolto nel silenzioin quanto gli alberi erano immoti e gli animali si erano tutti rifugiati neirispettivi nidi, covi o tane, immersi nel loro sonno invernale; anche i colorisembravano totalmente scomparsi per essere sostituiti dal candore dellaneve che cadeva, dal nero dei tronchi umidi e dal grigio ardesia del cielocupo.

Giunto al limitare del bosco, Raistlin si arrestò. Inizialmente era statasua intenzione addentrarsi fra gli alberi per seguire un sentiero oraingombro di neve che portava ad una piccola radura dove c'era un troncocaduto che serviva da sedile. Quella radura era il suo rifugio, il santuario dicui nessuno conosceva l'esistenza: lì gli alberi lo riparavano alla vistarispetto alla scuola e al cortile dei giochi, e lui poteva meditare,

rimuginare, vagliare il suo assortimento di erbe e di piante, riesaminare le proprie annotazioni, recitare fra sé le lettere dell'alfabeto del linguaggiodell'arcano.

Quando aveva scelto inizialmente per sé quella radura lo aveva fatto conla certezza che gli altri ragazzi l'avrebbero trovata e rovinata, magaritrascinando via il tronco o rovesciandovi i rifiuti della cucina o ilcontenuto di qualche pitale, ma gli altri studenti si erano invece tenuti allalarga da essa e pur sapendo che lui vi si appartava spesso non avevano mai

tentato di seguirlo.Inizialmente Raistlin se ne era compiaciuto, ritenendo che essi fossero

infine giunti a rispettarlo, ma ben presto il compiacimento era svanitoquando infine lui si era reso conto che gli altri ragazzi lo stavano lasciandoin pace perché dopo l'incidente con l'ortica avevano preso a detestarlo. In passato essi avevano sempre provato antipatia nei suoi confronti, maadesso all'antipatia si era aggiunta anche una diffidenza tale che essi nontraevano più nessun piacere dal provocarlo e preferivano lasciarlo del tutto

solo.Per quanto cercasse di dirsi che questo era un cambiamento che gli

riusciva gradito, Raistlin sapeva che in effetti non era così, perché luiaveva segretamente gradito l'attenzione dimostratagli dagli altri per quantoessa l'avesse al tempo stesso irritato, ferito o seccato. Se non altro, provocandolo essi avevano mostrato di riconoscerlo come uno di loro,mentre adesso era un fuoricasta.

Quel giorno Raistlin aveva avuto intenzione di raggiungere la radura, ma

quando si soffermò al limitare della foresta e indugiò ad osservare la neve priva di tracce, che si stendeva in onde lisce e ghiacciate intorno ai tronchi

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degli alberi, preferì non addentrarsi in mezzo ad essi perché quella neveera perfetta, a tal punto che non se la sentiva di calpestarla, di lasciarsi allespalle una pista di impronte che ne avrebbe guastato la perfezione.

In quel momento suonò la campana della scuola. Chinando la testa per  proteggersi dai fiocchi ghiacciati che una lieve e crescente brezza gli stavasoffiando negli occhi, Raistlin si girò e s'incamminò attraverso il silenzio,il candore, il nero e il grigio per tornare al caldo, al torpore e allasolitudine dell'aula scolastica

Dopo essersi cambiati gli abiti bagnati con altri asciutti, i ragazzi sceserodabbasso per la cena, che consumarono sotto l'occhio attento anche se un po' vacuo di Marni, in quanto il Maestro Theobald entrava nel refettorio

soltanto se questo si rendeva necessario per impedire che il pavimentovenisse ricoperto di zuppa.

Dal momento che Marni riferiva al maestro l'eventuale cattivocomportamento degli allievi, i lanci di pezzi di pane e i rovesciamenti diminestra erano sempre ridotti al minimo, e comunque quella sera i ragazzierano così stanchi e affamati dopo le dure battaglie combattute nella neveche la cena si svolse in mezzo ad una calma maggiore del solito; dalmomento che il grande refettorio era quasi del tutto silenzioso tranne per 

qualche risata soffocata qua e là, i ragazzi rimasero quindi estremamentesorpresi nel veder entrare il Maestro Theobald.

Subito gli studenti si affrettarono ad alzarsi tutti in piedi, pulendosi ilmento dal sugo con il dorso della mano e reagendo con indignazioneall'arrivo del maestro in quanto la cena era il loro momento privato in cuilui non aveva nessun diritto d'intromettersi.

Theobald non parve notare il loro inquieto agitarsi e le loro occhiateincupite, o forse decise di non badarvi nel concentrare la propria attenzione

sui tre allievi più anziani: Jon Farnish, l'aspirante macellaio Gordo eRaistlin Majere.

Raistlin capì immediatamente il perché dell'arrivo del maestro nelrefettorio, comprese cosa lui stava per dire e cosa stava per succedereanche se non avrebbe saputo dire come faceva a saperlo: forse si trattava di premonizione ereditata da sua madre, o forse era più semplicemente ilfrutto di una deduzione logica... non aveva idea di quale fosse laspiegazione giusta e neppure gl'importava. Incapace di pensare con

chiarezza si sentì raggelare più di quanto gli fosse successo nella neve e altempo stesso avvertì paura ed esultanza che lottavano dentro di lui per 

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acquisire il predominio. Il pane che aveva in mano gli sfuggì dalle ditaimprovvisamente inerti, la stanza parve oscillargli sotto i piedi e fucostretto ad appoggiarsi al tavolo per non perdere l'equilibrio.

Poi il Maestro Theobald chiamò per nome i tre ragazzi in questione, eRaistlin sentì a stento la sua voce a causa di un ruggito che gli echeggiavanegli orecchi e che era violento quanto quello di un fuoco che si levasse su per un camino.

«Venite avanti», ordinò il maestro.Incapace di muoversi, Raistlin si sentì assalire dal terrore di crollare al

suolo dove si trovava e si chiese se si stesse ammalando. La vista di JonFarnish che attraversava il refettorio con aria da cane bastonato, certo diessere nei guai, gli fece quindi salire alle labbra un sorriso di derisione e al

tempo stesso la mente gli si schiarì, il fuoco che gli ruggiva negli orecchisi spense e lui. venne avanti a sua volta, con una dignità di cui era perfettamente consapevole.

 Nell'arrestarsi davanti a Theobald, sentì le parole di quest'ultimoecheggiargli nelle ossa, senza neppure accorgersi di recepirle con gliorecchi.

«Dopo lunga e attenta riflessione ho deciso che voi tre, in virtù dellavostra età e del vostro rendimento scolastico, sarete messi questa notte alla

 prova al fine di determinare la vostra capacità di applicare nella pratica ciòche avete appreso. Suvvia, non è nulla di cui allarmarsi», aggiunsevedendo che gli occhi di Gordo, sgranati per la costernazione, stavanoroteando nelle orbite, poi proseguì in tono rassicurante: «Questa prova nonè per nulla pericolosa e se doveste fallire non vi accadrà nulla di male.Essa mi dirà soltanto se avete fatto la scelta sbagliata nel voler studiare lamagia e in tal caso informerò i vostri genitori e chiunque altro siainteressato al vostro andamento scolastico, che a mio parere il vostro

 permanere qui sarebbe uno spreco di tempo e di denaro». Nel pronunciare quelle ultime parole, il maestro scoccò a Raistlin

un'occhiata molto penetrante.«Io non ho mai voluto venire qui!» esclamò d'un tratto Gordo, ora

madido di sudore. «Mai! Io voglio fare il macellaio!».Qualcuno scoppiò a ridere e subito il maestro si accigliò con espressione

irosa, guardandosi intorno alla ricerca del colpevole che tacqueimmediatamente e si nascose dietro uno dei compagni mentre tutti gli altri

scivolavano nel silenzio. Certo di aver riportato l'ordine, il MaestroTheobald tornò a concentrare l'attenzione sui suoi tre allievi più grandi.

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«Posso sperare che voi due non condividiate i suoi sentimenti?»domandò.

«Io sono impaziente di sottopormi alla prova, maestro», sorrise JonFarnish.

Raistlin provò un impeto d'odio nei suoi confronti, tanto intenso cheavrebbe potuto ucciderlo in quello stesso momento: avrebbe infatti volutoessere stato lui a pronunciare quelle parole, con tanta noncuranza esicurezza.

«Io... io sono... sono pronto», fu invece tutto ciò che riuscì a balbettare.«Lo vedremo», sbuffò il Maestro Theobald, come se dubitasse molto di

quell'affermazione. «Seguitemi».Scortò quindi fuori dal refettorio i tre ragazzi, Gordo piagnucolante e

riluttante, Jon Farnish impaziente e con il sorriso sulle labbra come se sistesse divertendo, Raistlin con le ginocchia che tremavano a tal punto daimpedirgli quasi di camminare.

Gli pareva infatti che in quel momento tutta la sua vita fosse inequilibrio precario come la daga di Caramon quando lui la bilanciava sulla punta sopra il tavolo della cucina. Già si vedeva nell'atto di essereallontanato dalla scuola l'indomani mattina, rimandato a casa in disgraziacon il suo fagotto di vestiti sulla spalla, e immaginava gli altri ragazzi

schierati lungo il vialetto intenti a ridere e a festeggiare la sua caduta,immaginava il proprio ritorno a casa dove avrebbe dovuto affrontare igoffi e ben intenzionati tentativi di confortarlo da parte di Caramon, ilsollievo di sua madre e la compassione di suo padre.

E cosa sarebbe stato il suo futuro senza la magia?Di nuovo si sentì raggelare dalla testa ai piedi, pervaso da

quell'improvvisa e terribile constatazione in merito a se stesso: senza lamagia, per lui non ci poteva essere un futuro.

Il Maestro Theobald li guidò attraverso la biblioteca e lungo uncorridoio, fino ad una porta bloccata da un incantesimo che dava accessoal suo alloggio privato. Tutti i ragazzi sapevano dove portasse quella portae supponevano che da essa si potesse accedere a quel laboratorio di cui ilmaestro parlava tanto spesso. Una notte un gruppo di ragazzi guidato daJon Farnish aveva effettuato un vano tentativo di annullare la magia che bloccava la serratura, e l'indomani mattina Jon aveva dovuto inventare unascusa per spiegare come si fosse ustionato le dita.

Seguito dai tre ragazzi, il maestro si arrestò davanti alla porta inquestione, borbottò sottovoce parecchie parole magiche che Raistlin si

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sforzò automaticamente di cogliere nonostante il tumulto presente nel suoanimo.

Il suo sforzo non ebbe però successo perché le parole non parevanoavere senso e al tempo stesso lui non riusciva a pensare o a concentrarsi,con il risultato che esse gli svanirono dalla mente nel momento stesso incui cercò di registrarvele. In quel momento non sarebbe riuscito a ricordareneppure come scandire il proprio nome, e tanto meno il complicatolinguaggio della magia.

Infine la porta si spalancò e il Maestro Theobald afferrò Gordo, cheaveva cercato di approfittare del momento in cui lui era impegnato conl'incantesimo per allontanarsi. Affondandogli nella spalla le proprie ditagrassocce, il maestro spinse il ragazzo farfugliante e piagnucolante in un

salotto, seguito da Jon Farnish e da Raistlin, alle cui spalle la porta sirichiuse silenziosa.

«Non voglio farlo! Per favore, non mi costringere! Senza dubbio undemone s'impadronirà di me!» ululò Gordo.

«Un demone... che sciocchezze! Smettila subito di piagnucolare, stupidoragazzo!» ingiunse il Maestro Theobald, allungando per abitudine la manoverso il ramo di salice soltanto per scoprire che l'aveva lasciato nell'aula.«Se non ritrovi subito il controllo ti prenderò a schiaffi», minacciò allora,

in tono più duro.Anche se vuota, la mano del maestro era comunque ampia e grossa,

quindi a Gordo bastò darle un'occhiata per tacere, pur continuando di tantoin tanto a tirare su con il naso.

«Mandarmi laggiù non servirà a nulla», dichiarò in tono cupo. «Nonvalgo nulla nell'uso della magia».

«Questo è vero», convenne il maestro, «però i tuoi genitori hanno pagato per questo e hanno il diritto di aspettarsi che tu faccia almeno un

tentativo». Nel parlare spostò con il piede un vistoso tappeto intrecciato in modo da

rivelare una botola, anch'essa bloccata con la magia. Mormorando altre parole arcane, passò quindi tre volte la mano su di essa, poi si protese adafferrare un anello di ferro e sollevò la botola che si aprì silenziosamente arivelare una rampa di gradini che scompariva nella calda e aromaticaoscurità.

«Gordo e io scenderemo per primi», avvertì allora il maestro, e in tono

sarcastico aggiunse: «Per sgombrare quel posto da qualsiasi demone».Afferrato per la collottola lo sfortunato Gordo, lo trascinò giù per le

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scale, seguito con impazienza da Jon Farnish. Raistlin stava per avviarsi asua volta quando nel posare il piede sul primo gradino s'immobilizzò dicolpo: stava per entrare in una tomba aperta.

Sconcertato sbatté le palpebre e l'immagine scomparve: adesso davanti alui non c'era nulla di più sinistro della scala della cantina, ma nonostantequesto continuò ad esitare sulla soglia perché aveva imparato da sua madread essere sensibile a sogni e portenti e avendo visto la tomba aperta conassoluta chiarezza si stava ora chiedendo cosa questo avesse significato, ose la visione avesse in effetti un significato. Probabilmente si era trattatosoltanto di una dannata fantasticheria, frutto della sua immaginazionetroppo attiva, ma per quanto continuasse a ripeterselo esitò ancora in cimaalla scala.

Jon Farnish era laggiù... solo che adesso non si trattava più di JonFarnish ma di Caramon, che sostava accanto alla tomba di Raistlin econtemplava con cordoglio e compassione il suo gemello...

Serrando gli occhi, Raistlin immaginò di essere lontano da lì, di trovarsinella sua radura, seduto sul tronco, con la neve che gli cadeva addosso eriempiva il suo mondo, lasciandolo freddo, puro e privo di sentieri.

Quando riaprì gli occhi Caramon era scomparso, e così pure la tomba.Con passo rapido e deciso, Raistlin si avviò giù per le scale.

CAPITOLO QUARTO

Il laboratorio non era come Raistlin, o uno qualsiasi degli altri ragazzidella classe, aveva immaginato. Quella camera nascosta era statanaturalmente oggetto di innumerevoli supposizioni nel corso di clandestineriunioni notturne nel dormitorio, durante le quali era risultato parerecomune che il laboratorio del maestro dovesse essere del tutto buio,

coperto di ragnatele e pieno di pipistrelli, con un demone imprigionato inuna gabbia posta in un angolo.

All'inizio dell'anno, i ragazzi più grandi confidavano in un sussurro ainuovi arrivati che gli strani suoni che era possibile sentire di notte erano prodotti dal demone che agitava le catene nel tentativo di liberarsi, e daquel momento ogni volta che si sentiva un tonfo o uno scricchiolio iragazzi nuovi si raggomitolavano nel letto tremanti per il timore e convintiche il demone si fosse infine liberato. Una notte in particolare il gatto,

andando a caccia di topi in cucina, aveva fatto cadere una padella di ferroappesa alla parete con un frastuono che aveva scatenato il panico generale

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e laceranti grida di terrore che avevano svegliato il maestro e provocatoun'indagine in seguito alla quale questi era venuto al corrente delle storieinerenti al demone e aveva proibito ogni conversazione dopo lospegnimento delle candele.

Gordo era sempre stato uno dei ragazzi dotati di maggiore inventivaquando si era trattato di dare vita al demone chiuso nel laboratorio,terrorizzando i tre bambini di sei anni che erano attualmente ospiti dellascuola, ma adesso pareva che fosse rimasto lui stesso la prima vittima della propria inventiva: quando nel girarsi vide una vera gabbia posizionata inun angolo, con le sbarre che scintillavano sotto la fioca luce bianca emessada un globo appeso al soffitto, il ragazzo si accasciò infatti al suolo per ilterrore.

«Dannazione, ragazzo, cosa ti prende? Avanti, rialzati!» ingiunse ilMaestro Theobald, pungolandolo e scrollandolo, poi sbirciò nella gabbia eaggiunse: «Buona sera, bellezze, vi ho portato la cena».

L'infelice Gordo si tinse di un accentuato pallore dovuto all'evidenteconvinzione di essere lui stesso la cena in questione, ma subito doporisultò che il maestro non si stava riferendo ai tre ragazzi bensì ad un pezzodi pane che tirò fuori della tasca e che posò nella gabbia, dove esso venneaggredito da quattro vivaci topi di campagna.

Gordo intanto si portò una mano allo stomaco e dichiarò di non sentirsimolto bene.

In altre circostanze, Raistlin avrebbe potuto sentirsi divertito di fronteall'umiliazione di uno dei suoi più inveterati tormentatori, ma quella notteera troppo teso, impaziente e nervoso per godere dei gemiti di quel bullofinalmente punito.

Fatto sedere Gordo per terra con la testa fra le gambe, il maestro sidiresse intanto verso una parte del laboratorio dove fu possibile sentirlo

armeggiare con carta e calamai. Annoiato, Jon Farnish cominciò agiocherellare con i topi mentre Raistlin si allontanò dalla zona di luce piùintensa e si ritrasse nell'ombra, in modo da poter osservare tutto ciò cheaccadeva senza essere visto a sua volta, procedendo quindi ad analizzare inmaniera metodica il laboratorio e a registrare ogni suo dettaglio nella propria eccellente memoria con tanta precisione che, anche molti annidopo aver lasciato la scuola del Maestro Theobald, lui continuò, chiudendogli occhi, ad essere in grado di rivedere ogni particolare di quel laboratorio

in cui era stato una volta soltanto.Il laboratorio in questione era un ambiente ordinato e pulito, senza

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traccia di ragnatele o di polvere, e perfino i topi apparivano puliti e bencurati. Su uno scaffale erano disposti alcuni testi di incantesimi, rilegati incolori neutri come il marrone e il grigio, mentre sei custodie per  pergamene spuntavano da un contenitore progettato per contenerne moltedi più; in giro si vedevano inoltre molti vasi del genere usato per riporre icomponenti per incantesimi, pochi dei quali parevano però utilizzati, e nelcentro della stanza spiccava il tavolo di marmo su cui si supponeva che ilmaestro effettuasse i suoi arcani esperimenti, e che appariva pulito comeuno dei tavoli del refettorio.

 Nel guardarsi intorno, Raistlin si sentì pervadere da una profondatristezza, perché quello era il laboratorio di un uomo privo di ambizione,nel quale la scintilla creativa era ormai stata soffocata, sempre che essa

fosse mai stata accesa. Theobald non scendeva in questo laboratorio per creare ma perché voleva stare solo per leggere un libro, per gettare bricioleai topi chiusi nella loro gabbia o per schiacciare qualche foglia di origanoda mettere nello stufato. Magari di tanto in tanto tirava anche fuori qualche pergamena, la cui magia poteva funzionare come poteva non farlo, senzache la cosa avesse per lui la minima importanza.

«Ti senti meglio, Gordo?» chiese intanto il Maestro Theobald,muovendosi di qua e di là con aria piena d'importanza ma combinando ben

 poco. «Ottimo, sapevo che ti saresti ripreso... ti sei agitato troppo, eccotutto. Adesso prendi posto all'estremità del tavolo. Jon Farnish, tu siedi quial centro. Raistlin? Dove diavolo... oh! Eccoti qui!» esclamò il maestro,scoccando a Raistlin un'occhiata in tralice. «Cosa fai rintanato lì nel buio?Vieni sotto la luce come ogni essere umano civile e prendi posto all'altraestremità del tavolo. Sì, lì».

Raistlin occupò in silenzio il posto che gli era stato assegnato, mentreGordo gli si sedeva di fronte con le spalle incurvate e l'aria tetra: il

laboratorio si stava infatti rivelando un'amara delusione, ciò che dovevafare cominciava a somigliare anche troppo ai consueti esercizi svolti inclasse, e lui era risentito per il fatto che là sotto non ci fosse davvero undemone.

Jon Farnish occupò il proprio posto con un sorriso pieno di sicurezza,intrecciando con calma le mani sul tavolo davanti a sé, e Raistlin sentì dinon aver mai odiato nessuno in tutta la sua vita con l'intensità con cui inquel momento stava odiando quel ragazzo.

Ogni organo del suo corpo sembrava infatti essersi attorcigliato intornoagli altri, gli intestini si contraevano e si avviluppavano intorno allo

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stomaco, il cuore martellava e premeva dolorosamente contro i polmoni, la bocca era arida, tanto arida che la gola gli si contrasse fino a farlo tossire, ele mani erano umide di sudore al punto che lui fu costretto ad asciugarlesenza parere sulla camicia.

Intanto il Maestro Theobald sedette a sua volta al tavolo con aria grave esolenne, dando l'impressione di non apprezzare l'atteggiamento sorridentedi Jon Farnish in quanto si accigliò e tamburellò con un dito sul tavolo.Rendendosi conto dell'errore, Jon Farnish fece sparire il sorriso e divenneimmediatamente grave e solenne quanto un gufo appollaiato sul cipresso diun cimitero.

«Così va meglio», commentò il maestro. «Questa prova che state per sostenere è una cosa piuttosto seria, nello stesso modo in cui lo sarà la

Prova a cui vi sottoporrete quando sarete cresciuti e pronti ad avanzareattraverso i diversi ranghi del sapere e del potere magici. Lo ripeto, questaè una prova della massima importanza, perché se non doveste superarlanon avrete mai l'opportunità di affrontare l'altra».

Gordo reagì con uno sbadiglio volutamente accentuato.«La cosa migliore», proseguì il maestro, scoccandogli un'occhiata carica

di rimprovero, «sarebbe poter sottoporre a questa prova ogni bambino chechiede di entrare in una scuola di magia prima della sua ammissione, ma

 purtroppo questo non è possibile perché per affrontarla è necessario possedere una considerevole quantità di conoscenze arcane. Diconseguenza, il Conclave ha deciso che uno studente deve portare avanti isuoi studi per almeno sei anni prima di affrontare questa prova elementare,a cui vengono sottoposti tutti coloro che hanno seguito tale periodo distudi, anche se non hanno mai mostrato talento o inclinazione per lamagia».

Theobald sapeva bene che ogni studente che falliva la prova veniva

messo sotto sorveglianza per il resto della sua vita, nell'eventualitàimprobabile ma pur sempre possibile che si trasformasse in un magorinnegato che rifiutava di aderire alle leggi della magia determinate eimposte dal Conclave. I maghi rinnegati erano considerati a ragion vedutaestremamente pericolosi e i membri stessi del Conclave provvedevano adare loro la caccia. Dal momento che quei ragazzi non sapevano peròneppure cosa fosse un mago rinnegato, il Maestro Theobald si trattennesaggiamente dal parlarne, consapevole che se lo avesse fatto Gordo

sarebbe rimasto con i nervi a fior di pelle per il resto della sua vita.«La prova è semplice per chi possiede del talento, estremamente difficile

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 per chi non ne ha. Non dovrete pronunciare un incantesimo e neppure unaformula magica, in quanto ci vogliono molti più anni di studio e di durolavoro prima di possedere la disciplina e il controllo necessari per attuareanche i più rudimentali incantesimi. Questa prova serve soltanto adeterminare se possedete o meno quello che nei tempi antichi venivadefinito il "dono del dio"».

 Naturalmente Theobald si stava riferendo agli antichi dèi della magia, itre cugini Solinari, Lunitari e Nuitari, dei quali adesso non restava che ilnome... almeno secondo il parere della maggior parte della popolazione diAnsalon. Quei nomi erano correlati ciascuno ad una delle lune, quellaargentea, quella rossa e quella che si supponeva nera e che tutti sapevanonon esistere davvero, anche se si diceva che quanti si votavano all'oscurità

fossero in grado di vederla.Cauti nei confronti dell'opinione pubblica, consapevoli di non essere

universalmente apprezzati o ritenuti degni di fiducia, i maghi evitavano dilasciarsi coinvolgere in discussioni religiose e insegnavano ai loro allieviche le lune influenzavano la magia più o meno nello stesso modo in cuiinfluenzavano le maree, un fenomeno fisico che non aveva in sé nulla dispirituale o di mistico.

Raistlin però non poteva fare a meno di chiedersi se gli dèi se ne fossero

davvero andati dal mondo, lasciando soltanto le loro luci ad ardere nel buio della notte. Non era possibile che quelle luci fossero invece il bagliore di attenti occhi immortali?

Intanto il Maestro Theobald si era girato verso alcuni scaffali di legnoche aveva alle spalle e aveva aperto un cassetto, tirando fuori tre strisce di pelle d'agnello e posandone una davanti a ciascuno dei ragazzi. Dopo ildiscorso del maestro, Jon Farnish stava ora mostrando di prendere la cosamolto sul serio, mentre Gordo appariva cupo e rassegnato, desideroso

soltanto che quella prova finisse e che gli fosse permesso di tornare daisuoi compagni. Probabilmente stava già elaborando mentalmente lemenzogne che avrebbe raccontato loro in merito al contenuto dellaboratorio del maestro.

Raistlin dal canto suo esaminò con attenzione la striscia di pelled'agnello, lunga quanto il suo braccio e tanto morbida da indicare che nonera mai stata usata.

Sistemati una penna e un calamaio davanti a ciascuno dei tre ragazzi, il

maestro infine si appoggiò allo schienale della sedia con le maniintrecciate sullo stomaco.

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«Adesso», annunciò in tono solenne e stentoreo, «scriverete su questa pelle d'agnello le parole Io, Magus».

«Soltanto questo, maestro?» chiese Jon Farnish.«Soltanto questo».«Come si scrive "Magus"?» volle sapere Gordo, che si stava

contorcendo e tormentava con i denti l'estremità della penna.«Questo fa parte della prova!» ritorse Theobald, fissandolo con

espressione di rimprovero.«Cosa... cosa succederà se lo scriviamo nel modo giusto, maestro?»

chiese Raistlin, con voce che stentò a riconoscere come la propria.«Se avete del talento succederà qualcosa, altrimenti non accadrà nulla»,

replicò il maestro, senza guardare nella sua direzione mentre parlava.

Pur non sapendo spiegare come facesse ad esserne certo, Raistlin si reseallora conto che Theobald voleva che lui fallisse la prova. Il Maestro nonlo aveva in simpatia, ma questo non era un motivo sufficiente, quindi luidedusse che quell'avversione doveva derivare dalla gelosia che Theobald provava nei confronti del suo mentore, Antimodes... una consapevolezzache servì soltanto ad accentuare la sua determinazione mentre impugnavala penna, che era nera in quanto tolta a un corvo.

Le penne usate per stilare le diverse pergamene erano dei tipi più

svariati: una penna d'aquila o una di cigno erano estremamente potenti,mentre una penna d'oca serviva soltanto per gli scritti comuni di ognigiorno e veniva usata per la magia unicamente in casi d'emergenza. Una penna di corvo era d'altronde utile per quasi ogni tipo di magia, anche sealcune fra le Vesti Bianche più fanatiche trovavano da ridire sul suocolore.

L'odore dell'inchiostro gli ricordò Antimodes, e quel giorno in cui questiaveva lodato il suo lavoro. Ascoltando di nascosto una conversazione fra il

maestro e suo padre, Raistlin aveva scoperto già da tempo che eraAntimodes, e non il Conclave, a pagare il suo sostentamento scolastico,contrariamente a ciò che l'arcimago lo aveva indotto a credere: adessoquesta prova avrebbe rivelato se lui aveva visto giusto o meno nel farequell'investimento.

Raistlin si accinse ad intingere la penna nell'inchiostro ma poi esitò e sisentì assalire da un brivido che era quasi di panico, mentre tutto ciò che gliera stato insegnato pareva scivolargli via dalla mente come burro che si

sciogliesse in una padella rovente: non riusciva più a rammentare come siscrivesse Magus! La penna prese a tremargli fra le dita sudate e lui scoccò

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un'occhiata in tralice ai suoi due compagni da sotto le ciglia abbassate.«Ho finito», annunciò intanto Gordo.Le sue dita erano coperte d'inchiostro e lui era riuscito a sporcarsi anche

la faccia, dove chiazze scure nascondevano ora le lentiggini; sulla pergamena che stava ora tenendo sollevata, lui aveva scritto inizialmentela parola  Magos, che poi aveva affrettatamente cancellato dopo aver datoun'occhiata di nascosto alla pergamena di Jon Farnish, scrivendo accantoad essa Magus.

«Ho finito», ripeté ad alta voce. «Adesso cosa succede?»«Per te, nulla», ribatté il Maestro Theobald in tono severo.«Ma ho scritto la parola esattamente come lui», protestò Gordo,

incupendosi.

«Non hai dunque imparato nulla, stupido ragazzo?» domandò in tonorabbioso il Maestro Theobald. «Una parola magica deve essere scritta alla perfezione e nel modo corretto fin dalla prima volta. Stai scrivendo nonsoltanto con il sangue dell'agnello ma anche con il tuo, la magia scorre date alla penna e da essa alla pergamena».

«Oh, al diavolo», borbottò Gordo, spingendo la pelle d'agnello giù daltavolo.

Jon Farnish stava scrivendo con apparente facilità, con la penna che

scivolava fluida sulla pelle d'agnello e con appena una macchiad'inchiostro sul dito indice; la sua scrittura appariva leggibile ma tendevaad essere minuta e rattrappita.

Intinta la penna nell'inchiostro, Raistlin iniziò infine a scrivere a suavolta, stilando le parole Io, Magus in grandi lettere decise e angolose.

Accanto a lui Jon Farnish si appoggiò intanto all'indietro con un sospirodi soddisfazione e proprio mentre finiva a sua volta di scrivere Raistlin losentì emettere un sussulto che lo indusse a sollevare lo sguardo.

Le lettere sulla pelle di agnello davanti a Jon Farnish erano adesso pervase di un tenue chiarore rossastro, una scintilla appena nata che lottava per vivere.

«Accidenti!» esclamò Gordo, tanto impressionato da dimenticare quasiche lì non c'erano demoni.

«Ben fatto, Jon», si complimentò in tono espansivo il Maestro Theobald.Arrossendo di piacere, Jon Farnish abbassò lo sguardo sulla pergamena

e scoppiò a ridere.

«Ce l'ho fatta!» esclamò.Il Maestro Theobald spostò infine lo sguardo su Raistlin, e per quanto si

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sforzasse di assumere un'espressione preoccupata non riuscì a trattenersidall'arricciare un angolo delle labbra nel constatare che le lettere nere sulla pergamena davanti a Raistlin rimanevano di quel colore.

Serrando la penna con tanta violenza da spezzarla, Raistlin distolse losguardo dall'esultante Jon Farnish, cancellò dalla propria attenzione losprezzante Gordo e il sogghignante trionfo del maestro, concentrandosisulle lettere che componevano le parole  Io, Magus, nel recitare una preghiera.

«Dèi della magia, se siete davvero degli dèi e non soltanto delle lune,non lasciate che fallisca», mormorò dentro di sé, rivolgendo lo sguardoverso il nucleo più interiore del suo essere mentre giurava a se stesso: «Cela farò! Nella mia vita nulla ha importanza tranne questo momento, il solo

che esista per me: sono nato in questo momento, e se dovessi fallire essosarà anche quello della mia morte.

«Dèi della magia, aiutatemi! Io dedicherò la mia vita a voi, vi serviròsempre, porterò gloria al vostro nome. Aiutatemi, per favore, aiutatemi!».

Desiderava questo con troppa intensità, aveva lavorato troppo duramentee troppo a lungo per fallire. Facendo appello alla propria magia siconcentrò con tutte le sue energie e il suo fragile corpo cominciò arisentire della tensione dandogli un senso di vertigine. Un globo di luce

 parve gonfiarsi fino a scindersi in tre, il pavimento si fece instabile sotto isuoi piedi e infine lui abbandonò la testa sul tavolo di pietra, in preda alladisperazione.

La pietra risultò fredda e solida sotto la sua guancia accaldata mentreserrava le palpebre sugli occhi velati di lacrime roventi... e scopriva di poter continuare a vedere i tre globi di luce magica.

Con suo stupore, constatò poi che all'interno di ciascuno di essi c'era unafigura.

La prima era quella di un giovane avvenente avvolto in vesti bianche chescintillavano di un bagliore argenteo; il suo fisico era forte e muscoloso,degno di un guerriero, e lui teneva in mano un bastone di legno sovrastatoda un artiglio di drago dorato che stringeva un diamante.

Anche la seconda figura era quella di un giovane, ma questi era tutt'altroche avvenente e appariva invece grottesco, con il volto rotondo come unaluna e gli occhi che erano aridi pozzi vuoti e bui; avvolto in vesti nere, ilsecondo giovane teneva in mano un globo di cristallo nel quale

vorticavano cinque teste di drago: una rossa, una verde, una blu, una bianca e una nera.

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In mezzo ai due c'era poi una bellissima donna dai capelli neri come leali di un corvo e striati di bianco; le sue vesti erano rosse come il sangue efra le braccia lei teneva un grosso volume rivestito in cuoio.

I tre apparivano del tutto diversi e tuttavia stranamente simili.«Sai chi siamo?» chiese l'uomo vestito di bianco.Raistlin annuì con esitazione in quanto conosceva quei tre, anche se non

avrebbe saputo spiegare perché o come facesse a conoscerli.«Tu ci rivolgi le tue preghiere, e tuttavia molti pronunciano il nostro

nome con le labbra ma non con il cuore. Credi davvero in noi?» domandòla donna in rosso.

Raistlin rifletté per un momento sulla domanda.«Siete venuti da me, giusto?» ribatté quindi.

La sua risposta sfacciata parve contrariare il dio della luce e quellodell'oscurità, in quanto l'uomo con la faccia simile ad una luna si fece piùfreddo e quello vestito di bianco s'incupì. La donna dalle vesti rosse simostrò però soddisfatta e gli sorrise.

«Sei molto giovane» affermò in tono severo Solinari. «Comprendi la promessa che ci hai fatto? La promessa di adorarci e di glorificare il nostronome? Se lo farai andando contro le credenze di tanti, questo potrebbe porti in mortale pericolo».

«Lo capisco», rispose senza esitazione Raistlin.«Sei pronto a fare i sacrifici che noi ti richiederemo?» volle sapere

 Nuitari, con voce tagliente come schegge di ghiaccio.«Sono pronto», annuì Raistlin con voce salda, pensando fra sé che quei

tre non potevano certo chiedergli più di quanto avesse già dato.I tre però percepirono anche quella parte silenziosa della sua risposta e

Solinari scosse il capo, mentre Nuitari sfoggiò un sorriso dall'ariaestremamente sinistra.

Lunitari invece contemplò Raistlin con aria divertita e scoppiò in unarisata che lo esaltò e al tempo stesso lo lasciò turbato.

«Tu non capisci», dichiarò la dea, «e se potessi prevedere quello che tiverrà richiesto in futuro fuggiresti da questo posto per non tornarvi mai più. Tuttavia, noi ti abbiamo osservato e siamo rimasti impressionati da te,quindi asseconderemo la tua richiesta ad una condizione: ricorda sempreche ci hai visti e ci hai parlato, non rinnegare mai la tua fede in noi,altrimenti noi rinnegheremo te».

I tre globi di luce si fusero in uno solo che somigliava molto ad unocchio, con il bordo bianco, l'iride rossa e la pupilla nera, poi l'occhio si

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chiuse una volta e nel riaprirsi si fece dilatato e fisso.Le parole  Io, Magus, nere sullo sfondo della bianca pelle di agnello,

erano adesso tutto ciò che Raistlin riusciva a vedere.«Ti senti male, Raistlin?» domandò la voce del maestro, che pareva

scaturire da una nebbia umida.«Taci!» sussurrò Raistlin. Possibile che quello stolto non si fosse accorto

che essi erano lì? Che non fosse consapevole che i tre dèi stavanoguardando e aspettando? «Io, Magus» mormorò, imprimendosi quelle parole nel sangue e nel cuore.

D'un tratto le lettere nere presero a scintillare di un bagliore rossiccio,come una spada infilata nel fuoco della fucina di un fabbro, poi la loro lucesi fece sempre più intensa fino a quando le parole lo, Magus apparvero

scritte in lettere di fiamma. Dopo un momento la pelle d'agnello annerì, siarricciò su se stessa e si consumò, e soltanto allora il fuoco infine siestinse.

Spossato, Raistlin si accasciò sul proprio sgabello: davanti a lui sultavolo di pietra c'erano adesso soltanto una chiazza bruciacchiata e qualcheframmento di cenere unta, mentre nel suo animo ardeva un fuoco che nonsi sarebbe più spento, forse neppure con la sua morte.

D'un tratto fu scosso da un rumore, una sorta di strano gracchiare

soffocato, e infine si accorse che il Maestro Theobald, Gordo e Jon Farnishlo stavano fissando tutti e tre con gli occhi sgranati e la bocca aperta.

«Adesso posso andare, signore?» chiese, scivolando giù dal propriosgabello.

Theobald annuì in silenzio, incapace di parlare. In seguito, nelraccontare quegli eventi davanti al Conclave, lui riferì dei notevoli risultatiottenuti nel corso della prova da uno dei suoi giovani allievi, aggiungendocon adeguata modestia che quei risultati erano frutto della propria abilità di

insegnante, che aveva senza dubbio ispirato il giovane allievo e dato similiesiti.

Gli altri maghi lo ascoltarono con scetticismo, perché per quanto nesapevano non era mai successa una cosa del genere e trovavano difficilecredere che un giovane allievo potesse essere tanto dotato.

Uno di essi, però, gli credette... Antimodes, che in seguito si premurò diinformare Par-Salian, il quale annotò l'incidente con un asterisco accantoal nome di Raistlin sul libro dove registrava ogni studente di magia di

Ansalon.Quella notte, quando gli altri ormai dormivano, Raistlin si avvolse nello

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spesso mantello e sgusciò fuori.La neve aveva smesso di cadere, le stelle e le lune erano sparse come i

gioielli di una ricca dama sulla coltre nera del cielo, sulla quale Solinariscintillava come un diamante, Lunitari splendeva come un rubino e Nuitari, tutta ebano e onice, restava invisibile. Lui però sapeva che essa eralà, con le altre.

Tutt'intorno la neve brillava candida, pura e intatta sotto la luce soffusadelle stelle e delle lune, gli alberi proiettavano ombre doppie che striavanoil bianco di nero sfumato di rosso sangue.

Sollevando lo sguardo verso le lune, Raistlin scoppiò a ridere, una risatastentorea che echeggiò in mezzo agli alberi e che salì fino al cielo, poi silanciò di corsa nel bosco calpestando l'intatta coltre dì neve e lasciando su

di essa le proprie impronte, il proprio marchio.

LIBRO TERZO

 La magia è nel sangue, scorre dal cuore, e ogni volta che la usi una parte di te se ne va con essa. Soltanto quando sarai pronto a donare

qualcosa di te senza ricevere nulla in cambio sarai in grado di utilizzarla.THEOBALD BECKMAN, MAESTRO

CAPITOLO PRIMO

Seduto sullo sgabello, nell'aula, Raistlin era chino sul proprio banco eintento a copiare faticosamente un incantesimo. Si trattava di unincantesimo del sonno, semplice per un mago esperto ma ancora fuoridalla portata di un sia pur precoce ragazzo di sedici anni... cosa che luisapeva bene perché aveva già tentato di usare l'incantesimo in questione

anche se gli era stato proibito di farlo.Armato del suo elementare libro d'incantesimi, che aveva

contrabbandato fuori della scuola sotto la propria camicia, e dei necessaricomponenti, Raistlin aveva tentato di usare l'incantesimo del sonno sul suospaventato ma fedele fratello: aveva recitato le parole e lanciato la sabbiaverso la faccia di Caramon, poi aveva atteso i risultati.

«Smettila, Caramon! Abbassa le mani!».«Ma Raist! Ho la sabbia negli occhi!».

«Dovresti esserti addormentato!».«Mi dispiace Raist, evidentemente non sono stanco. È quasi ora di

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cena».Con un profondo sospiro, Raistlin aveva riportato il libro degli

incantesimi al suo posto sotto il banco e il vasetto contenente la sabbia nellaboratorio, ed era stato costretto ad ammettere suo malgrado che forse ilMaestro Theobald sapeva quello che diceva... almeno in questo particolarecaso: usare un incantesimo richiedeva qualcosa di più oltre alle parole ealla sabbia, perché se fossero bastati la formula e i componenti ancheGordo sarebbe diventato un mago invece di essere impegnato adesso amacellare pecore.

«La magia viene dall'interno», aveva affermato il Maestro Theobald,«comincia al centro del vostro essere e scorre verso l'esterno. Le paroleintercettano la magia che fluisce dal cuore verso il cervello e da lì alla

 bocca, e nel pronunciarle voi date alla magia forma e sostanza, attivandol'incantesimo. Parole pronunciate da una bocca vuota servono invecesoltanto a muovere le labbra».

Anche se aveva il sospetto che il Maestro Theobald avesse attinto quellalezione dalle opere di qualcun altro (e in effetti molti anni più tardil'avrebbe ritrovata identica su un testo scritto da Par-Salian), Raistlin erarimasto impressionato da quelle parole e le aveva annotate con cura sulfrontespizio del suo libro d'incantesimi.

Quel discorso era adesso al centro dei suoi pensieri mentre lui copiava per la centesima volta l'incantesimo su un pezzo di carta per prepararsi poia ricopiarlo sul suo libro di studio, un volume rilegato in cuoio che venivadato a ogni mago novizio che aveva superato la prova iniziale. Il noviziodoveva copiare su quel libro ogni incantesimo che imparava a memoria;inoltre doveva sapere come pronunciarne correttamente le parole e comescriverle su una pergamena, doveva conoscere e raccogliere i componentinecessari per attivarlo.

Ogni trimestre, il Maestro Theobald metteva alla prova i novizi, nellascuola ce n'erano attualmente due, Raistlin e Jon Farnish, riguardo agliincantesimi che avevano imparato, e se conseguivano risultati tali dasoddisfarlo essi ottenevano il permesso di trascrivere l'incantesimo sul lorolibro. Appena il giorno prima, alla fine del trimestre di primavera, Raistlinaveva superato con facilità la prova relativa al nuovo incantesimo, mentreJon Farnish aveva fallito perché aveva sbagliato a trascrivere due letteredella terza parola. Il Maestro Theobald aveva quindi dato a Raistlin il

 permesso di copiare l'incantesimo, quello stesso incantesimo del sonno chelui aveva già tentato di utilizzare, sul suo libro, mentre aveva ordinato a

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Jon Farnish di riscriverlo duecento volte fino a quando non fosse riuscito acomporre correttamente ogni parola.

Ormai Raistlin conosceva l'incantesimo del sonno tanto da poterlorecitare in avanti o a ritroso e da poterlo scrivere anche stando a testa ingiù e piedi in aria, ma nonostante questo non era in grado di attivarlo. Eraarrivato perfino a pregare gli dèi della magia, chiedendo che lo aiutasserocome avevano fatto nel corso della prova iniziale, ma essi non avevanorisposto al suo appello.

Raistlin però non dubitava degli dèi ma di se stesso, in quanto eraconvinto che ci fosse qualche pecca dentro di lui, qualcosa che stavafacendo nel modo sbagliato; di conseguenza, invece di copiarel'incantesimo sul suo libro, stava facendo la stessa fatica di Jon Farnish,

riscrivendo meticolosamente le parole lettera per lettera fino a convincersidi non aver commesso un solo errore.

Un'ampia ombra cadde d'un tratto sul foglio che aveva davanti.«Sì, maestro?» chiese Raistlin, sollevando lo sguardo e non riuscendo a

nascondere del tutto la propria irritazione per essere stato interrotto.Molto tempo prima, lui si era reso conto di essere più intelligente del

Maestro Theobald e più dotato di talento per la magia, e se rimanevaancora nella scuola era soltanto perché non aveva dove andare e perché era

evidente che aveva ancora molto da imparare. Quanto al MaestroTheobald, era palese che sapeva attivare soltanto l'incantesimo del sonno.

«Sai che ore sono?» domandò Theobald. «È ora di cena, e dovrestiessere nel refettorio con gli altri ragazzi».

«Ti ringrazio, Maestro, ma non ho fame», rispose con scarsa gentilezzaRaistlin, tornando a concentrarsi sul suo lavoro.

Il Maestro Theobald si accigliò: essendo un uomo ben nutrito, cheamava le carni e la birra di qualità, non riusciva a comprendere una

 persona come Raistlin, per il quale il cibo era soltanto un combustibile che permetteva al corpo di continuare a funzionare e niente di più.

«Sciocchezze, devi mangiare», ribatté infine. «Cosa stai facendo di tantoimportante da indurti a voler saltare un pasto?» chiese quindi, pur potendovedere alla perfezione quello che Raistlin stava facendo.

«Sono impegnato a copiare questo incantesimo, Maestro», replicòRaistlin, serrando i denti di fronte all'idiozia di quell'uomo. «Non mi sentoancora pronto a riportarlo sul mio libro».

Il Maestro Theobald abbassò lo sguardo sui pezzi di carta sparsi sul banco e ne prese prima uno, poi un altro.

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«Ma questi testi sono accettabili... anzi, sono decisamente buoni!»obiettò.

«No, ci deve essere qualcosa di sbagliato!» esclamò con impazienzaRaistlin. «Altrimenti dovrei poter essere in grado di usare...».

 Non aveva avuto intenzione di dire nulla di simile, quindi si morse lalingua e lasciò in sospeso la frase, fissando con occhi roventi le propriedita sporche d'inchiostro.

«Ah!» commentò il Maestro Theobald, con un accenno di sorriso cheRaistlin non notò perché non stava guardando verso di lui. «Dunque haitentato di usare l'incantesimo, vero?».

Raistlin non rispose. Se avesse potuto usare un incantesimo in quelmomento avrebbe evocato dei demoni dall'Abisso e ordinato loro di

trascinare via il Maestro Theobald.Intanto Theobald s'inarcò all'indietro e intrecciò le dita sullo stomaco,

com'era solito fare quando stava per lanciarsi in una delle sue conferenze.«Devo dedurre che non ha funzionato, e la cosa non mi sorprende»,

cominciò. «Sei decisamente troppo orgoglioso, giovanotto, troppoconcentrato su te stesso e compiaciuto dei tuoi risultati. Tu sei portato a prendere e non a dare, tutto affluisce dentro di te e nulla ne esce. La magiaè nel sangue, scorre dal cuore, e ogni volta che la usi una parte di te se ne

va con essa. Soltanto quando sarai pronto a donare qualcosa di te senzaricevere nulla in cambio sarai in grado di utilizzarla».

Raistlin sollevò il capo e lo scosse per allontanare dal volto i lunghicapelli castani e lisci, poi fissò lo sguardo davanti a sé, perché detestavache gli si tenessero delle prediche di quel genere.

«Sì, Maestro», disse soltanto, in tono freddo e impassibile. «Grazie,Maestro».

«In questo momento sei seduto in sella ad un cavallo molto alto,

giovanotto», ribatté il maestro, con un verso di riprovazione, «e un giornocadrai a terra. Se la caduta non ti ucciderà, forse da essa impareraiqualcosa. Adesso vado a cena, perché ho fame», concluse.

Raistlin tornò a concentrarsi sul suo lavoro con un sorriso sprezzantesulle labbra.

CAPITOLO SECONDO

Quell'estate in cui i gemelli compirono sedici anni, la vita della famigliaMajere continuò a migliorare, in quanto Gilon era stato assunto perché

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aiutasse a tagliare una macchia di pini sui pendii del Picco dell'Occhio chePrega; quella proprietà apparteneva ad un nobile che era intenzionato a far trasportare il legname a nord per costruire una recinzione piuttosto grande,il che faceva supporre che quel lavoro ben pagato sarebbe durato a lungo.

Caramon ormai lavorava a tempo pieno per il sempre più prosperoFattore Sedge, che aveva ampliato le proprie terre e adesso spediva grano,frutta e verdure ai mercati di Haven; Caramon veniva pagato con una porzione del raccolto che lui in parte rivendeva e in parte portava a casa.

Quanto alla Vedova Judith, ormai era considerata un membro dellafamiglia e anche se aveva una sua piccola casa a tutti gli scopi praticiviveva presso i Majere perché era diventata indispensabile a Rosamun, chea sua volta era molto migliorata e non cadeva più in quei suoi stati di

trance ormai da parecchi anni. Lei e la vedova svolgevano insieme i lavoridomestici e andavano spesso a fare visite.

Se avesse saputo in cosa consistevano esattamente quelle visite, forseGilon si sarebbe preoccupato per sua moglie, ma lui supponeva cheRosamun e la vedova non facessero altro che scambiare pettegolezzi con ivicini e non poteva immaginare la verità, a cui del resto avrebbe stentato acredere. Gilon e Caramon infatti trovavano entrambi simpatica la VedovaJudith, al contrario di Raistlin che invece la detestava sempre di più, forse

 perché durante l'estate restava a casa insieme a lei mentre suo padre e suofratello erano assenti. Essendo presente, lui poteva vedere l'influenza chela vedova aveva su sua madre e ne diffidava, anche perché spesso al suosopraggiungere entrambe interrompevano bruscamente la conversazioneche stavano portando avanti in toni sommessi.

Più di una volta lui aveva cercato di origliare nella speranza di sentirecosa le due donne si stessero dicendo, ma la Vedova Judith aveva un uditoeccellente e di solito riusciva sempre a scoprire la sua presenza. Un giorno,

tuttavia, le due donne erano sedute al tavolo di cucina, sotto una finestrafuori della quale erano disposti a raffreddare parecchi pasticci, enell'avvicinarsi dall'esterno, con il frusciare delle foglie dei vallenwoodche nascondeva il rumore dei suoi passi, Raistlin si arrestò nell'ombraquando sentì le loro voci.

«Il Sommo Sacerdote non è contento di te, Rosamund Majere. Oggi horicevuto una sua lettera, nella quale lui si chiede per quale motivo tu nonabbia ancora portato tuo marito e i tuoi figli nelle braccia di Belzor».

La risposta di Rosamun risultò mite e sulla difensiva: lei affermò infattidi averci provato e di aver parlato diverse volte di Belzor a Gilon, che però

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si era limitato a ridere di lei, affermando di non aver bisogno di aver fedein nessun dio perché gli bastava avere fede in se stesso e nella forza delsuo braccio destro. Quanto a Caramon, aveva risposto che era senz'altrodisposto a partecipare alle riunioni dei Belzoriti, soprattutto se in esseveniva servito del cibo. E per quel che riguardava Raistlin... la voce diRosamun si spense e lei non concluse la frase.

Per quel che lo concerneva, Raistlin era impaziente di sentire qualcosa di più, ma in quel momento la Vedova Judith si alzò per controllare i pasticcie lo vide fermo vicino all'angolo della casa: per un solo momento lei eRaistlin si fissarono a vicenda senza tradire nessun sentimento tranne unareciproca ostilità, poi la vedova spostò all'interno i pasticci e chiuse leimposte mentre Raistlin si avviava di nuovo attraverso il giardino,

chiedendosi chi mai fosse questo Belzor e perché volesse abbracciare lui ela sua famiglia.

«È una cosa che interessa la mamma», spiegò Caramon, quando lui lointerrogò al riguardo. «Sai, una di quelle cose di donne. Si riuniscono tutteinsieme e parlano, ma non so di cosa, perché l'unica volta che ci sonoandato mi sono addormentato».

Rosamun non accennava mai a Belzor con Raistlin, che ne era deluso eche arrivò a prendere in considerazione l'idea di sollevare lui stesso

l'argomento, trattenendosi soltanto a causa del timore che questo potessecomportare un colloquio con la Vedova Judith, che lui evitava il più possibile. Dal momento che il maestro era lontano per la sua annuale visitaal Conclave e che la scuola era chiusa per l'estate, Raistlin prese atrascorrere le sue giornate seminando e curando l'orto per incrementare lasua collezione di erbe, perché la sua conoscenza in quel campo cominciavaa creargli una certa reputazione presso i vicini e vendendo le erbe che nongli servivano poteva contribuire a sua volta al mantenimento della

famiglia. Preso in queste attività, ben presto si dimenticò di Belzor.Quell'estate la famiglia Majere visse nella felicità e nella prosperità...

un'estate che i gemelli avrebbero sempre ricordato luminosa e dorata,soprattutto se paragonata all'oscurità che stava per farvi seguito.

Raistlin e Caramon stavano percorrendo a piedi la strada che portava aSolace, di ritorno dalla fattoria del Fattore Sedge; Caramon infatti avevaappena concluso la sua giornata di lavoro, e Raistlin si era recato dal

fattore per consegnargli un fascio di lavanda secca, il cui aroma gli permeava ancora i vestiti. Dopo quel giorno, Raistlin non sarebbe mai più

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riuscito a sopportare l'odore della lavanda.Quando i due giovani erano ormai nelle vicinanze di Solace un bambino

li vide arrivare e cominciò ad agitare le braccia per poi spiccare la corsalungo la strada polverosa per andare loro incontro.

«Salve, giovane Ned», lo salutò Caramon, che conosceva tutti i bambinidella città. «In questo momento non posso giocare a Palla Orchetto con te,ma forse dopo cena potremmo...».

«Zitto, Caramon», ingiunse Raistlin in tono secco, notando che il bambino aveva gli occhi sgranati e solenni come quelli di un piccolo gufo.«Non vedi che c'è qualcosa che non va? Cosa c'è? Cosa è successo?».

«C'è stato un incidente», riuscì ad ansimare il bambino, che aveva ilrespiro affannoso. «Vostro... vostro padre...».

Forse avrebbe aggiunto dell'altro, ma d'un tratto si trovò a corto diascoltatori perché i due gemelli avevano spiccato la corsa alla volta dicasa. Per un breve tratto Raistlin corse più in fretta che poté, ma neppure la paura e l'adrenalina riuscirono a costringere il suo fragile corpo amantenere a lungo quello sforzo e ben presto le forze gli vennero meno,costringendolo a rallentare il passo. Caramon continuò invece a correrefinché non si rese conto dopo qualche momento di essere rimasto solo e sifermò per guardarsi alle spalle in cerca del fratello, che gli segnalò con un

cenno di proseguire.Caramon esitò, con un'espressione preoccupata che pareva chiedere a

Raistlin se era davvero sicuro, a cui lui rispose con uno sguardo diconferma.

Annuendo, Caramon si girò e riprese a correre, mentre Raistlin proseguiva più in fretta che poteva, con l'ansia che gli serrava lo stomaco elo raggelava al punto da farlo rabbrividire nonostante il caldo sole estivo...una reazione che lo colse di sorpresa, perché non si era aspettato che gli

importasse tanto di suo padre.Gilon era stato trasportato dal Picco dell'Occhio che Prega fino a Solace

a bordo di un carro, e al suo arrivo Raistlin lo trovò ancora adagiato infondo al veicolo, intorno a cui si era raccolta una piccola folla perchéquando si era diffusa la notizia dell'incidente quasi tutti gli abitanti dellacittà che erano in grado di lasciare il proprio lavoro erano accorsi sul postoe stavano ora fissando lo sfortunato Gilon con un misto di curiosità e diorrore.

Piangente, Rosamun era vicina al carro con la mano insanguinata delmarito stretta nella propria e con accanto la Vedova Judith.

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«Abbi fede in Belzor», stava dicendo la vedova, «abbi fede e lui saràguarito. Abbi fede».

«Io ho fede», continuava a ripetere Rosamun, pallida fino alle labbra.«Io ho fede. Oh, mio povero marito, presto starai bene. Io ho fede...».

Le persone raccolte intorno al carro si scambiarono un'occhiata escossero il capo, mentre qualcuno andava a chiamare il proprietario dellastalla, che passava per un esperto nel curare le fratture; nel frattempo, Otik accorse dalla locanda, con un'espressione tesa e dolente sul voltograssoccio, portando con sé una caraffa del suo brandy migliore che era lasua offerta abituale ogni volta che si verificava un'emergenza medica.

«Legate Gilon su una barella e lo porteremo su per le scale», disse laVedova Judith. «A casa sua guarirà meglio».

«Tu sei pazza, donna!» esclamò un nano che risiedeva in città e cheRaistlin conosceva di vista, fissando la vedova con occhi roventi.«Sballottarlo in quel modo lo ucciderà di certo».

«Lui non morirà!» esclamò di rimando la Vedova Judith. «Belzor losalverà».

I cittadini raccolti intorno al carro si scambiarono altre occhiate, equalcuno assunse un'aria scettica mentre altri si fecero attenti e interessati.

«In tal caso è meglio che tu provveda in fretta», borbottò il nano,

alzandosi in punta di piedi per sbirciare dentro il carro.«Lascia vedere anche me, Flint!» strillò un kender che gli era accanto,

saltando su e giù. «Voglio vedere!».Caramon intanto era salito sul carro e si era accoccolato accanto a Gilon,

ansioso, impotente e pallido in volto quasi quanto il ferito, mentre ungemito sommesso e quasi animalesco gli sfuggiva dalle labbra alla vistadelle spaventose lesioni riportate da suo padre, che aveva le costolespezzate e sporgenti attraverso la carne e una gamba ridotta ad un

ammasso di sangue e di ossa.Senza badare al figlio sconvolto, Rosamun continuava a serrare la mano

di Gilon nella propria e a dichiarare la propria fede in un freneticosussurro.

«Raist!» chiamò infine Caramon, con voce spenta, guardandosi intornoin preda al panico.

«Sono qui, fratello», si affrettò a rispondere Raistlin, salendo a sua voltasul carro per raggiungere Caramon.

«Raist!» ripeté questi, aggrappandosi alla mano del gemello congratitudine ed emettendo un tremante sospiro. «Cosa possiamo fare? Ci

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deve essere qualcosa che si possa tentare! Pensaci, Raist!».«Non c'è nulla che possiate  fare, figliolo», intervenne il nano in tono

gentile. «Nulla tranne augurare a vostro padre ogni bene nel suo viaggioimminente».

 Non appena ebbe esaminato il ferito, Raistlin si rese conto che il nanoaveva ragione e che era addirittura incredibile che Gilon fossesopravvissuto tanto a lungo.

«Ho sentito dire che nei tempi antichi, prima del Cataclisma, ad Ansalonc'erano dei chierici che pregavano i loro dèi e grazie al loro intervento potevano risanare ferite spaventose come queste» suggerì Otik,accorgendosi che nessuno voleva il suo brandy. «Quei chierici sonomisteriosamente svaniti subito prima che gli dèi scagliassero giù la

montagna infuocata e non sono più ritornati. Questo è uno dei motivi per cui la gente afferma che neppure gli dèi hanno più fatto ritorno».

«Belzor è qui!» esclamò con voce acuta la Vedova Judith. «Belzor risanerà quest'uomo!».

 Belzor se la sta prendendo comoda, pensò con amarezza Raistlin.«Padre!» chiamò al tempo stesso Caramon. Nel sentire la sua voce Gilon mosse gli occhi, non era infatti in grado di

spostare la testa, e cercò i figli con lo sguardo.

«Abbiate cura... di vostra madre», riuscì a sussurrare, mentre unaschiuma insanguinata gli affiorava alle labbra.

Singhiozzando, Caramon si nascose il volto con una mano.«Lo faremo, padre», promise Raistlin.Soffermandosi con lo sguardo sui figli, Gilon accennò un fugace sorriso,

 poi guardò verso Rosamun e tentò di dire qualcosa ma fu assalito da untremito di agonia: chiudendo gli occhi, emise un gemito possente e giacqueimmobile.

«Che Reorx lo accompagni», mormorò il nano, togliendosi il cappellocon fare solenne e accostandoselo al petto.

«Che tristezza, quel poveretto è morto!» esclamò il kender, con unalacrima che gli colava lungo la guancia.

Quella era la prima volta che Raistlin si veniva a trovare così vicino allamorte, che lui percepì come una presenza fisica che stesse passando inmezzo a loro con le ali scure allargate a ricoprirli, una sensazione che glidiede l'impressione di essere piccolo e insignificante, nudo e vulnerabile.

Era stato tutto così improvviso: appena un'ora prima Gilon stavacamminando in mezzo agli alberi senza un pensiero al mondo tranne forse

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cosa avrebbe mangiato quella sera per cena, e adesso era immersonell'oscurità infinita ed eterna, nella quale ciò che più spaventava non eratanto l'assenza di luce quanto l'assenza di pensiero, di conoscenza e dicomprensione.

Le loro vite, le vite dei vivi, sarebbero continuate, il sole sarebbe sortocome sempre, le lune avrebbero brillato nel cielo, loro avrebbero riso e parlato, ma Gilon non ne avrebbe saputo nulla, non avrebbe provato nulla.

Era una cosa definitiva che con il tempo si sarebbe abbattuta su ognunodi loro.

Raistlin sapeva che avrebbe dovuto provare dolore per la morte di suo padre, ma in quel momento non riusciva a provarne che per se stesso, per la propria mortalità, e questo lo indusse a voltare le spalle al cadavere

devastato, soltanto per trovarsi davanti a sua madre che continuava astringere la mano senza vita del marito, accarezzandola e incitandolo a parlarle.

«Caramon, dobbiamo pensare a nostra madre e portarla in casa», avvertìRaistlin, in tono urgente.

Quando guardò verso Caramon, scoprì però che anche lui aveva bisognodi aiuto, in quanto si era accasciato accanto al corpo del padre ed eraadesso scosso da violenti e angosciati singhiozzi. Protendendosi, gli posò

allora una mano sul braccio in un gesto di conforto e subito la grossa manodi Caramon si serrò in maniera convulsa intorno alla sua, stringendo cosìforte da impedirgli di liberarsi; lui dal canto suo non aveva nessundesiderio di ritrarsi perché trovava conforto in quel contatto fraterno, ma altempo stesso non gli piaceva l'espressione folle che stava vedendo sulvolto di sua madre.

«Avanti, mamma, permetti alla Vedova Judith di portarti in casa»,suggerì.

«No, no!» gridò Rosamun, con voce frenetica. «Non posso lasciarevostro padre, lui ha bisogno di me!».

«Mamma», replicò Raistlin, che cominciava ad essere spaventato daquella reazione, «nostro padre è morto e non c'è altro...».

«Morto!» ripeté Rosamun, con aria sconcertata. «Morto? No, non è possibile! Io ho fede!» esclamò quindi, gettandosi sul marito eafferrandolo per la camicia intrisa di sangue. «Gilon! Svegliati!».

La testa di Gilon scivolò da un lato e un rivoletto di sangue gli colò dalla

 bocca.«Io ho fede», ripeté Rosamun, in un gemito affranto, guardandosi le

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mani ora sporche di sangue quanto la camicia.«Mamma, per favore, va' in casa», implorò Raistlin, impotente.Prendendo le mani di Rosamun nelle proprie, Otik ne allentò con

gentilezza la presa e indusse la donna a spostarsi in modo da permettere adun vicino di coprire il cadavere con una coperta.

«Ecco dimostrato quanto vale Belzor», commentò intanto il nano, intono sommesso ma tagliente.

 Non era stata sua intenzione farsi sentire dagli altri, ma la sua voce profonda e risonante arrivò ugualmente all'orecchio di tutti coloro che glierano vicini. Parecchi fra i presenti reagirono scuotendo il capo, e inqualche caso concedendosi un cupo sorriso quando pensavano che nessunoli stesse osservando, mentre altri assunsero un'espressione sconvolta.

Dal momento del suo arrivo in città, infatti, la Vedova Judith avevasvolto una notevole opera di proselitismo e aveva guadagnato alla sua fedeun certo numero di convertiti, alcuni dei quali stavano ora fissando ilmorto con sgomento.

«Chi è Belzor?» chiese intanto il kender, con voce acuta e curiosa.«Flint, tu conosci Belzor? Ci si aspettava davvero che guarisse questo poveretto? E perché credi che non lo abbia fatto?».

«Chiudi quella bocca, Tas, razza di pomolo di porta!» ingiunse il nano

con voce bassa e aspra.Quello era però lo stesso interrogativo che si stavano ponendo molti fra i

neoconvertiti presenti, che ora stavano fissando la Vedova Judith in attesadi ricevere una risposta.

La vedova, che non aveva certo perso la sua fede, fissò con espressionedura e astiosa il nano e scoccò un'occhiata ancor più rovente al kender, chestava sollevando un angolo della coperta per sbirciare con curiosità ilcadavere.

«Forse è stato risanato e noi non ce ne siamo accorti?» suggerì intanto ilkender, con l'aria di volersi rendere utile.

«Lui non è stato risanato!» gridò d'un tratto in tono dolente la VedovaJudith. «Gilon Majere non è stato risanato né mai lo sarà. Di certo ve nechiedete il perché... ebbene, non è stato risanato a causa dei peccati diquesta donna!» dichiarò indicando Rosamun. «Sua figlia è una prostituta,suo figlio uno stregone... è colpa sua e dei suoi figli se Gilon Majere èmorto!».

Il dito proteso della vedova ebbe su Rosamun lo stesso effetto di unalancia che le avesse trapassato il corpo: per un momento lei fissò Judith

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con espressione sconvolta, poi urlò e si accasciò gemendo sulle ginocchia,mentre Raistlin scattava in piedi e scavalcava il corpo di suo padre.

«Come osi?» sibilò in tono sommesso e minaccioso, rivolto alla vedova,mentre si aggrappava ad un lato del carro e balzava a terra. «Vattene daqui! Lasciaci in pace!» esclamò quindi, quando si venne a trovare a facciaa faccia con la donna.

«Vedete?» stridette la Vedova Judith, indietreggiando precipitosamentee spostando su Raistlin il proprio dito proteso. «Lui è malvagio! Obbediscea dèi perversi!».

Un fuoco incandescente divampò all'interno di Raistlin, consumando inlui il buon senso e la razionalità: adesso non poteva vedere altro che il bagliore di quelle fiamme e non gli importava di esserne distrutto a patto

di poter annientare anche Judith.«Raist!» esclamò una voce, poi una mano forte e salda si protese in

mezzo alle fiamme per afferrarlo e trattenerlo. «Raist, fermati!».Quella mano, la mano di suo fratello, trascinò Raistlin fuori dal fuoco e

un momento più tardi il terribile bagliore incandescente che lo avevaaccecato si spense, lasciandolo freddo e tremante, con il sapore dellacenere in bocca.

«Non la toccare, Raist», stava dicendo Caramon, con voce arrochita dal

 pianto, tenendo le braccia possenti strette intorno alle spalle esili del suogemello. «Non dimostrare che ha ragione lei!».

Pallida in volto, la vedova era indietreggiata fino ad addossarsi con lespalle ad un albero, ed ora si guardò intorno per appellarsi ai suoi vicini.

«Avete visto anche voi, brava gente di Solace! Ha cercato di uccidermi.È un mostro in vesti umane, ve lo dico io! Scacciate questa progenie deldemonio e sua madre, allontanateli da Solace, dimostrate a Belzor che nontollerate una simile malvagità in mezzo a voi!».

Silenziosa, cupa e impassibile in volto, la folla si spostò lentamente inmodo da formare un cerchio protettivo, con la famiglia Majere al suocentro... Rosamun ancora accasciata al suolo a testa china, Raistlin eCaramon l'uno accanto all'altro e vicini alla madre; sebbene non tornasse più da anni presso la sua famiglia, Kitiara era stata invocata in spirito edera a sua volta presente anche se solo nella mente dei suoi fratelli. Vicinoai suoi familiari, il corpo di Gilon giaceva nel carro sotto la coperta che siandava inzuppando del suo sangue.

Esclusa dal cerchio, la Vedova Judith sfidò la folla senza che nessuno parlasse.

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Dopo qualche momento fra la calca si fece largo un uomo che Raistlinintravide solo in modo vago perché il fuoco che ancora covava sotto leceneri dentro di lui gli offuscava la vista; nonostante questo, conservònella memoria l'immagine di un uomo alto dal volto rasato, con lunghicapelli che gli coprivano gli orecchi per ricadere fino alle spalle.

L'uomo, che indossava abiti di cuoio decorati da frange e portava unarco appeso alla spalla, avanzò fino ad arrestarsi davanti alla VedovaJudith.

«Credo che sia tu quella che deve lasciare Solace», affermò con vocesommessa, senza minacciare ma limitandosi ad affermare un dato di fatto.

Judith lo fissò con aria accigliata, poi scoccò un'occhiata alla follaraccolta alle spalle dell'uomo.

«Intendete permettere a questo mezzosangue di parlarmi così?»domandò.

«Tanis ha ragione», ribatté Otik, venendo avanti con la sua andaturadondolante e agitando la mano grassoccia in cui stringeva ancora la caraffadi brandy. «Tornatene ad Haven, brava donna, e porta con te il tuo Belzor.Qui non abbiamo bisogno di lui perché possiamo pensare da soli allanostra gente».

«Aiutate vostra madre, ragazzi», consigliò intanto il nano, «e non vi

 preoccupate per vostro padre perché penseremo noi a seppellirlo. Naturalmente vi avvertiremo quando sarà tutto pronto, perché di certovorrete essere presenti».

Raistlin si limitò ad annuire, troppo stanco per parlare, poi si chinò per afferrare sua madre e farla rialzare. Lei però rimase inerte fra le sue braccia, accasciata e distrutta come una bambola di stracci che fosse statalacerata da cani infuriati, e nel vederla guardarsi intorno conquell'espressione vacua che ricordava anche troppo bene, Raistlin sentì il

cuore che gli si contraeva nel petto.«Mamma», chiamò in tono sommesso. «Adesso andremo a casa».Rosamun non rispose e non parve neppure averlo sentito mentre si

accasciava inerte fra le sue braccia come un peso morto.«Caramon?» mormorò Raistlin, sollevando lo sguardo verso il fratello.Con gli occhi colmi di lacrime, Caramon annuì, e lo aiutò a trasportare

Rosamun in casa.

CAPITOLO TERZO

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Il mattino successivo, Gilon Majere venne sepolto sotto i vallenwood eun nuovo albero venne piantato sulla sua tomba com'era usanza presso gliabitanti di Solace. I suoi figli vennero a presenziare al rito funebre, ma suamoglie non si fece vedere.

«Sta dormendo e non abbiamo voluto svegliarla», spiegò Caramon,arrossendo nel dire quella bugia.

La verità era che non ci erano riusciti.Entro il pomeriggio tutti a Solace vennero a sapere che Rosamun Majere

era scivolata in una delle sue trance, solo che questa volta era così profonda che lei non era neppure in grado di sentire le voci che lachiamavano, per quanto potessero esserle care.

I vicini vennero a porgere le loro condoglianze e a fornire suggerimenti

che potessero aiutarla a riprendersi, e Raistlin provò a metterne in praticaqualcuno, come, per esempio, farle inalare vapori di ammoniaca, mentrene ignorò altri, come pungerla ripetutamente con uno spillo.

O almeno li ignorò in un primo tempo, quando la paura non avevaancora cominciato a divorarlo.

 Non appena si venne a sapere che Rosamun rifiutava di mangiare, ivicini portarono cibi che destassero la sua golosità, e Otik arrivò con uncesto immenso colmo di prelibatezze provenienti dalla Locanda

dell'Ultima Casa, compresa una pentola fumante piena delle sue famose patate speziate in quanto lui era fermamente convinto che nessun esserevivente e pochissimi fra i non-viventi potessero resistere a lungo al loromeraviglioso profumo aromatizzato all'aglio.

Caramon accettò il cibo con un pallido sorriso e una sommessa parola diringraziamento, ma non permise ad Otik di entrare in casa e bloccò lasoglia con il proprio corpo massiccio.

«Lei sta meglio?» chiese Otik, protendendo il collo nel tentativo di

vedere qualcosa da sopra la spalla di Caramon.Otik era un brav'uomo, uno dei migliori fra gli abitanti di Solace, e

sarebbe stato pronto a rinunciare alla sua amata locanda se avesse saputoche questo poteva aiutare la donna malata, ma al tempo stesso amava fare pettegolezzi e adesso la tragica morte di Gilon e la strana malattia di suamoglie erano diventate argomento di dominio pubblico nella sala comunedella sua locanda.

Caramon infine riuscì a chiudere la porta e per un momento rimase ad

ascoltare i passi pesanti di Otik che si allontanavano sui ponti di assi,sentendolo fermarsi a tratti per parlare con parecchie donne della città e

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udendo menzionare spesso il nome di sua madre nella conversazione.Sospirando, portò il cibo in cucina e lo ripose con il resto delle provviste.

Disposte un po' di patate speziate in una ciotola vi aggiunse unasucculenta fetta di prosciutto cotto nel sidro e riempì un bicchiere con delvino elfico con l'intenzione di portare il tutto a sua madre. Sulla sogliadella sua stanza però si arrestò incerto.

Caramon amava sua madre perché questo era ciò che ci si aspettava daun bravo figlio e lui era sempre stato un bravo figlio entro i limiti delle suecapacità. D'altro canto, non era mai stato troppo affiatato con sua madre esi era sempre sentito più vicino a Kitiara che aveva fatto molto di più per allevare lui e Raistlin. Pur provando compassione per Rosamun ed essendoestremamente preoccupato per lei, Caramon dovette quindi farsi coraggio

 per entrare nella sua stanza nello stesso modo in cui supponeva un giornoavrebbe dovuto farsi coraggio per andare in battaglia.

La camera della malata era buia e calda, l'aria fetida era sgradevole darespirare e da annusare. Supina sul letto, Rosamun sembrava fissaredavanti a sé senza vedere nulla, e tuttavia pareva che scorgesse qualcosa perché i suoi occhi si muovevano e cambiavano espressione. A tratti eranosgranati, con le pupille dilatate, come se lei stesse vedendo qualcosa che laterrorizzava, e contemporaneamente il suo respiro si faceva rapido e poco

 profondo; in altri momenti, invece, era calma e a volte sfoggiava perfinouno spettrale sorriso la cui vista spezzava il cuore.

Lei non parlava mai, almeno non in maniera comprensibile, e i suoni cheemetteva erano gutturali e incoerenti; i suoi occhi costantemente aperti nonsi chiudevano neppure per dormire e nulla era in grado di scuoterla o diindurla a distogliere lo sguardo dalle visioni che avevano catturato la suaattenzione.

Le sue funzioni corporee sussistevano peraltro come sempre e Raistlin

 provvedeva a pulirla e a lavarla. Erano ormai passati tre giorni dal funeraledi Gilon e in quel tempo Raistlin non aveva mai lasciato il capezzale di suamadre, dormendo su un pagliericcio steso accanto al suo letto esvegliandosi al minimo rumore da lei prodotto, parlandole di continuo eraccontandole storie divertenti relative agli scherzi che i ragazzi sifacevano a vicenda a scuola, esponendole i suoi sogni e le sue speranze,descrivendole il suo orto e le diverse piante ivi coltivate.

Di tanto in tanto la costringeva a bere un po' di liquidi inzuppando

d'acqua uno straccio che poi le accostava alle labbra e strizzava a poco a poco in modo da farle bere qualche goccia per volta, piano perché non

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soffocasse; aveva anche cercato di farle mangiare qualcosa, ma Rosamunsi era mostrata incapace di inghiottire e alla fine lui aveva dovutorinunciare. Ora dopo ora, continuava ad accudirla con gentilezza, coninfinita tenerezza e incrollabile pazienza.

Fermo sulla soglia, Caramon indugiò ad osservare Raistlin che sedevaaccanto alla madre, intento a spazzolarle i capelli mentre lei rammentavastorie dell'infanzia che lei aveva vissuto a Palanthas.

«Voi tutti pensate di conoscere mio fratello», disse fra sé Caramon,rivolgendosi silenziosamente ad una fila di volti. «Tu, Maestro Theobald, etu, Jon Farnish, e anche tu, Sturm Brightblade, e tutti voi altri lo definite"Astuto" e "Subdolo", dite che è freddo, calcolatore e insensibile, e credetedi conoscerlo.  Io lo conosco», pensò, con occhi ora colmi di lacrime.

«Sono il solo a conoscerlo davvero».Dopo aver atteso un momento che la vista gli si schiarisse, si asciugò gli

occhi e il naso sulla manica della camicia versandosi al tempo stessoinvolontariamente addosso un po' di vino, poi trasse un'ultima, profonda boccata di aria fresca ed entrò nella buia e deprimente stanza della malata.

«Ho portato qualcosa da mangiare, Raist», avvertì.«Lei non riesce a mangiare», replicò Raistlin, scoccandogli un'occhiata

 per poi tornare a girarsi verso Rosamun.

«Io... ecco... è per te, Raist. Devi mangiare qualcosa altrimenti tiammalerai», si affrettò ad insistere Caramon, accorgendosi che già suofratello accennava a scuotere il capo in un gesto di diniego. «E se tudovessi ammalarti io cosa farei? Non sono molto bravo ad assistere imalati, Raistlin».

«Fai torto a te stesso, fratello mio», rispose Raistlin, sollevando losguardo su di lui. «Ricordo le volte in cui ero malato e tu creavi disegnicon le ombre sul muro. Conigli...». La voce gli si spense e non finì la frase.

Caramon sentì le lacrime serrargli la gola, ma si affrettò a ricacciarleindietro e protese il piatto verso il fratello.

«Avanti, Raist, mangia. Soltanto un poco... sono le patate di Otik».«La sua panacea per tutti i mali di questo mondo», commentò Raistlin,

con una smorfia. «D'accordo».Posata la spazzola su un piccolo comodino, accettò quindi il piatto e

mangiò un po' di patate e qualche boccone di prosciutto sotto lo sguardoansioso di Caramon, che assunse un'espressione delusa quando Raistlin gli

restituì il piatto ancora pieno per metà di cibo.«Non vuoi niente altro? Sei sicuro? Se vuoi ti posso portare qualche altra

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cosa, dato che abbiamo cibo in abbondanza».Raistlin scosse il capo.In quel momento Rosamun emise un suono, una sorta di penoso

mormorio, e subito lui le rivolse tutta la propria attenzione, chinandosi sudi lei e parlandole in tono sommesso mentre l'aiutava ad assumere una posizione più comoda, le umettava le labbra e le massaggiava le maniscarne.

«Sta... sta un po' meglio?» domandò Caramon, sentendosi impotente.Anche ad occhio nudo era in grado di constatare che Rosamun non stava

meglio, ma sperava che la sua impressione fosse sbagliata, e comunquesentiva il bisogno di dire qualcosa, di sentire almeno il suono della propriavoce, perché non gli piaceva quando la casa era così stranamente

silenziosa e non gli andava di essere rinchiuso in questa stanza buia edeprimente. Ciò che non capiva era come facesse suo fratello a sopportaredi restarvi tanto a lungo.

«No, e pare anzi peggiorata», rispose Raistlin, poi tacque per unmomento e quando riprese a parlare lo fece in tono sommesso e quasireverenziale: «È come se stesse correndo lungo una strada, Caramon,lontano da me. Io la seguo, le grido di fermarsi ma lei non mi sente perchénon mi presta attenzione. Sta correndo molto in fretta, Caramon...».

Smettendo di parlare, Raistlin distolse lo sguardo e finse di essereimpegnato a riassestare le coperte.

«Riporta il piatto in cucina», ordinò quindi, in tono aspro, «altrimentiattirerà i topi».

«Lo... lo riporto in cucina», assentì Caramon, sottovoce, e si affrettò adallontanarsi.

Una volta in cucina scagliò il piatti nella direzione in cui supponeva sitrovasse il tavolo, che non riusciva a vedere bene a causa del pianto che gli

velava gli occhi. Nel frattempo qualcuno bussò alla porta, ma lui ignoròquel suono e dopo un po' l'ignoto visitatore se ne andò mentre Caramon siappoggiava contro il camino e traeva profondi respiri, sbattendo condecisione le palpebre e imponendosi di smettere di piangere.

Quando si sentì più controllato, tornò quindi nella stanza della malata, perché aveva delle notizie che sperava avrebbero risollevato leggermente ilmorale del suo gemello.

Trovò Raistlin seduto di nuovo accanto al letto, su cui Rosamun giaceva

nella stessa posizione di prima, con gli occhi fissi infossati nelle orbite e lemani smagrite abbandonate sul copriletto. Adesso le ossa dei polsi

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sembravano di una grandezza innaturale e la carne pareva dissolversi dalsuo corpo a mano a mano che lo spirito sgusciava via, tanto in fretta che ilsuo aspetto sembrava essere peggiorato appena nei pochi momenti in cuiCaramon era rimasto assente. Distogliendo in fretta lo sguardo da suamadre, questi concentrò la propria attenzione su Raistlin.

«Otik è stato qui», cominciò, precisazione inutile dato che Raistlindoveva averlo già dedotto dall'apparizione delle patate. «Ha detto che laVedova Judith ha lasciato Solace questa mattina».

«Ha lasciato Solace», ripeté Raistlin, in tono che non era di domanda,girandosi a fissare il fratello con occhi arrossati nei quali era riapparsa unalingua di fiamma. «Dov'è andata?»

«È tornata ad Haven», rispose Caramon, sforzandosi di sorridere. «È

 partita dichiarando che ci avrebbe denunciati a Belzor e che lui sarebbevenuto qui per farci pentire di essere nati».

Quelle risultarono essere parole poco appropriate, in quanto Raistlinsussultò e lanciò uno sguardo rapido a sua madre. Accorgendosene,Caramon attraversò la stanza con due rapidi passi e gli serrò con forza unaspalla.

«Non puoi pensare una cosa del genere, Raist!» ammonì. «Non puoi pensare che sia stata colpa tua!».

«Non lo è stata?» ribatté Raistlin, in tono amaro. «Se non fosse stato per me, Judith avrebbe lasciato in pace nostra madre. Quella donna è venuta per causa mia, Caramon, era a me che stava dando la caccia. Una volta,nostra madre mi ha chiesto di abbandonare la magia, ed io mi sonodomandato cosa potesse spingerla a dire una cosa del genere. Adessocapisco che era opera di Judith, che la stava tormentando. Se soltanto loavessi saputo...».

«Cosa avresti fatto, Raistlin?» lo interruppe Caramon, accoccolandosi

accanto alla sua sedia e fissandolo con espressione seria. «Cosa avrestifatto? Avresti abbandonato la scuola? Rinunciato alla magia? Lo avrestifatto davvero?».

Raistlin rimase in silenzio per un momento, tormentando distrattamentecon le mani le pieghe della camicia lacera.

«No», rispose infine, «ma avrei parlato con nostra madre, le avreispiegato ogni cosa».

 Nel parlare guardò verso Rosamun e si protese a prendere nella sua

quella mano smagrita, serrandola con forza come per strappare alla malatauna reazione di qualche tipo, fosse pure una smorfia di dolore.

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Rendendosi conto che Rosamun non avrebbe battuto ciglio neppure se leavesse schiacciato la mano come se fosse stato il guscio vuoto di un uovo,alla fine sospirò e tornò a voltarsi verso Caramon.

«Non avrebbe fatto nessuna differenza, vero, fratello mio?» chiese intono sommesso.

«Assolutamente nessuna», confermò Caramon.Raistlin lasciò andare la mano della madre, su cui le sue dita avevano

lasciato segni che spiccavano rossi sulla pelle pallida, e si aggrappò invecealla mano forte del fratello; per lunghi momenti, i due gemelli rimaseroseduti l'uno accanto all'altro, trovando conforto nella reciproca vicinanza, poi Raistlin fissò Caramon con espressione un po' perplessa.

«Sei saggio, Caramon. Lo sapevi?» osservò.

Caramon scoppiò in una fragorosa risata che echeggiò come un tuononella stanza buia, allarmandolo al punto che lui si premette una mano sulla bocca e arrossì violentemente.

«No, Raist, non lo sono», rispose in un sussurro. «Mi conosci, sonostupido quanto un nano dei fossi, lo dicono tutti. Sei tu ad avere tutto ilcervello, ma va bene così perché ne hai bisogno mentre a me non serve,finché saremo insieme».

Raistlin abbandonò improvvisamente la mano del fratello e distolse il

volto.«Esiste una differenza fra saggezza e intelligenza, fratello mio, ed è

 possibile avere l'una ma non l'altra», replicò in tono freddo. «Ora perchénon vai a fare una passeggiata o torni a lavorare per il tuo fattore?».

«Ma, Raist...».«Non è necessario che restiamo qui entrambi. Posso cavarmela da solo».«Raist, io non...» protestò Caramon, alzandosi lentamente in piedi.«Per favore, Caramon!» insistette però suo fratello. «Se proprio vuoi

sapere la verità, ti agiti e ti preoccupi, e questo mi fa impazzire. Lavorandoall'aperto ti sentirai meglio, ed anch'io starò meglio se avrò un po' disolitudine».

«D'accordo, Raist, se è quello che vuoi» si arrese Caramon. «Suppongoche andrò a trovare Sturm: sua madre è passata a farci visita e a portare un po' di pane fresco, quindi penso che andrò a ringraziarla».

«Sì, fallo», annuì Raistlin, secco.Caramon non riusciva mai a capire cosa gli causasse queste crisi di

umore cupo e amaro, non era mai in grado di stabilire cosa lui potesse aver detto o fatto per spegnere la luce nell'animo di suo fratello come se vi

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avesse gettato sopra una secchiata di acqua fredda. Per un momento ancoraindugiò nella stanza, nella speranza che Raistlin potesse cambiare idea, chedicesse qualcosa di più o gli chiedesse di restare a tenergli compagnia, malui era già intento a inzuppare un pezzo di stoffa in una brocca d'acqua per  poi accostarlo alle labbra di Rosamun.

«Devi bere un poco, mamma», stava mormorando.Con un sospiro, Caramon si girò e lasciò la stanza.Il giorno successivo Rosamun morì.

CAPITOLO QUARTO

I gemelli seppellirono la madre nella stessa tomba del padre, nel corso di

una cerimonia funebre a cui parteciparono poche persone perché lagiornata era umida e fredda, nell'aria si avvertiva già un sentore di autunnoe la pioggia si riversava incessante su quanti erano raccolti intorno allatomba, inzuppandoli fino alle ossa, martellando sulla cassa di legno eformando una piccola pozza in fondo alla fossa. Sotto il suo scrosciare, ilvallenwood che venne piantato alla fine della cerimonia si accasciò triste edesolato, quasi annegato da tanta acqua.

A capo scoperto sotto l'acqua, Raistlin non stava ascoltando il fratello,

che già lo aveva incitato parecchie volte in tono ansioso a coprirsi la testacon il cappuccio del mantello, non stava sentendo nulla tranne il martellaredelle gocce d'acqua su quella cassa di legno, tanto piccola che avrebbe potuto quasi essere quella di un bambino. In quegli ultimi, terribili giorni,Rosamun si era infatti ridotta ad un mucchietto di pelle e di ossa, come seciò che stava vedendo e che l'aveva intrappolata si stesse nutrendo dellasua carne, divorandola a poco a poco.

Raistlin era consapevole di essere sul punto di ammalarsi a sua volta

 perché aveva riconosciuto i sintomi e sapeva che la febbre gli ardeva giànel sangue, come testimoniava il succedersi di brividi di freddo e di ondatedi calore unito a un dolore diffuso in tutti i muscoli. Al tempo stessodesiderava disperatamente dormire, ma ogni volta che ci provava sentivala voce di sua madre che lo chiamava e si svegliava all'istante, in unsilenzio assoluto e spaventoso.

Durante il funerale avrebbe voluto piangere ma non lo fece e ricacciòinvece indietro le lacrime, non perché se ne vergognasse ma perché non

sapeva per chi stesse piangendo, se per sua madre o per se stesso.Sconvolto e confuso, non si accorse neppure dello svolgersi della

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cerimonia o del trascorrere del tempo, in quanto gli pareva di essere fermoaccanto a quella tomba da tutta una vita. Si rese conto che il rito si eraconcluso soltanto quando Caramon lo tirò dapprima per una manica e poilo sollevò quasi di peso per portarlo via; nonostante questo, non fuCaramon a indurlo ad allontanarsi ma il rumore delle zolle di terra checadevano sulla bara, un suono opaco che destò in lui un brividoincontenibile.

Quando provò a muovere un passo però incespicò e per poco non caddenella fossa, trattenuto a tempo da Caramon che lo sostenne.

«Raist! Stai bruciando!» esclamò questi, in tono preoccupato.«L'hai sentita, Caramon?» domandò Raistlin in tono preoccupato, invece

di rispondere. «L'hai sentita chiamarmi?».

«Ti devo portare a casa», dichiarò con fermezza Caramon, passandogliun braccio intorno alle spalle.

«Dobbiamo fare in fretta!» annaspò però Raistlin, liberandosi dellamano del fratello e dando l'impressione di voler balzare nella fossa. «Leimi sta chiamando».

Quando però cercò di muoversi non riuscì a camminare bene perché ilterreno aveva qualcosa che non andava e persisteva nell'oscillare come laschiena di un leviatano, dondolando e facendogli perdere l'equilibrio.

Adesso stava sprofondando, stava scivolando nella tomba e la terra glicadeva addosso, senza che la voce di lei smettesse di chiamarlo...

Raistlin si accasciò al suolo accanto alla fossa, chiuse gli occhi e giacqueimmobile in mezzo al fango e alle foglie cadute.

«Raist!» chiamò Caramon, chinandosi su di lui e scrollandololeggermente.

Quando il suo gemello non reagì Caramon si guardò intorno con preoccupazione e scoprì di essere rimasto solo con il fratello, con la sola

eccezione dell'incaricato delle sepolture che stava riversando la terra nellafossa più in fretta che poteva per poter poi tornare al chiuso. Gli altri cheerano intervenuti al funerale se n'erano andati non appena le convenienzelo avevano reso possibile, diretti verso il calore della loro casa o il fuococrepitante della Locanda dell'Ultima Casa, dopo aver pronunciato in frettaqualche parola di condoglianza senza neppure saper bene che cosa dire, perché nessuno aveva conosciuto a fondo Rosamun o aveva mai avutomolta simpatia per lei.

Adesso quindi non c'era nessuno che potesse aiutare Caramon, che potesse dargli consigli: sapendo di essere abbandonato a se stesso, lui si

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chinò e si preparò a sollevare il fratello fra le braccia per portarlo a casa,ma in quel momento un paio di lucidi stivali neri e il bordo di un mantellomarrone entrarono nel suo campo visivo.

«Salve, Caramon».Sentendo il suo nome, Caramon sollevò la testa e spinse indietro il

cappuccio per vedere meglio, ma la pioggia gli si riversò sui capelli e di lìgli colò negli occhi.

Davanti a lui c'era una donna che poteva avere circa vent'anni o forsequalcuno di più. Il suo volto era attraente anche se non bello, i capellinascosti dal cappuccio erano neri e raccolti in riccioli umidi intorno alviso, gli occhi scuri e luminosi erano forse un po' troppo scintillanti e duri,come due diamanti, e il suo abbigliamento era costituito da un'armatura di

cuoio marrone modellata in modo da aderire al corpo ben tornito, da unacomoda tunica verde, da calzoni dello stesso colore e dai lucidi stivali neriche le arrivavano alle ginocchia. Una spada le pendeva dal fianco.

 Nel complesso, quella donna appariva familiare, ma pur essendoconsapevole di conoscerla Caramon adesso non aveva il tempo di vagliarela propria memoria, quindi borbottò qualcosa sul fatto che doveva aiutaresuo fratello e si disinteressò di lei, ma un attimo dopo la donna gli fuaccanto e s'inginocchiò accanto a Raistlin.

«È anche mio fratello, sai», commentò, incurvando le labbra in unsorriso in tralice.

«Kit!» sussultò Caramon, che infine l'aveva riconosciuta. «Cosa ci fai...dove sei... come...».

«Adesso è meglio portarlo in un posto caldo e asciutto», lo interruppeKitiara, assumendo il controllo della situazione con estremo sollievo diCaramon. «Tu prendilo per un braccio, io lo solleverò dall'altra parte».

Lei era forte quanto un uomo, e fra tutti e due riuscirono a issare in piedi

Raistlin, che si riscosse per un momento, si guardò intorno con occhiopachi e borbottò qualcosa prima di abbandonare la testa da un lato e perdere di nuovo conoscenza.

« È... è davvero malato!» esclamò Caramon, sentendo la paura diventaredentro di lui qualcosa di vivo e di concreto che gli serrava il cuore. «Nonl'ho mai visto in uno stato simile!».

«Bah! Io ho visto di peggio», dichiarò con sicurezza Kitiara, «ed hocurato di molto peggio, come ferite da freccia al ventre o gambe tagliate di

netto. Non ti preoccupare», aggiunse, mentre il suo sorriso si addolcivaalquanto di fronte all'angoscia di Caramon. «Ho già combattuto in passato

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contro la Morte per salvare il mio fratellino e posso farlo di nuovo, se sarànecessario».

Insieme trasportarono Raistlin su per la lunga rampa di scale checonduceva ai ponti fra gli alberi, poi proseguirono sotto i rami gocciolantifino alla piccola casa dei Majere. Una volta dentro, Caramon accese ilfuoco mentre Kit liberava Raistlin dai vestiti fradici con rapida efficienza priva di pudore, scoppiando a ridere quando Caramon azzardò una mite eimbarazzata protesta.

«Cosa ti prende, fratellino? Hai paura che la mia delicata sensibilitàfemminile rimanga sconvolta?» domandò, e strizzandogli l'occhioaggiunse: «Non ti preoccupare, ho già visto altre volte degli uomini nudi».

Rosso in volto, Caramon l'aiutò ad adagiare Raistlin nel suo letto.

Adesso lui stava tremando così violentemente da far temere che potesserotolare per terra, diceva parole che non avevano senso e di tanto in tantolanciava un grido per poi fissare qualcosa con gli occhi dilatati dallafebbre. Frugando per tutta la casa, Kit requisì intanto tutte le coperte cheriuscì a trovare e le ammucchiò sul fratello, poi gli posò una mano sulcollo per controllare le pulsazioni e arricciò le labbra in un'espressione pensierosa, scuotendo il capo, mentre Caramon stava da un lato el'osservava con aria ansiosa.

«Quella vecchia è ancora da queste parti?» chiese d'un tratto Kitiara.«Sai a chi mi riferisco, quella che parlava con gli alberi, fischiava come unuccello e aveva un lupo come animale domestico».

«Meggin la Pazza? Sì, credo che ci sia ancora», rispose Caramon, intono dubbioso. «Io non vado spesso in quella parte della città perchénostro padre non vuole...». Interrompendosi deglutì a fatica e concluse:«Nostro padre non voleva che andassimo là».

«Tuo padre non c'è più, Caramon, e adesso sei affidato a te stesso»,

replicò Kitiara, con brutale franchezza. «Va' da Meggin la Pazza e dilleche hai bisogno dell'elisir di corteccia di salice. Avanti, spicciati,dobbiamo far calare questa febbre».

«Elisir di corteccia di salice», ripeté più volte Caramon fra sé mentre simetteva il mantello. «Non serve niente altro?».

«Per il momento no. Caramon, ancora una cosa...» lo trattenne Kitiara,mentre lui già stava varcando la soglia. «Non dire a nessuno che sonotornata in città, d'accordo?».

«Certo, Kit», assentì Caramon. «Ma perché non devo dirlo?».«Non voglio essere seccata da un mucchio di pettegoli che vendono a

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curiosare e a fare domande. Adesso muoviti. No, aspetta! Hai del denaro?»Quando Caramon scosse il capo, Kitiara infilò la mano in una sacca di

cuoio che portava alla cintura, ne tirò fuori un paio di monete d'acciaio e lelanciò al fratello.

«Sulla via del ritorno dalla casa della vecchia fermati da Otik e comprauna caraffa di brandy. In casa c'è qualcosa da mangiare?».

«I vicini ci hanno portato una quantità di roba», annuì Caramon.«Ah, dimenticavo, il banchetto funebre. D'accordo, adesso va' e ricorda

che non devi dire a nessuno che sono qui».Caramon infine si avviò, incuriosito da quell'ordine della sorella; però,

dopo parecchi momenti di lunga e attenta riflessione, giunse allaconclusione che Kitiara sapeva quello che stava facendo, perché se si fosse

saputo che lei era in città ogni pettegolo fra Solace e le Pianure dellaPolvere sarebbe venuto a ficcare il naso nei suoi affari mentre Raistlinaveva bisogno di riposo e di quiete, non di un flusso incessante divisitatori. Sì, Kit sapeva quello che stava facendo e avrebbe aiutatoRaistlin.

In genere Caramon aveva sempre una visione positiva delle cose e nonera portato ad angustiarsi per quello che era successo in passato o a preoccuparsi per il futuro; era per natura onesto e fiducioso, e come molte

 persone del genere era convinto che tutti gli altri fossero onesti e degni difiducia, per cui ripose tutta la propria fede nella sorella e si affrettò sotto la pioggia alla volta della casa di Meggin la Pazza, che viveva in unamalconcia baracca eretta direttamente sul terreno sotto gli alberi divallenwood, non lontano dal locale di cattiva fama noto comeL'Abbeveratoio. Concentrato com'era sull'incarico che doveva assolvere eintento a ripetere fra sé «corteccia di salice, corteccia di salice», Caramon per poco non inciampò nel vecchio lupo grigio sdraiato davanti alla soglia

della capanna.Quando però il lupo ringhiò lui si affrettò a indietreggiare

 precipitosamente.«Bravo cagnetto», mormorò in tono amichevole.Il lupo si sollevò sulle zampe con il pelo che cominciava a rizzarsi e

ritrasse le labbra in un ringhio in modo da mostrare le zanne gialle mamolto affilate.

Percosso dalla pioggia che gli aveva inzuppato il mantello, Caramon

rimase immobile nel fango che gli arrivava alla caviglia: da dove sitrovava poteva vedere la finestra illuminata dal chiarore di una candela e

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una figura che si muoveva all'interno della casa, quindi fece un altrotentativo per oltrepassare il lupo.

«Avanti, fa' il bravo cane», disse, accennando ad accarezzare l'animalesulla testa... e ritraendo la mano appena in tempo per evitare che le zannegialle si richiudessero di scatto intorno ad essa.

Con le mani affondate ora nelle tasche, Caramon abbandonò l'idea diusare la porta e pensò che avrebbe potuto bussare alla finestra. Il lupo perònon era dello stesso parere e alla fine l'ebbe vinta lui.

Caramon però sapeva che non poteva andarsene senza la corteccia disalice, e anche se chiamare qualcuno da fuori della porta non era moltocortese la disperazione infine lo indusse a tentare.

«Pazza...» cominciò, poi arrossì e riprovò: «Meggin! Padrona Meggin!».

Alla finestra apparve il volto di una donna di mezz'età, con i capelli grigistrettamente raccolti all'indietro e gli occhi luminosi e limpidi. La donna,che di certo non sembrava pazza, osservò con attenzione il fradiciovisitatore e si allontanò dalla finestra. Per un momento Caramon sentì ilcuore che gli sprofondava nel fango, che ora pareva arrivargli alleginocchia, poi udì un rumore stridente che sembrava quello di una sbarrache veniva sollevata. Subito dopo la porta si aprì e la donna disse al lupouna parola che Caramon non comprese, in risposta alla quale l'animale si

rotolò al suolo con le quattro zampe all'aria e permise alla vecchia digrattargli il ventre.

«Allora, ragazzo, che cosa vuoi?» chiese quindi Meggin, sollevando losguardo. «Il clima è un po' inclemente perché tu sia venuto a lanciare sassicontro la mia casa, giusto?».

Caramon si tinse di un acceso rossore, perché quell'episodio dei sassi erasuccesso molto tempo prima, quando lui era ancora un bambinetto, e avevail presentimento che la donna non lo avrebbe riconosciuto.

«Allora, che cosa vuoi?» ripeté Meggin.«Corteccia», rispose lui a bassa voce, vergognoso, impacciato e

imbarazzato. «Un tipo di corteccia, ma... ho dimenticato quale».«Per che cosa serve?» domandò la vecchia in tono secco.«Uh... Kit... no, non intendevo questo. Si tratta di mio fratello, ha la

febbre».«Elisir di corteccia di salice. Vado a prenderlo», disse la donna, poi lo

fissò per un momento e aggiunse: «Ti inviterei ad entrare per ripararti dalla

 pioggia, ma scommetto che preferisci evitarlo».Caramon sbirciò nella baracca alle spalle della donna, dove ardeva un

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fuoco invitante. Sul tavolo sì vedeva però anche un teschio umano intornoa cui erano sparse svariate altre ossa, fra cui una cassa toracica attaccata aduna colonna vertebrale. Se non fosse stata una cosa troppo orribile daimmaginare, Caramon avrebbe potuto supporre che la donna stessecercando di ricostruire una persona partendo dalle ossa.

«No, signora», rispose, indietreggiando di un passo. «Ti ringrazio, masto bene dove sono».

La vecchia richiuse la porta ridacchiando e il lupo si accoccolò sullasoglia, tenendo d'occhio Caramon con i suoi occhi gialli mentre luiaspettava a disagio sotto la pioggia in preda alla preoccupazione per ilfratello, augurandosi che la vecchia non impiegasse troppo tempo a tornaree chiedendosi con ansia se poteva fidarsi di lei. Forse quella donna aveva

 bisogno di altre ossa per la sua collezione, forse era andata a prendereun'ascia...

La porta si riaprì in maniera tanto improvvisa che Caramon sussultò.«Ecco qui, ragazzo», disse Meggin, porgendogli una piccola fiala di

vetro. «Riferisci a tua sorella che Raistlin ne deve inghiottire un grossocucchiaio mattina e sera fino a quando la febbre non sarà cessata. Haicapito?».

«Sì, signora. Grazie, signora», rispose Caramon, armeggiando per tirare

fuori le monete che aveva in tasca, poi si rese conto di colpo di quello chela donna aveva detto e aggiunse balbettando: «Non è per... uh... per miasorella. Lei non è qui... non proprio. È lontana, ed io non...».

Arrendendosi, Caramon infine tacque, perché sapeva di essere incapacedi mentire.

«È ovvio che è qui», ribatté Meggin, ridacchiando ancora. «In ogni casonon lo dirò a nessuno, non temere. Spero che tuo fratello si rimetta, equando starà bene digli di venire a trovarmi. Sento la sua mancanza».

«Mio fratello viene qui?» domandò Caramon, stupefatto.«Di continuo. Chi credi che gli abbia insegnato a conoscere le erbe?

Certo non quell'idiota pasticcione di Theobald, che non saprebbedistinguere un dente di leone da un fiore di melo neppure se gli mordesse il posteriore. Ricordi la dose, oppure vuoi che te la scriva?».

«Io... la ricordo», rispose Caramon, porgendo una moneta.«Non faccio pagare niente agli amici», disse però Meggin,

respingendola con un gesto. «Mi è dispiaciuto per i vostri genitori. Prima o

 poi torna a trovarmi, Caramon Majere, perché mi piacerebbe parlare conte. Scommetto che sei più intelligente di quanto credi».

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«Sì, signora», assentì cortesemente Caramon, senza avere idea di cosalei avesse inteso dire e senza l'intenzione di accettare il suo invito.

Rivolto alla donna un goffo inchino, si avviò in mezzo al fango allavolta della scala che portava sugli alberi, tenendo stretta a sé la fiala dielisir di corteccia di salice con la stessa delicatezza con cui una madreavrebbe tenuto fra le braccia il suo neonato. Mentre camminava, i suoi pensieri erano confusi: Raistlin andava a trovare quella vecchia megera eimparava delle cose da lei... forse aveva perfino toccato quel teschio! Conuna smorfia, Caramon decise che era tutto molto sconcertante.

La sua mente era così sottosopra che si dimenticò completamente difermarsi alla locanda per prendere il brandy, con il risultato che una volta acasa venne sgridato severamente da Kit e fu costretto ad uscire di nuovo

sotto la pioggia per andare a prenderlo.

CAPITOLO QUINTO

Raistlin rimase gravemente malato per parecchi giorni. La febbre calavasempre dopo una dose di corteccia di salice ma poi tornava a salire e ognivolta pareva farsi più intensa, e anche se Kitiara tendeva a minimizzaresulle condizioni di Raistlin ogni volta che chiedeva sue notizie, Caramon

non aveva difficoltà ad accorgersi che era preoccupata. A volte di notte,quando lei lo credeva addormentato, Caramon la poteva sentire emettereun profondo sospiro e poi tamburellare con le dita sul bracciolo della sediaa dondolo appartenuta a Rosamun, che aveva trascinato nella piccolacamera che i due gemelli condividevano.

Kitiara non era un'infermiera gentile, non aveva pazienza nei confrontidelle debolezze, ma era decisa che Raistlin dovesse vivere e stava quindifacendo tutto quello che era in suo potere perché migliorasse, irritandosi e

arrivando perfino ad infuriarsi quando lui non reagiva ai trattamenti. Ad uncerto punto, l'irritazione di Kitiara crebbe a tal punto che lei cominciò aconsiderare quella situazione una sua lotta personale, e da quel momento lasua espressione si fece così cupa e decisa da indurre Caramon a chiedersise perfino la Morte non dovesse sentirsi un po' intimidita all'idea diaffrontare una simile avversaria.

Evidentemente la Morte dovette spaventarsi, perché la sua presenzaincombente cominciò ad allontanarsi.

La mattina del quarto giorno da quando il suo gemello si era ammalato,Caramon si svegliò dopo una notte agitata e trovò Kit accasciata sul letto

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con la testa appoggiata alle braccia e gli occhi chiusi, addormentata. AncheRaistlin stava dormendo, non del sonno profondo e agitato proprio dellamalattia ma in maniera riposante e risanante.

 Nel protendere una mano per controllare le pulsazioni del fratello,Caramon sfiorò involontariamente la spalla di Kitiara, che scattò in piedi elo afferrò con una mano per il colletto della camicia, torcendolo in mododa serrargli il collo mentre nell'altra mano le appariva un coltello,scintillante sotto il sole del primo mattino.

«Kit, sono io!» gracchiò Caramon, semisoffocato.Per un momento Kitiara lo fissò senza riconoscerlo, poi la sua bocca si

contrasse nel consueto sorriso in tralice e lei lo lasciò andare, lisciando lacamicia per liberarla dalle pieghe, mentre il coltello scompariva tanto in

fretta da impedire a Caramon di vedere dove fosse andato a finire.«Mi hai spaventata», disse Kitiara.«Me ne sono accorto!» esclamò Caramon con sentimento, sentendo il

collo che gli bruciava dove la rozza stoffa fatta in casa gli era affondatanella pelle; massaggiandosi il punto dolente, adocchiò con cautela lasorella.

Kitiara era più bassa e snella di lui, ma se non avesse parlato in tempo per lui sarebbe stata la fine: poteva ancora sentire la sua mano che gli

serrava la stoffa intorno alla gola, mozzandogli il respiro.Fra i due scese intanto un imbarazzato silenzio, perché Caramon aveva

visto in sua sorella qualcosa d'inquietante che lo aveva raggelato... nonl'attacco in se stesso ma piuttosto la gioia intensa che le aveva letto negliocchi mentre lo aggrediva.

«Mi dispiace, non volevo spaventarti», si scusò infine lei, assestandogliuno schiaffo scherzoso su una guancia. «Però non ti avvicinare più disoppiatto in quel modo mentre sto dormendo, d'accordo?».

«Certamente, Kit», assentì Caramon, ancora a disagio ma disposto adammettere che l'incidente era stato colpa sua. «Mi dispiace di avertisvegliata... volevo soltanto controllare come stava Raistlin».

«Ha superato la crisi e adesso si rimetterà», dichiarò Kitiara con unsorriso trionfante, abbassando lo sguardo sul malato con lo stesso orgogliocon cui avrebbe contemplato un nemico sconfitto. «La febbre è calata lascorsa notte e non è più tornata a salire. Adesso la cosa migliore è lasciarlodormire tranquillo. Avanti», continuò, spingendo il riluttante Caramon

fuori della porta, «da' ascolto alla tua sorella maggiore. Intanto, per ripagarmi dello spavento che mi hai fatto prendere puoi prepararmi la

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colazione».«Spavento?» ripeté Caramon, sbuffando. «Tu non eri spaventata».«Un soldato è sempre spaventato», lo corresse Kitiara, sedendo al tavolo

e divorando avidamente una mela ancora verde, uno dei primi frutti diquella stagione. «Ciò che conta è in che cosa si trasforma la paura».

«Cosa significa?» domandò Caramon, sollevando lo sguardo dal paneche era intento ad affettare.

«La paura ti può devastare», spiegò Kitiara, affondando i forti denti bianchi nella mela, «oppure puoi sfruttarla a tuo favore, usarla comeun'altra arma. La paura è una cosa strana che può indebolirti le ginocchia,farti bagnare i pantaloni e indurti a piagnucolare come un bambino piccolo, oppure ti può aiutare a correre più veloce e a colpire con maggiore

forza».«Davvero?» esclamò Caramon, infilando una fetta di pane con un

forchettone e protendendola sul fuoco per tostarla.«Una volta ho preso parte ad un combattimento», raccontò Kitiara,

appoggiandosi allo schienale della sedia e puntellando i piedi calzati distivali sulla sedia vicina. «Un branco di orchetti ci ha aggrediti e a uno deimiei compagni, un tizio che chiamavano Bart Naso Azzurro perché il suonaso aveva una strana tinta bluastra, si è spezzata in due la spada mentre

stava combattendo contro un orchetto. Il suo avversario ha lanciato unostrillo di gioia perché era certo di avere in pugno la sua preda, e Bart si èinfuriato perché aveva bisogno di un'arma dato che quell'orchetto lo stavaattaccando da ogni parte e lo stava costringendo a saltellare di qua e di làcome un mostro dell'Abisso per non essere colpito. Alla fine Bart hadeciso che aveva bisogno di un randello ed ha afferrato la prima cosa chesi è trovata a portata di mano... che era un albero. Non un ramo ma unintero, dannato albero. Lui ha sradicato quella pianta dal terreno, si

 potevano sentire le radici che schioccavano e si spezzavano, e lo ha calatosulla testa dell'orchetto, uccidendolo sul colpo».

«Impossibile!» protestò Caramon. «Non ci credo! Avrebbe davverosradicato un albero dal terreno?».

«Era un albero giovane», spiegò Kitiara con una scrollata di spalle, «maquando ci ha riprovato con un'altra pianta delle stesse dimensioni, dopoche la battaglia era finita, lui non è più riuscito a sradicarla e neppure ascuoterne i rami. Questo è ciò che la paura può fare per te».

«Capisco», annuì Caramon, con aria pensosa.«Stai bruciando il pane», avvertì Kitiara.

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«Oh, mi dispiace. Questo pezzo lo mangerò io», si scusò Caramon,sfilando il pane annerito dal forchettone per sostituirlo con un'altra fetta.

Da un paio di giorni c'era una domanda che continuava a tormentarlo, eadesso cercò di escogitare un modo astuto per porla senza però trovarlo:Raistlin era fra loro quello abile nei sotterfugi, lui si limitava ad avanzare atesta bassa, quindi alla fine decise che la cosa migliore era porre ladomanda come sapeva e farla finita, soprattutto perché al momento Kitiarasembrava essere di buon umore.

«Perché sei tornata?» chiese quindi, evitando di guardarla mentrerigirava con cura il pane sul forchettone per dorarlo anche dall'altro lato.«È stato a causa di nostra madre? Eri presente al suo funerale, giusto?».

Un istante più tardi sentì gli stivali della sorella colpire il pavimento e

sollevò lo sguardo con aria tesa, pensando di averla offesa. Kitiara eraadesso in piedi con la schiena rivolta verso di lui e stava guardando fuoridella piccola finestra; aveva smesso infine di piovere e le foglie deivallenwood, che stavano cominciando a cambiare colore, brillavano doratesotto il sole del mattino.

«Avevo saputo della morte di Gilon da alcuni taglialegna che hoincontrato in una taverna, nel nord», rispose infine Kitiara. «Loro hanno parlato anche della... malattia... di Rosamun», aggiunse, contraendo le

labbra e scoccando un'occhiata in tralice a Caramon. «Se devo essereonesta, sono tornata per te e per Raistlin, ma te ne parlerò fra un momento.Sono giunta a Solace la notte in cui Rosamun è morta e mi sono fermata presso... presso degli amici. Sì, sono venuta al funerale perché lei era miamadre, che questo mi piacesse o meno. Immagino che la sua morte siastata un duro colpo per te e per Raist, vero?».

Caramon annuì in silenzio perché era una cosa a cui non gli andava di pensare. Con aria cupa, prese a sbocconcellare il pane bruciacchiato.

«Se vuoi delle uova te le posso friggere», propose.«Sì, sono affamata. Aggiungi anche un po' delle patate di Otik, se ce ne

sono ancora», rispose Kitiara, rimanendo in piedi vicino alla finestra.«Rosamun non significava nulla per me», aggiunse con voce d'un tratto piùdura, «ma non presenziare al funerale mi avrebbe portato sfortuna».

«Cosa intendi con "sfortuna"?».«Oh, so che sono tutte sciocchezze superstiziose», annuì Kitiara, con un

sorriso contrito, «ma lei era mia madre ed è morta, e le devo quindi portare

rispetto, altrimenti... ecco... altrimenti potrei essere punita», spiegò,apparentemente a disagio. «Mi potrebbe succedere qualcosa di brutto».

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«Sembra di sentire la Vedova Judith», commentò Caramon, rompendo ilguscio di un uovo e tentando in modo goffo e inetto di estrarne ilcontenuto. Le sue uova strapazzate erano note per essere miste aframmenti di guscio. «Lei ha detto che un dio chiamato Belzor ci avrebbe puniti... è questo che intendi?».

«Belzor! Che idiozia! Gli dèi esistono, Caramon, dèi possenti che ti possono punire se fai qualcosa che a loro non piace, ma che tiricompensano se li servi fedelmente».

«Parli sul serio?» domandò Caramon, fissando sua sorella. «Non tioffendere, ma prima d'ora non ti avevo mai sentita fare discorsi delgenere».

Kitiara volse d'un tratto le spalle alla finestra e si diresse verso il tavolo

con passi lunghi e decisi, piantando le mani sulla superficie di legno efissando Caramon in volto.

«Vieni con me!» propose, senza rispondere alla sua domanda. «Nel nordc'è una città chiamata Sanction dove stanno accadendo grandi cose,Caramon, cose importanti. Io ho intenzione di esserne parte e potrai farloanche tu. Sono tornata per venire a prenderti».

Caramon si sentì indotto in tentazione all'idea di viaggiare con Kitiara,di vedere il vasto mondo al di fuori di Solace. Basta sgobbare tutto il

giorno in una fattoria, zappare, arare e ammucchiare fieno fino ad avere le braccia doloranti. Adesso avrebbe potuto usare quelle braccia per maneggiare una spada, combattere contro orchetti e orchi per poitrascorrere le notti intorno al fuoco con i suoi compagni oppure in unacomoda taverna con una ragazza sulle ginocchia.

«Cosa mi dici di Raistlin?» domandò.«Speravo di trovarlo più in forze», rispose Kitiara, scuotendo il capo. «È

già in grado di usare la magia?».

«Io... io non credo», replicò Caramon.«Allora è probabile che non sarà mai in grado di usarla, considerato che

i maghi che io conosco utilizzano il loro talento già all'età di dodici anni!In ogni caso sono certa che potrei trovargli un lavoro. Lui è istruito, vero?Conosco un tempio dove stanno cercando degli scribi... un lavoro facile euna vita comoda. Che te ne pare? Potremmo partire non appena Raistlinsarà in condizione di viaggiare».

Caramon si concesse per un'ultima volta d'immaginarsi nell'atto di

 passeggiare per quella città chiamata Sanction, con indosso un'armaturatintinnante e con la spada al fianco, in mezzo agli sguardi ammirati delle

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donne, poi accantonò quella visione con un sospiro.«Non posso farlo, Kit. Raist non lascerà mai la sua scuola fino a quando

non sarà pronto a sostenere una prova di qualche tipo a cui si dovràsottoporre in una grande torre che si trova da qualche parte».

«Che rimanga, allora», ribatté Kitiara, irritata. «Verrai soltanto tu». Nel parlare fissò il fratello con uno sguardo che era quasi quello che lui

aveva immaginato di vedere negli occhi delle donne di Sanction ma cheera al tempo stesso diverso in quanto lei lo stava valutando comeguerriero. Inconsciamente, Caramon sedette più eretto, ben sapendo diessere più alto degli altri ragazzi della sua età e della maggior parte degliuomini adulti di Solace, senza contare che il duro lavoro nei campi loaveva aiutato a sviluppare i muscoli, che spiccavano sotto la camicia.

«Quanti anni hai?» domandò Kitiara.«Sedici».«Senza dubbio potresti fingere di averne diciotto, e lungo il viaggio

verso il nord io ti potrei insegnare tutto quello che hai bisogno di imparare.Qui Raistlin se la caverà ottimamente da solo perché ha la casa... vostro padre l'ha lasciata a voi due, vero? Bene, in tal caso non c'è nulla che titrattenga».

Caramon poteva anche essere un credulone, poteva essere poco brillante,

cosa di cui spesso suo fratello lo accusava, e lento nel pensare, ma unavolta che aveva preso una decisione era inamovibile quanto il Piccodell'Occhio che Prega.

«Non posso lasciare Raistlin», dichiarò.Kitiara si accigliò, irritata perché non era abituata a veder contrastare la

 propria volontà, e incrociò le braccia sul petto mentre fissava Caramon conocchi roventi e prendeva a tamburellare sul pavimento con lo stivale. Adisagio sotto il suo sguardo penetrante, Caramon abbassò la testa e sbatté

le uova con tanta forza da farle schizzare fuori dalla ciotola.«Potresti discuterne con Raistlin», disse infine, con voce soffocata dal

colletto della camicia nel quale aveva affondato la faccia. «Forse io mi stosbagliando e lui vorrà partire».

«Lo farò», assentì Kitiara in tono tagliente, mettendosi a camminareavanti e indietro per la piccola stanza.

Senza aggiungere altro, Caramon rovesciò quanto restava delle uova inuna padella che pose sul fuoco; mentre cucinava sentì i passi di Kitiara

echeggiare cupi sul legno e sussultò quando uno di essi calcò il pavimentocon particolare forza pervasa di rabbia... poi le uova furono pronte e i due

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sedettero in silenzio a fare colazione.Quando infine si arrischiò a lanciare un'occhiata alla sorella, Caramon

vide che lei lo stava osservando con un sorriso affabile sulle labbra.«Queste uova sono davvero buone», affermò Kitiara, sputando qualche

 pezzetto di guscio. «Ti ho mai parlato di quella volta che un bandito hacercato di accoltellarmi mentre dormivo? Il modo in cui mi hai svegliatami ha riportato alla mente quella storia. Quel giorno avevamo combattutoduramente ed ero sfinita; questo bandito...».

 Nel corso della giornata, Caramon ascoltò quella storia e molte altreeccitanti avventure, divertendosi nel seguire le diverse vicende perché Kitera davvero brava a raccontarle. Di tanto in tanto, Caramon si recava nellacamera da letto per controllare le condizioni di Raistlin, che trovava

sempre serenamente addormentato, e al suo ritorno in cucina si vedevaelargire un'ennesima storia di valore, di audacia, di battaglie, di vittorie edi ricchezze conquistate. Lui ascoltava, rideva e sussultava al momentogiusto, ma al tempo stesso era perfettamente consapevole di ciò che suasorella stava cercando di fare. Peraltro la risposta possibile era unasoltanto: se Raistlin avesse acconsentito a partire Caramon sarebbe andatocon lui, e se avesse scelto di rimanere sarebbe rimasto a sua volta.

Raistlin si svegliò quella sera, talmente debole da non riuscire a

sollevare la testa dal cuscino senza aiuto, e mentre Caramon lo aiutava a bere un po' di brodo di pollo Kitiara gli fece la stessa proposta che aveva presentato a Caramon, solo che non riuscì ad essere altrettanto disinvoltanel fissare quegli acuti occhi azzurri che la fissavano in modo tale da darel'impressione di vederle attraverso.

«Per chi lavori?» chiese Raistlin, quando lei ebbe finito di parlare.«Delle persone», rispose Kitiara, scrollando le spalle.«E qual è questo tempio in cui vorresti che lavorassi? A quale dio è

dedicato?».«Non a Belzor, puoi esserne certo», rise Kitiara.Tuttora impegnato a imboccare il fratello, Caramon cercò di interloquire

ma Raistlin lo zittì freddamente.«Ti ringrazio, sorella, ma non sono pronto», disse infine.«Pronto?» ripeté Kitiara, che non riusciva a capire di cosa lui stesse

 parlando. «Cosa intendo con "pronto"? Pronto a cosa? Sai leggere, vero? Esai scrivere, se non sbaglio. È evidente che per quanto tu ci abbia provato

non hai nessun talento per la magia, ma questo non è importante perché cisono altri modi per ottenere il potere. Io lo so perché li ho trovati».

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«Adesso basta, Caramon!» ordinò Raistlin, allontanando il cucchiaio eriadagiandosi stancamente sui cuscini. «Ho bisogno di riposare».

Kitiara si alzò in piedi e si piantò le mani sui fianchi, fissandolo conocchi fiammeggianti.

«Quell'idiota di nostra madre ti teneva avvolto nella bambagia per timore che potessi romperti. Adesso è tempo che tu ne esca e che vedaqualcosa del mondo», dichiarò.

«Non sono pronto», ripeté Raistlin, chiudendo gli occhi.Kitiara lasciò Solace quella notte stessa.«È soltanto un breve viaggio fino a Qualinesti», disse a Caramon,

mentre s'infilava i guanti di cuoio. «Sai qualcosa di quel posto?» domandòquindi con indifferenza. «Hai idea di quali siano le sue difese, di quanta

gente ci viva... cose del genere, insomma».«So che là vivono gli elfi», rispose Caramon, dopo un momento di

 profonda riflessione.«Questo lo sanno tutti!» sbuffò Kitiara, mentre si metteva il mantello e

si tirava il cappuccio sulla testa.«Quando tornerai?» volle sapere Caramon.«Non lo so», replicò Kitiara, scrollando le spalle. «Forse fra un anno,

forse fra un mese o forse mai... dipende da come andranno le cose».

«Non sei arrabbiata con me, vero, Kit?» domandò in tono malinconicoCaramon. «Non mi piacerebbe che tu lo fossi».

«No, non sono arrabbiata, soltanto delusa. Tu saresti diventato un grandeguerriero, Caramon, la gente che conosco ti avrebbe plasmato a dovere.Quanto a Raistlin, ha commesso un grosso errore, perché lui vuole il potere ed io so dove è possibile trovarlo. Se resterete qui tu non sarai maialtro che un contadino e lui diventerà... diventerà come quel Waylan... un prestigiatore che sputa monete dalla bocca e tira fuori conigli dal cappello

ed è la favola di tutta Solace. È un vero spreco».Assestò quindi uno schiaffo sulla guancia di Caramon che nelle sue

intenzioni doveva essere amichevole ma che gli lasciò sulla faccia il segnorosso della sua mano, poi aprì la porta e sbirciò fuori in entrambe ledirezioni mentre Caramon si chiedeva cosa mai stesse guardando, dato cheera passata da parecchio la mezzanotte e la maggior parte della gente diSolace era a letto.

«Arrivederci, Kit», disse.

«Arrivederci, fratellino».Massaggiandosi la guancia dolorante Caramon la guardò allontanarsi fra

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i rami dei vallenwood rischiarati dalla luna, una sagoma nera su quellosfondo argenteo.

CAPITOLO SESTO

Il risveglio di Raistlin fu accompagnato dal martellare della pioggia sultetto, unito al rombo dei tuoni che echeggiava nell'aria come sul terreno eal tremito dei vallenwood sotto il grigiore dell'alba tinto a tratti di rosa dailampi. La pioggia stava cadendo sulle tombe scavate di fresco, formandodelle polle intorno ai giovani vallenwood piantati su ciascuna di esse eminacciando di annegarli.

Disteso sul letto, Raistlin osservò il graduale rischiararsi del grigiore

esterno a mano a mano che la tempesta passava e fuori scendeva la quieteinfranta soltanto dall'incessante gocciolare dell'acqua che scivolava lungole foglie fradice; poiché era terribilmente stanco e ogni minimo movimentogli causava uno sforzo enorme, rimase del tutto immobile, svuotato. Quelsenso di vuoto era sgradevole, ma non quanto il cupo dolore della perditasubita, che sarebbe tornato a travolgerlo se soltanto si fosse mosso.

Gli pareva di non riuscire ad avvertire il contatto del lenzuolo sotto ilsuo corpo o delle coperte stese su di esso, di essere privo di peso o di

sostanza, e si chiese se giacere in una bara desse una sensazione delgenere... non provare nulla, mai più, non essere coscienti di nulla, restare per sempre avviluppati da una cupa, vuota e silenziosa oscurità mentre ilmondo e la gente che lo popolava continuavano a vivere.

D'un tratto il dolore ruppe la diga che lo arginava e andò a riempire ilvuoto del suo animo: una rovente ondata di sofferenza e di paura lo assalìinarrestabile, le lacrime gli fecero bruciare le palpebre e lui infine serrò gliocchi e pianse per se stesso, per sua madre e per suo padre, per tutti coloro

che nascevano nell'oscurità, levavano pieni di meraviglia gli occhi verso laluce, ne avvertivano il calore sulla pelle e poi dovevano tornare infine nel buio eterno.

Raistlin pianse a lungo ma in silenzio per non svegliare Caramon, nontanto per considerazione nei confronti della stanchezza del fratello quanto per vergogna della propria debolezza. Infine le lacrime cessarono,lasciandolo con la bocca pervasa da uno sgradevole sapore di ferro e disale, con il naso chiuso e con la gola contratta per lo sforzo di soffocare i

singhiozzi, e lui si rese infine conto che le coltri erano umide di sudore,segno che la febbre era caduta in un momento imprecisato della notte; si

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lasciava alle spalle un vaghissimo ricordo di essere stato malatoaccompagnato dalle immagini sfumate d'orrore dei sogni indotti dallafebbre, nei quali lui si era identificato con Rosamun, era diventato ilcadavere rinsecchito di sua madre che giaceva sul letto mentre la gente siraccoglieva tutt'intorno a fissarlo in silenzio.

Antimodes, il Maestro Theobald, la Vedova Judith, Caramon, il nano, ilkender, Kitiara... lui li aveva implorati e supplicati di dargli del cibo edell'acqua, ma loro avevano risposto che era morto e che non ne aveva bisogno, generando nel suo animo il terrore che finissero per gettarlo inuna bara e seppellirlo in una tomba che nel suo sogno si trovava nellaboratorio del Maestro Theobald.

Ricordare quei sogni spaventosi li privò in parte del loro potere, e il

residuo senso d'orrore che essi gli lasciarono nell'animo non seppesopraffarlo. Spinta di lato la rozza coperta di lana che era ruvida e gliirritava la pelle nuda, Raistlin si alzò in piedi anche se era ancora debole e barcollante a causa della malattia, e si affrettò a cercare a tentoni lacamicia gettata sullo schienale di una sedia perché l'aria fredda lo stavafacendo rabbrividire. Sollevata la camicia sulla testa infilò le braccia nellemaniche e sostò nel centro della piccola stanza, incerto su cosa fare.

Dopo un momento, attraversò la stanza per contemplare la forma

addormentata del suo gemello, che come lui occupava un letto di legnoincassato nella parete: Caramon era solito addormentarsi tardi e dormire diun sonno profondo, giacendo tranquillo sulla schiena con le bracciaspalancate, una gamba che pendeva dal letto e l'altra piegata all'altezza delginocchio e appoggiata alla parete, mentre per contrasto Raistlin dormivaappallottolato su se stesso con le ginocchia tirate su fino al mento e le braccia strette intorno al petto.

Questa notte però il sonno di Caramon appariva inquieto e turbato

quanto quello del suo gemello, ma il suo sfinimento era così profondo chelo teneva vincolato al letto e impediva anche ai sogni più spaventosi didestarlo, con il risultato che lui si agitava, si girava e scuoteva la testa contale violenza che il cuscino era caduto per terra e le lenzuola gli si eranoarrotolate intorno al corpo come un sudario.

Senza cessare di dibattersi, Caramon borbottava, mormorava e assestavastrattoni al colletto della camicia da notte, la sua pelle era fredda e umida, icapelli intrisi di sudore, e nel complesso aveva un aspetto così malato che

Raistlin gli posò una mano sulla fronte per controllare se gli fosse venutala febbre.

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La pelle di Caramon però era fresca, segno che ciò che lo turbava nonera un prodotto del corpo ma della mente.

«Non farmi andare là, Raist!» implorò intanto Caramon, rabbrividendosotto il tocco della mano fraterna. «Non farmi andare là!».

Spingendo indietro una ciocca di arruffati capelli ricciuti che ricadevanegli occhi del fratello, Raistlin si chiese se non fosse il caso di svegliarlo.Senza dubbio Caramon doveva averlo vegliato per molte notti ed essereesausto, ma quel sonno era più simile ad una tortura che non a vero riposo,quindi alla fine Raistlin posò la mano sull'ampia spalla del gemello e loscosse con decisione.

«Caramon!» chiamò in tono perentorio.Caramon spalancò gli occhi, lo fissò in volto e si ritrasse con timore.

«Non mi lasciare! No, non mi lasciare! Per favore!» gemette,cominciando a dibattersi sul letto con tanta violenza che per poco noncadde per terra.

Rendendosi conto che il fratello non stava sognando, di colpo Raistlinnotò nel suo modo di fare qualcosa di vagamente familiare che ebbe il potere di spaventarlo: Rosamun, anche lei si era comportata più o meno inquesto modo.

Forse Caramon non stava dormendo, forse era intrappolato in una trance

simile a quella in cui Rosamun era scivolata senza più trovare il modo per uscirne. In passato Caramon non aveva mai dato segno di aver ereditato lostrano dono della madre, ma dopo tutto era suo figlio e aveva lo stessosangue nelle vene... con tutte le strane assurdità che ad esso siaccompagnavano, e adesso aveva il corpo spossato dalle lunghe notti diveglia in cui si era preso cura del fratello malato e la mente devastata dallatragica perdita del padre che lui adorava seguita dall'essere costretto adassistere passivamente al lento consumarsi di sua madre: con le difese del

fisico ridotte al minimo e la mente confusa e sconvolta, la sua anima erarimasta esposta e vulnerabile, per cui avrebbe potuto benissimo sceglieredi ritirarsi in cupe regioni di cui non si era mai conosciuta l'esistenza per cercare in essa rifugio dai duri colpi della vita.

Cos'avrebbe fatto se avesse perso anche Caramon?Si sarebbe trovato del tutto solo, senza né famiglia né amici, in quanto

non poteva né voleva considerare Kitiara come la propria famiglia perchéla sua rozzezza e la sua indomita natura animalesca lo disgustavano... o

almeno questo era ciò che aveva sempre detto a se stesso. La verità era cheaveva paura di lei, prevedeva che un giorno fra loro sarebbe scoppiata una

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lotta per il potere e non era certo di essere abbastanza forte da poterletenere testa da solo. Quanto agli amici, quello era un argomento sul qualenon poteva farsi illusioni di sorta: non ne aveva neppure uno, perché tutti iloro amici erano in realtà legati a Caramon e non a lui.

Caramon era spesso irritante e i suoi lenti processi mentali avevanol'effetto di generare un senso di frustrazione nel suo gemello più agile dimente, che a volte si sentiva tentato di afferrarlo e di scrollarlo nella tenuesperanza di far affiorare accidentalmente in lui qualche pensiero sensato,ma adesso che si trovava di fronte alla possibilità di perderlo, Raistlincontemplò il vuoto che avrebbe occupato il posto in cui c'era sempre statoCaramon e si rese conto di quanto avrebbe sentito la sua mancanza, nonsolo per la compagnia che gliene derivava o per il fatto di avere una

 persona forte su cui fare affidamento: mentalmente parlando, Caramon nonera un buon avversario ma era un ottimo compagno per gli addestramenti.

Inoltre, lui era la sola persona che Raistlin avesse conosciuto che fossemai riuscita quasi a farlo ridere, magari creando giochi d'ombre sulle pareti, ridicoli conigli...

«Caramon!» chiamò Raistlin, tornando a scuotere il fratello.«No, Raist!» gemette però Caramon, sollevando le mani come per 

deviare un colpo. «Non ce l'ho! Giuro che non ce l'ho!».

Spaventato, Raistlin si chiese cosa fare e lasciò la camera da letto per andare in cerca di sua sorella, con l'idea di mandarla a chiamare Meggin laPazza, ma ben presto scoprì che Kitiara era scomparsa insieme con suo bagaglio, segno che doveva essere partita durante la notte.

Incerto sul da farsi, sostò allora nel salotto della casa troppo silenziosa.Kitiara aveva riposto tutti gli abiti e gli oggetti appartenuti a Rosamun inuna cassapanca di legno infilata sotto il letto, ma non aveva rimosso la suasedia a dondolo soprattutto a causa del fatto che la casa era tristemente a

corto di sedie, e adesso la presenza di Rosamun aleggiava intorno ad essacome la fragranza dei petali di rosa appassiti: lo stesso vuoto lasciato dallasua scomparsa ebbe l'effetto di richiamare intensamente la sua immaginealla mente di Raistlin.

Troppo intensamente. Rosamun era seduta sulla sua sedia e si dondolavalentamente avanti e indietro con il vestito che frusciava e la punta dei piccoli piedi racchiusi in morbide scarpe di cuoio che toccava appena il pavimento per poi scomparire sotto l'orlo dell'abito quando la sedia

tornava a dondolarsi all'indietro; e intanto la sua testa e il suo sguardorimanevano immobili, le sue labbra sorridevano a Raistlin.... che rimase a

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guardarla desiderando con tutta l'intensità del suo cuore dolente che quantostava vedendo fosse vero, anche se una parte di lui sapeva che eraimpossibile.

Poi Rosamun smise di dondolarsi e si alzò dalla sedia con graziadisinvolta, lasciandosi alle spalle nel passargli accanto una dolce fragranzache sapeva di rose...

 Nella stanza accanto Caramon emise un urlo orribile e spaventoso, comese lo stessero seppellendo vivo.

Con l'odore di rose che gli aleggiava ancora nelle narici, Raistlin frugònella stanza fino a trovare quello che stava cercando, un piatto pieno di petali di rosa ora appassiti e disseccati, che era stato posato sul tavolo per  profumare l'aria pervasa dal sentore di malattia. Affondando la mano nel

 piatto raccolse una manciata di petali e la portò con sé nella camera daletto dove Caramon si teneva aggrappato ai bordi del letto con tanta forzada far sbiancare le nocche e aveva gli occhi aperti e sbarrati fissi suqualcosa di orribile che lui soltanto poteva vedere.

Raistlin non ebbe bisogno di fare ricorso al suo libro di magia per recitare l'incantesimo perché le parole che lo componevano erano incisenel suo cervello con il fuoco... e come un fuoco che dilagasse su un trattodi erba arida la magia gli si diffuse dal cervello lungo la schiena, bruciando

ogni nervo fino ad avvilupparlo nelle sue fiamme.«Ast tasarak sinuralan kyrnawi», recitò, sbriciolando i petali di rosa e

spargendoli sulla forma tormentata del fratello.Le palpebre di Caramon tremolarono, poi lui emise un profondo sospiro,

rabbrividì e chiuse gli occhi, giacendo per un momento del tutto immobile,senza neppure respirare, mentre Raistlin sperimentava un terrore di cui nonaveva mai conosciuto l'uguale nel sentirsi assalire dalla certezza che il suogemello era morto.

«Caramon!» sussurrò, allontanando con gentilezza i petali di rosa dalvolto immoto del fratello. «Caramon, non mi lasciare! Non farlo!»

D'un tratto Caramon trasse un respiro lungo, profondo e rilassato, esalòil fiato e respirò ancora, con il petto che si alzava e si abbassava in modoregolare; contemporaneamente anche il viso si rilassò e tornò liscio comesempre in quanto i sogni non erano stati tanto violenti e protratti dalasciare il loro marchio su di lui. Presto i segni della stanchezza e delcordoglio sarebbero svaniti, semplici onde sulla superficie della sua

abituale, allegra serenità.Pervaso da un senso di sollievo tanto intenso da lasciarlo indebolito,

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Raistlin si accasciò accanto al letto del fratello e appoggiò la testa fra lemani... e fu allora, con gli occhi chiusi che vedevano soltanto l'oscurità,che si rese infine conto di quello che aveva fatto.

Caramon stava dormendo.«Ho attivato l'incantesimo», disse fra sé. «La magia ha funzionato per 

me».Dentro di lui il fuoco della magia tremolò e si spense del tutto,

lasciandolo talmente debole e spossato da non riuscire neppure a rialzarsiin piedi, ma al tempo stesso fu pervaso da una gioia così intensa che intutta la sua vita non ne aveva mai conosciuto l'uguale.

«Grazie», sussurrò quindi, serrando i pugni fino a far affondare leunghie nella carne, mentre vedeva l'occhio bianco, rosso e nero

contemplarlo con soddisfazione. «Non vi verrò meno», ripeté quindi, più e più volte. «Non fallirò».

L'occhio ammiccò... e Raistlin si sentì trafiggere da una minuscola puntadi preoccupazione, da un dubbio geloso.

Possibile che Caramon fosse scivolato davvero in una trance? E se loaveva fatto, era altrettanto possibile che avesse ereditato il talento per lamagia?

Raistlin riaprì gli occhi e fissò a lungo, intensamente, la sagoma

dormiente del fratello, che giaceva supino con un braccio che pendevaoltre il bordo del letto e l'altro posato di traverso sulla fronte. La boccaaperta stava emettendo un russare prodigioso e mai lui aveva avuto unaspetto tanto stupido.

«Mi sono sbagliato», disse Raistlin, issandosi in piedi. «Era soltanto un brutto sogno e niente di più. Come ho mai potuto immaginare che questogrosso idiota avesse ereditato il talento magico?» aggiunse, quindi,sorridendo fra sé con fare sprezzante.

Lasciò quindi la stanza in punta di piedi per non disturbare il fratello e sichiuse silenziosamente la porta alle spalle. Entrato in salotto, sedette sullasedia a dondolo di sua madre e prese a dondolarsi lentamente avanti eindietro, crogiolandosi nel suo senso di trionfo.

CAPITOLO SETTIMO

Caramon dormì per tutto il giorno e durante l'intera notte successiva, e al

suo risveglio mostrò di non ricordare nulla dei sogni che aveva fatto,apparendo addirittura divertito e scettico nel sentire la descrizione che ne

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dava il fratello.«Sciocchezze, Raist!» dichiarò. «Sai che io non sogno mai!».Raistlin evitò di ribattere. Passata la febbre si stava adesso rimettendo

rapidamente in forze, tanto che quella mattina stava abbastanza bene dasedere al tavolo di cucina con il fratello. La giornata era calda e una brezzasommessa portava fino a loro le voci delle donne che si chiamavano avicenda e ridevano mentre erano impegnate ad appendere la biancherialavata ai rami per farla asciugare. Il sole dell'inizio dell'autunno penetravaattraverso le foglie che si muovevano, creando ombre che si rincorrevanocome uccelli per la cucina mentre i due fratelli consumavano la colazionein silenzio, assaporando quel momento anche se avevano molte cose di cui parlare e molte di cui discutere.

Raistlin stava sfiorando ogni istante che passava, lo tratteneva nellamente fino a quando esso gli sgusciava fra le dita per essere rimpiazzato daquello successivo: adesso si era lasciato alle spalle il passato con tutti isuoi dolori e non si sarebbe mai voltato indietro, e il futuro si trovavadavanti a lui con le sue promesse e le sue paure, gli splendeva caldo sulviso come la luce del sole e a tratti lo copriva d'ombre passeggere. In quelmomento, però, lui stava galleggiando libero, sospeso fra passato e futuro.

Fuori un uccello trillò e un altro rispose al suo richiamo; poco lontano

due giovani donne lasciarono cadere un lenzuolo umido su una delleguardie cittadine che era di sentinella sul terreno sottostante e che rimaseavvoltolata nella stoffa bagnata, almeno a giudicare dalle sue soffocate e peraltro divertite imprecazioni. Ridendo, le donne dichiararono che erastato un incidente e scesero di corsa la scala per recuperare il lenzuolo etrascorrere qualche piacevole momento civettando con l'avvenente guardia.

«Raistlin» disse intanto Caramon, parlando con riluttanza come se anchelui fosse stato catturato dall'incantesimo intessuto dal sole, dalla brezza e

dalle risa femminili e fosse riluttante a infrangerlo. «Dobbiamo deciderecosa fare».

Raistlin non poteva vedere in faccia il fratello a causa del bagliore delsole ma avvertiva con chiarezza la sua presenza di fronte a sé... una presenza forte, solida e rassicurante che lo indusse a ricordare la paura cheaveva provato quando aveva creduto che Caramon fosse morto. Un'ondatadi affetto nei suoi confronti crebbe dentro di lui e gli fece salire le lacrimeagli occhi, inducendolo a ritrarsi bruscamente dal sole e a sbattere le

 palpebre per schiarirsi la vista. Adesso gli istanti avevano preso a scorreresempre più in fretta e non era più in suo potere toccarli.

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«Quali alternative abbiamo?» chiese.«Abbiamo respinto la proposta di Kit...» cominciò Caramon, assestando

la propria mole sulla sedia, poi lasciò la frase in sospeso come se si stessechiedendo in silenzio se il suo gemello non potesse ripensarci.

«Sì», ribadì però Raistlin, con una nota definitiva nella voce.«Lady Brightblade si è offerta di prenderci con sé e di darci una casa»,

continuò Caramon, schiarendosi la gola.«Lady Brightblade» ripeté Raistlin, con un sogghigno sarcastico.«È la moglie di un cavaliere di Solamnia», gli fece notare Caramon,

sulla difensiva.«È quanto sostiene lei».«Suvvia, Raist!» protestò Caramon, che era affezionato ad Anna

Brightblade perché la donna era sempre stata molto gentile con lui. «Mi hamostrato un libro con lo stemma di famiglia e comunque si comporta comeuna nobildonna».

«E come fai a sapere in che modo si comporta una nobildonna, fratellomio?».

«Ecco», rispose Caramon, dopo un momento di riflessione, «lei sicomporta come immagino che si comporterebbe una nobildonna, propriocome quelle delle storie...».

Interrompendosi di colpo non finì la frase, che entrambi i gemelli nonebbero difficoltà a completare nella mente: come quelle delle storie chenostra madre era solita raccontarci. Pronunciare ad alta voce quelle parole sarebbe però equivalso ad evocare il suo spirito, che era rimastoall'interno della casa.

Gilon, d'altro canto, se n'era andato completamente perché anche da vivonon era mai stato molto presente in casa, e tutto ciò che si era lasciato allespalle era un vago e piacevole ricordo. Caramon sentiva la sua mancanza,

ma Raistlin cominciava già ad avere problemi a ricordarsi che suo padrenon c'era più.

«Non mi va di avere Sturm Brightblade come fratello», commentò.«Mastro Il-Mio-Onore-È-La-Mia-Vita è troppo compiaciuto di sé e troppoarrogante, sfoggia la sua virtù in lungo e in largo e sbandiera di continuo lasua dirittura morale... nel complesso è un comportamento nauseante».

«Sturm non è così insopportabile», ribatté Caramon. «Senza dubbio nonha avuto una vita facile... se non altro, noi sappiamo come è morto nostro

 padre», aggiunse in tono triste, «mentre lui non sa neppure se il suo è vivoo morto».

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«Se è tanto preoccupato, perché non torna indietro per scoprire laverità?» ribatté in tono impaziente Raistlin. «Di certo ormai è abbastanzagrande per farlo».

«Non può lasciare sua madre perché la notte in cui sono fuggiti ha promesso a suo padre che ne avrebbe avuto cura ed è vincolato da tale promessa. Quando quella marmaglia ha attaccato il suo castello...».

«Castello!» sbuffò Raistlin.«... sono riusciti a stento a fuggire. Il padre di Sturm ha mandato via lui

e sua madre nel cuore della notte insieme con una scorta di servi e ha dettoloro di recarsi a Solace dove li avrebbe raggiunti quando avesse potuto. Daallora non hanno più avuto sue notizie».

«I Cavalieri devono aver fatto qualcosa per provocare quell'attacco,

 perché la gente non si mette in testa senza motivo l'idea di assalire unarocca ben fortificata».

«Secondo Sturm ci sono strane persone che dal nord stanno affluendo aSolamnia, persone malvagie che vogliono soltanto mettere nei guai iCavalieri e farli scacciare in modo da poter subentrare loro e assumere ilcontrollo di tutto».

«E chi sarebbero questi ignoti malvagi?» domandò Raistlin, in tonosarcastico.

«Lui non lo sa, ma pensa che abbiano qualcosa a che fare con gli antichidèi», spiegò Caramon, scrollando le spalle.

«Davvero?» esclamò Raistlin, improvvisamente pensoso, ricordandol'offerta di Kitiara e i suoi discorsi di dèi potenti, e ripensando al tempostesso alla propria personale esperienza con gli dèi della magia, sulla qualesi era interrogato fin da quando si era verificata, chiedendosi se fosse statadavvero reale o se fosse stata causata soltanto dal suo intenso desiderio dioperare la magia.

Caramon intanto aveva rovesciato dell'acqua sul tavolo e adesso la stavaarginando con il coltello e la forchetta nel tentativo di deviare il corso diquel fiume in miniatura in modo che non gocciolasse sul pavimento; eracosì impegnato in quello che stava facendo che nel parlare non sollevòneppure lo sguardo sul fratello.

«Ho rifiutato la sua offerta, perché lei non ti avrebbe permesso dicontinuare a frequentare la scuola», disse.

«Di cosa stai parlando?» scattò Raistlin in tono tagliente. «Chi non mi

avrebbe permesso di continuare la scuola?».«Lady Brightblade».

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«Lo ha detto lei stessa, vero?».«Sì», rispose Caramon, aggiungendo un cucchiaio alla sua diga. «Non

ha nulla contro di te, Raist», aggiunse, sollevando lo sguardo sul fratello escoprendo che il suo volto sottile si era fatto duro e freddo. «I Cavalieri diSolamnia pensano che i maghi siano al di fuori dell'ordine naturale dellecose, e secondo quanto mi ha detto Sturm non si servono mai di loro in battaglia. Ritengono che i maghi manchino di disciplina e siano troppoindipendenti».

«Ci piace pensare con la nostra testa», affermò Raistlin, «e non siamodisposti ad obbedire ciecamente ad un comandante idiota che forse non haneppure un cervello degno di questo nome nel cranio. D'altro canto», proseguì, «raccontano che Magius abbia combattuto al fianco di Huma e

sia stato il suo più caro amico».«So chi era Huma», replicò Caramon, lieto di cambiare argomento.

«Sturm mi ha raccontato delle storie sul suo conto e mi ha narrato comemolto tempo fa lui abbia combattuto contro la Regina delle Tenebre eabbia bandito per sempre i draghi dal mondo. Però non ho mai sentito parlare di questo Magius».

«Non dubito che i Cavalieri vogliano dimenticare questa parte dellastoria. Come Huma è stato uno dei più grandi guerrieri di tutti i tempi,

anche Magius è stato uno dei maghi più potenti. Nel corso della battagliaimpegnata contro le forze di Takhisis, Magius è rimasto separato da Humaed ha combattuto da solo, circondato dai nemici fino a quando non ha piùavuto la forza di fare ricorso alla magia a causa delle ferite e dellosfinimento. A quei tempi, infatti, ai maghi non era permesso portare altraarma se non quella costituita dalla loro magia. Di conseguenza, Magius èstato catturato vivo e trascinato al campo della Regina delle Tenebre dovelo hanno torturato per tre giorni e tre notti nel tentativo di costringerlo a

rivelare dove si trovasse l'accampamento di Huma in modo da poter mandare di notte dei sicari ad ucciderlo. Magius è morto senza rivelare laverità, e si narra che quando ha appreso la notizia della sua morte e dicome questa fosse avvenuta, Huma ne abbia sofferto a tal punto da indurrei suoi uomini a temere di poter perdere anche lui.

«In seguito, Huma ha ordinato che da quel momento in poi ai maghivenisse permesso di portare indosso almeno una piccola arma da taglio dausare come ultima difesa se la magia fosse venuta loro meno, cosa che

ancora oggi noi facciamo in nome di Magius».«È una storia splendida!» esclamò Caramon, tanto impressionato che

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lasciò straripare il suo fiume e l'acqua prese a gocciolare sul pavimento,costringendolo ad andare a prendere un panno per asciugarla. «La dovròraccontare a Sturm».

«Fallo pure», commentò Raistlin in tono asciutto. «Mi interesserebbesentire il suo parere al riguardo». Per un momento osservò Caramonasciugare il pavimento, poi continuò: «Abbiamo scelto di non unirci anostra sorella e abbiamo deciso di non lasciarci prendere sotto l'ala da unanobile dama di Solamnia. Cosa pensi che dobbiamo fare di noi stessi?».

«Io dico che dobbiamo vivere qui», replicò con fermezza Caramon,rialzandosi in piedi e piantandosi le mani sui fianchi nell'esaminare la casacome se fosse stato un potenziale acquirente. «La casa è nostra, senzavincoli di sorta, perché nostro padre l'ha costruita lui stesso e non ha

lasciato debiti. Non dobbiamo nulla a nessuno, la tua scuola è pagata e nondobbiamo preoccuparci neppure di questo. Io ottengo il cibo che ci servedal Fattore Sedge...».

«Ti sentirai solo d'inverno, quando io sarò a scuola», osservò Raistlin.«Posso sempre alloggiare dai Sedge», rispose Caramon, scrollando le

spalle. «A volte mi è già capitato di farlo, quando la neve ha bloccato lastrada. Oppure posso andare a stare da Sturm o da qualche altro amico».

Raistlin rimase in silenzio, accigliato e meditabondo.

«Cosa ti prende, Raist?», chiese Caramon, a disagio. «Non credi che siaun buon piano?».

«Ritengo che sia un piano eccellente, fratello mio, ma non mi sembragiusto che sia tu a sostentarmi».

«Che importanza ha?» ribatté Caramon, mentre la sua espressione preoccupata si dissolveva. «Quello che è mio è tuo, Raist, lo sai».

«Ha importanza per me», ritorse Raistlin, in tono tagliente. «Ne hamoltissima. Devo trovare il modo di pagare la mia quota».

Caramon rifletté in tutta serietà sulla cosa per circa tre minuti, maapparentemente la cosa gli riuscì dolorosa perché ben presto cominciò amassaggiarsi la testa e infine affermò che a suo parere doveva essere quasiora di pranzo.

Mentre lui andava a frugare nella dispensa, Raistlin continuò a rifletteresu quello che poteva fare per contribuire al loro mantenimento, dato chenon era abbastanza forte da lavorare in una fattoria e che comunque i suoistudi non gli lasciavano il tempo di fare nessun lavoro. Adesso la scuola

era diventata per lui più importante di qualsiasi altra cosa, c'erano nuoviincantesimi da imparare, ognuno dei quali andava ad accrescere il suo

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sapere... e il suo potere.Il suo potere sugli altri. Il ricordo di Caramon, forte e muscoloso, che

scivolava in un sonno profondo e quasi comatoso ad un ordine del suogemello più debole gli strappò un sorriso.

Intanto Caramon tornò nella stanza con una pagnotta e un barattolo dimiele, e insieme con il cibo posò davanti al fratello una fiala vuota.

«Questa appartiene a quella vecchia megera, Meggin la Pazza», spiegò.«Dentro c'era un succo di qualche tipo che Kit ti ha somministrato per abbassarti la febbre. Probabilmente adesso dovrei riportare la fiala a quelladonna», aggiunse riluttante, poi continuò in tono reverenziale: «Lo sai,Raist? Lei ha un lupo che dorme davanti alla sua porta e una testa umanasul tavolo di cucina!».

Meggin la Pazza. D'un tratto un'idea affiorò alla mente di Raistlin che prese la fiala, l'aprì e ne annusò l'interno: elisir di corteccia di salice, unmedicinale che lui poteva preparare senza troppa difficoltà. Altre erbe checoltivava nel suo orto potevano essere a loro volta usate per scopi curativi,e inoltre adesso aveva il potere necessario per operare piccole magie. Lagente sarebbe stata disposta a pagarlo in buone monete d'acciaio se avessedimostrato di poter far addormentare un bambino in preda alle coliche,liberare un uomo dalla febbre o far sparire un'irritazione cutanea.

«Penserò io a restituirgliela», disse infine, rigirando la fiala fra le dita.«Se non ne hai voglia, non sei obbligato ad accompagnarmi».

«Verrò con te», ribatté Caramon, in tono deciso. «Prova a chiederti dovesi è procurata quel teschio. Non vorrei un giorno andare a trovarla e vederela tua testa sul suo tavolo. D'ora in poi, Raist, tu ed io staremo sempreinsieme, perché ciascuno di noi ha soltanto l'altro».

«Non è proprio così, mio caro fratello», mormorò Raistlin, portando lamano alla piccola sacca di cuoio che portava alla vita e che conteneva i

suoi componenti per incantesimi. Attualmente dentro c'erano soltanto petali secchi di rosa, ma presto ci sarebbero stati anche altri componenti,molti altri. «No, non è proprio così», ribadì.

LIBRO QUARTO

Chi vuole gli dèi o ne ha bisogno? Io no di certo: nessuna forza divinacontrolla la mia vita, e a me piace così perché sono io a scegliere il mio

destino. Non sono schiava di nessun uomo, quindi perché dovrei essere schiava di un dio e permettere a qualche prete o a qualche chierico di

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dirmi come devo vivere?KITIARA UTH MATAR 

CAPITOLO PRIMO

Trascorsero due anni, durante i quali le gentili piogge di primavera e ilsole estivo permisero ai due alberelli di vallenwood piantati sulla tombadei Majere di crescere e di protendere intorno a sé germogli verdi. Raistlintrascorse quei due inverni a scuola, aggiungendo al suo libro un altroincantesimo elementare inteso a determinare se un oggetto fosse magico omeno; Caramon invece trascorse quei due anni lavorando d'estate per ilFattore Sedge e d'inverno nelle stalle, evitando nei mesi invernali di

trascorrere molto tempo a casa perché essa gli appariva solitaria in assenzadel fratello e gli «dava i brividi». Quando Raistlin faceva ritorno dallascuola, peraltro, i due vivevano quasi appagati nella dimora dei lorogenitori.

Quell'anno l'arrivo della primavera portò anche la festa del Giorno diMaggio, uno dei più grandi festeggiamenti che si tenessero a Solace, e per l'occasione venne organizzata una grande fiera in un'ampia area di terrenosgombro che si allargava al limitare meridionale della città.

Liberi finalmente di viaggiare adesso che l'inverno non bloccava più lestrade, i mercanti affluirono alla fiera da ogni parte di Ansalon, impazientidi vendere le merci che avevano accumulato durante l'inverno.

I mercanti degli Uomini delle Pianure, individui taciturni dall'aspettoselvaggio, furono i primi ad arrivare, provenienti da villaggi dal nomestrano e barbarico come Que-teh e Que-kiri. Vestiti di pelli decorate conrozzi ornamenti che si diceva servissero ad onorare i loro antenati, gliUomini delle Pianure mantenevano un distaccato riserbo nei confronti

degli altri abitanti della regione, anche se erano sempre pronti ad accettareil loro acciaio in cambio dei loro apprezzati vasi di argilla o dellesplendide coperte tessute a mano; altre mercanzie, come i teschi di piccolianimali decorati con perline, attiravano invece enormemente l'interesse dei bambini con notevole sgomento dei loro genitori.

 Nani vestiti con eleganza che sfoggiavano al collo catene d'oro,arrivarono dal regno sotterraneo di Thorbardin, portando con sé gli oggettidi metallo per la cui lavorazione erano giustamente famosi e che andavano

dalle pentole e le padelle alle asce, alle protezioni per i polsi e alle daghe.Il primo incidente della stagione della fiera fu causato proprio da questi

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nani di Thorbardin, che mentre si trovavano alla Locanda dell'Ultima Casa,intenti a bere la birra di Otik, cominciarono a fare commenti sprezzantisulla qualità della birra stessa, sostenendo che era decisamente inferiore aquella di qualità migliore a cui erano abituati. Naturalmente, un certo nanodelle colline si sentì in dovere di rimbeccare quei commenti per conto diOtik, aggiungendo da parte sua che di certo un nano delle montagne nonavrebbe saputo riconoscere della buona birra neppure se gli fosse statarovesciata sulla testa e procedendo a dare una dimostrazione di fatto.

A quel punto parecchi elfi di Qualinesti, che avevano portato alla fieraalcuni gioielli d'oro e d'argento di squisita fattura, dichiararono che i nanierano tutti un branco di bruti, peggiori perfino degli umani che pure eranotutt'altro che civili, e questo scatenò una rissa tale da rendere necessario

che si chiamassero le guardie.Gli abitanti di Solace si mostrarono tutti solidali con il parere del nano

delle colline mentre l'angosciato Otik, che non voleva perdere clienti,cercò di sostenere entrambe le tesi contemporaneamente, ammettendo cheforse la sua birra non era all'altezza della qualità di sempre e che quindi era possibile che il gentiluomo proveniente da Thorbardin avesse ragione alriguardo. D'altro canto, poiché Flint Fireforge aveva bevuto nel corso dellasua vita tanta birra da poter essere definito un vero esperto in materia, alla

fine Otik ritenne più opportuno inchinarsi di fronte al suo parere,contrastante con quello dei nani di Thorbardin.

La questione venne infine risolta decidendo che se il nano delle collinesi fosse scusato con i nani delle montagne e questi ultimi si fossero scusaticon Otik l'incidente sarebbe stato dimenticato. Ripulendosi il nasoinsanguinato, il capo dei nani di Thorbardin ammise in tono cupo che la birra era «bevibile», e il nano delle colline che era intento a massaggiarsila mascella dolorante borbottò che forse era possibile che un nano delle

montagne capisse qualcosa di birra, avendo trascorso una notevole quantitàdi notti sul pavimento di qualche locanda che ne era intriso. Il nano diThorbardin non apprezzò però quell'affermazione, che ritenne un nuovoinsulto, e a questo punto Otik si affrettò a offrire da bere gratis a tutti i presenti per festeggiare la ritrovata amicizia.

 Non esisteva nano vivente che avesse mai rifiutato un boccale di birragratuito, quindi entrambe le parti in attrito tornarono alle loro sedie eciascun gruppo si convinse di aver vinto, mentre Otik raccoglieva le sedie

fracassate, le cameriere spazzavano via il vasellame infranto, le guardie bevevano un boccale di birra in onore del locandiere e gli elfi

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contemplavano con disprezzo tutto il resto degli avventori.Raistlin e Caramon vennero a sapere dell'accaduto il giorno successivo,

nel farsi largo a fatica fra la calca che si ammassava in mezzo a tende e bancarelle.

«Avrei voluto esserci», commentò Caramon con un sospiro, serrando igrossi pugni.

Raistlin, che non aveva prestato particolare attenzione alla vicenda, nonrispose neppure perché era intento a studiare il flusso della folla per cercare di determinare quale fosse il punto migliore in cui piazzarsi. Allafine scelse un punto che si trovava alla convergenza di due vialetti, fra la bancarella di un fabbricante di merletti di Haven e quella di un mercante divino di Pax Tharkas.

Posata una grossa ciotola di legno davanti ad un vicino ceppo d'albero, procedette quindi a impartire a Caramon le necessarie istruzioni.

«Percorri fino in fondo questo vialetto, poi girati e torna indietro concalma, ricordando sempre che sei il figlio di un contadino venuto in città per la fiera. Quando arriverai alla mia altezza, fissami, indica e attiral'attenzione, e una volta che la folla avrà cominciato a raccogliersi portatial di fuori di essa e intercetta la gente di passaggio, incitandola a fermarsi aguardare. Hai capito?».

«Ci puoi scommettere!» sorrise Caramon, che si stava divertendoimmensamente.

«Sai cosa fare quando chiederò se fra la folla c'è un volontario?».«Dire che non ti ho mai visto in tutta la mia vita e garantire che dentro

quella scatola non c'è niente», annuì Caramon.«Mi raccomando, non esagerare», ammonì Raistlin.«No, non lo farò. Puoi contare su di me», promise Caramon.Raistlin aveva comunque dei dubbi in merito, ma d'altro canto non aveva

modo di fugarli perché aveva fatto ripassare a Caramon la sua parte la sera precedente e adesso poteva soltanto sperare che il suo gemello laricordasse.

Caramon infine si allontanò per raggiungere la fine del vialetto come gliera stato detto di fare, e quasi immediatamente venne intercettato da unometto robusto che indossava uno sgargiante panciotto rosso e che lotrasse verso una tenda, promettendogli che all'interno avrebbe potutovedere l'incarnazione stessa della bellezza femminile, una donna famosa da

Solace al Mare del Sangue, che avrebbe eseguito la danza ritualedell'accoppiamento degli Ergothiani Settentrionali... una danza che, si

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diceva, rendesse gli uomini addirittura frenetici e a cui Caramon avrebbe potuto assistere in cambio di due misere monete d'acciaio.

«Davvero?» esclamò Caramon, protendendo il collo nel tentativo disbirciare attraverso l'apertura della tenda.

«Caramon!» chiamò in tono sferzante la voce di suo fratello,raggiungendolo alle spalle come un colpo di frusta.

Caramon sussultò con aria colpevole e sì affrettò ad allontanarsi, conestrema irritazione dell'ometto robusto che scoccò a Raistlin un'occhiatarovente prima di intercettare un altro passante e di recitare di nuovo il suoritornello.

Raistlin intanto sistemò la ciotola di legno in modo che fosse benvisibile, vi lasciò cadere dentro una moneta d'acciaio che fungesse da esca

e infine dispose ai propri piedi il suo equipaggiamento: palle per i giochi didestrezza, monete da far apparire all'interno dell'orecchio di qualche persona, un tratto piuttosto lungo di corda che poteva essere tagliato e resonuovamente integro in un istante, sciarpe di seta che gli sarebbero scaturitedalla bocca e una scatola dipinta a colori vivaci da cui sarebbe emerso unarruffato e seccatissimo coniglio.

Per l'occasione Raistlin indossava una veste bianca che avevalaboriosamente cucito lui stesso usando un vecchio lenzuolo e coprendo i

 punti consumati con stelle e lune di colore rosso e nero. Nessun magodegno di questo nome si sarebbe mai fatto vedere con indosso unabbigliamento del genere, ma il pubblico comune non lo sapeva e i colorivivaci attiravano l'attenzione.

Prese in mano le sfere, Raistlin salì sul ceppo e cominciò ad esibirsi,facendo roteare con dita abili quelle piccole sfere multicolori, ungiocattolo che lui e Caramon avevano posseduto da piccoli.Immediatamente parecchi bambini accorsero per osservare la sua

esibizione, trascinando con loro i genitori, e di lì a poco sopraggiunseanche Caramon, che lanciò esclamazioni di meraviglia e di ammirazione per ciò che stava vedendo, con il risultato che altre persone si fermaronoad assistere e che le monete cominciarono a cadere nella ciotola.

Intanto Raistlin scoprì che stava cominciando a divertirsi, perché anchese non si trattava di vera magia stava in un certo senso gettando unincantesimo su quelle persone grazie anche al fatto che esse erano pronte acredere in lui e in ciò che vedevano. In particolar modo gli piaceva

l'ammirazione dei bambini, forse perché ricordava se stesso a quell'età,rammentava la propria reverenziale meraviglia e a cosa essa lo avesse

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condotto.«Accidenti!» esclamò una voce acuta in mezzo alla folla. «Hai davvero

inghiottito tutte quelle sciarpe? Non ti fanno il solletico quando le tirifuori?».

In un primo tempo Raistlin pensò che quella voce appartenesse ad un bambino, ma subito dopo individuò un kender dai capelli raccolti in unalunghissima coda di cavallo e vestito con pantaloni di un verde vivace, unacamicia gialla e un giustacuore arancione; mentre l'osservava, il kender avanzò in mezzo alla folla che si aprì nervosamente al suo avvicinarsi,ciascuno dei presenti intento a stringere al petto la propria borsa, e infine siandò ad arrestare con aria di palese ammirazione davanti a Raistlin, chenel vederlo da vicino ebbe l'impressione di trovarlo in qualche modo

familiare; d'altro canto i kender erano così diversi dal resto della gentenormale che soltanto un occhio addestrato era capace di distinguerli l'unodall'altro.

In reazione ad un'occhiata preoccupata del fratello, Caramon si affrettòintanto a venire avanti per piazzarsi con aria protettiva accanto alla ciotoladi legno che conteneva i loro incassi, e nel frattempo Raistlin cercò ilmodo di distrarre da essa l'attenzione del kender, risultato che ottenneestraendo una delle palle colorate dalla sua sacca e facendogli scaturire dal

naso una pioggia di monete, con estrema delizia e assoluto sconcerto del piccolo spettatore. Divertito, il pubblico che era intanto andatoaumentando di numero si mise ad applaudire, e altre monete cadderotintinnando nella ciotola.

«Raist!» chiamò d'un tratto Caramon in tono sommesso e preoccupato. Nel rialzarsi dall'inchino con cui aveva risposto all'applauso, Raistlin si

venne a trovare faccia a faccia con il suo maestro, rosso in volto per l'ira econ le vene che parevano prossime ad esplodergli dalla fronte.

«Vergogna!» esclamò il Maestro Theobald, sollevando un dito tremantee accusatore in direzione del suo allievo. «Vergogna! Esibirti in questomodo davanti alla folla».

«Chiedo scusa, signore, ma mi impedisci di vedere», osservò intanto ilkender in tono cortese, e si protese per dare uno strattone alla manica dellaveste bianca dell'intruso in modo da attirare la sua attenzione.

Il kender era di bassa statura e il Maestro Theobald stava gridando eagitando le braccia, quindi dovette senza dubbio dipendere da questo se il

kender non riuscì ad afferrargli la manica e finì per impossessarsi invecedella sacca dei componenti per incantesimi che gli pendeva dalla cintura.

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Consapevole della presenza degli spettatori, Raistlin mantenne la propriacompostezza pur sentendo un intenso rossore salirgli al volto.

«So che disapprovi, Maestro, ma io devo pur guadagnarmi da viverecome meglio so fare», ribatté.

«Ho sentito parlare di come ti guadagni da vivere!» accusò il MaestroTheobald. «Frequenti quella strega! Usi erbacce per raggirare i creduloni eindurli a pensare di essere stati risanati. Sono venuto qui apposta per vedere con i miei occhi, perché non potevo credere che queste storiefossero vere!».

«Conosci davvero una strega?» chiese con interesse il kender,distogliendo lo sguardo dalla sacca dei componenti magici.

«Vorresti che morissi di fame, Maestro?» domandò intanto Raistlin.

 Nel frattempo la folla stava cominciando a disperdersi nella convinzioneche lo spettacolo era finito, almeno per il momento.

«Dovresti mendicare per le strade prima di prostituire la tua arte ecoprire di ridicolo me e la mia scuola!» esclamò il Maestro Theobald, e si protese per afferrare Raistlin e trascinarlo giù dal ceppo.

«Toccami e te ne pentirai, signore», ammonì Raistlin, in tono sommessoma denso di minaccia.

«Osi minacciare...» cominciò Theobald, sempre più furioso.

«Ehi, Piccoletto!» esclamò Caramon, intromettendosi fra i due. «Tiramiquella sacca che hai lì».

«Palla Orchetto!» esclamò il kender, disposto a ignorare conmagnanimità l'offensivo accenno alla sua statura. «Tu sei l'orchetto», dissequindi al Maestro Theobald, e lanciò la sacca in modo che passasse al disopra della testa del mago.

«È tua, vero, mago?» chiese Caramon, saltellando e agitando la saccadavanti alla faccia di Theobald. «Allora, è tua?».

Il Maestro Theobald riconobbe la sacca e portò subito la mano allacintura a cui essa avrebbe dovuto essere appesa.

«Restituiscimela, razza di furfante!» esclamò, mentre vene azzurrine gliaffioravano sulla fronte e la sua faccia si tingeva di un rosso più acceso.

Caramon lanciò la sacca al kender e questi l'afferrò fra le risa e leincitazioni della folla, che cominciava a trovare questo gioco anche piùdivertente della magia. Dall'alto del suo ceppo, intanto, Raistlin si limitòad osservare la scena con un accenno di sorriso sulle labbra.

Il kender si stava preparando ad effettuare un lancio lungo in direzionedi Caramon quando all'improvviso qualcuno gli tolse di mano la sacca.

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«Cosa stai...» cominciò il kender, sollevando lo sguardo con stupore.«Questa la prendo io», replicò una voce severa.Un uomo alto, sulla ventina, con gli occhi azzurri quanto i cieli di

Solamnia e lunghi capelli raccolti in una treccia sulla schiena secondo unostile ormai antiquato, s'impossessò della sacca; il suo volto era serio esevero, perché lui era stato allevato nella convinzione che la vita fosseseria e severa, vincolata da regole le cui rigide sbarre d'acciaio non potevano essere spostate o incurvate. Tirati i lacci della sacca per richiuderla, Sturm Brightblade la spolverò e la consegnò con un inchino almago furente.

«Ti ringrazio», disse Theobald rigidamente. Recuperata la sacca laripose al sicuro all'interno dell'ampia manica e scoccò un'occhiata rovente

al kender prima di girarsi a fissare freddamente Raistlin. «Devi lasciarequesto posto oppure lasciare la mia scuola», intimò. «Cosa scegli,giovanotto?».

Uno sguardo alla ciotola di legno fu sufficiente a confermare a Raistlinche per il momento avevano ormai guadagnato abbastanza. Quanto alfuturo, il maestro non poteva certo risentirsi per ciò che non veniva asapere, quindi Raistlin decise che avrebbe dovuto semplicemente essere più circospetto.

Sfoggiando un'umiltà che non provava, si affrettò a scendere dal ceppo.«Mi dispiace, Maestro», si scusò in tono contrito. «La cosa non si

ripeterà».«Spero proprio di no», ribatté il Maestro Theobald, allontanandosi in

 preda ad un'intensa indignazione che era destinata ad aumentare quandofosse tornato a casa e avesse scoperto che la maggior parte dei componenti per incantesimi e tutte le sue monete d'acciaio erano svaniti dalla sacca, enon certo per magia.

 Nel contempo la folla si disperse, per lo più soddisfatta di aver assistitoad uno spettacolo che era certo valso una o due monete; ben presto le sole persone che rimasero accanto al ceppo d'albero furono Sturm, Caramon,Raistlin e il kender.

«Ah, Sturm, ci hai rovinato il divertimento», sospirò Caramon.«Divertimento?» ripeté Sturm, accigliandosi. «Quello che stavate

tormentando era il maestro di Raistlin, giusto?».«Sì, ma...».

«Chiedo scusa», intervenne il kender, facendosi largo a spintoni per  parlare con Raistlin. «Potresti tirare fuori di nuovo il coniglio da quella

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scatola?».«Raistlin dovrebbe trattare il suo maestro con maggiore rispetto»,

affermò intanto Sturm.«O magari potresti farmi uscire le monete dal naso», persistette il

kender. «Non sapevo di avere delle monete nel naso... dopo tuttoavrebbero dovuto farmi starnutire o qualcosa del genere. Ecco, adesso neinfilerò dentro una e...».

«Non è il caso perché ti faresti del male», lo fermò Raistlin, togliendoglila moneta di mano. «Inoltre, questa moneta è nostra».

«Davvero? Dovete averla fatta cadere», ribatté il kender, poi protese lamano e aggiunse: «Allora, com'è che fai? Io mi chiamo Tasslehoff Burrfoot. Tu come ti chiami?».

Raistlin esitò, poi ricordò l'espressione stupefatta apparsa sul volto delMaestro Theobald quando aveva visto i suoi preziosi componenti per incantesimi in balia di un kender e sorrise, accettando con aria grave distringere la mano che gli veniva offerta e procedendo a presentare ilkender agli altri.

«Questo è mio fratello Caramon», disse, «e questo è il suo amico SturmBrightblade».

Sturm si mostrò alquanto riluttante a stringere la mano ad un kender, ma

dal momento che erano stati formalmente presentati non si poté esimeredal farlo senza apparire scortese.

«Salve, Piccoletto», salutò invece Caramon in tutta cordialità,avvolgendo completamente la mano del kender nella propria estrappandogli un leggero sussulto.

«Non mi va di fartelo presente proprio adesso che siamo stati appena presentati, Caramon», affermò il kender in tono solenne, «ma è moltoscortese continuare a fare commenti sulla taglia di una persona. Per 

esempio, a te non andrebbe molto se io ti chiamassi Barile di Birra, vero?».Quel nome era talmente buffo e la scena in se stessa così ridicola, una

zanzara che si azzardava a rimproverare un orso, che Raistlin scoppiò aridere, smettendo soltanto quando si sentì indebolire per lo sforzo e fucostretto a sedersi sul ceppo, e perfino il serio e solenne Sturm si concesseun sorriso. Sorpreso e lieto di vedere il fratello così di buon umore,Caramon scoppiò a ridere a sua volta e assestò una pacca sulla schiena delkender, procedendo quindi ad aiutarlo a rialzarsi da terra.

«Vieni, fratello», disse infine Raistlin, «dobbiamo raccogliere le nostrecose e avviarci verso casa perché la fiera chiuderà presto. È stato un vero

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 piacere conoscerti, Tasslehoff Burrfoot», aggiunse in tutta sincerità.«Vi aiuto io», si offrì Tasslehoff, scoccando occhiate interessate alle

 palle multicolori e alla scatola a colori vivaci.«Ti ringrazio, ma possiamo fare da soli», replicò in fretta Caramon,

afferrando il coniglio proprio quando stava già per scomparire in una dellesacche del kender, dalle cui tasche Sturm recuperò intanto parecchiesciarpe di seta.

«Dovreste stare più attenti con le vostre cose», si sentì obbligato a puntualizzare Tasslehoff. «È stato un bene che io le abbia ritrovate, cosa dicui sono lieto. Sei davvero un abile mago, Raistlin... posso chiamartiRaistlin? Grazie. Chiamerò te Caramon se tu mi chiamerai Tasslehoff, cheè il mio nome anche se gli amici mi chiamano Tas, cosa che puoi fare

anche tu se ti va. Quanto a te, ti chiamerò Sturm... sei un cavaliere? Unavolta sono stato a Solamnia ed ho visto una quantità di cavalieri: avevanotutti baffi come i tuoi, solo che erano più folti... i baffi, intendo. I tuoi sonoun po' radi per il momento, ma vedo che li stai coltivando».

«Ti ringrazio», rispose Sturm, accarezzando con imbarazzo i baffi che sistava facendo crescere da poco.

I fratelli intanto accennarono ad avviarsi verso l'uscita della fiera, eaffermando che per quel giorno non gli interessava vedere altro Tasslehoff 

s'incamminò per accompagnarli; quanto a Sturm, pareva che non gliandasse di essere visto in pubblico in compagnia di un kender ed era statosul punto di congedarsi dagli altri quando Tasslehoff aveva parlato diSolamnia.

«Sei stato davvero laggiù?» domandò.«Io sono stato in tutto Ansalon», rispose con orgoglio Tas. «Solamnia è

un posto molto bello, e se vuoi te ne posso parlare. Sentite, ho un'idea: perché non venite a cena da me? Tutti quanti. A Flint non dispiacerà».

«Chi è Flint? Tua moglie?» domandò Caramon.«Mia moglie!» ripeté Tasslehoff, scoppiando a ridere. «Aspetta che

glielo dica! No, Flint è un nano ed è il migliore amico che io abbia almondo, così come io sono il suo migliore amico indipendentemente daquello che dice lui, forse con la sola eccezione di Tanis Mezzelfo, che è unaltro mio amico e che adesso non è qui perché è andato a Qualinesti, dovevivono gli elfi».

A questo punto Tas s'interruppe, ma soltanto perché era rimasto a corto

di fiato.«Adesso mi ricordo!» esclamò intanto Raistlin, arrestandosi di colpo.

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«Sapevo che avevi un'aria familiare. Eri presente quando Gilon è morto...eri là insieme al nano e al mezzelfo.» Fece quindi una pausa, adocchiandoil kender con aria pensosa, poi aggiunse: «Ti siamo grati per l'invito acena, Tasslehoff, e lo accettiamo».

«Accettiamo?» domandò Caramon, con aria stupita.«Sì, fratello mio», ribadì Raistlin.«Vieni anche tu, vero?» esclamò Tas, girandosi con ansia verso Sturm.«Mia madre mi aspetta a casa, ma non credo che le dispiacerà se cenerò

con degli amici» rifletté Sturm, accarezzandosi i baffi. «Lungo la strada mifermerò per avvisarla di non aspettarmi. Che parte di Solamnia haivisitato?».

«Ora te lo faccio vedere», rispose Tasslehoff, infilando la mano in una

sacca che portava sulla schiena, tutta la sua persona era drappeggiata disacche e sacchetti, e tirando fuori una mappa. «Io adoro le mappe, e tu? Tidispiacerebbe tenere fermo quell'angolo? Qui c'è Tarsis sul Mare: non cisono mai stato ma spero di visitarla un giorno quando Flint non avràtroppo bisogno del mio aiuto, che ora gli serve terribilmente. Non hai ideadei guai in cui si ficca se io non sono là a tenere sotto controllo lasituazione... Sì, ecco Solamnia. Laggiù hanno prigioni davverosplendide...».

I due continuarono a camminare, Sturm chino per studiare la mappa eTasslehoff impegnato a indicargli svariati posti che riteneva interessanti.

«Sturm deve aver perso il senno» commentò intanto Caramon. «Conogni probabilità quel kender non è mai stato a Solamnia, dato che quei piccoletti mentono tutti come... ecco, come dei kender. E adesso dobbiamocenare con uno di essi e con un nano! Non... non è conveniente, dovremmofrequentare soltanto la nostra razza. Nostro padre dice...».

«No, adesso non lo dice più», lo interruppe Raistlin.

Caramon impallidì e scivolò in un silenzio pieno di disagio.«Non possiamo rimanere rintanati per sempre nella nostra casa, avvolti

in un piccolo bozzolo sicuro» spiegò intanto Raistlin. «Finalmenteabbiamo l'occasione di liberarci dai nostri vincoli, Caramon, e dobbiamocoglierla! Ci serve un po' di tempo perché le nostre ali si asciughino alsole, ma presto saremo abbastanza forti da poter volare».

«Io non sono certo di voler volare, Raist, perché quando salgo troppo inalto ho le vertigini», replicò Caramon, poi aggiunse in tono pensoso: «Se

 però sei bagnato, dovresti proprio andare a casa ad asciugarti».Rassegnato, Raistlin batté un colpetto sul braccio del fratello.

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«D'accordo, Caramon», sospirò. «Mi cambierò i vestiti e dopo andremoa cenare con il nano... e con il kender».

CAPITOLO SECONDO

La casa di Flint Fireforge era considerata una stranezza e anche unadelle meraviglie di Solace perché non solo era costruita sul terreno ma eraanche realizzata interamente in pietra, che il nano aveva trascinato fin lìdal Picco dell'Occhio che Prega. Al nano non interessava ciò che la gente poteva dire sul suo conto e in merito alla sua casa: lui sapeva soltanto chein tutta la lunga e orgogliosa storia della sua razza nessun nano era maivissuto fra gli alberi.

Gli uccelli dimoravano fra i rami e così pure gli scoiattoli e gli elfi, maFlint non era né un uccello né uno scoiattolo e tanto meno un elfo, cosa dicui rendeva grazie a Reorx il Creatore; lui non aveva ali, una codacespugliosa o gli orecchi a punta, tutte caratteristiche che era risaputoessere proprie alle specie che vivevano sugli alberi, e riteneva che abitaresu di essi fosse una cosa innaturale oltre che pericolosa.

«Basta cadere dal letto perché quella sia l'ultima caduta che si avrà maioccasione di fare», era solito commentare in tono funesto, ed era inutile

che il suo amico e socio in affari Tanis Mezzelfo gli facesse notare che sesi viveva in una casa costruita su un albero, nel cadere dal letto si atterravasul pavimento e si riportava al massimo un indolenzimento alla schiena.

Flint infatti ribatteva che le case arboree erano fatte di legno e che erarisaputo che il legno era un materiale da costruzione inaffidabile in quanto poteva essere intaccato dalla muffa, roso dai topi e dalle termiti, poteva prendere fuoco in qualsiasi momento, lasciava passare la pioggia e glispifferi... anzi, una folata di vento particolarmente decisa poteva anche

trascinarlo via. Nulla invece poteva avere la meglio sulla buona, solida pietra. Essa era

fresca d'estate e calda d'inverno, non poteva essere attraversata dalla pioggia e il vento poteva soffiare quanto voleva, anche fino a diventarerosso in faccia, senza che i blocchi di pietra fossero scossi sia pure da unavibrazione. Era del resto risaputo che le case di pietra erano le sole chefossero sopravvissute al Cataclisma.

«Tranne che a Istar», era solito provocarlo Tanis Mezzelfo.

«Neppure le case di pietra possono sopravvivere quando un'intera,dannata montagna viene scaraventata su di loro», ribatteva sempre Flint,

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 per poi aggiungere: «E comunque sono certo che sul fondo del Mare delSangue, dove si dice che sia stata sprofondata la città di Istar, ci sonoadesso alcuni pesci fortunati che vivono in tutta comodità».

Quella particolare sera Flint si trovava all'interno della sua casa di pietra,intento a cercare di dare un po' di senso al disordine in cui viveva e che eradiventato una situazione di fatto costante da quando il kender era venuto astare da lui.

Quei due improbabili coabitanti si erano incontrati un giorno al mercato:Flint era come sempre impegnato a esibire le sue mercanzie e Tasslehoff,che era di passaggio diretto in qualsiasi posto che apparisse interessante, siera fermato alla sua bancarella per ammirare un bracciale di eccellentefattura.

Ciò che era accaduto in seguito ha diverse versioni a seconda di chi narrila storia. Secondo Tas, lui aveva preso il bracciale per provarlo, e avendoscoperto che gli calzava alla perfezione si era avviato per andare in cercadi qualcuno a cui chiederne il prezzo, mentre la versione di Flint era chenel riemergere dal retro della sua bancarella dove si era concesso unrinfrescante sorso di birra lui aveva visto Tasslehoff e il braccialescomparire in lontananza fra la folla. Naturalmente Flint aveva bloccato ilkender, che aveva proclamato con voce acuta e penetrante la propria

innocenza, mentre la gente si fermava non per comprare ma per assisterealla scena.

Sopraggiunto in quel momento, Tanis Mezzelfo aveva posto fine alla litee disperso la folla; ricordando in tono sommesso al nano che scene delgenere non giovavano agli affari, Tanis aveva quindi indotto Flint aconvincersi che non voleva davvero vedere il kender appeso per i pollici al più vicino vallenwood, e dal canto suo Tasslehoff era stato tantomagnanimo da accettare le scuse di Flint, che questi non ricordava di aver 

mai pronunciato.Quella sera il kender si era presentato alla porta di Flint munito di una

caraffa di eccellente brandy che sosteneva di aver acquistato alla Locandadell'Ultima Casa e di aver portato al nano come offerta di pace. Il pomeriggio successivo Flint si era svegliato in preda ad una martellanteemicrania e aveva trovato il kender installato nella camera degli ospiti.

Da quel momento Flint non era più riuscito ad indurre Tas ad andarsenené con le parole né con i fatti.

«Ho sentito dire che i kender soffrono della... com'è che la chiamate...della bramosia di girovagare, sì, è così che si chiama, bramosia di

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girovagare... quindi suppongo che presto essa assalirà anche te», aveva provato a suggerire.

«Niente affatto», aveva ribattuto Tas, in tono enfatico. «Io l'ho già avutae l'ho superata, credo potresti dire che sono maturato e che sono pronto asistemarmi da qualche parte. Non trovi che sia una fortuna? Tu hai proprio bisogno di qualcuno che si occupi di te, Flint, ed io sono la persona che faal caso tuo. D'inverno condivideremo questa casa accogliente e durantel'estate viaggerò con te. Dopo tutto, ho delle mappe eccellenti e conoscotutte le prigioni migliori...».

Allarmato da questa prospettiva che lo spaventava più di qualsiasi altracosa che avesse sperimentato nella sua vita, compresa la sua cattività nellemani degli orchi, Flint era andato a cercare il suo amico Tanis Mezzelfo e

gli aveva chiesto di aiutarlo a sfrattare il kender o ad assassinarlo. Con suostupore, però, il mezzelfo era scoppiato in una calorosa risata e avevaopposto un netto rifiuto, sostenendo che vivere con Tasslehoff gli avrebbefatto bene perché tendeva a isolarsi ed era troppo radicato nelle sue usanze.

«Il kender ti manterrà giovane», aveva dichiarato Tanis.«Sì, e probabilmente morirò anche giovane», aveva ribattuto Flint.Vivere con il kender aveva avuto l'effetto di fargli conoscere una grande

quantità di abitanti di Solace, prime fra tutte le guardie cittadine, che

adesso si presentavano innanzitutto a casa sua quando erano in cerca dioggetti preziosi scomparsi. D'altro canto, lo sceriffo si era stancato diarrestare Tas, che mangiava più della porzione regolamentare di cibo prevista, si portava via le chiavi delle celle e persisteva nel fornire consigli per migliorare la gestione della prigione, e alla fine dietro suggerimento diTanis Mezzelfo aveva deciso di lasciare libero il kender affidandolo allacustodia di Flint, che aveva protestato energicamente ma invano controquella soluzione.

Adesso ogni giorno Flint depositava sulla soglia tutti gli oggetti nuovi esconosciuti che gli capitava di trovare quando al mattino riordinava lacasa, sapendo che la guardia cittadina sarebbe venuta a prelevarli o che ivicini stessi si sarebbero fermati a frugare nel mucchio alla ricerca dioggetti che erano a loro "caduti" e che il kender era stato tanto gentile da"ritrovare".

Vivere con Tasslehoff aveva anche l'effetto di mantenere Flint attivo.Quel giorno, per esempio, aveva trascorso metà della mattinata a cercare i

 propri attrezzi, che non erano mai al loro posto, e aveva ritrovato il suo più prezioso martello d'argento in mezzo ad un mucchietto di gusci di noce,

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dove era stato dimenticato dopo essere stato evidentemente usato comeschiaccianoci, mentre non era invece riuscito a rintracciare le sue pinzemigliori (che sarebbero saltate fuori tre giorni più tardi nel ruscello chescorreva dietro la casa, dove Tasslehoff le aveva lasciate dopo aver tentatoinvano di usarle per prendere dei pesci). Flint era intento a lanciareimprecazioni sulla testa del kender e a cercare la teiera quando Tasslehoff spalancò la porta con un fragore da infarto.

«Salve, Flint, sono a casa! Oh, hai picchiato la testa? Ma cosa ci facevilà sotto? Non capisco perché tu stia cercando una teiera sotto il letto: cherazza di pomolo di porta potrebbe mai mettere una teiera sotto il... eradavvero lì? Oh, questo è davvero strano, mi chiedo come ci sia finita.Forse è una teiera magica!

«A proposito di magia, Flint, questi sono alcuni miei amici. Attento allatesta, Caramon, sei troppo alto per la nostra porta. Questi sono Raistlin esuo fratello Caramon... sono gemelli; Flint, non lo trovi interessante? Ineffetti si somigliano, soprattutto se li fai girare di profilo. Avanti,Caramon, mettiti di profilo, e anche tu, Raistlin, in modo che Flint possavedere. E questo è il mio nuovo amico Sturm Brightblade, che è unCavaliere di Solamnia! Si fermeranno da noi a cena, Flint, quindi speroche abbiamo cibo a sufficienza», concluse Tas, gonfiando il petto per 

l'orgoglio e per i due lunghi respiri che si erano resi necessari dopo undiscorso tanto lungo.

Adocchiando la taglia di Caramon, anche Flint si augurò che avesserocibo a sufficienza. Il nano si trovava adesso di fronte ad un problema nonfacile, perché nel momento in cui avevano varcato la soglia quei giovanierano diventati ospiti della sua casa e secondo le usanze dei nani questosignificava che dovevano essere trattati con lo stesso livello di ospitalitàche lui avrebbe riservato ai thane del suo clan se essi si fossero degnati di

venire a fargli visita, cosa peraltro del tutto improbabile. D'altro canto,Flint non nutriva una particolare simpatia per gli umani in generale e per quelli giovani in particolare, perché erano impetuosi e di indole mutevole, propensi ad agire in modo affrettato, impulsivo e, dal punto di vista delnano, pericoloso.

Alcuni studiosi della razza dei nani ritenevano che queste caratteristichedipendessero dalla brevità della durata della vita umana, ma Flint eraconvinto che questa fosse soltanto una scusa e dal suo punto di vista gli

umani erano semplicemente stupidi.Alla luce di tutto questo, il nano decise di ricorrere ad una vecchia tattica

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che in passato aveva sempre funzionato quando si era trovato alle presecon visitatori umani.

«Sarei molto contento se vi poteste fermare per cena», disse, «ma come potete vedere non ho una sola sedia che si adatti a voi».

«Vado a prenderne in prestito qualcuna», si offrì Tasslehoff, e si avviòverso la porta soltanto per essere arrestato da un grido possente.

«No!» urlarono simultaneamente quattro gole, mentre Flint si asciugavacon la barba il sudore freddo che gli aveva imperlato il volto all'idea degliabitanti di Solace che, improvvisamente privati delle loro sedie, calavanosu di lui a dozzine.

«Per favore, non ti disturbare», aggiunse quindi Sturm, con quelladannata cortesia formale tipica dei Cavalieri di Solamnia. «Non ho

 problemi a sedermi per terra».«Ed io posso sedermi qui», propose Caramon, trascinando in avanti una

cassapanca di legno; quando però prese posto su di essa, il legno intagliatoscricchiolò in maniera allarmante in reazione al suo peso.

«Tu hai una sedia che si possa adattare a Raistlin», osservò intantoTasslehoff, rivolto al nano. «È nella tua camera da letto... sai qualeintendo, la sedia che usiamo ogni volta che Tanis viene; perché staifacendo quelle smorfie? Hai qualcosa in un occhio? Lasciami guardare».

«Sta' lontano da me!» ruggì Flint.Rosso in volto, il nano si cercò in tasca la chiave della camera da letto,

in quanto la teneva sempre chiusa e cambiava la serratura almeno unavolta alla settimana, cosa che non impediva al kender di entrare ma chealmeno gli causava un certo intralcio. Scomparendo con passo irato nellacamera, Flint trascinò fuori la sedia che usava per il suo amico e cheteneva nascosta il resto del tempo, e dopo averla sistemata nell'altra stanzasi soffermò a studiare con maggiore attenzione i suoi visitatori.

Il giovane chiamato Raistlin era magro, troppo magro almeno dal puntodi vista del nano, e indossava un mantello logoro che non era certo adatto atenere a bada il freddo autunnale, come indicava il fatto che lui stavatremando e aveva le labbra pallide per il freddo. D'un tratto, il nano fuassalito da un senso di vergogna per la sua carenza di ospitalità.

«Ecco fatto», disse quindi, spostando la sedia più vicino al fuoco, poiaggiunse in tono burbero: «Sembra che tu abbia freddo, ragazzo, quindisiedi e scaldati. Quanto a te», proseguì, trapassando il kender con

un'occhiata rovente, «se proprio vuoi renderti utile va' da Otik e compra...compra, bada bene... una caraffa di sidro di mela».

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«Tornerò nel tempo che un agnello impiega ad agitare due volte lacoda», promise Tas. «Ma perché due volte e non tre? E poi, gli agnellihanno la coda? Non capisco come...».

Flint richiuse con violenza la porta alle sue spalle.Raistlin intanto si era seduto dopo aver accostato ancor di più la sedia al

fuoco, ed ora i suoi occhi azzurri di una limpidezza sconcertante stavanoosservando il nano con un'espressione intensa e grave che indusse Flint asentirsi estremamente a disagio.

«In realtà, non è necessario che tu ci offra la cena...» cominciò Raistlin.«Non lo è?» esclamò Caramon, sgomento. «Allora perché siamo venuti

qui?».Il suo gemello lo guardò in maniera tale da indurlo a contorcersi a

disagio e ad abbassare la testa contrito, poi tornò a rivolgersi a Flint.«Il motivo per cui siamo qui è che mio fratello ed io volevamo

ringraziarti per aver parlato a nostro favore contro quella donna, durante ilfunerale di nostro padre» spiegò, rifiutandosi di riconoscere la minimadignità a Judith pronunciandone il nome.

D'un tratto, Flint ricordò quando aveva avuto modo di conoscere questiragazzi; naturalmente, gli era capitato di incontrarli in giro per la città finda quando erano stati abbastanza grandi da riuscire a camminare, ma si era

dimenticato di quel particolare episodio.«Non è stato nulla», protestò, imbarazzato di fronte a quei

ringraziamenti. «Quella donna era pazza! Belzor!» aggiunse, sbuffando.«Quale dio che sia degno della sua barba si farebbe mai chiamare Belzor?Mi è dispiaciuto sapere di vostra madre, ragazzi», aggiunse quindi in tono più gentile.

Raistlin non replicò a quel commento, accantonandolo con un cennoimpercettibile delle palpebre.

«All'epoca del funerale ti ho sentito citare il nome "Reorx"; da allora hoeffettuato alcuni studi, ed ho scoperto che Reorx è il nome di un dio che iltuo popolo adorava un tempo», disse invece.

«È possibile», rispose Flint, lisciandosi pensosamente la barba eadocchiando quel giovane umano con diffidenza, «anche se non capisco perché un umano dovrebbe interessarsi ad un dio dei nani».

«Si trattava di un libro antico», spiegò Raistlin, «molto antico, nel qualesi parlava non soltanto di Reorx ma di tutti gli dèi di un tempo. Il tuo

 popolo adora ancora Reorx, signore? Non te lo chiedo per curiosità», siaffrettò a precisare, con le guance pallide velate di rossore, «e neppure per 

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essere impertinente. Desidero davvero sapere cosa ne pensi in merito».«Vorrei saperlo anch'io, signore», aggiunse Sturm Brightblade, che si

era seduto sul pavimento ma continuava a mantenere una posa rigida ederetta.

Flint era stupefatto. In tutti i suoi centotrenta e più anni di vita nessunumano gli aveva mai chiesto informazioni sulle pratiche religiose dei nani,e la cosa destò i suoi sospetti. Chi erano questi giovani? Erano forse dellespie che cercavano di ingannarlo e di metterlo nei guai? Di recente, gli eracapitato di sentir dire che alcuni seguaci di Belzor predicavano che nani edelfi erano eretici e avrebbero dovuto essere bruciati vivi.

Alla fine decise che se quei ragazzi erano a caccia della sua pelleavrebbe dato loro una lezione, perfino a quello più grosso, dato che gli

sarebbe bastato fracassargli le rotule per ridurlo alla sua stessa taglia.«Sì, noi crediamo in Reorx», rispose quindi in tono deciso, «e non

m'importa che la cosa si risappia».«Allora fra la tua gente ci sono anche dei chierici che compiono miracoli

nel nome di Reorx?» domandò Sturm, protendendosi in avanti con ariainteressata.

«No, giovanotto, non ce ne sono», replicò Flint, «e non ce ne sono piùstati dal tempo del Cataclisma».

«Se non avete ricevuto nessun segno indicante che Reorx si interessaancora della vostra sorte, come mai continuate a credere in lui?» vollesapere Raistlin.

«È ben misera la fede che richiede una rassicurazione costante, giovaneumano», ribatté Flint, «Reorx è un dio e non ci si aspetta che noicomprendiamo gli dèi. È stato così che il Re-prete di Istar si è messo neiguai... ha creduto di capire la mente degli dèi e si è convinto di essere luistesso un dio, o almeno così ho sentito dire... e il risultato è stato che gli

dèi gli hanno scagliato sopra una montagna infuocata.«Anche quando si aggirava in mezzo a noi», aggiunse in tono più cupo,

«Reorx ha fatto molte cose che non riusciamo a capire. Per esempio, hacreato i kender e i nani dei fossi. Nella mia mente, immagino che Reorx siacome me... un uomo che viaggia e che ha altri mondi di cui occuparsi e davisitare. Come lui, io lascio la mia casa durante l'estate ma torno semprecon l'autunno e la casa è lì ad aspettarmi; nello stesso modo, noi nanidobbiamo aspettare che Reorx torni dai suoi viaggi».

«Non ci avevo mai pensato», ammise Sturm, colpito da quell'idea.«Forse è per questo che Paladine ha lasciato il suo popolo, perché aveva

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altri mondi da riordinare».«Non ne sono certo», obiettò Raistlin, in tono pensoso. «So che ti può

sembrare improbabile, ma non è possibile che non sia stato tu a lasciare latua casa e abbia invece scoperto una mattina al risveglio che era stata lacasa ad andarsene?».

«Questa casa sarà ancora qui molto tempo dopo che io non ci sarò più»,ringhiò Flint, pensando che il giovane stesse sminuendo la qualità del suolavoro di costruzione. «Guarda gli intagli e le giunture della pietra! Nontroverai nulla di simile fra qui e Pax Tharkas!».

«Non intendevo questo, signore», spiegò Raistlin, con un accenno disorriso. «Mi stavo chiedendo... a me sembra...». Interrompendosi, fece unosforzo per trovare parole adatte ad esprimere con esattezza ciò che

intendeva dire, poi proseguì: «Possibile che gli dèi non se ne siano maiandati? Che siano qui e stiano soltanto aspettando che si sia noi a tornareda loro?».

«Bah! Reorx non se ne starebbe ad aspettare sprecando il suo temposenza dare a noi nani qualche segno. Sai, noi siamo i suoi favoriti»,dichiarò Flint, con orgoglio.

«Come fai a sapere che non ha inviato un segno ai nani, signore?»ribatté in tono freddo Raistlin.

Flint si trovò in difficoltà a rispondere a quella domanda perché in effettinon lo sapeva, non con certezza, in quanto era lontano da anni dalle collinedella sua terra natale e pur avendo viaggiato a lungo per la regione nonaveva avuto molti contatti con altri nani. Forse Reorx era tornato e i nanidi Thorbardin stavano tenendo segreta la cosa!

«Da loro ci sarebbe da aspettarselo, che siano dannati la loro barba e illoro ventre», borbottò.

«A proposito di ventre, non c'è nessun altro che ha fame?» domandò

Caramon in tono lamentoso. «Io sono affamato!».«Una cosa del genere non è possibile», dichiarò intanto Sturm, in tono

secco.«Invece sì», protestò Caramon. «Non ho più mangiato niente da

colazione».«Mi stavo riferendo a ciò che ha detto tuo fratello», spiegò Sturm. «Non

è possibile che Paladine sia in questo mondo e che stia assistendo alledifficoltà che la mia gente è stata ed è costretta a sopportare senza fare

nulla per intervenire».«Stando a quanto ho sentito, la tua gente ha assistito con una notevole

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calma alle sofferenze patite da coloro che erano sottoposti al suodominio... forse perché ne era in vasta parte responsabile», ribatté Raistlin.

«È una menzogna!» esclamò Sturm, balzando in piedi con i pugniserrati.

«Suvvia, Sturm, Raist non intendeva...» cominciò Caramon.«Mi stai forse dicendo che i Cavalieri di Solamnia non hanno

attivamente perseguitato i maghi?» domandò intanto Raistlin, con fintostupore. «Devo dunque supporre che essi si siano semplicemente stancatidi vivere nella Torre della Somma Stregoneria di Palanthas e che sia per questo che ne sono fuggiti, temendo per la loro vita?».

«Raist, sono certo che Sturm non intendeva...».«Alcuni la definiscono persecuzione, per altri è l'annientamento del

male» affermò Sturm, cupo.«Quindi voi equiparate la magia al male?» domandò Raistlin in tono

 pericolosamente calmo.«Non lo fa forse la maggior parte delle persone dotate di buon senso?»

ritorse Sturm.«Stai forse dicendo sul serio, Sturm?» chiese con voce minacciosa

Caramon, alzandosi in piedi con i pugni serrati.«A Solamnia abbiamo un detto, e cioè che se lo stivale calza...».

Caramon gli sferrò un goffo pugno che Sturm schivò per poicontrattaccare, cogliendo l'avversario in pieno nell'ampio stomaco,lanciandoglisi addosso quando lui crollò all'indietro e continuando acolpire. I due crollarono sulla cassapanca di legno che si smembrò nelle parti che la componevano e frantumarono il vasellame riposto all'interno,continuando a lottare sul pavimento rotolando e prendendosi a pugni.

Raistlin intanto era rimasto seduto accanto al fuoco assistendo alla scenacon calma e con un accenno di sorriso sulle labbra, una dimostrazione di

freddezza che turbò Flint al punto da impedirgli di approfittare delmomento in cui avrebbe ancora potuto porre fine alla lotta. Raistlin nonappariva preoccupato o sconvolto, e Flint si sarebbe sentito quasi indotto asospettare che avesse provocato quello scontro per il proprio divertimentose non fosse stato per il fatto che lui non sembrava apprezzare quellospettacolo e che il suo sorriso non era di piacere ma era piuttostosprezzante e sarcastico.

«Quegli occhi mi hanno fatto accapponare la pelle», raccontò in seguito

a Tanis. «In lui c'è qualcosa di terribilmente freddo, se capisci cosaintendo».

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«Non sono certo di capire. Stai dicendo che quel ragazzo hadeliberatamente provocato la lite fra suo fratello e il suo amico?».

«Ecco no, non proprio», rifletté Flint. «Le domande che mi ha rivoltoerano sincere, di questo sono certo, ma d'altro canto lui doveva sapere cheeffetto avrebbe avuto quel discorso di dèi e di magia su un Cavaliere diSolamnia... e se mai è esistito un cavaliere di Solamnia che andasse in girosenza armatura quello è il giovane Sturm. È nato con una spada infilatanella schiena, come dicevamo un tempo. Quel Raistlin invece... credo gli piacesse sapere che poteva indurli a litigare anche se sono ottimi amici»,concluse il nano, scuotendo il capo.

 Nel momento in cui la lotta stava avendo luogo, Flint si rese conto dicolpo che non gli sarebbe più rimasto mobilio intatto se non avesse

fermato al più presto i due ragazzi.«Fermi!» gridò. «Cosa pensate di fare? Avete rotto i miei piatti!

Smettetela! Smettetela, ho detto!».Quando si accorse che nessuno dei due gli dava retta, si addentrò nella

mischia e sferrò con rapidità e perizia un calcio al ginocchio di Sturm, cherotolò lontano dall'avversario e prese a dondolarsi per il dolore sopra ilvasellame rotto, serrandosi il ginocchio offeso e mordendosi le labbra per non gridare di dolore.

Flint nel frattempo aveva afferrato una ciocca dei lunghi capelli ricciutidi Caramon e impresso uno strattone deciso a cui Caramon reagì con unostrillo, sforzandosi invano di liberarsi dalla presa del nano che risultòferrea.

«Ma guardatevi!» esclamò Flint in tono disgustato, scrollando la testa diCaramon e assestando un secondo calcio a Sturm. «Vi comportate come un paio di orchetti ubriachi. E poi, chi vi ha insegnato a lottare, la vostra prozia Minnie? Siete entrambi più alti di me di almeno trenta centimetri,

forse anche sessanta nel caso di questo giovane gigante, e tuttavia eccovistesi a terra con un piede di nano piantato sul petto. Avanti, alzatevi tutti edue».

Vergognosi e con gli occhi velati di lacrime per il dolore, i due giovanisi sollevarono lentamente da terra, Sturm bilanciandosi su una sola gamba perché non osava gravare con il proprio peso sul ginocchio danneggiato eCaramon intento a massaggiarsi sussultando il cuoio capelluto e achiedersi se gli restavano ancora dei capelli.

«Mi dispiace per i piatti», borbottò quest'ultimo.«Sì, signore, mi dispiace davvero», rincarò Sturm. «È ovvio che farò

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ammenda per il danno».«Io farò di meglio e ti pagherò quello che ho rotto», offrì Caramon.Raistlin dal canto suo non disse nulla, ma del resto stava già prelevando

mentalmente del denaro dall'incasso che avevano fatto alla fiera.«Potete essere certi che mi ripagherete», ribatté il nano. «Quanti anni

avete?».«Venti», rispose Sturm.«Diciotto», disse Caramon. «Anche Raist ha diciotto anni».«Dal momento che sa che siamo gemelli, suppongo che Mastro

Fireforge lo abbia dedotto da sé», commentò Raistlin in tono caustico.«E tu hai intenzione di diventare un cavaliere», affermò il nano, fissando

Sturm, poi il suo sguardo si spostò su Caramon mentre continuava: «E tu,

 bestione, pensi di diventare un grande guerriero e di vendere la tua spada aqualche nobile. Vero?».

«Esatto!» esclamò Caramon, stupito. «Come fai a saperlo?».«Ti ho visto girare per la città portando al fianco quella tua grossa

spada... e maneggiandola in modo del tutto sbagliato, potrei aggiungere.Ebbene, posso garantire a tutti e due che i Cavalieri daranno una solaocchiata a come combatti, Sturm Brightblade, e rideranno fino a farsicadere di dosso l'armatura; quanto a te, Caramon Majere, non potresti farti

assoldare come combattente neppure dalla mia vecchia nonna».«So di avere molto da imparare, signore», ribatté Sturm, rigido. «Se

vivessi a Solamnia diventerei lo scudiero di qualche nobile cavaliere eimparerei da lui l'arte del combattere, ma purtroppo sono esiliato qui»,concluse in tono amaro.

«A Solace non c'è nessuno che ci possa istruire», si lamentò Caramon.«Questa è una città troppo tranquilla dove non succede mai niente, neppureuna scorreria di orchetti o qualcosa del genere che ravvivi le cose».

«Morditi la lingua, ragazzo, perché non ti rendi conto di quanto sietefortunati qui. Quanto a trovare un maestro, ce lo hai di fronte», ribattéFlint, gonfiando il torace e battendosi un colpetto sul petto.

«Tu?» esclamarono i due giovani, all'apparenza dubbiosi.«Ho avuto la meglio su tutti e due, vero?» ricordò loro Flint,

accarezzandosi la barba con aria di sufficienza. «Inoltre», proseguì,assestando a Raistlin una gomitata nelle costole che lo fece sussultare,«voglio discutere ancora con questo appassionato di libri perché mi

interessa apprendere il suo punto di vista su una quantità di argomenti. Èinutile parlare di denaro», proseguì, vedendo i due gemelli scambiarsi

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occhiate dubbiose e intuendo cosa stessero pensando, «perché mi potreteripagare svolgendo dei lavoretti per me. Tanto per cominciare, poteteandare alla locanda e vedere che ne è stato di quel dannato kender».

Quasi fosse stato evocato dalle parole di Flint, il kender in questionespalancò la porta proprio in quel momento.

«Ho il sidro e un pasticcio di carne che qualcuno non voleva più e...ecco! Lo sapevo!» esclamò, contemplando con aria triste i resti dellacassapanca e i piatti rotti. «Flint, vedi cosa succede quando io non cisono?» aggiunse scuotendo solennemente il capo.

CAPITOLO TERZO

L'improbabile amicizia fra i giovani umani, il nano e il kender crebberapida come le erbacce nella stagione delle piogge... almeno secondo il parere di Tasslehoff. Quanto a Flint, pur trovando da ridire sull'esseredefinito un'"er-baccia" fu disposto ad ammettere che Tas aveva ragione perché nel suo burbero cuore lui aveva un debole per i giovani esoprattutto per quelli che erano soli e senza amici. La sua amicizia conTanis Mezzelfo era iniziata quando lui aveva incontrato Tanis aQualinesti... un orfano indesiderato da entrambe le razze perché troppo

umano per gli elfi e troppo elfico per gli umani.Tanis era stato allevato nella casa del Portavoce del Sole, il sovrano di

Qualinesti, ed era cresciuto con i suoi figli: uno di essi, Porthios, lo odiava per quello che lui era, mentre sua cugina Laurana lo amava forse anchetroppo.

Questa comunque è un'altra storia; in questa sede basta ricordare cheTanis aveva lasciato il regno elfico alcuni anni prima. Abbandonato a sestesso, si era recato a chiedere aiuto all'unica persona che conoscesse al di

fuori di Qualinesti: Flint Fireforge. Pur non possedendo nessun talento per la lavorazione dei metalli, Tanis era abile nel fare i conti ed aveva un acutosenso degli affari grazie al quale si era ben presto reso conto che Flintstava truffando se stesso perché vendeva le proprie merci ad un prezzodecisamente inferiore al loro valore effettivo.

«La gente sarà felice di pagare di più per una lavorazione di qualità»,aveva fatto notare al nano, che era terrorizzato all'idea di perdere la suaclientela. «Prova e vedrai».

Il consiglio di Tanis aveva ben presto dato i suoi frutti e Flint avevacominciato a prosperare, con suo stesso stupore. I due erano così diventati

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soci e Tanis aveva preso l'abitudine di accompagnare il nano nei suoiviaggi estivi, provvedendo lui a prendere tutti gli accordi, a montare la bancarella in occasione delle fiere locali e a fissare gli appuntamenti con i benestanti locali per mostrare loro in privato le merci di Flint.

In questo modo i due avevano sviluppato un'amicizia profonda eduratura e dopo qualche tempo Flint aveva proposto a Tanis di trasferirsi presso di lui, offerta che però Tanis aveva rifiutato facendogli notare che lasua casa era un po' troppo piccola per un alto mezzelfo, e che del resto lasua abitazione era poco lontano, costruita fra i rami di un vallenwood. Lasola lite che i due avessero mai avuto, e non si era trattato tanto di una veralite quanto di una discussione accesa, aveva riguardato i viaggi che Tanis persisteva a fare a Qualinesti.

«Quando torni da quel posto non servi a nulla», aveva dichiarato con brusca franchezza Flint, «perché resti di umore cupo per una settimana.Laggiù non ti vogliono tra i piedi, una cosa che hanno messo in chiaro fintroppo bene: la tua presenza sconvolge la loro vita, e la loro vicinanzasconvolge la tua, quindi la cosa migliore che puoi fare è lavare dai tuoistivali il fango di Qualinesti e non tornarci mai più».

«Naturalmente hai ragione», aveva ammesso Tanis, in tono riflessivo.«Ogni volta che me ne vado giuro di non fare più ritorno, ma qualcosa mi

riporta sempre indietro e quando sento in sogno la musica dei pioppi soche per me è giunto il momento di tornare a casa... e Qualinesti è la miacasa, una verità che essi non possono negare per quanto ci provino».

«Bah! Questa è la tua parte elfica che parla», aveva sbuffato Flint. «Lamusica dei pioppi! Tutte stupidaggini! Sono cento anni che io non torno acasa, e tuttavia non mi senti disquisire sulla musica dei noccioli, vero?».

«No, ma ti ho sentito esprimere la tua nostalgia per il liquore dei nani»,aveva scherzato Tanis.

«È una cosa del tutto diversa», era stato pronto a ribattere Flint, «inquanto quello è vera e propria linfa vitale. Mi chiedo per quale motivoOtik non riesca a realizzare la ricetta nel modo giusto, considerato chegliel'ho ridata chissà quante volte. Deve essere colpa di questi funghilocali, o di quelli che voi umani chiamate funghi».

 Nonostante le insistenze di Flint, anche quell'autunno Tanis era partito per Qualinesti, rimanendo assente per tutto Yule, poi erano giunte pesantinevicate e Flint aveva cominciato a temere che l'amico non sarebbe tornato

se non a primavera.Anche se si sarebbe tagliato la barba prima di ammetterlo, Flint si

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sentiva sempre solo quando Tanis era lontano, un senso di solitudine chel'accidentale e non richiesta presenza di Tasslehoff contribuiva adattenuare un poco... per quanto Flint non sarebbe stato disposto adammettere neppure questo anche a costo di farsi tagliare addirittura latesta. Le chiacchiere vivaci e incessanti del kender riempivano il silenzio,sebbene il nano finisse sempre per ingiungergli di tacere ogni volta chescopriva di cominciare a interessarsi troppo ai suoi discorsi.

Insegnare ai giovani umani come comportarsi in un combattimento erauna cosa che ora stava dando al nano un vero senso di soddisfazione. Gli piaceva mostrare loro i piccoli trucchi e le abili manovre che avevaimparato nel corso di una vita di scontri con orchi, orchetti, ladri,tagliaborse e altri pericoli a cui si trovavano di fronte coloro che

 percorrevano le pericolose strade dell'Abanasinia, una sensazione che lui paragonava a quella che provava nel creare un oggetto di metallo di particolare bellezza e fattura.

In pratica, ciò che stava facendo era più o meno la stessa cosa, in quantostava modellando e rifinendo delle giovani vite nello stesso modo in cuimodellava il metallo, e due di quei giovani stavano assumendo una formadecisamente gradevole, mentre il terzo non si mostrava invece moltomalleabile.

Raistlin, infatti, continuava a far accapponare la pelle a Flint.Ormai diciannovenni, i due gemelli stavano trascorrendo quell'inverno

insieme perché all'inizio dell'autunno un incendio aveva distrutto la scuoladel Maestro Theobald, costringendolo a trasferirsi. Dal momento cheormai Theobald era conosciuto a Solace e considerato degno di fiducia, leautorità gli avevano dato il permesso di aprire una nuova scuola all'internodella città una volta avuta la garanzia che l'incendio aveva avuto causenaturali e non magiche.

Di conseguenza, adesso Raistlin non aveva più bisogno di alloggiare presso la scuola e poteva passare l'inverno a casa con il fratello, anche sesia lui sia Caramon non trascorrevano molto tempo fra le paretidomestiche.

Raistlin apprezzava infatti la compagnia del nano e del kender, anche perché aveva bisogno di acquisire informazioni sul mondo che si stendevaal di là dei vallenwood, quel mondo in cui presto avrebbe preso il postoche gli spettava: da quando aveva acquisito la capacità di effettuare

incantesimi, infatti, lui aveva cominciato a osare di sognare il propriofuturo.

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Adesso era assistente insegnante presso la scuola del Maestro Theobald, perché questi sperava che se gli fosse stato offerto un modo onorevole per guadagnarsi da vivere, il giovane mago avrebbe smesso di esibirsi in pubblico. Raistlin non era un insegnante particolarmente abile perché nonaveva pazienza di fronte all'ignoranza e tendeva ad essere molto sarcastico,ma se non altro teneva i ragazzi tranquilli durante il sonnellino pomeridiano del maestro, e questo era tutto ciò che Theobald voleva da lui.

Una volta, il maestro aveva perfino suggerito a Raistlin che in futuroavrebbe potuto aprire a sua volta un scuola di magia, ma il giovane gliaveva riso in faccia perché ciò che lui voleva era il potere, e non soloascendente sopra un mucchio di ragazzini che recitavano svogliatamente laloro lezione a base di aa e di ai.  No, lui voleva quello stesso potere che

esercitava sulla gente quando essa lo osservava mettere in pratica piccoliincantesimi di poco conto: l'espressione di reverenza e di rispetto cheleggeva negli occhi degli spettatori lo riempiva di una profondasoddisfazione, e lui già si vedeva nell'atto di acquisire un sempre maggiore potere sugli altri.

Potere diretto al bene, naturalmente.Avrebbe elargito denaro ai poveri, risanato i malati, consegnato i

malfattori alla giustizia; sarebbe stato amato, ammirato, temuto e invidiato.

Se però voleva avere il controllo su vaste masse di persone (quanto sonoimmensi i sogni ambiziosi della gioventù!) lui avrebbe avuto bisogno disapere tutto il possibile sulle persone in questione, su tutte quante e nonsoltanto sugli umani, e di conseguenza il nano e il kender erano ottimisoggetti da studiare.

La prima cosa che Raistlin apprese fu che le dita di un kender arrivanodappertutto e sono in grado di portare via qualsiasi cosa. La prima volta incui Tasslehoff si appropriò della piccola sacca in cui lui custodiva con

orgoglio il solo componente magico a cui finora avesse diritto, Raistlinreagì infuriandosi.

«Guarda cosa ho trovato!» annunciò Tas. «Una sacca di cuoio su cuifigura la lettera R. Vediamo cosa c'è dentro».

«No!» esclamò Raistlin, riconoscendo la sacca che appena pochimomenti prima era appesa alla sua cintura. «Aspetta! Non...».

Troppo tardi: Tas aveva già aperto la sacca e stava sbirciando all'interno.«Qui c'è soltanto un mucchietto di fiori secchi... adesso la svuoto»,

dichiarò, spargendo i petali di rosa sul pavimento per poi guardare ancoranella sacca, perplesso. «No, non c'è proprio niente altro, il che è strano.

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Perché qualcuno avrà...».«Dammela!» ingiunse Raistlin recuperando la sacca con mani che

tremavano letteralmente di rabbia.«Oh, è tua?» domandò Tasslehoff, fissandolo con occhi scintillanti. «Te

l'ho ripulita: qualcuno ci aveva messo dentro un mucchio di fiori secchi».Raistlin aprì la bocca per ribattere ma scoprì che le parole erano non

solo inadeguate ma addirittura inesistenti e poté soltanto fissare il kender con occhi roventi, emettere suoni incoerenti e infine soddisfare in parte la propria ira scoccando un'occhiata furente al fratello che stava ridendo.

Dopo aver perso la sacca e i petali di rosa altre due volte, Raistlin si reseinfine conto che l'indignazione, le minacce di violenza e/o il ricorso adun'azione legale non funzionavano con il kender, in quanto non era mai

 possibile cogliere in flagrante quelle agili dita, capaci di scioglierequalsiasi nodo per quanto stretto e di sottrarre la sacca con il tocco leggerodi un ragno.

Per fare fronte a Tasslehoff era necessaria l'astuzia, quindi Raistlinricorse ad un esperimento e collocò nella propria sacca un pezzo rotondodi vetro colorato che aveva prelevato dagli scarti di un soffiatore di vetro.Incantato, Tasslehoff prelevò il pezzo di vetro e lasciò cadere la sacca sul pavimento dove Raistlin la recuperò con dentro tutti i fiori ancora intatti.

Da quel momento, prese l'abitudine di riporre sempre un ninnolo o unoggetto interessante (un uovo d'uccello, uno scarafaggio pietrificato, unsasso scintillante) all'interno della sacca, ben sapendo dove andarla acercare ogni volta che ne avesse constatato la scomparsa.

Mentre Raistlin imparava nuove cose sui kender, Caramon stavaimparando le finezze della tecnica di combattimento dei nani, e anchetattiche che tanto fini non erano.

Data la loro bassa statura e il fatto che in genere affrontavano avversari

molto più alti di loro, i nani avevano sviluppato un modo di combattereche non si poteva definire elegante e usavano una quantità di mosse, come per esempio i calci all'inguine e i pugni sotto lo sterno, che a detta di Sturmnon avevano nulla di cavalleresco.

«Non intendo combattere come un comune bravaccio da strada», protestò questi.

L'inverno era ormai al suo culmine; il Lago Crystalmir si era ghiacciatoe la gente se ne stava per lo più in casa al caldo, con i piedi accanto al

fuoco e un boccale di punch bollente in mano, ma Flint aveva costrettoCaramon e Sturm a uscire all'aperto e li aveva fatti lavorare fino a quando

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avevano cominciato a sudare, per rinforzare loro i muscoli.«Ma davvero?» ribatté il nano, avanzando fino a fermarsi sotto l'alto

giovane, che aveva i baffi coperti di gocce di condensa causate dal suorespiro affannoso, cosa che secondo Tasslehoff lo faceva somigliare ad untricheco. «E cosa farai quando verrai attaccato da un comune bravaccio dastrada, ragazzo?» continuò Flint. «Alzerai la spada per rivolgergli unostupido saluto mentre lui ti prende a calci dove duole?».

Caramon scoppiò a ridere e Sturm si accigliò di fronte alla rozzezza diquella domanda, ma al tempo stesso ammise che il nano aveva ragione eche lui doveva almeno sapere come contrastare un attacco del genere.

«Quanto agli orchetti», proseguì Flint, «sono fondamentalmente deivigliacchi a meno che non siano pieni di liquore, nel qual caso sono

semplicemente pazzi. Un orchetto cercherà sempre di aggredirti alle spallee di tagliarti la gola prima che tu ti accorga di cosa ti è successo, usandouna mano pelosa per soffocare il tuo urlo e l'altra per passarti la lama lungoil collo, facendoti morire dissanguato prima ancora di crollare a terra.

«Il modo in cui bisogna reagire ad un attacco del genere è il seguente:sfruttare il peso stesso e il movimento in avanti dell'orchetto quando lui visalterà addosso, in questo modo...».

«Lasciami fare l'orchetto!» implorò Tas, agitando la mano. «Per favore,

Flint! Lasciamelo fare!».«D'accordo. Dunque, il kender...».«L'orchetto», lo corresse Tas, balzando sull'ampia schiena del nano.«... vi salta addosso, e voi cosa fate? Semplicemente questo».Afferrando le mani che il kender gli stava serrando intorno alla gola,

Flint si chinò su se stesso e fece volare il presunto assalitore sopra la propria testa, con il risultato che Tas andò ad atterrare con violenza sulterreno gelato e coperto di neve, restando per un momento sdraiato con il

respiro affannoso e le stelle che gli danzavano davanti agli occhi.«Mi hai tolto il respiro!» esclamò, quando fu di nuovo in grado di

 parlare, rialzandosi in piedi. «Prima d'ora non ero mai stato incapace direspirare, Caramon. È una sensazione interessante... vuoi che ti aiuti a provarla?».

«Ah!» esclamò Caramon, sprezzante. «Non potresti mai farmi volare inquel modo».

«Forse no», ammise Tas, «però posso fare questo».

Serrando il pugno, lo usò per colpire con forza l'ampio stomaco diCaramon, che gemette, si piegò su se stesso e si tenne il ventre con un

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sussulto.«Bel colpo, kender», commentò in tono di approvazione una voce che

echeggiò al di sopra delle risa degli altri.«Niente male, Tasslehoff, proprio niente male», aggiunse una seconda

voce.Girandosi, i membri del gruppetto videro avvicinarsi nella neve due

 persone avvolte in un fitto strato di pellicce.«Tanis!» ruggì Flint, a titolo di benvenuto.«Kitiara!» esclamò intanto Caramon, sorpreso.«Tanis e Kitiara!» strillò a sua volta Tasslehoff, anche se non aveva mai

visto o conosciuto Kitiara in tutta la sua vita.«Un momento... vi conoscete tutti a vicenda?» domandò Tanis,

spostando con stupore lo sguardo da Caramon e Raistlin a Kitiara.«Direi proprio di sì», replicò lei, con il suo sorriso in tralice. «Questi

sono i miei fratelli, i gemelli di cui ti ho parlato. Quanto a Brightblade, luie io eravamo soliti giocare insieme», aggiunse, mentre il suo sorriso dava aquelle parole un significato piccante.

Con un fischio sommesso, Caramon assestò una gomitata nelle costole aSturm, che arrossì per l'imbarazzo e per l'ira, annunciando quindi in tonorigido che era atteso a casa e allontanandosi a grandi passi dopo aver 

rivolto un freddo inchino ai nuovi arrivati.«Cosa ho detto di male?» domandò Kitiara, poi scoppiò a ridere e

 protese le braccia verso i fratelli.Subito Caramon venne ad abbracciarla e fece sfoggio della propria forza

sollevandola di peso da terra.«Molto bene, fratellino», commentò lei in tono di approvazione quando

Caramon la posò a terra. «Sei cresciuto dall'ultima volta che ti ho visto».«Quattro centimetri esatti», precisò con orgoglio Caramon.

Raistlin intanto venne avanti e offrì la guancia alla sorella, evitando peròil suo abbraccio. Con una risata e una scrollata di spalle, Kitiara gli diedeun bacio leggero, poi lo squadrò dalla testa ai piedi mentre lui rimanevaimmobile sotto quell'esame, con le mani incrociate sul davanti della veste bianca da mago che ora indossava, un dono del suo mentore Antimodes.

«Anche tu sei cresciuto, fratellino», osservò infine Kitiara.«Raistlin è cresciuto di due centimetri», annunciò Caramon. «È merito

della mia cucina».

«Non intendevo questo», replicò Kitiara.«Lo so, sorella, e ti ringrazio», rispose Raistlin, scambiando con lei

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un'occhiata significativa.«Bene, bene», commentò allora Kitiara, tornando a girarsi verso Tanis.

«Chi lo avrebbe immaginato? Lascio due fratelli neonati e al ritorno litrovo ormai adulti. Quanto a lui, deve essere Flint Fireforge», aggiunse, porgendo al nano la mano guantata. «Io sono Kitiara uth Matar».

«Sono tuo servitore, signora», rispose Flint, stringendo la manooffertagli.

«Ed io sono Tasslehoff Burrfoot», intervenne Tas, protendendo unamano perché la donna gliela stringesse e facendo scivolare l'altra verso lasua cintura.

«Piacere di conoscerti, Tasslehoff», rispose Kitiara, e in tono divertitoaggiunse: «Tocca quella daga e la userò per tranciarti gli orecchi».

Qualcosa nella sua voce convinse Tasslehoff che stava dicendo sul serio,ed essendo affezionato ai suoi orecchi, che servivano a puntellargli la codadi cavallo, si affrettò a rientrare in casa per frugare in una sacca cheevidentemente Tanis non voleva più.

Ritenendo che fosse ora di concludere le lezioni, Flint invitò intanto gliospiti a entrare per mangiare qualcosa.

Una volta in casa, Tanis e Kitiara si liberarono del mantello. Sotto diesso Kitiara indossava una lunga tunica di cuoio che le arrivava a metà

della coscia, una camicia da uomo aperta sul collo e una cintura di cuoiofinemente lavorato e di fattura elfica. Nel complesso era diversa daqualsiasi donna che gli altri avessero mai conosciuto e nessuno di essi,compresi i suoi fratelli, sembrava sapere come comportarsi con lei.

Il suo sguardo era quello di un uomo, audace e diretto, e non aveva nulladella modestia e del pudore che si convenivano ad una donna di rango; isuoi movimenti possedevano la grazia propria di un esperto spadaccino ein lei si avvertivano la freddezza e la sicurezza di un guerriero veterano. Se

 pure era un po' sfacciata, questo serviva soltanto ad accentuare il suofascino.

«Mi accorgo che avete notato la mia cintura», commentò intanto Kitiara,sfoggiando con orgoglio la fascia di cuoio lavorato che le cingeva la vitasottile. «È il dono di un ammiratore».

 Nessuno dei presenti dovette guardare lontano per trovarequell'ammiratore, dato che Tanis Mezzelfo stava seguendo con paleseinteresse ogni movimento di Kitiara.

«Ho sentito molto parlare di te, e sempre bene, Flint», aggiunse intantoKitiara.

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«Io invece non ho mai sentito parlare di te», ribatté Flint, con laconsueta diretta franchezza, «ma scommetto che presto lo sentirò». Guardòquindi verso Tanis con un'espressione in cui l'affetto per l'amico simescolava ad una sfumatura di preoccupazione e domandò:«Dove vi sieteincontrati?».

«Fuori da Qualinesti», rispose Tanis. «Mentre tornavo a Solace hosentito delle urla giungere dal bosco e quando sono andato a indagare hotrovato questa giovane donna e un orchetto, che ho creduto la stesseaggredendo. Naturalmente sono corso in suo aiuto, soltanto per scoprireche mi ero sbagliato e che le urla che avevo sentito provenivano invecedall'orchetto».

«Qualinesti», ripeté Flint, scoccando a Kitiara uno sguardo in tralice.

«Cosa ci facevi tu... un'umana... a Qualinesti?».«Non ero dentro Qualinesti», specificò lei. «Ero soltanto nelle vicinanze.

Quella è una zona che ho attraversato parecchie volte perché è sulla miastrada quando vengo qui».

«Arrivando da dove?» domandò Flint.Kitiara non parve sentire la sua domanda oppure decise di ignorarla, e il

nano stava per ripeterla quando lei segnalò ai fratelli di venire avanti per le presentazioni.

«Io sono Tanis Mezzelfo», disse Tanis, porgendo loro la mano.Pieno di entusiasmo, Caramon gliela strinse fino quasi a staccarla,

mentre Raistlin la sfiorò appena con le proprie dita sottili.«Io sono Caramon Majere e questo è il mio gemello Raistlin. In realtà,

noi siamo i fratellastri di Kit», spiegò intanto Caramon.Raistlin invece rimase in silenzio e procedette ad esaminare con

curiosità il mezzelfo, di cui aveva sentito parlare molto, quasiquotidianamente, da Flint. Tanis vestiva come un cacciatore, con un

giustacuore di cuoio marrone di fattura elfica, una camicia verde, calzonimarrone e alti stivali da viaggio dello stesso colore. Le sue armi erano unaspada alla cintura, un arco appeso alla spalla e una faretra di frecceassicurata alla schiena. Quanto al suo retaggio elfico, esso non era evidentead un esame superficiale, tranne forse nei lineamenti finemente cesellatidel volto, ed era impossibile dire se i suoi orecchi fossero a punta o meno perché erano nascosti da lunghi e folti capelli castani. La sua statura eraquella di un elfo, ma lui aveva la corporatura più massiccia propria ad un

umano. Nel complesso, era un uomo avvenente, e non c'era da meravigliarsi che

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avesse attirato l'attenzione di Kitiara.Intanto Tanis aveva studiato a sua volta i due fratelli, ancora

meravigliato per la coincidenza di trovarli lì.«Kit ed io ci siamo incontrati per caso sulla strada e siamo diventati

amici, e adesso al mio arrivo a casa scopro che i suoi fratelli e i mieimigliori amici hanno fatto a loro volta amicizia! Senza dubbio, questo eraun incontro predestinato», commentò.

«Il fatto che un incontro sia predestinato implica che in futuro ne debbaderivare qualcosa di significativo», osservò Raistlin. «Tu prevedi forse unevento del genere, signore?».

«Io... suppongo che sia possibile», balbettò Tanis, preso in contropiede eincerto su come rispondere. «A dire il vero, stavo soltanto scherzando, e

non intendevo...».«Non badare a Raistlin, Tanis», lo interruppe Kitiara. «Lui è un

 pensatore... l'unico della famiglia. Vuoi smetterla di essere tanto serio?»ingiunse quindi in tono sommesso al fratello. «Quest'uomo mi piace e nonvoglio che lo spaventi fino a farlo allontanare da me».

Sorrise quindi a Tanis, che ricambiò il suo sorriso, e nel notare la cosaRaistlin comprese che lui e sua sorella erano più che amici, erano amanti.Quella consapevolezza e l'immagine improvvisa che essa gli evocò nella

mente gli diede un senso di disagio e d'imbarazzo che lo portò a nutrire dicolpo un'intensa avversione per il mezzelfo.

«Se non altro, sono lieto di vedere che avete tenuto il mio vecchio amicoFlint lontano dai guai», affermò intanto Tanis, a sua volta imbarazzato,nella speranza di cambiare argomento.

«Fuori dai guai un accidente!» esclamò Flint, in tono furente. «Per poconon mi hanno fatto annegare, ed è una fortuna che sia sopravvissuto».

A quel punto fu necessario riferire la storia della sfortunata gita in barca,

che tutti cercarono di raccontare parlando contemporaneamente.«Io ho trovato la barca...» cominciò Tasslehoff.«Caramon, quel grosso idiota, si è alzato in piedi mentre eravamo a

 bordo...».«Stavo soltanto cercando di prendere un pesce, Flint...».«Ed hai rovesciato quella dannata barca, facendoci bagnare tutti fino alle

ossa...».«Caramon è andato a fondo come un sasso... lo so perché ho lanciato

una quantità di sassi nell'acqua e tutti sono sempre andati a fondo propriocome lui, senza neppure una bolla...».

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«Ero preoccupato per Raist...».«Io ero perfettamente in grado di provvedere a me stesso, fratello. Sotto

la barca rovesciata c'era una sacca d'aria e non correvo il minimo pericolo,tranne quello di avere un imbecille per fratello. Cercare di prendere un pesce a mani nude...».

«... mi sono tuffato per raggiungere Caramon e l'ho trascinato fuoridall'acqua...».

«Non è vero, Flint! Caramon è uscito dall'acqua da solo e sono stato io atirarti fuori... non ricordi? Vedi in quali guai ti metti se non ci fossi io?».

«Ricordo benissimo, e non è successo affatto in questo modo, dannatokender. C'è una cosa che ti voglio dire», dichiarò con enfasi Flint, ponendofine a quel confuso racconto, «e cioè che non metterò mai più piede su una

 barca finché avrò vita. Quella è stata la prima volta e Reorx mi è testimoneche sarà anche l'ultima».

«Confido che Reorx abbia sentito il tuo voto», commentò Tanis, poiassestò una pacca affettuosa sulla spalla del nano e si alzò per andarsene,aggiungendo: «Vado a vedere se la mia casa è ancora in piedi. Vuoiaccompagnarmi?».

La domanda era rivolta a Flint, ma il suo sguardo si posò su Kitiara.«Vengo io!» si offrì prontamente Tas.

«Invece no», intervenne Flint, afferrandolo per il colletto e tirandoloindietro. «Non riesco a trovare le mie pinze migliori e sono pronto ascommettere qualsiasi cifra, Tasslehoff Burrfoot, che tu sai dove sono».

«Più tardi, magari, Adesso devo andare con Tanis e... ouch, mi hai fattomale! Perché mi hai pizzicato? Ah, ho capito», ridacchiò Tas. «Vado acercare le tue pinze. Flint è molto trascurato con i suoi attrezzi e li perde dicontinuo. È un bene che ci sia io per aiutarlo a ritrovarli».

«Vieni a casa con noi, Kit?» domandò intanto Caramon, in tono

scherzoso. «Oppure hai altri piani?».«Forse più tardi», rispose Kitiara, protendendosi a prendere per mano

Tanis. «Molto più tardi».Ridendo rivolse un cordiale cenno di saluto ai fratelli e si allontanò con

il mezzelfo.«Oh, taci», ingiunse in tono cupo Raistlin a Caramon, quando questi

cercò di parlare con lui di Tanis e di Kitiara.

CAPITOLO QUARTO

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La primavera giunse a Solace, portando con sé i fiori in boccio, gliagnelli appena nati e gli uccelli che nidificavano; tutt'intorno c'erano segniche indicavano il rinnovarsi della vita, e il sangue che si era fatto freddo elento durante l'inverno si fece più caldo e meno denso, i giovanicominciarono a risvegliarsi e le ragazze a ridacchiare. Di tutte le stagionidell'anno, la primavera era quella che Raistlin detestava maggiormente.

«La scorsa notte Kit non è tornata a casa», commentò Caramon,ammiccando, mentre facevano colazione.

Raistlin continuò a mangiare la sua porzione di pane e formaggio senzafare commenti, perché non intendeva incoraggiare quel genere di discorsi,ma a quanto pareva Caramon non aveva bisogno di incoraggiamenti.

«Il suo letto era intatto», continuò, «ma sono pronto a scommettere che

 so quale letto è invece stato usato... anche se non è probabile che abbianodormito molto».

«Caramon», dichiarò con freddezza Raistlin, alzandosi in piedi elasciando la colazione quasi intatta, «sei un porco».

Portò quindi i resti del suo pasto a due topi di campagna che avevacatturato e che ora teneva in una gabbia insieme con un conigliodomestico. Di recente aveva sviluppato alcune teorie in merito all'uso delleerbe e gli era sembrato più saggio sperimentarne gli effetti pratici sugli

animali invece che sui suoi pazienti, considerato anche che i topi eranofacili da catturare e da mantenere, ed erano di certo più sopportabili edeconomici di suo fratello.

Il primo esperimento di Raistlin non aveva funzionato perché la suacavia era caduta vittima del gatto dei vicini, incidente in seguito al qualelui aveva sgridato severamente Caramon per aver permesso al gatto dientrare in casa; suo fratello, che era amante dei gatti, aveva allora promesso di giocare da quel momento con l'animale all'esterno in modo

che i topi fossero al sicuro. Soddisfatto di come stavano procedendo i suoi più recenti esperimenti su quelle bestiole, Raistlin infilò alcune briciole di pane fra le sbarre.

«È già abbastanza spiacevole che nostra sorella si prostituisca in questomodo senza fare commenti sboccati al riguardo», continuò, dando alconiglio un po' di acqua fresca.

«Suvvia, Raist!» protestò Caramon. «Kit non fa... quello che hai detto.Lei è innamorata di quell'uomo, lo si capisce dal modo in cui lo guarda, e

lui la adora. Tanis mi è simpatico. Flint mi ha parlato molto di lui e mi hadetto che quest'estate Tanis m'insegnerà a usare la spada e anche arco e

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frecce. Secondo lui Tanis è il più grande arciere che sia mai vissuto, e...».Ignorando il resto del discorso del fratello, Raistlin si pulì le dita dalle

 briciole e prese i suoi libri.«Adesso devo andare altrimenti farò tardi a scuola», annunciò,

interrompendo rudemente Caramon a metà di una frase. «Ci vediamoquesta sera, oppure hai intenzione di trasferirti anche tu presso TanisMezzelfo?».

«No, Raist. Perché mi dovrei trasferire da lui?».Con Caramon, il sarcasmo era sempre sprecato.«Sai, Raist, stare con una ragazza è molto divertente», continuò questi.

«Tu non parli mai con nessuna di loro ma ce n'è più di una che ti trovadavvero speciale, a causa della tua magia e di tutto il resto, e ti ammirano

molto soprattutto dopo che hai guarito la bambina dei Greenleaf dallalaringite difterica. Dicono che la bambina sarebbe morta senza il tuo aiuto,Raist, e queste sono cose che fanno colpo sulle ragazze».

Raistlin si arrestò sulla soglia con le guance tinte di un lieve rossore disoddisfazione.

«Si è trattato soltanto di una miscela di tè e di una radice di cui ho letto,chiamata ipecacuanha. La bambina doveva vomitare il catarro, e quellamiscela l'ha aiutata a farlo», si schermì. «Le ragazze... loro parlano

davvero... di queste cose?».Raistlin aveva l'impressione che le ragazze fossero creature strane e

indecifrabili come un incantesimo tratto dal libro di qualche arcimago dialto livello e per lui ancora inutilizzabile, e tuttavia Caramon, che sottoaltri aspetti era lento di comprendonio quanto un ceppo d'albero, parlavacon loro e faceva loro da cavaliere nelle danze che si tenevano durante lefeste, oltre a fare anche altre cose che Raistlin osava immaginare soltantonelle ore più cupe della notte, sotto forma di sogni che gli davano

l'impressione di essere sporco e lo riempivano di vergogna. D'altro canto,Caramon aveva un fisico massiccio, capelli ricciuti, grandi occhi castani elineamenti attraenti che facevano effetto sulle donne, tutte cose che aRaistlin mancavano.

Le frequenti malattie che ancora continuavano ad assalirlo lo avevanoreso magro, ossuto e di scarso appetito, e anche se aveva gli stessilineamenti ben modellati di Caramon sul proprio volto essi apparivano piùaffinati e aguzzi, dandogli l'aspetto astuto e infido di una volpe. Inoltre non

gli piacevano le danze intorno ai fuochi che considerava uno spreco ditempo e di energie e che comunque lo lasciavano con il fiato corto e con il

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torace dolorante, e non sapeva come parlare con le ragazze, cosa dire loro.Quando ci provava aveva sempre la sensazione che sebbene lo ascoltasserocon cortesia in fondo ai loro occhi scintillanti esse ridessero segretamentedi lui.

«Non credo che loro parlino dell'ipe... ipe... upecaca, o come si chiamaquella cosa dal nome lungo», ammise Caramon. «Però una di loro,Miranda, ha detto che era meraviglioso che tu avessi salvato la vita della bambina, che è la sua nipotina. Voleva che te lo riferissi».

«Ha detto davvero così?» mormorò Raistlin.«Sì. Miranda è splendida, vero?» replicò Caramon, con un profondo

sospiro. «Non ho mai visto una ragazza tanto bella. Ooops!» esclamòquindi, lanciando un'occhiata fuori della porta e vedendo che il sole già

accennava a sorgere. «È tempo che m'incammini anch'io, perché oggidobbiamo seminare e non tornerò a casa prima di notte».

Fischiettando un motivo allegro che quei discorsi sulle danze intorno alfuoco gli avevano fatto venire in mente, afferrò il proprio zaino e siaffrettò a incamminarsi.

«Sì, fratello mio, hai proprio ragione: lei è molto bella», disse Raistlinalla casa ormai vuota.

Miranda era la figlia di un ricco mercante di abiti che aveva avviato di

recente i propri affari a Solace, e costituiva la migliore pubblicità per suo padre perché era sempre meravigliosamente vestita con abiti di fine fattura,tagliati e cuciti secondo lo stile più recente. Lunghi capelli di un biondorossiccio le ricadevano fino alla vita in pigri riccioli, e lei era affascinantecon i suoi modi aggraziati e modesti, era fragile e accattivante, innocente e buona. Raistlin non era quindi il solo giovane di Solace che avesseimparato ad ammirarla.

A volte Raistlin aveva provato a immaginare che Miranda gli lanciasse

qualche sguardo invitante, ma si era sempre detto che quelli erano soltantosogni ad occhi aperti: come poteva lei provare il minimo interesse nei suoiconfronti? Però ogni volta che la vedeva il cuore prendeva a martellarglinel petto fin quasi a soffocarlo, il sangue gli bruciava, la pelle gli siarroventava e il cervello gli si riduceva in poltiglia mentre la sua lingua disolito tanto sciolta riusciva a formulare soltanto parole vuote e lui nontrovava neppure il coraggio di guardarla in faccia pur facendo fatica aimpedire alle proprie mani di protendersi ad accarezzare quei riccioli

ramati ogni volta che si veniva a trovare vicino a lei.La domanda che però lo tormentava davvero era se quella ragazza

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avrebbe destato ugualmente il suo interesse anche se non fosse stataoggetto dell'ammirazione di Caramon.

La parte superficiale della sua mente tendeva a dare subito una rispostaaffermativa, ma quella più profonda continuava a meditare con disagiosull'interrogativo: quale demone si annidava in Raistlin e lo spingeva aquesta competizione costante, e peraltro unilaterale, con Caramon, che neera beatamente ignaro?

D'un tratto Raistlin ricordò una storia che Tasslehoff gli avevaraccontato e che parlava di un nano imbattutosi in un drago rossoaddormentato. Il nano aveva attaccato il drago dormiente con l'ascia e conla spada, tempestandolo di colpi per ore fino a sfinirsi senza però che ildrago si svegliasse; sbadigliando, alla fine l'enorme creatura si era girata

nel sonno e aveva schiacciato il nano.Raistlin provava un'intensa comprensione per quel nano perché aveva

l'impressione di essere impegnato in una costante battaglia con il suogemello che si limitava a rotolargli addosso e a schiacciarlo. Caramonaveva un aspetto migliore, era più simpatico, ispirava maggiore fiducia,mentre Raistlin era "profondo", come lo descriveva Kit, o "scaltro", comelo aveva una volta definito Tanis, o "astuto", come lo avevanosoprannominato i suoi compagni di scuola. La maggior parte della gente

tollerava la sua presenza soltanto perché amava suo fratello.Mentre si avviava lungo il marciapiede, cercando di non respirare la

fragrante aria primaverile che sempre lo faceva starnutire, Raistlin siconfortò pensando che se non altro si stava guadagnando una certareputazione come guaritore.

Quella piccola fiamma di soddisfazione si era appena accesa in lui,dandogli un minimo di calore, quando però il suo infernale demoneinteriore riprese a sussurrargli in tono amaro che forse questo era tutto ciò

che sarebbe mai stato... un mago di rango minore, un guaritore chemaneggiava erbacce... mentre suo fratello sarebbe diventato un guerriero eavrebbe compiuto grandi imprese, conquistato ingenti ricompense e sisarebbe coperto di gloria.

«Oh, povera me! Oh, che guaio!».Sorpreso, Raistlin si arrestò di colpo e si rese conto soltanto allora di

essere appena andato a sbattere contro qualcuno, perché era cosìconcentrato sui suoi pensieri e frettoloso per il timore di essere in ritardo

che non aveva guardato dove stava andando.Sollevando la testa stava per borbottare qualche parola di scusa e

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 proseguire oltre quando si trovò davanti Miranda.«Oh, povera me», ripeté lei, sbirciando da sopra il corrimano per 

guardare parecchie pezze di stoffa che giacevano sparse sul terrenosottostante.

«Mi dispiace terribilmente!» sussultò Raistlin, consapevole che dovevaessere andato a sbatterle contro facendole sfuggire di mano la stoffa cheera caduta dal ponte aereo e disegnava ora sul terreno una spirale dai colorivivaci. «Aspetta... aspetta qui», balbettò. «Andrò... andrò io a prenderetutto».

«No, no, è stata colpa mia», replicò la ragazza, i cui occhi verdiscintillavano come le foglie novelle degli alberi che allargavano i loro ramisopra di loro. «Stavo guardando un paio di passeri che facevano il nido... e

non stavo badando...» continuò, coprendosi di un velo di rossore che larese ancor più bella.

«Insisto», ribadì con decisione Raistlin.«Allora andremo insieme, d'accordo?» propose Miranda, prevenendo

altre proteste. «È troppa roba perché una sola persona la possatrasportare».

E insinuò timidamente la mano in quella di lui.Il suo tocco scatenò in Raistlin una fiamma simile a quella della sua

magia ma molto più rovente, una fiamma che consumava mentre l'altraraffinava e forgiava.

Fianco a fianco, i due scesero la lunga scala fino al terreno sottostante,che si trovava ancora in ombra perché la luce del mattino stavacominciando soltanto adesso a filtrare fra le lucide foglie nuove. Senzafretta, Miranda e Raistlin procedettero quindi a raccogliere le pezze ditessuto, e quando Raistlin espresse la speranza che la rugiada non le avessedanneggiate Miranda garantì che quella mattina non c'era praticamente

rugiada e che sarebbe bastata una buona spazzolata per mettere tutto a posto.

Raistlin l'aiutò quindi a ripiegare le lunghe pezze di stoffa, prendendoneun'estremità mentre lei teneva l'altra, con le loro mani che si sfioravanoogni volta che congiungevano gli angoli.

«Volevo ringraziarti di persona», disse Miranda, fissandolo, in uno diquei momenti in cui si trovavano vicini, con la stoffa tenuta in mezzo aloro. I suoi occhi, che scintillavano in mezzo ad un velo di ciglia biondo

rossiccio, erano affascinanti. «Hai salvato la bambina di mia sorella, e noiti siamo tutti molto grati».

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«Non è stato nulla», protestò Raistlin. «Mi dispiace, non mi sonoespresso bene, perché è ovvio che la bambina fosse importante. Quello cheintendevo è che ciò che ho fatto non è nulla. Ecco, neppure questo è esatto.Ciò che voglio dire è...».

«So cosa vuoi dire», lo interruppe Miranda, chiudendo le mani intorno aquelle di lui.

La stoffa cadde a terra mentre lei chiudeva gli occhi e porgeva le labbra.Raistlin si chinò su di esse...

«Miranda! Eccoti qui! Smettila di perdere tempo, ragazza, e portami lastoffa. Mi serve per quel corpetto!».

«Sì, mamma», rispose Miranda, mentre si chinava e raccoglieva in frettala stoffa senza preoccuparsi di piegarla. Tenendola stretta fra le braccia

sussurrò: «Una di queste sere vieni a trovarmi, Raistlin».«Miranda!».«Arrivo, mamma!» gridò di rimando Miranda, scomparendo fra un

agitarsi di gonne e uno svolazzare di stoffe.Raistlin rimase fermo dove lei lo aveva lasciato, immobile come se fosse

stato colpito da un fulmine e si fosse liquefatto sul posto: stordito esconcertato, esaminò l'invito ricevuto e vagliò ciò che esso potevasignificare. Lui le piaceva. Miranda lo aveva preferito a Caramon, a tutti

gli uomini che in città si stavano contendendo il suo affetto.Una felicità pura e incontaminata, di cui raramente aveva conosciuto

l'eguale, si riversò su di lui e Raistlin si crogiolò in essa come sotto il soleestivo, sentendosi crescere interiormente come un seme piantato di frescomentre costruiva castelli in aria così in fretta che in pochi secondi essifurono completi e pronti per essere abitati.

Si vide riconosciuto da Miranda come il suo favorito, cosa che per unavolta avrebbe indotto Caramon ad invidiarlo... non che ciò che Caramon

 pensava avesse importanza, dato che Miranda lo amava e lei eral'incarnazione della bontà e della dolcezza, una creatura meravigliosa cheavrebbe fatto affiorare ciò che di buono c'era in lui e avrebbe scacciatoquei demoni perversi, la gelosia, l'ambizione, l'orgoglio, che lotormentavano da sempre. Lui e Miranda sarebbero vissuti insieme sopra la bottega del venditore di abiti, e anche se non aveva idea di come siconducessero gli affari lui si sarebbe sforzato d'imparare per amor suo.

Per amor suo avrebbe rinunciato perfino alla magia, se lei glielo avesse

chiesto.Le risa di alcuni bambini lo riscossero dalle sue fantasticherie e lui si

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rese conto che ormai era decisamente in ritardo per la scuola e avrebbericevuto un severo rimprovero dal Maestro Theobald.

Una volta a scuola, accettò il rimprovero senza rimostranze e guardandoTheobald con quello che poteva quasi essere definito un sorriso affettuoso,cosa, questa, che indusse quasi il maestro a convincersi che il suo allievo più strano e difficile fosse infine impazzito.

Quella notte Raistlin non studiò incantesimi per la prima volta daquando aveva cominciato la scuola, se non si consideravano le notti in cuiera stato malato; dimenticandosi di bagnare le sue erbe, lasciò i topi e ilconiglio ad aggirarsi frenetici nelle loro gabbie alla ricerca del cibo che luiaveva trascurato di dare loro, e quando cercò a sua volta di mangiare non

riuscì a inghiottire un solo boccone e si nutrì invece d'amore, un piattomolto più dolce e succulento di qualsiasi banchetto imbandito da unimperatore.

Il suo unico timore era che il fratello tornasse prima di notte, perchéquesto lo avrebbe costretto a sprecare del tempo per rispondere alle suestupide domande, per le quali lui aveva già pronta una menzogna che gliera stata suggerita dal pensiero stesso di Miranda: avrebbe detto che erastato chiamato a curare un bambino malato e che non aveva bisogno che

Caramon lo accompagnasse.Per fortuna Caramon non fece ritorno a casa, cosa tutt'altro che insolita

durante la stagione della semina in quanto lui e il Fattore Sedgerimanevano a lavorare nei campi anche di notte, sotto la luce intensa dellaluna.

Lasciata la casa, Raistlin si avviò quindi lungo gli ampi ponti sospesi,anche se nella sua mente era convinto di camminare su nuvole rischiaratedalla luna, diretto a casa di Miranda.

 Naturalmente non era sua intenzione farle direttamente visita, perchénon sarebbe stato corretto andare a trovare una giovane donna nubile dopoche era sceso il buio; invece, avrebbe prima parlato con suo padre per ottenere il permesso di corteggiare sua figlia e adesso stava soltantoandando a contemplare il luogo dove lei viveva, nella speranza di riusciremagari a intravederla attraverso una finestra. Mentre camminava, laimmaginò seduta accanto al fuoco e china su un lavoro di cucito mentreera forse intenta a sognare di lui nello stesso modo in cui lui la stava

 pensando.La bottega del mercante di abiti era al livello inferiore della casa, che era

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una delle più grandi di Solace. Adesso il piano inferiore era buio perché la bottega era chiusa per la notte, ma alcune luci brillavano al piano superioree trasparivano dalle finestre. Soffermandosi in silenzio sulla passerella dilegno, Raistlin attese nella tiepida aria primaverile, sperando di riuscirealmeno a vedere quella luce riflettersi sui riccioli dorati di Miranda. Era lìfermo da qualche tempo quando sentì un rumore che proveniva dal basso,da una baracca eretta sul terreno sotto la bottega del mercante per fungereforse da magazzino. Immediatamente pensò che un ladro fosse penetratonella baracca e nel suo febbrile stato di infatuazione romantica si disse chese fosse riuscito a catturarlo, o almeno a impedire il furto, avrebbe avuto la possibilità di dimostrarsi degno dell'amore di Miranda.

Senza neppure soffermarsi a riflettere che quanto stava facendo era

estremamente pericoloso e che non aveva modo di proteggersi se davveroavesse sorpreso un ladro, scese di corsa le scale che poteva vedere confacilità perché questa notte Lunitari, la luna rossa, era piena e proiettavauna luce intensa tutt'intorno.

Arrivato al livello del suolo, avanzò con passo silenzioso e furtivo indirezione della baracca, notando che la porta era chiusa ma che ilchiavistello era aperto. La baracca non aveva finestre, ma una tenue luce astento visibile trapelava da un buco presente nel legno di una parete,

quindi lui decise che avrebbe guardato attraverso quel buco per vederecosa stava succedendo e per constatare con i suoi occhi ciò che il ladrostava facendo prima di dare l'allarme per prevenirne la fuga.

Quando accostò l'occhio al buco vide che i rotoli di stoffa erano statiammucchiati su un lato della baracca in modo da creare nel centro unospazio in cui era stata stesa una coperta illuminata da una candela posata inun angolo su una cassa. Sulla coperta, rese indistinte dalle ombre proiettatedalla luce tremolante della candela, due persone si contorcevano e

ansimavano.Dopo un momento i due rotolarono sotto la luce della candela: riccioli

rossi ricaddero su un seno candido e nudo mentre una mano maschile sichiudeva intorno ad esso accompagnata da un gemito e Mirandaridacchiava e sussultava nel far scorrere la mano lungo la schienaaltrettanto nuda dell'uomo.

Una schiena ampia e muscolosa, sovrastata da ricci capelli castani che brillavano alla luce della candela: la schiena nuda di Caramon e i suoi

capelli madidi di sudore.Mordicchiando il collo di Miranda, Caramon scivolò su di lei e i due

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rotolarono lontano dalla luce con una serie di ansiti e di risatine soffocateche scaturirono dall'oscurità e che ben presto si dissolsero in gemiti di piacere.

Infilando le mani nelle maniche della veste e tremando in manieraincontrollabile nonostante la calda aria primaverile, Raistlin si allontanò erisalì con passo rapido e silenzioso le scale, tinte di una tonalità rossosangue dalla sorridente e compiaciuta luce di Lunitari.

CAPITOLO QUINTO

Raistlin fuggì lungo i ponti sospesi senza avere idea di dove stesseandando: sapeva soltanto che non poteva tornare a casa perché più tardi

Caramon sarebbe rientrato dopo aver saziato il suo piacere e lui non potevatollerare l'idea di vederlo, di scorgere il suo sorriso appagato e di sentire il profumo di lei che ancora gli aleggiava addosso. Gelosia e disgusto gliserrarono lo stomaco e gli fecero salire in gola un'amara ondata di bile:semiaccecato, debole e in preda alla nausea, nel buio andò a sbattere drittocontro un ramo d'albero.

Il colpo alla fronte lo lasciò stordito e lui si sorresse aggrappandosi allaringhiera. Solo sulle scale illuminate dalla luna, con le mani chiazzate di

rosso dalla sua luce, scosso e tremante a causa dell'intensità delle proprieemozioni, desiderò che Caramon e Miranda fossero entrambi morti, e seavesse conosciuto un incantesimo che potesse bruciare loro la carne eridurli in cenere in quel momento non avrebbe esitato ad usarlo.

 Nella sua mente poteva vedere con estrema chiarezza le fiamme cheavvolgevano il magazzino del mercante... crepitanti lingue di fuoco rosse,arancione e di un candore incandescente che consumavano il legno e lacarne che si trovava al suo interno, bruciando... purificando...

Un sordo dolore alle mani e ai polsi lo fece infine tornare in sé enell'abbassare lo sguardo vide di avere le nocche bianche sotto la luce dellaluna; un fetido mucchietto di bile ai suoi piedi indicava che si era sentitomale, e anche se non ricordava di aver vomitato a quanto pareva quella purificazione interiore gli aveva fatto bene perché adesso non si sentiva più stordito o nauseato, l'ira e la gelosia non divampavano più nel suoanimo, avvelenandolo.

Finalmente in grado di connettere, si guardò intorno per orientarsi e

dopo un momento si rese conto con stupore di dove si trovava,accorgendosi di aver attraversato quasi tutta Solace senza però ricordare di

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averlo fatto... tutto quello che ricordava erano un fuoco rovente, fumo neroe ceneri bianche. Emettendo un profondo, tremante sospiro, allentò a pocoa poco la presa spasmodica intorno alla ringhiera.

Poco lontano c'era una botte d'acqua di uso pubblico, e pur non osandoimmettere nulla nello stomaco sconvolto lui si umettò le labbra e versòdell'acqua sulle travi che aveva sporcato, grato che nessuno lo avesse visto perché sapeva che non avrebbe sopportato false espressioni dicompassione.

Scoprire di essere la sola persona presente in quella parte della città peraltro non lo sorprese: essendo stati fra i primi ad essere costruiti, quegliedifici erano poco più che baracche malconce, abbandonate da tempo perché i precedenti abitanti avevano prosperato e avevano migliorato la

loro posizione nell'ambito della società dì Solace, oppure erano falliti eavevano lasciato la città. Di giorno capitava ancora che qualcuno passasseda quella zona di ritorno dalla caccia o dalla pesca, perché questo particolare tratto di ponte sospeso portava al Lago Crystalmir; inoltreMeggin la Pazza viveva non lontano da lì e in quella zona si trovava anchel'Abbeveratoio, che doveva essere poco distante, come indicavano le risada ubriachi che filtravano attraverso il fogliame, peraltro soffocate esporadiche perché ormai la maggior parte delle persone di Solace, perfino

gli ubriaconi, era a letto da tempo in quanto era ormai passata lamezzanotte.

A quest'ora Caramon doveva essere rientrato a casa, e probabilmente erafrenetico per la preoccupazione a causa dell'assenza del suo gemello, cosache diede a Raistlin una certa soddisfazione: che Caramon si preoccupasse pure, trovare una scusa per spiegare la propria assenza non sarebbe statodifficile dato che lui credeva a tutto.

Raistlin si sentiva gelato, esausto e tremante, ma pur sapendo che lo

aspettava una lunga camminata fino a casa continuò tuttavia a indugiarevicino alla ringhiera, riesaminando con disagio il momento in cui avevadesiderato che suo fratello e Miranda fossero morti. Dire a se stesso chenon lo aveva pensato sul serio fu un sollievo, e al tempo stesso scoprìimprovvisamente di capire e di approvare le rigide leggi che controllavanol'uso della magia: nella sua impazienza di ottenere il potere magico, finoranon aveva mai compreso con tanta chiarezza l'importanza della Prova chesi ergeva a bloccare il suo futuro come una porta d'acciaio, impedendogli

di accedere ai ranghi più elevati delle schiere dei maghi.Soltanto coloro che erano dotati della disciplina necessaria per gestire un

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così vasto potere si vedevano concedere il diritto di usarlo... e nel voltarsiindietro a contemplare la violenza delle proprie emozioni, il suo desiderio,la sua gelosia e la sua rabbia, Raistlin si sentì sgomento. Il fatto che il suocorpo, con le sue pulsioni e i suoi desideri, potesse aver annientato inmaniera così completa la disciplina della sua mente lo disgustava e loindusse a decidere di guardarsi in futuro da simili emozioni distruttive.

Immerso in queste riflessioni stava per tornare verso casa quando sentìavvicinarsi un rumore di passi. Ritenendo che si trattasse con ogni probabilità della guardia cittadina impegnata nel suo pattugliamentonotturno, Raistlin previde le irritanti domande, la severa predica el'eventuale ritorno a casa sotto scorta e si addossò maggiormente al troncodell'albero in modo da porsi nella sua ombra e lontano dalla luce proiettata

da Lunitari. In quel momento desiderava essere solo e non aveva voglia di parlare con nessuno.

La persona che si stava avvicinando continuò a camminare ed emersedall'ombra proiettata dalle foglie dell'albero per entrare in una rossa polladi luce lunare, e anche se era avvolta in un mantello dotato di cappuccioRaistlin riconobbe immediatamente Kitiara dal suo modo di camminare... passi rapidi e impazienti che non parevano mai portarla abbastanza infretta a destinazione.

Lei gli passò tanto vicino che Raistlin avrebbe potuto protendersi asfiorarle il mantello scuro, ma invece si trasse maggiormente nell'ombra perché Kitiara era la persona che meno desiderava vedere quella notte esperava che si allontanasse in fretta dalle sue vicinanze in modo da permettergli di tornare a casa. Di conseguenza, si sentì estremamentefrustrato quando la vide fermarsi vicino alla botte dell'acqua.

Raistlin si aspettava che lei bevesse e proseguisse, ma anche se in effetti bevve servendosi della tazza attaccata alla botte mediante una corda,

Kitiara non procedette oltre. Lasciata cadere con uno sciacquio la tazzanella botte, incrociò le braccia e si appoggiò ad essa in atteggiamento diattesa.

Raistlin era bloccato perché non poteva lasciare il suo albero eaddentrarsi nella luce lunare senza che lei lo notasse, ma del resto adessonon se ne sarebbe andato neppure se avesse potuto perché era incuriosito:cosa ci faceva lì Kitiara? Perché si stava aggirando per le strade di Solacedi notte e da sola, dato che il suo amante mezzelfo non si vedeva da

nessuna parte?Era evidente che era lì per incontrare qualcuno. Kitiara non era mai stata

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molto abile ad aspettare e lo dimostrò anche questa volta, cominciando adagitarsi a disagio dopo appena un paio di minuti, spostando i piedi,assestandosi in vita la spada, battendo l'una contro l'altra le mani guantate, bevendo ancora e protendendosi più di una volta in avanti per sbirciare conimpazienza in direzione del ponte sospeso.

«Gli concedo ancora cinque minuti», borbottò dopo un po', enell'immota aria notturna Raistlin riuscì a sentire le sue parole con estremachiarezza.

Di lì a poco echeggiò un rumore di passi proveniente dalla direzione incui stava guardando Kitiara, che si raddrizzò e portò d'istinto la mano allaspada.

La figura che sopraggiunse era quella di un uomo che portava a sua

volta mantello e cappuccio, e che puzzava di birra a tal punto che Raistlinne poté avvertire l'odore anche da dove si trovava, a dieci passi di distanzada lui.

«Ubriacone!» sogghignò Kitiara, arricciando il naso per il disgusto. «Mihai fatta aspettare al freddo per ore mentre trangugiavi bruciabudella,vero? Ho una mezza idea di aprirti in due quella pancia piena di birra».

«L'ora fissata per il nostro incontro non è trascorsa», replicò l'uomo, convoce fredda e sorprendentemente sobria. «Caso mai sono in anticipo, e

comunque non si può sedere in una taverna, perfino una miserabile comel'Abbeveratoio, senza bere qualcosa, anche se sono grato di poter affermare che quel liquido immondo che il proprietario chiama birra è piùsui miei vestiti che dentro di me. A quanto pare la cameriera ne fa un usoabbondante, dato che è riuscita a rovesciarmene addosso una caraffa piena... un momento, hai sentito?».

Raistlin aveva cambiato posizione in maniera infinitesimale per attenuare un improvviso e doloroso crampo alla gamba sinistra, e anche se

non aveva prodotto praticamente nessun rumore l'uomo lo aveva sentito eaveva girato nella sua direzione la testa nascosta dal cappuccio, mentre un bagliore d'acciaio scintillava alla luce della luna.

Raistlin rimase del tutto immobile senza neppure respirare, perché nonvoleva essere sorpreso a spiare sua sorella, che si sarebbe infuriata e che in passato non aveva mai avuto esitazioni a sfogare la propria ira con qualcheschiaffo, mentre adesso avrebbe potuto fare anche di peggio. E se pure leinon avesse fatto nulla, se avesse deciso di perdonarlo, di certo quell'uomo

con la voce simile ad acciaio ghiacciato non sarebbe stato altrettantogeneroso.

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 Nonostante il timore che gli contraeva il ventre già bistrattato, Raistlin sirese però conto che aveva paura di essere sorpreso non perché temesse diessere punito ma perché avrebbe perso l'opportunità di scoprire i segreti diKitiara. Lei aveva già tentato una volta di attirarlo nel proprio mondo e di porlo sotto la propria influenza, e Raistlin era certo che ci avrebbe provatoancora. Poiché non desiderava asservirsi a nessuno, sapeva quindi che ungiorno avrebbe dovuto opporsi ai desideri della sua prepotente sorella, eche allora avrebbe avuto bisogno di un'arma con cui contrastarla.

«Gli orecchi ti stanno ingannando», affermò intanto Kitiara, dopo unistante di silenzio durante il quale aveva ascoltato con attenzione.

«Ti dico che ho sentito qualcosa», insistette l'uomo.«In tal caso deve essersi trattato di un gatto perché nessuno viene qui a

quest'ora di notte. Ora parliamo di affari».Raistlin vide la luce lunare riflettersi con un bagliore sull'elsa della

spada di Kitiara, segno che lei aveva scostato di lato il mantello.Prendendo una custodia di cuoio che portava alla cintura, Kitiara laconsegnò all'uomo.

«Mappe?» chiese questi, abbassando lo sguardo sulla custodia.«Guarda tu stesso», rispose Kitiara.L'uomo svitò l'estremità della custodia e tirò fuori parecchi fogli di carta

che srotolò in parte sul coperchio della botte per studiarli alla luce dellaluna.

«È tutto qui», affermò in tono compiaciuto Kitiara, indicando con undito guantato, «più di quanto il tuo signore abbia chiesto. Le difese diQualinesti sono delineate sulla mappa principale con il numero dei posti diguardia e degli uomini di stanza in ciascuno di essi, la frequenza delcambio delle guardie, il genere di armi che portano e così via. Ho percorsoio stessa due volte tutto il confine di Qualinesti per raccogliere questi dati.

Su un'altra mappa ho segnato i punti deboli delle loro difese e le possibiliaree di penetrazione, e ho indicato le vie di accesso più facili dal nord».

«Un lavoro eccellente», commentò l'uomo, mentre arrotolava i fogli e liriponeva con cura nella custodia, infilandola nello stivale. «Il mio signoresarà soddisfatto. Che altro hai appreso riguardo a Qualinesti? Ho sentitodire che adesso hai un amante mezzelfo che è nato a... ulp!».

Kitiara aveva afferrato senza preavviso i lacci del cappuccio dell'uomo,imprimendo con mano esperta una torsione e traendo la vittima

semisoffocata verso di sé.«Lascialo fuori da tutto questo!» ingiunse, in tono sommesso e letale.

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«Se pensi che mi abbasserei a dormire con un uomo per ottenere delleinformazioni ti sbagli, amico mio, e il tuo potrebbe risultare uno sbagliofatale se dovessi dire o fare qualcosa che destasse in lui il minimosospetto».

Un bagliore d'acciaio sotto la luce della luna indicò che Kitiara avevaimpugnato con la mano libera un coltello. L'uomo abbassò lo sguardosull'arma, fissò gli occhi di Kitiara che scintillavano più intensi dell'acciaioe sollevò le mani in un gesto di assenso e di deprecazione.

«Mi dispiace, Kit. Non c'erano sottintesi».Kitiara lo lasciò andare e lui si massaggiò il collo nel punto in cui i lacci

erano penetrati nella pelle.«Come hai fatto ad assentarti stanotte?» domandò.

«Gli ho detto che avrei passato la serata con i miei fratelli. Adessovoglio il mio denaro».

L'uomo infilò la mano sotto il mantello e tirò fuori una borsa che le misein mano.

Aprendola, Kitiara l'accostò alla luce e valutò la quantità di denaro cheessa conteneva con una rapida occhiata, poi tirò fuori una grossa moneta,la studiò e la infilò nel palmo del guanto prima di legarsi la borsa allacintura con aria soddisfatta.

«Da dove è giunto questo ne può arrivare dell'altro, se tu dovessiraccogliere ulteriori informazioni su Qualinesti e sugli elfi, informazioni incui ti capitasse d'imbatterti» disse l'uomo.

«Come ti posso contattare?» ridacchiò Kitiara, messa di buon umore daldenaro.

«Lasciami un messaggio all'Abbeveratoio perché io mi fermo là ognivolta che passo da queste parti. Pensavo però che presto saresti tornata alnord».

«Non credo che lo farò», dichiarò Kitiara, scrollando le spalle. «Per ilmomento sono contenta di restare qui, e poi devo pensare ai miei fratelli».

«Uh-uh», grugnì l'uomo.«Stanno arrivando ad un'età in cui mi potrebbero essere di qualche

utilità», continuò Kit, ignorandolo.«Li ho visti in giro per la città. Quello grosso ci potrebbe forse servire

come soldato, anche se è goffo come un kobold e sembra essere anchealtrettanto intelligente. Quanto all'altro, l'aspirante mago, corre voce che

abbia un notevole talento, e il mio signore sarebbe lieto se volesse unirsialle nostre file».

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«Le voci si sbagliano! Riesce a fare trucchi come sfilare le monete dalnaso della gente, ma niente di più. In ogni caso vedrò cosa posso fare», promise Kitiara, protendendo la mano.

L'uomo la strinse ma abbandonò subito la presa.«Lord Ariakus sarebbe anche contento se tu ti unissi a noi, Kit, su base

 permanente. Ha detto che saresti un ottimo comandante».Ritratta la mano dalla stretta dell'uomo, Kit la posò sull'elsa della spada.«Non sapevo che sua signoria ed io fossimo in rapporti così intimi»,

ribatté in tono sarcastico. «Non l'ho mai incontrato».«Lui però ti conosce, Kit, di vista e di fama. Gli hai già fatto una

notevole impressione e questo lo impressionerà ancora di più», ribattél'uomo, indicando le mappe. «Lui è disposto ad offrirti un posto nel suo

nuovo esercito, e si tratta di una grande opportunità, perché un giorno luigovernerà su tutto Ansalon e poi su tutto Krynn».

«Davvero?», commentò Kitiara, inarcando un sopracciglio emostrandosi impressionata. «Non pensa in piccolo, vero?».

«Perché dovrebbe, dato che ha potenti alleati? A proposito, cosa pensidei draghi?».

«Dei draghi?» ripeté Kitiara, all'apparenza divertita. «Credo che sianoadatti a terrorizzare i bambini piccoli, ma niente di più. Cosa intendevi,

chiedendomi che penso di loro?».«Nulla di particolare. Non ne avresti paura, vero?».«Io non temo nulla in questo mondo o nel prossimo», dichiarò Kitiara,

con una sfumatura di minaccia nella voce. «C'è forse qualcuno chesostiene il contrario?».

«No, Kit, nessuno», garantì l'uomo. «Il mio signore ha sentito parlare deltuo coraggio, ed è per questo che ti vuole con sé».

«Qui sto bene, almeno per il momento», ripeté Kitiara, respingendo

l'offerta con una scrollata di spalle.«Fa' come preferisci. L'offerta... per Takhisis, hai sentito?».Uno sgradevole formicolio si era diffuso lungo le gambe di Raistlin, che

aveva cercato di muovere il piede e di agitare le dita senza fare rumore.Purtroppo, la trave su cui si trovava non era fissata bene e avevascricchiolato quando lui si era mosso.

«Una spia!» esclamò intanto l'uomo, con voce fredda, poi balzò in avanticon un agitarsi del mantello nero, si parò davanti a Raistlin e lo afferrò per 

il mantello, mentre lui sentiva le parole della magia abbandonargli lamente su ali generate dal terrore. «Questo è ciò che facciamo alle spie a

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 Neraka. Prima tagliamo loro gli orecchi...» dichiarò intanto l'uomo,trascinando Raistlin fuori dal suo nascondiglio dietro l'albero espingendolo in ginocchio per poi strappargli il cappuccio del mantello eafferrargli i capelli in modo da sollevargli la testa. L'acciaio di una spadascintillò rosso sotto la luce della luna.

«Fermati, idiota!» esclamò Kitiara, colpendo con il braccio la manodell'uomo e mandando il coltello a cadere sulle travi.

Lui le si rivoltò contro con aria furente e in preda alla sete di sangue, mail contatto della punta della spada di Kitiara con la sua gola lo calmòsubito.

«Perché mi hai fermato?» domandò. «Non intendevo ucciderlo... nonancora, comunque, perché prima dovrà parlare in quanto ho bisogno di

sapere chi lo sta pagando per spiarmi».«Non lo sta pagando nessuno», replicò in tono sommesso Kitiara, «e se

sta spiando qualcuno, si tratta di me».«Di te?» ripeté l'uomo, scettico.«È mio fratello», spiegò Kitiara.Curvo sulle ginocchia, a testa china, Raistlin si sentì pervadere di

vergogna e d'imbarazzo, in quanto avrebbe preferito morire piuttosto cheaffrontare l'ira e soprattutto il disprezzo di sua sorella.

«È sempre stato un piccolo ficcanaso», continuò intanto Kitiara, «tantoche noi lo chiamiamo l'Astuto. Avanti, alzati!» ingiunse, sferrando aRaistlin uno schiaffo così forte che lui sentì in bocca il sapore del sangue eavvertì una fitta di dolore al labbro.

Consapevole di essere dalla parte del torto e furente con se stesso per aver permesso a Kitiara di porsi in vantaggio rispetto a lui, si affrettò adobbedire, ma con suo stupore dopo averlo percosso lei gli passò un bracciointorno al collo e lo strinse a sé.

«Quello era per aver fatto il cattivo», dichiarò in tono scherzoso.«Adesso che sei qui, Raist, lascia che ti presenti un mio amico. Si chiamaBalif, e gli dispiace di averti spaventato in quel modo, ma ha creduto chefossi un ladro. È vero che ti dispiace, Balif?».

«Già, mi dispiace», annuì l'uomo, scrutando in tralice Raistlin.«E del resto tu ti stavi comportando come un ladro, andando in giro in

quel modo nel cuore della notte. A proposito, cosa ci fai fuori a quest'ora?Dove sei stato?».

«Ero con Meggin la Pazza», mentì Raistlin, pulendosi il labbro dalsangue. «Ha trovato una volpe morta e l'abbiamo dissezionata».

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«Quella donna è una strega e dovresti starle alla larga», dichiarò Kit,arricciando il naso. «Allora, fratellino, cosa pensi di ciò di cui io e Balif stavamo discutendo?» chiese quindi con disinvoltura.

Raistlin si sforzò di apparire stupido, copiando l'espressione vacua esconcertata del suo gemello.

«Nulla», rispose, scrollando le spalle. «Non ho sentito molto. Stavo passando di qui e...».

«Bugiardo», ringhiò l'uomo. «Kit, ho sentito un rumore quando abbiamocominciato a parlare, e sono certo che lui è rimasto qui per tutto il tempo».

«Invece no, signore», insistette Raistlin, in tono conciliante. «Vi stavooltrepassando quando ti ho sentito parlare di draghi e mi sono fermato per ascoltare... non ho potuto farne a meno. Tu mi conosci, sorella, sai che

sono sempre stato interessato alle storie del passato, soprattutto a quelleinerenti ai draghi».

«Questo è vero», confermò Kitiara. «Lui ha sempre il naso in qualchelibro e ti garantisco che è innocuo, Balif, quindi smettila di preoccuparti.Ora va' a casa, Raist. Non dirò a nessuno che sei stato da quella strega».

«Ed io», ribatté Raistlin in tono sommesso, incontrando il suo sguardo,«non dirò a Tanis che sei uscita di notte con un altro uomo».

Kitiara sorrise: a volte, lei e Raistlin si capivano alla perfezione.

«Avanti, muoviti!» ordinò, assestandogli una spinta.Con i muscoli rigidi e doloranti, nauseato dal sapore amaro che il sangue

e la paura gli avevano lasciato in bocca, Raistlin si avviò lungo il ponte, poi sentì un rumore di passi e si guardò alle spalle, timoroso che l'uomo sifosse reso conto che lui aveva mentito e lo stesse inseguendo.

Balif però stava scendendo le scale con il mantello che vorticava intornoalla sua figura.

Tirata fuori la moneta dal guanto, Kitiara la lanciò in aria e la riafferrò al

volo con abilità, poi si appoggiò alla ringhiera.«Mi terrò in contatto!» avvertì.Raistlin sentì la breve e fredda risata dell'uomo, poi i suoi passi

continuarono giù per le scale e cessarono di far rumore quando luiraggiunse il suolo.

Kitiara intanto rimase ferma accanto alla botte con la testa bassa e le braccia conserte sul petto, immersa in profonde riflessioni: dopo unmomento però si scosse come per allontanare dubbi e interrogativi, sollevò

il cappuccio per nascondere il volto e si allontanò con passo deciso.Raistlin tornò a casa facendo un ampio giro che gli fece fare più strada

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ma gli evitò di incontrare ancora la sorella; mentre camminava rifletté sullaconversazione che aveva sentito nel tentativo di capire cosa significasse,ma era troppo intontito dalla stanchezza per darle un senso compiuto inquanto il suo corpo era prosciugato di ogni energia e lui riuscì a stento acostringersi a mettere un piede davanti all'altro per procedere stancamenteverso casa.

Dove avrebbe trovato Caramon sveglio, preoccupato e pieno didomande.

Con un cupo sorriso, Raistlin decise che avrebbe semplicemente detto diaver trascorso la serata con Kitiara.

CAPITOLO SESTO

Quell'estate i gemelli compirono vent'anni.Il Giorno del Dono della Vita avrebbe dovuto essere una celebrazione

gioiosa, quindi Kitiara offrì loro una festa e invitò i loro amici allaLocanda dell'Ultima Casa dove gli invitati scoprirono di poter mangiare e bere birra fino al massimo della loro capienza, il che nel caso del nanosignificava una quantità allarmante di birra. Tutti cominciarono ben prestoa divertirsi, tranne gli ospiti d'onore.

Afflitto da un perdurante cattivo umore fin da quella primavera, Raistlinsi mostrava più amaro e sarcastico del solito soprattutto nei confronti delfratello, e la celebrazione del loro compleanno parve soltanto accentuare ilsuo umore nero in quanto richiamò inevitabilmente alla memoria il ricordodei genitori morti.

Caramon dal canto suo era depresso perché aveva appena saputo cheMiranda, la ragazza che lui attualmente adorava, aveva improvvisamentesposato il figlio del mugnaio. La fretta sconveniente con cui era stato

celebrato il matrimonio aveva dato adito a supposizioni del genere piùscandaloso. La delusione di Caramon al riguardo si era leggermenteattenuata quando lui aveva notato che la notizia delle nozze di Mirandaaveva fatto affiorare sul volto di Raistlin un sorriso che per quanto cupo esgradevole, certo non il genere di sorriso che scaldasse il cuore, eracomunque pur sempre un sorriso; Caramon aveva interpretato la cosacome un buon segno e si era augurato con fervore che la sua vita familiareattualmente tutt'altro che allegra potesse diventare più felice.

La festa del Giorno del Dono della Vita si protrasse fino a tarda notte, ea poco a poco il calore e il buon umore degli altri commensali finirono per 

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sgelare perfino Raistlin. Dopo tutto, questa era la prima festa dicompleanno dei suoi fratelli a cui Kitiara avesse partecipato da quandoloro erano piccoli, quasi troppo piccoli per ricordare, in quanto gli ultimimesi erano stati il tempo più lungo che lei avesse mai trascorso a Solace daquando era ragazza.

«Per essere una città così retrograda non è poi noiosa come laricordavo», aveva replicato lei, in risposta ad una domanda sarcastica diRaistlin, «e comunque non devo andare da nessuna parte almeno per un po'e qui mi sto divertendo, fratellino».

Quella notte Kitiara era di umore splendido, e così pure Tanis Mezzelfo.I due sedevano l'uno accanto all'altra e la loro reciproca attrazione eraevidente a tutti a causa del modo in cui si fissavano a vicenda con occhi

 pieni di luce e di calore e s'incitavano reciprocamente a raccontare le lorostorie preferite. Con sorrisi che solo loro capivano e occhiate furtive,ognuno dei due ricordava all'altro qualche scherzo da cui gli altri eranoesclusi.

«Stanotte offro io», dichiarò Kit, quando venne il momento di saldare ilconto. «Questo è per tutte le consumazioni».

E gettò sul tavolo tre grosse monete. Con un'espressione raggiante sulvolto grassoccio, Otik si protese per prenderle, ma Raistlin insinuò con

destrezza la mano sotto la sua e afferrò una delle monete, accostandola allaluce.

«Monete d'acciaio, coniate a Sanction», osservò, studiandole. «Sidirebbero coniate di fresco».

«Sanction», ripeté Tanis, accigliandosi. «Quella città ha la reputazionedi essere un luogo malvagio. Come mai hai delle monete che provengonoda Sanction, Kit?».

«Già, dove hai trovato monete così interessanti, sorella?» aggiunse

Raistlin. «Guarda questa... porta stampata l'immagine di un drago a cinqueteste».

«È un'effigie malvagia», dichiarò con aria grave Tanis. «È l'anticosimbolo della Regina delle Tenebre».

«Non essere stupido! Quella è una moneta, non un manufatto malvagio!L'ho vinta giocando a dadi con un marinaio», replicò Kitiara, con il suoconsueto sorriso in tralice che esprimeva assoluta innocenza. «Dicono chechi è fortunato ai dadi sia sfortunato in amore, ma io ho dimostrato che

non è vero, perché quello stesso giorno ho incontrato te, tesoro», aggiunse, protendendosi a baciare Tanis su una guancia.

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Il suo tono era disinvolto e noncurante, il suo sorriso sincero, e Raistlinnon avrebbe avuto nessun motivo di dubitare di lei se non avesse vistoquella moneta, o una molto simile ad essa, scintillare sotto la luce diLunitari appena un mese prima.

Che il mezzelfo avesse creduto alle parole di Kitiara era evidente, ma delresto Tanis era così invaghito di lei che le avrebbe creduto anche se avessesostenuto di essere andata sulla luna a bordo di una nave degli gnomi,arrivando a chiederle di raccontargli il viaggio nei particolari.

 Neppure gli altri mostrarono di mettere in dubbio la sua spiegazione.Flint stava contemplando i suoi amici con un'aria paternalistica che andavadegenerando rapidamente ad ogni boccale di birra da lui bevuto eTasslehoff stava girovagando felicemente per la locanda con estremo

sgomento degli altri clienti che i membri del gruppo intervenivano a turnoa salvare dal kender, propenso dopo due pinte di birra ad elargire achiunque le sue storie preferite sul conto dello zio Trapspringer. Flint eTanis provvidero inoltre a restituire ai clienti le cose che erano state lorosottratte o a indennizzarli qualora gli oggetti personali «prestati,dimenticati o abbandonati» fossero andati irrimediabilmente perduti nellesacche del kender.

Quanto a Caramon, era impegnato ad osservare il suo gemello con ansia

quasi pietosa, desiderando disperatamente che Raistlin si divertisse, e sisentì quindi al settimo cielo quando infine il suo cupo fratello si decise adistogliere lo sguardo dall'unico bicchiere di vino che avesse ordinato eche non aveva ancora toccato e si rivolse ai compagni.

«A proposito di draghi», disse, «attualmente sto portando avanti uncorso di studi sulle bestie dell'antichità. Qualcuno di voi conosce storie che parlino di draghi?».

«Io ne conosco una», rispose Sturm, che dopo aver bevuto due boccali di

sidro per fare onore ai festeggiati era adesso insolitamente loquace, e procedette a narrare loro la storia del cavaliere solamnico Huma, che si erainnamorato di un drago d'argento quando questo aveva assunto l'aspetto diuna donna umana.

La storia venne accolta con interesse e provocò una serie disupposizioni. Le antiche storie parlavano abbondantemente dei draghi, che pareva fossero vissuti un tempo su Krynn, ma quelle storie erano vere? Idraghi esistevano davvero, e se esistevano che ne era stato di loro?

«Io vivo in questo mondo da molto tempo», affermò Tanis, «e non homai visto draghi di sorta, quindi sono convinto che essi esistano soltanto

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nei canti dei menestrelli».«Se neghi l'esistenza dei draghi neghi anche quella di Huma

Dragonbane» obiettò Sturm, accigliandosi. «È stato lui a scacciare i draghidal mondo, in quanto quelli buoni hanno acconsentito ad andarseneinsieme con quelli malvagi per non alterare l'equilibrio delle cose. È per questo che non hai mai visto dei draghi».

«Una volta lo zio Trapspringer ha incontrato un drago...» cominciòTasslehoff, in tono eccitato, ma gli altri non avevano nessuna intenzione disentire un'altra delle sue storie e Flint lo prevenne togliendogli di sotto losgabello con un calcio e mandandolo a cadere per terra insieme con il suo boccale di birra.

«I draghi sono storie da kender e niente altro», dichiarò il nano, in tono

disgustato.«Anche i nani raccontano storie sui draghi», obiettò Tas, per nulla

sconcertato, poi si rialzò da terra, guardò con aria triste il proprio boccalevuoto e andò a chiedere a Otik di tornare a riempirglielo.

«I nani raccontano le storie migliori sui draghi», precisò intanto Flint, «ilche è soltanto naturale se si considera che un tempo noi contendevamo aquelle bestie il nostro spazio vitale, dato che i draghi sono creature di buonsenso e preferiscono vivere sotto terra. Capitava quindi spesso che un

thane dei nani scegliesse una comoda e asciutta montagna come residenza per il suo popolo soltanto per scoprire che un drago aveva avuto la stessaidea».

«Non è possibile che i draghi siano fasulli nelle storie dei kender e verein quelle dei nani, mio vecchio amico!» rise Tanis.

«E perché no?» ribatté Flint, in tono iroso. «Hai mai conosciuto unkender che dicesse una sola parola di vero? E hai mai conosciuto un nanoche mentisse?».

Il nano si mostrò quindi estremamente compiaciuto di quella suaargomentazione, che gli pareva del tutto coerente sotto l'effetto della birrache aveva ingurgitato.

«Tu cosa ne dici, Raist?» chiese Caramon, notando che suo fratello pareva interessato a quell'argomento come non lo era stato a tutti quellitrattati in precedenza.

«Come ho affermato, mi è capitato di trovare riferimenti ai draghi neimiei libri», rispose Raistlin. «In essi infatti si accenna a incantesimi e

manufatti magici connessi ai draghi. Ammetto che si tratta di libri antichi,ma perché mai si sarebbero dovuti creare incantesimi e manufatti del

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genere se quelle bestie fossero puramente mitologiche?».«Proprio così!» esclamò Sturm, calando con forza il boccale sul tavolo

ed elargendo a Raistlin un'occhiata di approvazione, cosa rara da parte sua.«La tua affermazione è del tutto logica!».

«Raist conosce una storia che riguarda Huma», intervenne Caramon,contento di vedere i due che si comportavano in modo quasi amichevole.«Avanti, Raist, raccontala».

Quando sentì che la storia aveva a che fare con i maghi, Sturm tornò adaccigliarsi e a tormentarsi i baffi, ma il suo cipiglio si attenuò progressivamente con il procedere della narrazione, e alla fine lui siconcesse un riluttante e brusco cenno di approvazione.

«Il mago ha dimostrato di avere un grande coraggio... per uno della sua

specie», commentò.Caramon sussultò, temendo che suo fratello si offendesse per quel

commento e partisse al contrattacco, ma ora che aveva concluso la storiaRaistlin stava osservando Kitiara e non pareva aver neppure sentito le parole di Sturm. Rilassandosi, Caramon trangugiò la sua birra, ne chieseun'altra ed emise uno strillo di dolore quando una ragazzina dagli accesicapelli rossi gli balzò addosso da dietro e s'inerpicò come uno scoiattolo su per la sua schiena.

«Ouch! Dannazione, Tika!» esclamò Caramon, sforzandosi di liberarsidella bambina. «Non dovresti essere a letto?» chiese quindi, fissandola confinta ferocia e facendola ridacchiare. «Dov'è Waylan, quel tuo padre buonoa nulla?».

«Non lo so», rispose con indifferenza la ragazzina. «È andato da qualche parte come fa sempre ed io devo rimanere con Otik fino al suo ritorno».

 Nel frattempo il locandiere si affrettò ad accorrere per scusarsi e per rimproverare la bambina.

«Mi dispiace, Caramon», disse, e al tempo stesso intimò: «Senti, piccolamonella, sai che non devi disturbare i clienti!».

E afferrò la bambina per un braccio, portandola via con sé.«Arrivederci, Caramon!» gridò Tika, agitando con aria divertita una

mano.«Che brutta ragazzina», borbottò Caramon, tornando a concentrarsi sulla

sua birra. «Avete visto quante lentiggini ha?».«Tu che ne pensi, Kit?» chiese Raistlin, che aveva approfittato della

distrazione per protendersi verso la sorella, e sfoggiò un accenno disorriso.

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«Riguardo a cosa?» ribatté lei, intenta a seguire con lo sguardo Tanis,diretto al bancone per prendere altre due birre.

«Riguardo ai draghi», rispose Raistlin.Kit gli scoccò un'occhiata penetrante che lui sostenne con aria di blanda

innocenza, poi scrollò le spalle e scoppiò in una risata forzata.«Io non penso affatto ai draghi», rispose. «Perché dovrei?».«È solo che ho visto cambiare la tua espressione quando ho inizialmente

sollevato l'argomento, come se avessi avuto intenzione di dire qualcosa ma poi ci avessi ripensato. Tu hai viaggiato molto, e mi piacerebbe conoscereil tuo parere» replicò con fare rispettoso Raistlin.

«Puah!» esclamò Kitiara in tono brusco, all'apparenza contrariata.«Quello che hai visto era una fitta di mal di pancia: credo che la

cacciagione che Otik ci ha servito questa sera fosse andata a male. Seistato saggio a non mangiarla. Per stasera ne ho abbastanza di discorsi diCavalieri di Solamnia e di draghi», aggiunse quando Tanis tornò al tavolo.«È stupido discutere di qualcosa di cui nessuno può provare l'esistenza,quindi cambiamo argomento».

«Benissimo», approvò Raistlin. «Allora parliamo degli dèi».«Gli dèi! Questo è anche peggio», gemette Kitiara. «Immagino che

adesso ti convertirai a Belzor, fratellino, e comincerai a fare proseliti.

Forza, Tanis, andiamo via prima che si lanci in una predica!».«Non sto parlando di Belzor», dichiarò però Raistlin, con una nota di

asprezza nella voce, «sto parlando degli antichi dèi, quelli che venivanoadorati prima del Cataclisma. Quegli dèi venivano posti sullo stesso pianodei draghi e si diceva che alcuni di essi ne potessero assumere la forma... per esempio la Regina Takhisis, come indica il suo simbolo sulla moneta.A me sembra che credere nei draghi debba necessariamente implicare lafede in queste divinità, e viceversa».

A quel punto tutti i presenti, con la sola eccezione di Kitiara che levò gliocchi al cielo e sferrò un calcio a Tanis sotto la tavola, parvero avere un parere da dare. Sturm dichiarò di aver riflettuto parecchio dopo la loroultima conversazione sull'argomento e di aver parlato con sua madre a proposito di Paladine. Lei aveva affermato che i Cavalieri credevanoancora nel dio della luce e che stavano aspettando che lui tornasse a casa esi scusasse per essere rimasto lontano tanto a lungo, nel qual caso iCavalieri sarebbero stati disposti a perdonarlo e a dimenticare le sue

 passate manchevolezze.Secondo Tanis, invece, gli elfi erano convinti che gli dèi, tutti gli dèi,

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avessero lasciato il mondo a causa della malvagità degli umani e che i veridèi sarebbero tornati quando infine gli umani fossero stati cancellati dalmondo... cosa che doveva inevitabilmente succedere dal momento cheerano una razza poco longeva e notoriamente bellicosa.

Flint invece affermò di essere giunto a ritenere dopo lunghe riflessioniche Reorx fosse stato fuorviato dalle menzogne dei nani delle montagne efosse ora rinchiuso dentro Thorbardin, all'oscuro del fatto che i nani dellecolline avevano bisogno del suo aiuto.

«È tipico di un nano delle montagne far finta che noi non esistiamo, perché vorrebbero che noi precipitassimo dalla faccia di Krynn in quanto per loro siamo una fonte di vergogna e d'imbarazzo», concluse.

«Ma potreste davvero precipitare dalla faccia di Krynn?» domandò con

curiosità Tas. «Come potreste fare? A me sembra di avere i piedisaldamente piantati sul terreno e non credo che ne potrei cadere giù. E semi mettessi a testa in giù?».

«Se su questo mondo ci fosse almeno un vero dio i kender ne sarebberogià precipitati tutti», borbottò Flint. «Guardate quel pomolo di porta!Adesso si è messo a testa in giù!».

Sarebbe stato più esatto dire che Tasslehoff stava cercando di mettersi atesta in giù, dato che aveva puntellato la testa sul pavimento e stava ora

scalciando con le gambe nel tentativo di levare in aria i piedi, senza peraltro avere molto successo. Quando infine riuscì a stare in equilibriosulla testa, il risultato fu che si rovesciò quasi subito dall'altra parte, ma lacosa non parve abbatterlo minimamente e lui si accinse a ritentare, questavolta addossandosi ad una parete. Fortunatamente per i suoi compagni e per il resto della clientela, quell'attività concentrò la sua attenzione e le sueenergie per un tempo piuttosto lungo.

«Se gli antichi dèi sono ancora in circolazione da qualche parte»,

affermò intanto Tanis, posando una mano su quella di Kit per incitarla adessere paziente e a fermarsi ancora un poco, «allora ci dovrebbero esseredei segni della loro presenza. Si dice che nei tempi antichi i chierici deglidèi avessero il potere di guarire malattie e ferite, che potessero perfinoriportare in vita i morti. I chierici sono però scomparsi subito dopo ilCataclisma e non sono più riapparsi, almeno per quanto risulta agli elfi».

«I chierici di Reorx sono vivi, di questo sono certo», dichiarò Flint intono amaro. «Essi sono dentro Thorbardin e stanno compiendo ogni sorta

di miracoli nelle sale dei nostri antenati, le stesse che per dirittodovrebbero appartenere anche ai nani delle colline!» esclamò quindi,

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calando con violenza il boccale sul tavolo.«Suvvia, vecchio amico», lo ammonì Tanis, in tono pacato. «Ricordi

quando abbiamo incontrato quel nano delle montagne alla fiera di Haven,lo scorso autunno? Lui ha sostenuto che erano i nani delle colline ad avereil controllo del potere dei chierici e a rifiutare di condividerlo con i lorocugini delle montagne».

«È ovvio che lo abbia detto!» tuonò Flint. «Lo ha fatto per placare irimorsi di coscienza!».

«Raccontaci una storia su Reorx», suggerì Caramon, fungendo comesempre da pacificatore, ma il nano era troppo furente e oppose un rifiuto.

«Alcuni dei seguaci di questi nuovi dèi sostengono di avere il poteredegli antichi chierici», osservò intanto Tanis, per dare a Flint il tempo di

 placarsi. «Per esempio, i chierici di Belzor. L'ultima volta che sono statoad Haven hanno fatto una grande dimostrazione, inducendo gli storpi acamminare e i muti a parlare. Cos'hai detto, Kit?».

In realtà Kitiara stava sbadigliando e non si preoccupò di nascondere lacosa.

«Chi vuole gli dèi o ne ha bisogno?» rise lei con noncuranza,spingendosi indietro i capelli ricciuti. «Io no di certo. Nessuna forza divinacontrolla la mia vita e a me piace così perché sono io a scegliere il mio

destino. Non sono schiava di nessun uomo, quindi perché dovrei essereschiava di un dio e permettere a qualche prete o a qualche chierico di dirmicome devo vivere?».

Quando ebbe finito di parlare Tanis applaudì e levò il boccale verso dilei in segno di omaggio. Flint per contro appariva accigliato e taciturno, eogni volta che il suo sguardo si posava su Tanis la sua espressioneaccigliata assumeva anche una sfumatura di preoccupazione. Sturm invecestava fissando il fuoco con aria rapita e con gli occhi scuri pervasi di un

 bagliore insolito, come se stesse vedendo i Cavalieri di Paladine andarenuovamente in battaglia nel nome del loro dio; accanto a lui, Caramon siera assopito già da qualche tempo con la testa sul tavolo e le mani ancorastrette intorno al boccale di birra, russando leggermente. Quanto aTasslehoff, era infine riuscito a restare ritto sulla testa e stava chiedendocon voce acuta che tutti lo guardassero... subito, prima che lui precipitassedalla faccia di Krynn.

«Siamo rimasti qui abbastanza a lungo», sussurrò Kitiara a Tanis. «Ci

sono una quantità di cose più interessanti da fare che stare seduti a bere».E gli prese la mano, portandosela alle labbra e baciandola sulle nocche.

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Tanis aveva praticamente il cuore che gli straripava dagli occhi, l'amoree il desiderio che nutriva nei confronti di Kitiara erano evidenti per chiunque lo guardasse... chiunque tranne la stessa Kitiara che adesso glistava mordicchiando scherzosamente le nocche che poco prima stava baciando.

«Presto dovrò lasciare Solace, Kit», mormorò Tanis, «perché Flint simetterà in viaggio entro pochi giorni».

«Ragione di più per non sprecare il tempo che ci rimane», ribatté lei,alzandosi in piedi. «Buona notte, fratellini, e buon Giorno del Dono dellaVita», aggiunse, senza girarsi a guardare gli interessati.

«Anch'io vi faccio i miei migliori auguri», disse Tanis, rivolgendo aRaistlin un caldo sorriso e battendo un colpetto sulla spalla

dell'addormentato Caramon.Passandogli un braccio intorno alla vita, Kitiara si appoggiò quindi a lui,

che le cinse con affetto le spalle; camminando fianco a fianco, così vicinida inciampare quasi l'uno nei piedi dell'altra, i due lasciarono la locanda.

«Altra birra», ordinò allora Flint in tono rude, scuotendo il capo con unsospiro.

«Mi hai visto, Flint? Mi hai visto?» domandò Tasslehoff, paonazzo involto, tornando al tavolo. «Sono rimasto in equilibrio sulla testa e non sono

 precipitato dalla faccia di Krynn! La mia testa è rimasta appoggiata al pavimento proprio come fanno i piedi, quindi suppongo che non si debbatoccare terra con nessuna parte del corpo per poter precipitare. Pensi che sesaltassi dal tetto della locanda...?».

«Sì, sì, fa' pure», borbottò Flint, che stava pensando ad altro.Immediatamente il kender si allontanò di corsa.«Vado a fermarlo», si offrì Sturm, lanciandosi al suo inseguimento, e

intanto Raistlin assestò una gomitata nelle costole del fratello.

«Uh? Cosa?» grugnì Caramon, sollevandosi a sedere e sbirciandosiintorno con occhi assonnati e vacui, emergendo da un sogno cheriguardava Miranda.

«Un brindisi, fratello mio», propose Raistlin, sollevando il bicchiereancora pieno a metà di vino. «All'amore».

«All'amore», borbottò Caramon, versando buona parte della sua birra sultavolo.

CAPITOLO SETTIMO

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Contrariamente a quanto avevano in programma, quell'estate Flint eTanis non lasciarono Solace.

Una mattina all'alba, Caramon era già uscito per andare a lavorare eRaistlin stava radunando i suoi libri per prepararsi ad andare a scuolaquando bussarono alla porta e contemporaneamente il battente si spalancòe Tasslehoff Burrfoot fece irruzione in casa.

Flint aveva cercato di insegnare al kender che bussare alla porta era ingenere considerato fra i popoli civili un modo per annunciare la propria presenza e chiedere di poter entrare, precisando che bisognava aspettarecon pazienza alla porta fino a quando chi abitava in casa rispondevavenendo ad aprire la porta.

Tasslehoff, però, semplicemente non era in grado di capire quel concetto

 perché bussare alla porta non era una cosa che i kender fossero soliti farenelle loro terre, dove generalmente la porta di casa era spalancata e venivachiusa solo in caso di maltempo.

Se un kender in visita entrava in una casa e scopriva che gli occupantierano impegnati a fare qualcosa a cui lui non era particolarmenteinteressato, poteva restare seduto in salotto ad aspettare che gli abitantidella casa si facessero vedere oppure poteva andarsene tranquillamente...dopo aver ovviamente prelevato dalla dimora ogni oggetto che gli

sembrava interessante.Alcune persone poco informate di Ansalon sostenevano che quest'usanza

dipendeva dal fatto che i kender non avevano serrature alla porta maquesto non era vero perché la porta di ogni abitazione kender aveva delleserrature, in genere numerose e di svariati tipi. Esse venivano usatesoltanto quando era in corso una festa, perché in quelle occasioni non si bussava alla porta ma gli ospiti dovevano riuscire a forzare le serrature per  poter entrare, in quanto quella era la principale forma di divertimento della

serata.Finora Flint era almeno riuscito ad abituare Tasslehoff a bussare alla

 porta, cosa che lui di solito faceva mentre già apriva il battente oppuredopo averlo spalancato, in modo da annunciare adeguatamente la sua presenza qualora essa fosse passata inosservata.

In questo caso particolare, Raistlin stava comunque già aspettandol'arrivo del kender perché lo aveva sentito strillare con voce affannosa ilsuo nome quando ancora si trovava a sei porte di distanza e aveva anche

sentito i vicini reagire chiedendo con voce irosa a Tasslehoff se sapeva cheora era e lui rispondere fornendo loro l'ora esatta.

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«Sono stati loro a chiedermelo!» dichiarò Tasslehoff in tono indignato,nell'entrare in casa. «Se non volevano saperlo perché stavano gridando inquel modo? Ti garantisco che a volte non capisco gli umani», concluse conun sospiro, sedendosi al tavolo di cucina.

«Buon giorno» lo salutò Raistlin, togliendogli di mano la teiera. «Sonoin ritardo per la scuola... volevi qualcosa da me?» chiese quindi in tonosevero, vedendo Tasslehoff allungare le mani verso il pane e il forchettoneche si usava per tostare le fette sul fuoco.

«Oh, sì!» esclamò il kender, lasciando cadere fragorosamente ilforchettone e balzando in piedi. «Me n'ero quasi dimenticato ed è un beneche tu me lo abbia fatto ricordare, Raistlin! Sono terribilmente preoccupato... no, grazie, non posso mangiare nulla perché sono troppo

sconvolto... ecco, forse un biscotto mi andrebbe. Hai della marmellata?Io...»

«Cosa volevi?» insistette Raistlin.«Si tratta di Flint», spiegò il kender, mangiando la marmellata

direttamente dal vaso con l'ausilio di un cucchiaio. «Non riesce a stare in piedi e neppure a sdraiarsi o a sedersi. È in condizioni davvero brutte esono molto preoccupato per lui. Davvero preoccupato».

Che il kender fosse sconvolto risultò palese dal fatto che allontanò da sé

il vaso anche se conteneva ancora un po' di marmellata; naturalmente doposi mise in tasca il cucchiaio che aveva usato, ma questo era logico e prevedibile.

Recuperando il cucchiaio, Raistlin chiese ulteriori delucidazioni suisintomi manifestati da Flint.

«È successo questa mattina», replicò il kender. «Flint si è alzato dal lettoed io l'ho sentito lanciare un urlo, cosa che di solito fa la mattina ma ingenere dopo che io sono entrato nella sua stanza per dargli il buon giorno

quando lui non è ancora pronto a cominciare la giornata. Questa volta io però non ero nella stanza e lui ha comunque urlato, quindi sono andato avedere cosa stava succedendo e l'ho trovato piegato in due come un elfoesposto ad un vento violento. Dapprima ho pensato che stesse cercandoqualcosa per terra e mi sono avvicinato per guardare, ma poi ho scopertoche non stava cercando nulla e che non stava guardando il pavimento perché volesse farlo ma perché non poteva fare niente altro».

«"Sono bloccato in questa posizione, stupido kender!" ha detto,

esprimendosi in modo molto preciso dato che io ero instupidito dalla preoccupazione. A quel punto gli ho chiesto cosa fosse successo e lui ha

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risposto: "Mi sono chinato per allacciarmi gli stivali e la mia schiena haceduto". Mi sono allora offerto di aiutarlo a raddrizzarsi, ma lui haminacciato di colpirmi con l'attizzatoio se avessi cercato di avvicinarmi...una cosa che peraltro non mi è mai successa prima... ed io ho deciso che picchiarmi non gli sarebbe servito a molto e che era meglio che venissi date per vedere se ci potevi dare qualche suggerimento».

Quando finì di parlare Tasslehoff fissò Raistlin con occhi pieni diansiosa aspettativa, notando che il giovane aveva posato i libri e stavafrugando fra i vasetti che contenevano gli unguenti e le pozioni che luiaveva ricavato dal suo orto di erbe medicinali.

«Sai cos'ha Flint che non va?» chiese infine il kender.«Prima d'ora ha mai avuto dolori alla schiena?» ribatté Raistlin.

«Oh, sì», rispose allegramente Tas. «Sostiene che la schiena gli duole daquando Caramon ha cercato di annegarlo sulla barca... la schiena e lagamba sinistra».

«Capisco... è proprio come pensavo. Mi pare che Flint soffra di undeflusso di catarro», replicò Raistlin.

«Un deflusso di catarro», ripeté Tas, scandendo le parole eassaporandole con palese meraviglia. «Davvero splendido... ècontagioso?» chiese quindi in tono speranzoso.

«No, non è contagioso. Si tratta di un'infiammazione delle articolazioninota anche come lombaggine. Tuttavia», continuò Raistlin, accigliandosi,«il dolore alla gamba sinistra potrebbe indicare qualcosa di più grave.Avevo intenzione di darti un po' di olio di gaultheria con cui fargli deimassaggi nell'area dolorante ma comincio a pensare che sia meglio chevenga a dargli un'occhiata io stesso».

«Flint, hai un influsso di carota!» annunciò in tono eccitato Tasslehoff,

oltrepassando a precipizio la porta che non si era preso la briga di chiuderequando era uscito e che il nano, nella sua infelice situazione, non erariuscito a raggiungere.

Flint non si era praticamente mosso da dove il kender lo aveva lasciatoed era ancora piegato quasi a metà, con la barba che sfiorava il pavimento;qualsiasi tentativo di raddrizzarsi gli faceva salire stille di sudore allafronte e gemiti di agonia alle labbra, i suoi stivali erano tuttora slacciati elui passava il tempo alternando gemiti a imprecazioni.

«Carota?» strillò il nano. «Cosa c'entrano le carote?».«Catarro», si affrettò a chiarire Raistlin. «È un'infiammazione delle

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articolazioni causata dalla prolungata esposizione al freddo e all'umidità».«Lo sapevo, è colpa di quella dannata barca!» commentò Flint, in tono

di amaro trionfo. «Ribadisco che non metterò mai più piede su uno di queidannati arnesi finché avrò vita, lo giuro su Reorx!». E cercò di battere aterra un piede per confermare il proprio voto secondo le usanze dei nani,ma il movimento lo indusse a lanciare un grido e a serrarsi la gambasinistra. «Quest'estate devo andare in giro a vendere le mie merci, macome posso viaggiare in questo stato?» si lamentò in tono irritato.

«Tu non andrai da nessuna parte tranne che a letto», ribatté Raistlin, «eci resterai fino a quando i muscoli non si saranno rilassati, perché sonotutti contratti. Quest'olio ti darà sollievo dal dolore. Tas, ho bisogno del tuoaiuto, sollevagli la camicia», ordinò quindi.

«No! State lontani! Non mi toccate!» protestò Flint.«Vogliamo soltanto aiutarti a...».«Cos'è quell'odore? Che olio è? Di pino? Non mi farete inghiottire

nessun succo d'albero!».«Ho intenzione di usarlo per farti un massaggio», spiegò Raistlin.«Ti ho detto che non voglio! Ouch! Ouch! Vattene! Bada che ho

l'attizzatoio!».«Tas, va' a chiamare Tanis», disse Raistlin, rendendosi conto che il

 paziente era tutt'altro che facile da controllare.Anche se gli dispiaceva terribilmente di andarsene in mezzo a quegli

eventi eccitanti, il kender partì di corsa per consegnare il messaggio eTanis arrivò di lì a poco, allarmato dal resoconto alquanto confuso di Tassecondo cui Flint era stato attaccato da carote, cosa che Raistlin stavacercando di curare facendo inghiottire al nano degli aghi di pino.

 Non appena Raistlin gli ebbe spiegato la situazione in termini piùdettagliati e coerenti, Tanis si disse d'accordo con lui sia in merito alla

diagnosi sia alla terapia: ignorando le veementi proteste del nano esottraendogli a forza l'attizzatoio di cui si era munito, procedettero quindi aspalmargli la pelle con l'olio e a massaggiargli i muscoli delle gambe edelle braccia fino a quando lui riuscì infine a raddrizzare la schienaabbastanza da potersi sdraiare.

Durante tutto il tempo del trattamento, Flint continuò a ribadire che nonsarebbe andato a letto, che sarebbe invece partito per i suoi viaggi estivi eche non c'era nulla che nessuno di loro potesse fare per impedirglielo,

 proteste che continuò a formulare anche mentre Tanis lo aiutava adarrivare zoppicando fino al letto e quando fu costretto a serrare le labbra

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 per resistere a fitte di dolore che definì simili alla trafittura di una dagad'orchetto avvelenata che gli fosse stata piantata nella gamba. Le protestecontinuarono fino a quando Raistlin ordinò a Tas di andare alla locanda edi chiedere a Otik una caraffa di brandy.

«A cosa serve?» domandò allora Flint, in tono sospettoso. «Haiintenzione di farmi dei massaggi anche con quello?».

«Ne devi bere un bicchierino ogni ora», rispose Raistlin. «Saràsufficiente ad attenuare il dolore, a patto che tu rimanga a letto».

«Ogni ora?» ripeté il nano, illuminandosi in volto, poi si sistemò piùcomodamente fra i cuscini e aggiunse: «Forse posso restare a riposo giusto per oggi. Dopo tutto, possiamo sempre partire domani... accertati che Otik mandi il suo brandy migliore!» gridò quindi a Tas, che già si stava

avviando.«Domani lui non potrà andare da nessuna parte», disse Raistlin a Tanis,

«e neppure dopodomani o nei prossimi giorni. Dovrà rimanere a letto finoa quando il dolore non sarà passato e potrà camminare liberamente,altrimenti potrebbe rimanere storpio per tutta la vita».

«Ne sei certo?» chiese Tanis, in tono scettico. «Flint si lamenta di doloriassortiti fin da quando lo conosco».

«Questa è una cosa diversa e piuttosto grave, che ha a che fare con la

colonna vertebrale e i nervi che corrono lungo la gamba. Una voltaMeggin la Pazza ha curato una persona che soffriva di sintomi simili ementre l'aiutavo lei mi ha spiegato ogni cosa servendosi di uno scheletroumano che ha dissezionato. Se vuoi ti posso portare da lei e farti vedere».

«No, no, non sarà necessario», si affrettò a rifiutare Tanis. «Mi basta latua parola, però il Creatore del Mondo mi è testimone che non so propriocome faremo a costringere quel vecchio nano cocciuto a rimanere a letto ameno di legarvelo», aggiunse, sfregandosi il mento e scuotendo il capo.

Il brandy risultò un aiuto eccellente in quel senso, in quanto rese il paziente calmo, anche se non tranquillo, e lo mise relativamente di buonumore al punto che lui fece ciò che gli veniva detto e rimasevolontariamente a letto, cosa che colse tutti di sorpresa e che indusse Tanisa complimentarsi con lui per essere un simile paziente modello.

 Nessuno di loro sapeva che Flint aveva tentato di lasciare il letto la prima notte dopo essere rimasto bloccato e che aveva dovuto rinunciare acausa del dolore lancinante e del fatto che la gamba sinistra non aveva

retto il suo peso. Quell'incidente lo aveva spaventato a tal punto da indurloa pensare che forse Raistlin aveva ragione e da farlo tornare a letto

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strisciando con l'intenzione di rimanervi per il tempo necessario a guarire,e adesso si stava divertendo a impartire ordini a tutti e a far sentireCaramon colpevole per essere stato la causa del suo problema.

A Tanis certo non dispiacque di restare a Solace invece di viaggiare per tutta l'Abanasinia, e anche Kitiara passò l'estate a Solace con estremostupore dei suoi fratelli.

«Non avrei mai pensato di vedere Kit innamorarsi di qualcuno»,commentò una sera Caramon con il suo gemello, mentre stavano cenando.«Lei non sembra il tipo che tenda ad affezionarsi a qualcuno».

«Amore non è la parola adatta, fratello mio», sogghignò Raistlin,«perché è un termine che implica interessamento, rispetto e affetto. Io piuttosto definirei l'attaccamento di nostra sorella per il mezzelfo con il

termine "passione", anche se forse "desiderio" sarebbe una descrizione piùappropriata. A giudicare dalle storie che ci raccontava nostra madre, mi pare che da questo punto di vista Kitiara somigli parecchio a suo padre».

«Immagino di sì», assentì Caramon, mostrandosi a disagio perché se poteva evitarlo preferiva non parlare di sua madre, di cui non conservavaricordi piacevoli.

«L'amore di Gregor nei confronti di Rosamun è stato estremamenteappassionato... finché è durato», continuò Raistlin, dando una certa enfasi

ironica all'ultima parte della frase. «La trovava diversa dalle altre donne equesto lo divertiva, così come sono sicura che ci sia una certa componentedi divertimento nel rapporto che Kitiara ha con il mezzelfo. Lui è senzadubbio un uomo molto diverso da tutti gli altri che lei ha conosciuto».

«Tanis mi piace», dichiarò Caramon, sulla difensiva, pensando che le parole del fratello tendessero a sminuire il suo amico. «È un uomo ingamba e mi sta dando lezioni nell'uso della spada. Lui dice che stodiventando veramente bravo, e prima o poi dovrò farti vedere».

«È ovvio che Tanis ti piaccia, lui piace a tutti noi», ribatté Raistlin,scrollando le spalle. «È onorevole, onesto, degno di fiducia, fedele... comeho detto, è molto diverso da qualsiasi altro uomo che nostra sorella abbiaamato».

«Non puoi esserne tanto sicuro», protestò Caramon.«Invece posso, fratello mio, invece posso», replicò Raistlin.Caramon avrebbe voluto sapere da cosa gli derivava tanta sicurezza ma

Raistlin si rifiutò di aggiungere altro e i due gemelli finirono il pasto in

silenzio. Come sempre, Caramon divorò con voracità la sua porzione e poisi guardò intorno alla ricerca di altro cibo, per avere il quale dovette

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soltanto aspettare, perché Raistlin mangiò soltanto i bocconi più scelti,scartando ogni pezzo di carne che avesse anche un minimo di grasso o chenon fosse cotto alla perfezione, e ben presto Caramon poté finire quelloche lui aveva avanzato.

Mentre Caramon andava a lavare le ciotole di legno, Raistlin diede damangiare ai suoi topi e pulì la loro gabbia, poi andò in cucina ad aiutare ilfratello.

«Non vorrei che succedesse nulla di male a Tanis, Raist», osservò alloraCaramon, senza sollevare lo sguardo da quello che stava facendo.

«Mio caro fratello, stai versando sul pavimento più acqua di quanta nesia rimasta nel secchio... No, finisci quello che stai facendo, poi penserò ioad asciugare», disse Raistlin afferrando uno straccio e chinandosi per 

 passarlo sulle lastre di pietra del pavimento. «Quanto a Tanis, è abbastanzamaturo da sapersi prendere cura di se stesso, Caramon, dato che ritengoabbia più di cento anni».

«Forse è vecchio di anni, Raist, ma sotto altri aspetti lo è meno di te o dime», ribatté Caramon, mentre accumulava le ciotole bagnate e le stoviglie per poi strizzare il panno che aveva usato per lavare il tutto e sgrondarel'acqua dalle mani, che si asciugò sul davanti della camicia.

Raistlin reagì con uno sbuffo di palese incredulità.

«Poiché è onesto, crede che lo siano anche tutti gli altri», proseguìCaramon, cercando di spiegarsi meglio. «Crede che tutti siano leali eonorevoli, ma tu e io... noi sappiamo che non è vero, soprattutto quando sitratta di Kit».

«Cosa intendi dire?» chiese Raistlin, sollevando lo sguardo di scatto.«Ha mentito a Tanis riguardo al denaro, Raist», rispose Caramon,

arrossendo per la vergogna che provava a causa della sorella. «Mi riferiscoa quelle monete d'acciaio di Sanction. Lei ha detto a Tanis di averle vinte

giocando a dadi con un marinaio, ma non è così. Alcuni giorni fa, Kit èvenuta qui per vedere se mi volevo esercitare con la spada insieme con lei,e quando stava per andarsene mi ha mandato a prenderle il mantello cheaveva posato sulla cassapanca che c'è in camera da letto. Mentre lo prendevo, dal mantello è caduta la borsa con le monete, che si sonorovesciate per terra. Incuriosito, ne ho raccolta una perché non avevo maivisto monete del genere, e le ho chiesto da dove venissero».

«E lei cos'ha risposto?».

«Ha detto che era la paga che aveva guadagnato per un lavoro che avevafatto su al nord, che c'era molto altro denaro là da dove era giunto quello e

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che io avrei potuto guadagnarne la mia parte, e così pure anche tu, seavessi rinunciato a quest'assurdità della magia e fossi venuto via con noi.Ha poi aggiunto che non era ancora pronta a tornare nel nord perché qui sistava divertendo troppo, senza contare che io avevo bisogno di altroaddestramento e che bisognava convincere te di...». D'un tratto Caramons'interruppe, esitando.

«Di cosa?» lo pungolò Raistlin.«Di essere un fallimento come mago. È quello che ha detto lei, Raist,

quindi non t'infuriare con me».«Non sono infuriato, ma mi chiedo perché mai abbia detto una cosa del

genere».«Perché non ti ha mai visto compiere nessuna magia, Raist. Io ho

cercato di dirle che sei veramente bravo come mago ma lei ha riso e haribattuto che sono tanto credulone da lasciarmi ingannare da qualsiasigioco di prestigio. Io però so che non è così perché tu mi hai insegnato acapire la differenza», dichiarò Caramon, in tono enfatico.

«Credo che tu abbia assimilato i miei insegnamenti meglio di quanto iostesso supponessi», affermò Raistlin, guardando il fratello con una certadose di ammirazione. «Sapevi tutte queste cose e tuttavia non ne hai fatto parola?».

«Lei mi ha ordinato di non dire niente a nessuno, neppure a te, e avreicontinuato a tacere se non fosse per il fatto che non mi piace che lei abbiamentito a proposito del denaro, Raist. Chi può sapere da dove provenga? Adire il vero non mi piacevano neppure quelle monete... davano una stranasensazione», rispose Caramon, rabbrividendo.

«Lei però non ha mentito a te», osservò Raistlin, in tono pensoso.«Eh?» esclamò Caramon, stupito. «Come fai a saperlo?».«Un'intuizione», replicò Raistlin, in tono evasivo. «Non è la prima volta

che dice di aver lavorato per della gente del nord».«Io non voglio andare lassù, Raist», affermò Caramon. «Ho preso una

decisione e voglio piuttosto diventare un cavaliere, come Sturm. Forse ti permetteranno di diventare un mago guerriero, come Magius».

«Mi piacerebbe addestrarmi per diventare un mago guerriero», ammiseRaistlin, «ma i cavalieri non mi accetterebbero mai e non credo cheaccetterebbero neppure te. Peraltro potremmo lavorare insieme, magaricome mercenari, abbinando la magia all'acciaio. Dopo tutto i maghi

guerrieri non sono comuni e la gente pagherebbe bene per disporre di untalento del genere».

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«Questa è un'idea grandiosa, Raist!» esclamò Caramon, raggiante di piacere. «Quando pensi che potremo cominciare?» chiese quindi, dandol'impressione di essere pronto a partire in quello stesso momento.

«Manca ancora del tempo», lo calmò Raistlin, tenendo a freno la suaimpazienza. «Per ora non posso lasciare la scuola, e se gli parlassi dellemie intenzioni al Maestro Theobald verrebbe un colpo apoplettico, perchésecondo lui la magia deve essere usata soltanto in situazioni di estremaemergenza, come per accendere un fuoco da campo quando la legna è bagnata. D'altro canto non dobbiamo agire in modo precipitoso, fratello»,ammonì, vedendo che Caramon stava già cominciando a lucidare la spada.«Ci servono denaro ed esperienza, ed io devo accumulare altri incantesiminel mio libro».

«Certamente, Raist. In ogni caso, credo che sia un'idea grandiosa e miterrò pronto», assentì Caramon, poi smise di lavorare e sollevò lo sguardocon aria solenne e turbata, domandando: «Cosa diremo a Kit?».

«Nulla, fino a quando non arriverà il momento», rispose Raistlin, esubito dopo aggiunse con un cupo sorriso: «E lascia che continui a pensareche io non abbia talento per la magia».

«Certamente, Raist, se è quello che vuoi», assentì Caramon, che nonriusciva a capire gli intenti del fratello ma come sempre era disposto ad

obbedirgli perché riteneva che lui sapesse cosa era meglio fare. «E come ciregoliamo con Tanis?», chiese quindi.

«Non c'è nulla che possiamo fare per lui», affermò Raistlin, in tonosommesso. «Se gli dicessimo qualcosa di negativo sul conto di Kit sirifiuterebbe di crederci. Dopo tutto, tu non mi avresti creduto se ti avessidetto qualcosa di sgradevole sul conto di Miranda, vero?» precisò, con unasfumatura di amarezza nella voce.

«No, suppongo di no», ammise Caramon, con un profondo sospiro, in

quanto dichiarava di avere tuttora il cuore infranto anche se attualmentefrequentava tre ragazze diverse, poi domandò: «E non c'è nulla che possiamo fare neppure riguardo a Kit?».

«Dobbiamo tenerla d'occhio con estrema attenzione, fratello mio».

CAPITOLO OTTAVO

Le giornate estive trascorsero sonnolente fra le volute di fumo che si

levavano dai fuochi da cucina, la polvere sollevata dai viandanti che percorrevano la strada di Solace e le nebbie mattutine che si avvolgevano

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come spettri intorno ai tronchi dei vallenwood.Flint intanto continuava a rimanere a letto e si mostrava un paziente

sorprendentemente docile anche se borbottava a sufficienza per trenta nani,come sosteneva Tasslehoff, aggiungendo di sentire la mancanza deldivertimento di un tempo; nel complesso Flint conduceva una vitaestremamente comoda, con il kender che lo serviva in tutto e per tutto, eCaramon e Sturm che venivano a turno a fargli visita ogni pomeriggiodopo le esercitazioni con la spada per fargli vedere quanto stesseromigliorando. Inoltre Raistlin passava ogni giorno a fargli un massaggioalla schiena e alla gamba con l'olio di gaulfheria, e perfino Kit si facevavedere di tanto in tanto per distrarre il nano con storie di scontri con orchie orchetti.

Flint era talmente comodo e appagato che Tanis cominciava a temereche stesse godendo troppo di quello stato di cose, dato che il dolore allaschiena e alla gamba era quasi svanito senza però che lui accennasse avoler riprendere a camminare.

Di conseguenza, Tanis riunì i suoi amici e studiò insieme a loro uncomplotto che inducesse il nano a lasciare il letto senza che si dovessericorrere alla polvere degli gnomi, come aggiunse il mezzelfo.

«Ho sentito dire che un nuovo fabbro si sta per trasferire a Solace»,

commentò una mattina Tasslehoff Burrfoot, mentre sprimacciava i cuscinidel nano. «Del resto era prevedibile, dato che corre voce che tu ti siaritirato dagli affari».

«Non l'ho fatto!» esclamò Flint in tono indignato. «Mi sto soltantoconcedendo un periodo di riposo per motivi di salute».

«Ho anche sentito dire che si tratta di un nano e che viene daThorbardin», rincarò Tas.

Poi lasciò quella freccia avvelenata conficcata nello spirito del nano,

certo che avrebbe fatto il suo effetto, e uscì per il suo giro quotidiano diSolace, in modo da vedere se c'era qualche persona nuova in città esoprattutto se c'erano oggetti interessanti che potessero finire nelle suesacche.

Il visitatore successivo fu Sturm, che si presentò con una pentola dizuppa calda fatta da sua madre e che in risposta alle domande ansiose delnano rispose di aver "sentito qualcosa in merito ad un nuovo fabbro chestava per arrivare in città", ma aggiunse di non essere propenso a prestare

orecchio ai pettegolezzi e di non poter quindi dare ulteriori notizie.Raistlin risultò invece una fonte d'informazione molto migliore in

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quanto fornì una quantità di dettagli su questo fabbro di Thorbardin,arrivando a parlare del suo clan, della lunghezza e del colore della sua barba, e aggiungendo che il motivo principale per cui un nano diThorbardin aveva scelto di insediare la propria bottega a Solace era che«aveva sentito dire che da quelle parti non avevano da molto tempo un buon fabbro».

Quando si presentò a casa del nano nel tardo pomeriggio, Tanis fucontento ma non troppo sorpreso di trovare Flint nella sua bottega, intentoad accendere la fucina che era rimasta fredda per tutta l'estate. Il nanocamminava ancora zoppicando (quando se ne ricordava) e lamentavadolori alla schiena (soprattutto quando doveva intervenire a salvareTasslehoff da uno degli innumerevoli piccoli disastri che provocava), ma

da quel momento non ricominciò più a recitare la parte del malato.Quanto al nano di Thorbardin, parve che avesse trovato che l'aria di

Solace non gli si addiceva, o almeno fu così che Tanis giustificò il suomancato arrivo.

L'estate era stata lunga e prospera per la gente di Solace perché unagrande quantità di viandanti, più di quanti se ne ricordassero, erano passatidalla città grazie al fatto che le strade erano relativamente sicure. Certo,c'erano pur sempre i ladri e i tagliaborse, ma quella era una realtà familiare

che non veniva considerata qualcosa di più di una semplice seccatura,mentre la guerra aveva l'effetto di paralizzare i traffici e in questo periodonon erano in corso né erano imminenti guerre in nessuna parte di Ansalon.Il continente era in pace ormai da trecento anni e a Solace tuttisupponevano con compiacenza che quella pace sarebbe durata per altritrecento anni.

O almeno quasi tutti. Raistlin infatti nutriva convinzioni diverse e per questo motivo aveva deciso di concentrare i propri studi magici sul campo

della magia di guerra. La sua non era una decisione basata sull'immagineidealizzata che un ragazzo poteva avere della guerra come di una cosagloriosa ed eccitante, perché Raistlin non aveva mai giocato alla guerracome facevano gli altri bambini, non amava la vita marziale e non sisentiva eccitato al pensiero di prendere parte ad una battaglia. No, la suaera una decisione ponderata presa dopo lunga e attenta riflessione e mirataad un unico obiettivo: il denaro.

La conversazione fra Kitiara e lo sconosciuto che lui era riuscito ad

ascoltare aveva avuto una parte predominante nelle sue pianificazioni;Raistlin la ricordava così bene che avrebbe potuto ripeterla parola per 

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 parola, e ne riesaminava quasi ogni notte il contenuto nella propria mente. Nel nord, presumibilmente a Sanction, qualche grande signore che

disponeva di enormi somme di denaro era interessato a ottenereinformazioni su Qualinesti e ad assoldare abili guerrieri, e aveva al suoservizio agenti fedeli e intelligenti. Sulla base di quelle informazioni perfino un bambino dei nani dei fossi avrebbe potuto arrivare alle logicheconclusioni.

In un giorno non lontano da qualche parte qualcuno avrebbe avuto bisogno di mettere insieme un esercito per difendersi da questo grandesignore, e avrebbe dovuto farlo in fretta, il che significava che questoignoto qualcuno sarebbe stato disposto a pagare somme ingenti ai soldati esomme ancora più elevate a maghi che fossero esperti nell'arte di

combinare la spada con la magia.Di conseguenza, Raistlin supponeva a ragion veduta che seminare morte

gli avrebbe fruttato di più che miscelare erbe per guarire bambini malati.Presa la sua decisione, lui meditò sul modo migliore per metterla in atto:

innanzitutto aveva bisogno di incantesimi che fossero di natura aggressiva,su questo non c'erano dubbi, ma avrebbe avuto anche bisognod'incantesimi con cui difendersi se non voleva che la sua prima battagliafosse anche l'ultima. Contro cosa avrebbe però dovuto difendersi? Cosa si

aspettava un comandante militare da un mago guerriero? E quale sarebbestato il suo posto nello schieramento? Quali incantesimi d'attaccosarebbero serviti? Raistlin s'intendeva ben poco di arte militare, ed oracominciava a rendersi conto che aveva bisogno di saperne di più in materiase voleva diventare un mago guerriero efficace.

La persona che poteva conoscere la risposta a tutti i suoi interrogativi eral'unica a cui lui non osava rivolgersi, cioè Kitiara, perché non volevametterle idee strane in testa. Interpellare Tanis Mezzelfo sarebbe equivalso

a parlare con Kitiara perché senza dubbio Tanis avrebbe discusso con lei diqualsiasi cosa lui gli avesse detto, e né Sturm né Flint gli potevano essered'aiuto perché cavalieri e nani diffidavano della magia e non avrebberomai fatto affidamento su un mago nel corso di una battaglia. Quanto aTasslehoff, non era neppure da prendere in considerazione, perchéchiunque era tanto stupido da porre una domanda ad un kender meritava larisposta così ottenuta.

Agendo in segreto, Raistlin effettuò allora delle ricerche nella biblioteca

del Maestro Theobald, ma non vi trovò nulla di utile.«Quest'era di Krynn verrà chiamata Era della Pace», era solito predire il

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Maestro Theobald. «Il nostro popolo è cambiato, e la guerra èun'istituzione retrograda che apparteneva alle generazioni passate. Adessole nazioni hanno imparato a coesistere pacificamente, umani, nani ed elfiriescono a lavorare insieme».

Il parere di Raistlin era però che questo risultato fosse ottenutoignorandosi a vicenda, il che significava che non si trattava di coesistenza pacifica ma di cecità.

Quando guardava al futuro, lui lo vedeva avvolto nelle fiamme einondato dal sangue, e gli pareva di scorgere le guerre imminenti con tantachiarezza da sentirsi indotto a tratti a chiedersi se non avesse ereditato in parte il talento di veggente di sua madre.

Convinto che il suo piano fosse meritevole e che gli avrebbe portato

fama e fortuna, Raistlin aveva adesso bisogno soltanto del saperenecessario per metterlo in pratica, e quel sapere poteva venire da una fontesoltanto: libri, che però il suo maestro non possedeva. Come poteva fare per entrarne in possesso?

Si diceva che la Torre della Somma Stregoneria di Wayreth avesse la piùvasta biblioteca magica esistente su Krynn, ma in qualità di mago novizioche non era ancora arrivato neppure al livello di apprendista, Raistlin nonavrebbe avuto il permesso di entrare nella Torre, in cui avrebbe messo

 piede per la prima volta soltanto quando fosse stato convocato a sottoporsialla Prova.

La Torre di Wayreth era quindi fuori della sua portata, ma c'erano altrefonti di libri di e sulla magia, e cioè i negozi di articoli per maghi.

In quell'epoca e in quei giorni negozi del genere non erano numerosi maesistevano e Raistlin sapeva che ce n'era uno ad Haven perché avevasentito il Maestro Theobald che ne parlava, così come sapeva dove esso sitrovasse grazie a indagini svolte senza dare nell'occhio.

Una notte, poco tempo dopo la miracolosa guarigione di Flint, Raistlins'inginocchiò accanto ad una piccola cassa di legno che teneva nella suastanza, che era protetta da un semplice incantesimo che ne bloccava laserratura e che costituiva una delle prime magie apprese da qualsiasi mago,assolutamente essenziale in un mondo popolato di kender.

Rimosso l'incantesimo con una singola parola che fungeva da comando eche poteva essere personalizzata in modo da adattarsi ad ogni mago cheutilizzasse quell'incantesimo, Raistlin aprì la cassa e tirò fuori una piccola

sacca di cuoio, contando le monete ivi contenute... cosa del tutto inutile inquanto sapeva esattamente a quanto ammontavano i suoi risparmi, che

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riteneva sarebbero stati sufficienti allo scopo.Il mattino successivo affrontò l'argomento con suo fratello.«Informa il Fattore Sedge che devi prenderti qualche giorno libero,

Caramon, perché dobbiamo andare ad Haven», annunciò.Caramon sgranò gli occhi a tal punto da far apparire improbabile che

riuscisse mai più a richiuderli e rimase senza parole per lo stupore. Ladistanza fra Solace e la precedente scuola del Maestro Theobald, circasette chilometri in tutto, era il viaggio più lungo che lui avesse mai fatto intutta la sua vita, e di conseguenza gli sembrava che la città di Haven, che sitrovava a circa centotrentacinque chilometri di distanza, fosse ai confinistessi del mondo conosciuto.

«La prossima settimana Flint si recherà alla Festa del Raccolto di

Haven... la scorsa notte l'ho sentito mentre ne parlava con Tanis, che senzadubbio lo accompagnerà insieme con Kit. Io propongo di andare con loro».

«Ci puoi scommettere che lo faremo!» esclamò infine Caramon, cosìfelice da improvvisare una danza sulla soglia di casa con il risultato di far tremare tutta la costruzione dalle fondamenta.

«Calmati, Caramon», ingiunse Raistlin, in tono irritato, «altrimentisfonderai di nuovo le travi del pavimento, e non abbiamo denaro dasprecare per le riparazioni».

«Mi dispiace, Raist», si scusò Caramon, la cui esaltazione si stavadissolvendo in fretta sotto la pressione di un pensiero angosciante: «A proposito di denaro, pensi che ne abbiamo a sufficienza? Andare ad Havensarà costoso, e anche se Tanis si offrirà di addossarsi le nostre spese non possiamo permetterlo».

«Ce la faremo se saremo frugali. Penserò io a tutto, tu non ti devi preoccupare».

«Chiederò a Sturm se vuole venire anche lui», decise Caramon, sentendo

riaffiorare il proprio entusiasmo, e sfregandosi le mani aggiunse: «Saràuna vera avventura!».

«Non credo proprio», ribatté Raistlin, in tono sarcastico. «Non vedonulla di avventuroso in un viaggio di tre giorni su un carro e lungo vieabbondantemente trafficate».

Il che dimostrò soltanto che dopo tutto lui non aveva ereditato il donodella preveggenza posseduto da sua madre.

CAPITOLO NONO

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Il viaggio cominciò nel modo più tranquillo e pacifico possibile, con la probabile eccezione di due giovani aspiranti guerrieri ansiosi di sfoggiareil loro talento di recente acquisizione. Il clima era sereno e fresco, il soleera piacevolmente caldo nel pomeriggio e le piogge recenti impedivanoalla polvere di levarsi nell'aria sulla strada di Haven ora piena di viandanti,dato che la Festa del Raccolto era la festa più importante che si tenesse inquella città.

Tanis era alla guida del carro, che era stato caricato al massimo della suacapienza con le merci del nano, che sperava di guadagnare nel corso dellafiera di Haven una cifra sufficiente a compensare le perdite subitequell'estate. Raistlin viaggiava sul carro accanto a Tanis per tenerglicompagnia mentre Kitiara a tratti cavalcava e a tratti camminava,

decisamente troppo irrequieta per fare a lungo la stessa cosa; Flint inveceera sistemato comodamente sul retro del carro, annidato fra pentole e padelle dove poteva tenere d'occhio le merci più preziose, come polsiere e bracciali d'argento e collane in cui erano incastonate pietre preziose. Sturme Caramon procedevano a piedi accanto al veicolo, pronti a intervenire incaso di pericolo.

Con la loro fantasia i due giovani stavano popolando la strada di bandedi ladroni, di legioni di orchetti (sebbene Tanis continuasse a garantire loro

in tono divertito che a Solace non si erano più visti degli orchettidall'epoca del Cataclisma) e di orde di bestie feroci che andavano dai lupiai basilischi.

Le loro speranze di impegnare un combattimento (non era necessarioche fosse qualcosa di serio, anche una lite di poco conto sarebbe andata bene) erano alimentate e incoraggiate da Tasslehoff, che si divertìestremamente a raccontare ogni storia che aveva sentito e qualche altra deltutto inventata sul momento in cui si parlava di incauti viandanti a cui gli

orchi avevano strappato e divorato il cuore o che erano stati trascinati viada qualche orso o trasformati in non-morti dagli spettri.

Il risultato fu che Sturm cominciò a tenere la mano sull'elsa della spada ea scrutare ogni persona che incontrava con freddezza e con tale intensità daindurre i più a pensare che fosse lui stesso un ladro e ad affrettarsi adaccelerare il passo, mentre Caramon improntò il suo volto di solito allegroad un'espressione accigliata che lui credeva lo facesse apparire un duromentre invece gli dava soltanto un aspetto bilioso, come ebbe modo di

commentare Raistlin.Con il trascorrere della giornata, Sturai cominciò ad avere i crampi alla

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mano per aver stretto troppo a lungo l'elsa della spada e Caramon cadde preda di una devastante emicrania dovuta all'aver tenuto la mascella protesa in avanti con un'angolazione innaturale; quando a Kitiara, aveva lecostole che le dolevano per il riso represso perché Tanis non le permettevadi ridere apertamente dei due giovani.

«Devono imparare», affermò poco dopo pranzo, quando si rimise allaguida del carro con Kitiara seduta a cassetta fra lui e Raistlin. «Non è unmale che sviluppino l'abitudine di stare all'erta e di essere cauti quandosono in viaggio, anche se per adesso stanno esagerando un poco. Ricordoche da giovane ero il loro esatto opposto, quando sono partito daQualinesti senza una preoccupazione al mondo o un cervello in testa,dando per scontato che chiunque incontravo fosse un amico. È un miracolo

che non sia finito in un fosso con la testa sfondata».«Quando eri giovane», ripeté Kitiara in tono di rimprovero,

stringendogli la mano. «Parli come se adesso fossi un vecchio. Tu seiancora giovane, amico mio».

«Forse lo sono in termini elfici», rispose Tanis, «ma non secondo quelliumani. Non pensi mai a questo, Kit?».

«A cosa dovrei pensare?» domandò lei in tono noncurante. La verità erache non stava veramente prestando attenzione alle parole di lui, perché

aveva di recente acquistato da Flint un coltello dall'eccellente lamad'acciaio ed era impegnata ad avvolgere intorno all'impugnatura strisce dicuoio intrecciato.

«Al fatto che io ho già vissuto per oltre cento dei vostri anni umani, eche vivrò per altre centinaia di anni», persistette Tanis.

«Bah!» sbuffò Kit, china sul suo lavoro, con le dita che si muovevanorapide ma senza particolare efficienza. Il cuoio intrecciato le avrebbe permesso di avere una presa migliore sull'impugnatura, ma il suo operato

era tutt'altro che perfetto e il risultato ottenuto non la soddisfaceva in modo particolare. Finito il lavoro ripose il coltello nello stivale e aggiunse:«Dopotutto sei elfo soltanto in parte».

«Però la durata della mia vita è molto più lunga se paragonata a...».«Ehi, Caramon!» gridò Kit, fingendo un tono allarmato. «Mi è parso di

vedere qualcosa muoversi fra quei cespugli! Guarda quel grosso idiota!»commentò poi. «Se qualcosa saltasse fuori da quei cespugli per aggredirlose la farebbe nei pantaloni... cosa stavi dicendo?».

«Nulla», sorrise Tanis. «Non era importante».Scrollando le spalle Kitiara saltò giù dal carro per andare a divertirsi alle

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spalle di Sturm pretendendo di essere certa che degli orchetti li stesseroseguendo.

Lanciando un'occhiata in direzione di Tanis, Raistlin notò che il voltoliscio e privo di rughe del mezzelfo, un volto che avrebbe conservato quelsuo giovane aspetto forse per altri cento anni, era velato dall'infelicità.Tanis sapeva che sarebbe stato ancora giovane quando Kitiara sarebbediventata una donna molto vecchia, che l'avrebbe vista consumarsi emorire mentre il trascorrere del tempo non aveva virtualmente effetto su dilui.

I bardi intonavano tragiche canzoni che parlavano dell'amore fra elfi eumani. Pensandoci, Raistlin si chiese cosa si dovesse provare nel veder avvizzire bellezza e giovinezza nella persona amata, vederla scivolare

nella vecchiaia e poi nella senilità restando giovani e vibranti di vita;d'altro canto, se si fosse innamorato di una donna elfica Tanis sarebbeandato incontro a quella stessa sorte, con la sola differenza che in quelcaso sarebbe stato lui ad invecchiare per primo.

Raistlin si sorprese a osservare il mezzelfo alla luce di quella nuovacomprensione e con una certa compassione, riflettendo che quell'uomo eracondannato dalla nascita e non avrebbe mai potuto essere felice né nelmondo degli uomini né in quello degli elfi. Di certo gli dèi gli avevano

giocato uno scherzo davvero crudele!Quei pensieri lo indussero a ricordarsi dei tre antichi dèi della magia e

ad avvertire un certo rimorso per non aver adempiuto alla sua promessa: sedavvero credeva in loro, come aveva professato tanto tempo prima, perchémetteva di continuo in discussione la propria fede e ne dubitava? I tre dèigli tornarono di nuovo alla mente più tardi quando, sul finire dellagiornata, lui e i suoi compagni s'imbatterono in un gruppo di preti che procedeva lungo la strada.

I preti, venti uomini e una donna, camminavano nel centro della stradadisposti su due file e avanzavano con passo lento e con espressionesolenne come se stessero accompagnando un corpo alla sepoltura, senzaguardarsi intorno e tenendo il viso rivolto davanti a loro, lo sguardoabbassato verso il terreno.

 Naturalmente quella lenta colonna che avanzava nel centro della stradastava avendo l'effetto più o meno voluto di rallentare lo scorrimento deltraffico.

Quel giorno sulla strada di Haven c'era una grande quantità di persone, eFlint era soltanto uno dei numerosi mercanti che stavano viaggiando in

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quella direzione, trasportando le loro merci su carri trainati da cavalli o sucarretti a mano o ancora in fagotti appesi alla schiena o bilanciati sullatesta. Non potendo oltrepassare i preti, i carri furono costretti ad adottare illoro stesso passo da funerale mentre in un primo tempo parve che quantiviaggiavano a piedi o a cavallo sarebbero stati più fortunati. Quando peròcercavano di aggirare la doppia fila di preti, i viandanti appiedatiarrivavano al massimo fino a metà della colonna e poi si fermavano dovesi trovavano per il timore di proseguire oppure si affrettavano a tornare suiloro passi.

Coloro che invece erano a cavallo cercarono anch'essi di aggirare ilgruppo di preti ma dovettero rinunciare perché i cavalli presero a scartarenervosamente, spostandosi lateralmente fra i cespugli, o addirittura

divennero recalcitranti e rifiutarono di avvicinarsi ai preti.«Cosa c'è? Cosa sta succedendo?» borbottò Flint, svegliandosi da un

sonnellino ristoratore sotto il caldo sole pomeridiano, poi si alzò in piedisul carro e si portò sulla parte anteriore del veicolo, continuando: «Cosasignifica questo ritardo? Di questo passo arriveremo ad Haven in tempo per la danza di Calendimaggio!».

«Si tratta di quei preti là davanti», spiegò Tanis. «Non si spostano dallastrada e nessuno li riesce ad aggirare».

«Forse non sanno che noi siamo qui dietro», opinò Flint. «Qualcuno lidovrebbe avvisare».

Il conducente del carro in testa alla fila che si era creata stava tentandodi fare proprio questo e stava gridando, con estrema cortesia, è ovvio, ai preti di spostarsi da un lato. Essi però non gli prestavano attenzione econtinuavano a procedere nel centro della strada come se fossero stati tuttisordi.

«Questo è ridicolo!» esclamò Kit. «Andrò a parlare con loro!».

E si allontanò con andatura decisa, con il mantello che le si agitavaintorno alla figura e la spada che tintinnava ad ogni passo, subito seguita dicorsa da Tasslehoff.

«No! Tas, Kit, aspettate! Dannazione!» imprecò sommessamente Tanis.Gettate le redini allo stupito Raistlin si affrettò quindi a scendere dal

carro e a seguire i due; non avendo mai guidato un carro in tutta la suavita, Raistlin prese ad armeggiare incerto con le redini, ma per sua fortunaCaramon fu pronto a balzare a cassetta e fece arrestare il carro in modo che

 potessero seguire tutti cosa stava succedendo.Poiché su Krynn esistono poche creature capaci di muoversi in fretta

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quanto un kender eccitato, quando Tanis raggiunse Kitiara il kender era giàmolto più avanti rispetto ad entrambi e il mezzelfo gli gridò invano difermarsi, dato che su Krynn poche creature sono sorde quanto un kender eccitato. Prima che Tanis potesse raggiungerlo Tasslehoff si portò accantoad uno dei preti, un uomo calvo che era anche il più alto del gruppo e che procedeva per ultimo nella fila di destra della colonna.

Come sua abitudine, Tas protese una mano verso di lui per presentarsi, eun attimo più tardi compì un'impresa davvero notevole saltandocontemporaneamente in alto di una sessantina di centimetri e indietro di tre passi, per poi atterrare nel mezzo di un cespuglio in un ammasso confusodi sacche e di borse.

Quando infine Tanis e Kitiara lo raggiunsero, lui era impegnato a

districare se stesso e il suo assortimento di sacche e di borse dai rami delcespuglio.

«Quell'uomo ha un serpente, Tanis!» esclamò in tono eccitato, ripulendoda foglie e ramoscelli i suoi migliori calzoni a scacchi arancioni e verdi.«Ognuno di quei preti porta un serpente avvolto intorno al braccio!».

«Dei serpenti?» ripeté Kitiara, arricciando il naso e guardando condisgusto in direzione dei preti. «Cosa se ne fanno dei serpenti?».

«È stato tutto molto eccitante», riferì Tas. «Mi sono avvicinato al primo

 prete e mi stavo per presentare come richiede la cortesia, solo che lui si èrifiutato di guardarmi o di parlarmi. Allora ho proteso la mano per tirarlo per una manica, pensando che non mi avesse visto, e il serpente ha tiratosu la testa e mi ha sibilato contro», continuò, tanto eccitato da non riuscirequasi a parlare. «Stavo per chiedergli se potevo accarezzarlo, i serpentihanno una pelle così meravigliosamente secca, quando il rettile ha protesodi scatto la testa verso di me, ed è stato allora che sono saltato all'indietro.Una volta, quando ero un piccolo kender, sono stato morso da un serpente,

e per quanto interessante non è un'esperienza che voglia ripetere moltospesso... come sei solito dire tu, Tanis, non è utile per la salute, soprattuttodal momento che a mio parere quello era un serpente velenoso, dato cheaveva un cappuccio sulla testa, la lingua biforcuta e piccoli occhiscintillanti. Qualcuno può aiutarmi a liberare questa sacca? Si è impigliatain quel ramo».

Mentre Tanis districava la sacca in questione sopraggiunsero Flint,Raistlin e Sturm, che avevano lasciato un seccatissimo Caramon a guardia

del carro.«Stando alla tua descrizione quel serpente sembrerebbe una vipera»,

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osservò Raistlin, «però non ho mai sentito che si potessero trovare dellevipere al di fuori delle Pianure della Polvere».

«In tal caso a quella vipera dovevano essere stati estratti i denti», obiettòSturm. «Non riesco a immaginare nessuna persona sana di mente che siadisposta a camminare lungo una strada portando con sé un serpentevelenoso!».

«Allora hai un'immaginazione molto limitata, fratello», commentò unvenditore ambulante, avvicinandosi al gruppetto, «anche se di certo hairagione per quanto concerne la sanità mentale. Il loro dio assume la formadi una vipera, quindi il serpente è il loro simbolo e una prova dellasincerità della loro fede, in quanto il dio dona ai suoi fedeli il potere dicontrollare la vipera in modo che non faccia loro del male».

«In altre parole», commentò Raistlin, arricciando con disprezzo lelabbra, «sono incantatori di serpenti».

«Non lasciare che ti sentano definirli in questo modo, fratello», consigliòil venditore ambulante, scoccando un'occhiata in tralice e piena di disagioin direzione dei preti, poi abbassò la voce e aggiunse: «Loro non tolleranola mancanza di rispetto... anzi, le cose che non tollerano sono molte, e se potranno fare a modo loro questa sarà una Festa del Raccolto davveromisera».

«Perché? Cos'hanno fatto?» chiese Kit con un sogghigno. «Hanno forsefatto chiudere tutte le birrerie?».

«Cos'hai detto?» intervenne Flint, che poteva seguire soltanto in parte laconversazione, che si svolgeva molto più in alto rispetto alla sua testa, poisi fece più vicino per sentire meglio e insistette: «Cos'hai detto? Chiuderele birrerie?».

«No, niente del genere, anche se personalmente loro non toccano quellaroba», replicò il venditore ambulante. «Sanno che non riuscirebbero mai

ad ottenere nulla di tanto drastico ma potrebbero anche provarci. Midispiace di trovarli qui, perché adesso sarà difficile che qualcuno venga avedere la fiera, dato che si recheranno tutti al tempio per assistere ai"miracoli". Penso quasi che mi convenga girarmi e tornare a casa».

«Come si chiama il loro dio?» domandò Raistlin.«Belzor, o qualcosa del genere. Vi auguro una buona giornata, sempre

che possa ancora esserlo», concluse in tono cupo il venditore ambulante,avviandosi nella direzione da cui era giunto.

«Ehi! Cosa sta succedendo?» gridò Caramon, dal carro.«Belzor», ripeté Raistlin, cupo.

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«È lo stesso dio di cui parlava quella vedova, vero?» domandò Flint,tormentandosi la barba.

«La Vedova Judith. Sì, Belzor era il suo dio e lei proveniva da Haven...una cosa che avevo dimenticato», replicò Raistlin, pensoso perché nonavrebbe mai pensato di poter dimenticare la Vedova Judith, il cui ricordoera peraltro stato spinto in un angolo dagli altri eventi della sua vita e stavatornando ad affiorare con prepotenza soltanto adesso. «Mi chiedo se latroveremo qui», aggiunse.

«Non la troveremo perché eviteremo di avvicinarci a quei preti»,dichiarò in tono deciso Tanis. «Andremo alla fiera e ci concentreremo suinostri affari, perché non voglio guai di nessun genere», proseguì, protendendo una mano ad afferrare il kender per il colletto della camicia.

«Oh, per favore, Tanis! Voglio soltanto dare un'altra occhiata a queiserpenti!» protestò il kender.

«Caramon!» chiamò Tanis, continuando a trattenere sia pure condifficoltà il kender che si dibatteva. «Porta il carro lontano dalla strada. Cifermiamo per la notte».

Flint parve sul punto di contestare quella decisione, ma quando Tanisusava quel tono perfino Kitiara teneva a freno la lingua; scuotendo il capo,non disse nulla e si diresse invece verso Raistlin.

«Judith», disse con noncuranza. «Si tratta della donna responsabile dellamorte di nostra madre?».

«Nostra madre?» ripeté Raistlin, fissando con stupore la sorella.Di solito, infatti, le rare volte in cui parlava di Rosamun lei usava un

tono sprezzante e si rivolgeva ai gemelli usando invece il termine vostramadre. Questa era la prima volta che Raistlin la sentiva ammettere il suorapporto di consanguineità con Rosamun.

«Sì, è quella donna», rispose, quando si fu ripreso dalla sorpresa

abbastanza da poter parlare.Kit annuì, scoccò un'occhiata a Tanis e infine si protese verso Raistlin

con fare confidenziale.«Se sai tenere a freno la lingua, fratellino, forse è possibile che in questo

viaggio si riesca a divertirci, dopo tutto», sussurrò.Quella notte, Sturm e Caramon insistettero per montare la guardia

accanto al fuoco da campo, suscitando l'ilarità di Kitiara.«Dove pensate che siamo... a Sanction?» chiese lei, ridendo.

Acceso il fuoco sistemarono intorno ad esso i rotoli delle coperte,notando che altri fuochi stavano comparendo non molto lontano, segno che

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 parecchi viandanti avevano deciso di lasciare un notevole margine divantaggio ai preti di Belzor.

Incaricatosi di cucinare, Flint preparò il suo famoso stufato delviandante, una ricetta dei nani a base di carne secca e di bacche cotte afuoco lento nella birra. Raistlin aggiunse al tutto alcune erbe che avevatrovato lungo la strada e che Flint adocchiò con sospetto, accettandole marifiutando di ammettere che migliorassero il sapore del tutto in quanto asuo parere le ricette dei nani non avevano bisogno di modifiche... anche se poi mangiò quattro porzioni di stufato per accertarsi che il gusto fosseinvariato.

Mantenendo acceso il fuoco per tenere a bada il freddo della notte, icompagni sedettero intorno ad esso e fecero circolare una caraffa di birra,

scambiandosi storie fino a quando la legna cominciò a consumarsi, poiFlint bevve un ultimo sorso e decise che era ora di ritirarsi, andando adormire sul carro per proteggere le proprie merci da eventuali ladri. Subitodopo Tanis e Kit si spostarono nell'ombra, da dove fu possibile sentirliridere sommessamente e sussurrare fra loro mentre Caramon e Sturmdiscutevano per stabilire chi avrebbe fatto il primo turno di guardia,ricorrendo infine al lancio di una moneta che assegnò il turno conteso aCaramon. Avvoltosi in una coperta, Raistlin si preparò intanto a trascorrere

la sua prima notte all'aperto sdraiato sul terreno sotto le stelle, cosa chescoprì scomoda proprio quanto lui aveva immaginato.

Stagliandosi sullo sfondo della poca luce proiettata dai carboni quasispenti del fuoco, Caramon stava fischiettando fra sé, impegnato atagliuzzare un pezzo di legno mentre montava la guardia, e l'ultimaimmagine che Raistlin vide prima di scivolare in un sonno irrequieto fuquella del grosso corpo del suo gemello che nascondeva la luce dellestelle.

CAPITOLO DECIMO

Il giorno successivo il kender tenne d'occhio con solerzia la strada nellasperanza di avvistare i preti di Belzor, che però dovevano aver camminato per tutta la notte o abbandonato la strada perché i compagni non liraggiunsero né quel giorno né quello successivo.

A quanto pareva, le idee pessimistiche nutrite dal venditore ambulante in

merito al probabile insuccesso della Fiera della Festa del Raccolto nonerano condivise dalla massa della popolazione dell'Abanasinia, in quanto

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la strada si fece sempre più affollata e fornì a Tasslehoff una serie disoggetti così interessanti da analizzare che ben presto lui si dimenticò deiserpenti, con estremo sollievo di Tanis.

Ricchi mercanti che si erano fatti precedere dai loro servi che scortavanole mercanzie procedevano lungo la strada su adorne portantine issate sullespalle di robusti portatori; una nobile famiglia al completo passò accanto algruppo dei compagni con il suo seguito di servi, il nobile che procedeva per primo in sella al suo grande cavallo da guerra, seguito dalla moglie,dalla figlia e dalla duenna di quest'ultima, che montavano dei piccoli pony.I cavalli erano tutti decorati con finimenti dai colori vivaci, e quello dellaragazza aveva le briglie adorne di campanellini d'argento e la crinieraintrecciata con nastri di seta.

La figlia del nobile era una ragazza adorabile di circa sedici anni, cheelargì un caritatevole sorriso a Caramon e a Sturm nello stesso modo in cuiavrebbe potuto elargire delle monete ai poveri.

Togliendosi il cappello, Sturm rispose con un elegante inchino mentreCaramon strizzò l'occhio alla ragazza e seguì di corsa il suo cavallo nellasperanza di parlarle, con il risultato che il nobile si accigliò e i serviserrarono le file intorno alla famiglia mentre la duenna emetteva un versodi disapprovazione e gettava uno scialle sulla testa della ragazza,

ammonendola a bassa voce di non badare alla marmaglia che vedeva lungola strada... aspre parole che ferirono l'orgoglio di Sturm.

«Ti sei comportato da zoticone e ci hai fatti apparire ridicoli», disse aCaramon.

Questi invece aveva trovato l'episodio divertente, e per tutto ilchilometro successivo procedette accanto al carro in punta di piedi, con passo contegnoso e con la faccia coperta da un fazzoletto, fingendosidisgustato dai compagni e gridando di continuo "marmaglia" con la voce

in falsetto.Il viaggio proseguì senza eventi degni di nota fino a metà pomeriggio,

quando Flint si alzò di scatto dal suo posto sul retro del carro.«Attento!» gridò, battendo un colpo sulla spalla di Tanis per enfatizzare

il pericolo. «Guida più in fretta! Presto! Si stanno avvicinando!».Tanis si guardò alle spalle con aria allarmata, aspettandosi di vedere un

esercito di minotauri lanciato al loro inseguimento.«Troppo tardi!» gemette intanto Flint, mentre il carro veniva circondato

da un gruppo di circa quindici allegri kender.Fortunatamente per il nano, in quel momento i kender erano più

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interessati a Tasslehoff che alle sue merci: sempre felice di incontrare altrimembri della sua razza, Tas balzò giù dal carro e si gettò in quel boschettodi piccole braccia protese.

«Come state? Il mio nome è Tasslehoff Burrfoot», si presentò.«Clayfoot?».«No, Burrfoot. Burr... con la doppia erre».«Ah, Burrfoot! Piacere di conoscerti, io sono Eider Thistledown».«Eiderdown?».«Thistledown. Eider viene prima. E questo è Hefty Warblethroat».«Felice di conoscerti, Tuftedhair Hotfoot».«Tasslehoff Burrfoot». lo corresse Tasslehoff. «È un onore conoscerti,

Flabby Cutthroat».

Quelle presentazioni si protrassero per parecchio tempo, e una volta chetutti i kender si furono adeguatamente presentati a vicenda e che tuttiseppero come si chiamavano tutti gli altri, passarono alla seconda fase delrituale, che consisteva nel determinare se erano imparentati fra loro, cosa peraltro facile da accertare in quanto è un fatto noto che ogni kender mainato può far risalire le proprie origini in un modo o nell'altro, di dritto o dirovescio, al famoso zio Trapspringer.

«Zio Trapspringer era il terzo cugino della zia di mia madre, dal lato

 paterno e acquisito per matrimonio», disse Eider Thistledown.«Davvero stupefacente!» esclamò Tasslehoff. «Zio Trapspringer era

cugino di secondo grado della moglie dello zio di mio padre».«Fratello!» gridò Eider, spalancando le braccia.«Fratello!» fece eco Tasslehoff, precipitandosi in quell'abbraccio.Quella scena si ripeté lungo tutta la linea di kender, portando a stabilire

che Tasslehoff era strettamente imparentato con tutti e quindici anche senon aveva mai visto nessuno di loro in tutta la sua vita.

Era giunto adesso il momento della terza fase: con estrema cortesia,Tasslehoff chiese agli altri kender se nel corso dei loro viaggi avevanoacquisito qualche oggetto interessante, con il risultato che tutti i kender sisedettero nel bel mezzo della strada, svuotarono le loro sacche ecominciarono a frugare gli uni nelle cose degli altri mentre il traffico si bloccava alle loro spalle.

«Avvia il carro, Tanis!» incitò Flint, in un rauco sussurro. «Più in fretta!Più in fretta! Forse riusciremo a seminarlo».

Ben sapendo che Tas sarebbe rimasto impegnato in quella divertenteattività per almeno una giornata, Tanis seguì il consiglio del nano anche se

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non sperava che potessero seminare davvero il kender, per quanto avesserocercato di viaggiare veloci.

Quella notte stessa, mentre stavano preparando il campo, Tas infatti liraggiunse stanco, affamato, senza neppure più indosso gli stessi vestiti di prima, ma assolutamente felice.

«Hai sentito la mia mancanza, Flint?» chiese, sedendosi accanto al nano,e ignorando il tonante diniego di quest'ultimo procedette a mostrare ai suoicompagni i nuovi tesori che aveva acquisito. «Guarda, Flint, ho un'interaserie di nuove mappe, fatte davvero bene, tanto che non ne ho mai viste dicosì buone. Mio cugino dice che provengono da Istar, che non esiste più perché è stata distrutta durante il Cataclisma. Su di esse sono disegnate piccole montagne e piccole strade, e c'è perfino un piccolo lago, e ci sono

nomi scritti dappertutto. Io non ho mai sentito nominare nessuno di questi posti e non so dove siano, ma se mai ci vorrò andare adesso ho una mappache mi può indicare come arrivarci».

«Se non sai dove si trova qualcosa, a che ti serve una mappa, pomolo di porta?» obiettò Flint.

Tas rifletté per un momento, poi evidenziò la pecca nel ragionamentodel nano.

«Però senza mappa non ci posso arrivare, giusto?» ribatté.

«Tu hai appena detto che non sai dove sia quel posto, il che significa chenon ci puoi arrivare neppure con la mappa!» tuonò Flint, irritato.

«Ah, ma se mai ci arriverò saprò dove sono» dichiarò Tasslehoff in tonodi trionfo, e a questo punto Tanis intervenne a cambiare argomento primache il nano, ora estremamente rosso in faccia, si facesse scoppiare qualcheimportante vaso sanguigno.

Verso mezzogiorno dell'indomani arrivarono alle porte della Signoria diHaven.

Pomposamente, i residenti di Haven avevano ribattezzato la loro cittàuna Signoria perché nella loro mente essa rivaleggiava con la favolosametropoli settentrionale di Palanthas. Naturalmente nessuno degli abitantidi Haven era mai stato a Palanthas, il che poteva forse spiegare le loroerronee convinzioni, dato che in realtà Haven non era nulla di piùgrandioso di un'ampia comunità agricola collocata su una zona di terraestremamente fertile, il cui ricco terriccio veniva nutrito quasi ogni anno

dalle piene del fiume Whiterage.In questi giorni di relativa pace fra le diverse razze che abitavano

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l'Abanasinia, i raccolti di Haven contribuivano a nutrire sia i nani diThorbardin sia gli umani di Pax Tharkas. Quanto agli elfi di Qualinesti,essi non apprezzavano il cibo coltivato dagli umani ma avevano scopertoche i vigneti sui pendii soleggiati dei Monti Kharolis producevano uvenotevolmente dolci, che venivano quindi importate a Qualinesti per farecon esse il vino famoso in tutto Ansalon. La canapa di Haven era moltoapprezzata dal Popolo delle Pianure che la intrecciava in modo da ottenerecorde resistenti, il legno era utilizzato dagli abitanti di Solace per costruirele loro case e le loro botteghe.

Di conseguenza, la Fiera della Festa del Raccolto non era soltantol'occasione per celebrare un anno di eccellente rendimento dei campi maanche di rendere un tributo alla prosperità agreste di Haven.

La città era circondata da una palizzata di legno che serviva a tenerelontani branchi di lupi in caccia piuttosto che eserciti, dato che Haven nonera mai stata attaccata né prevedeva di esserlo, considerato che dopo tuttoquesta era l'Era della Pace. Le porte della palizzata venivano chiusesoltanto di notte e restavano spalancate durante il giorno, controllate dasentinelle che fungevano più da comitato di benvenuto che da guardie escambiavano saluti amichevoli con i visitatori che riconoscevano da unanno all'altro, dando al tempo stesso un cordiale benvenuto a chi era un

volto nuovo.Flint e Tanis erano ampiamente conosciuti e tenuti in alta

considerazione, al punto che il sergente di turno venne di persona astringere la mano al nano e al mezzelfo, e a fissare con ammirazioneKitiara. Il sergente affermò poi di aver sentito la mancanza dell'abitualevisita estiva del nano e gli chiese dove fosse stato per tutta l'estate,ascoltando con profonda commiserazione la storia dolente di Flint egarantendogli che avrebbe trovato ad attenderlo la consueta bancarella che

occupava sempre all'interno della fiera.A quanto pareva anche Tasslehoff era ben noto, dato che il sergente lo

fissò con espressione accigliata e gli suggerì di andare fin d'ora arinchiudersi da solo in prigione in modo da risparmiare in seguito a tuttiuna quantità di tempo e di fastidi.

Pur ritenendo che fosse estremamente gentile da parte del sergente fargliun'offerta così generosa, Tasslehoff si vide però costretto a rifiutare.

«Flint fa affidamento su di me, sai» affermò, per fortuna senza essere

sentito dal nano.Il sergente diede quindi il benvenuto ai tre giovani e nell'apprendere che

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quella era la loro prima visita ad Haven si augurò che non trascorresserotutto il loro tempo lavorando e che si concedessero l'opportunità di dareun'occhiata in giro. Dopo aver stretto di nuovo la mano a Flint avvertì intono sommesso Tanis che doveva considerarsi responsabile per il kender,s'inchinò a Kitiara e si avviò ad accogliere il carro successivo che stavaoltrepassando le porte di legno.

Una volta all'interno della palizzata, il gruppo venne avvicinato da ungiovane che indossava una veste azzurro cielo e che segnalò loro difermare il carro.

«Cosa succede?» domandò Tanis.«È uno di quei preti di Belzor», replicò Flint, fissando il soggetto in

questione con occhi roventi.

«Ha un serpente? Voglio vedere!» intervenne Tasslehoff, preparandosi asaltare giù dal carro.

«Non ora, Tas», ingiunse però Tanis, in un tono a cui a volte era capitatoche lui obbedisse. Per sicurezza, Caramon intanto afferrò il kender per ilcolletto del giustacuore a strisce verdi e porpora, trattenendolo saldamente.

«Cosa possiamo fare per te, signore?» domandò intanto Tanis, alzandola voce per farsi sentire al di sopra del frastuono dei carri che passavano,dei cavalli che nitrivano e della folla che fluiva loro intorno.

«Vorrei parlare con quel giovane dalla veste bianca» rispose il prete,appuntando la propria attenzione su Raistlin. «Sei forse un mago,fratello?».

«Soltanto un mago novizio, signore» rispose con umiltà Raistlin. «Nonmi sono ancora sottoposto alla Prova».

Il prete si avvicinò al carro dal lato su cui era seduto Raistlin e sollevò losguardo su di lui con espressione seria e intensa.

«Sei molto giovane, fratello. Sei consapevole del male con cui stai

avendo a che fare... di certo senza rendertene conto?».«Male?» ripeté Raistlin, protendendosi oltre il lato del carro. «No,

signore, non ho nessuna intenzione di fare del male. Cosa vuoi dire?».«Vieni fuori del tempio di Belzor per ascoltarci, fratello», esortò il prete,

serrando la mano intorno a quella di Raistlin. «Allora tutto ti sarà spiegato,e non appena avrai capito che stai adorando falsi dèi rinuncerai ad essi ealle loro arti malvagie, ti toglierai quella veste immonda e camminerai dinuovo alla luce del sole. Verrai, fratello?».

«Con gioia!» esclamò Raistlin. «Le tue parole mi hanno terrorizzato».«Cosa? Ma, Raist...» accennò a protestare Caramon.

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«Zitto, grosso idiota!» ingiunse però Kitiara, affondandogli le unghie nel braccio.

Il prete fornì intanto a Raistlin le indicazioni necessarie perché potessetrovare il tempio, che a suo dire era il più grosso edificio di Haven e sitrovava esattamente nel centro della città.

«Dimmi, signore» chiese Raistlin, dopo aver avuto le indicazioni, «c'èforse una persona connessa al tempio che si chiama Judith?».

«Sì, fratello! È la nostra reverendissima sacerdotessa, colei che cicomunica la volontà di Belzor. La conosci?».

«Soltanto di fama» rispose Raistlin, in tono rispettoso.«È triste che tu sia un mago che si dichiara tale, fratello, altrimenti ti

 potrei invitare all'interno del tempio per assistere alla cerimonia del

Miracolo. La Sacerdotessa Judith evocherà Belzor, che apparirà fra noiquesta stessa notte, poi parlerà con i Benedetti di Belzor che sono passatialla vita ultraterrena».

«Mi piacerebbe vederlo», affermò Raistlin.«Ahimè, fratello, ai maghi non è permesso di assistere al Miracolo.

Perdonami se ti dico questo, fratello, ma Belzor è offeso dalle vostreusanze malvagie».

«Io non sono una maga», intervenne Kitiara, rivolgendo un sorriso

affascinante al giovane prete. «Potrei venire nel tempio?».«Ma certo! Tutto il resto di voi è il benvenuto. Vedrete compiere

miracoli meravigliosi che vi lasceranno stupefatti e cancelleranno in voiogni dubbio, inducendovi a credere in Belzor con tutto il cuore e con tuttal'anima».

«Grazie. Ci sarò», promise Kitiara.Il prete elargì loro solennemente la benedizione di Belzor poi procedette

a interrogare gli occupanti di un altro carro in arrivo.

«Non mi serve la simpatia di nessun dio che ami i serpenti», sbuffòallora Flint, ripulendosi i vestiti dalla benedizione. «Quanto a te, ragazzo,ammetto di non amare la magia com'è proprio di ogni vero nano, ma mi pare che per te sia molto meglio diventare un mago che un seguace diBelzor».

«Sono d'accordo con te, Flint», assentì Raistlin, in tono grave, ritenendoche quello non fosse il momento più adatto per ricordare al nano le suearringhe contro la magia in tutte le sue forme e manifestazioni. «Peraltro

non mi farà male parlare con questo prete e scoprire cosa comportiquest'adorazione di Belzor, che potrebbe davvero essere uno dei veri dèi

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che noi tutti stiamo cercando. Inoltre mi piacerebbe moltissimo assistere aquesti miracoli di cui parlano».

«Sì, anch'io sono interessata a Belzor», interloquì Kitiara, «e credo chestanotte andrò al tempio. Tu potresti venire con me, fratellino: basterà checambi vestiti ed è improbabile che chiunque ti possa riconoscere».

«Non mi costringerete a venire con voi, vero?» domandò Caramon, adisagio. «Non che voglia mancare di rispetto a Belzor, ma ho sentito direche le taverne di Haven sono davvero accoglienti, soprattutto nel periododella fiera, e...».

«No, fratello mio, non c'è bisogno che venga anche tu», tagliò cortoRaistlin.

«Nessuno di voi è obbligato a venire», aggiunse Kitiara. «Raist e io

siamo i soli membri di questa famiglia portati per la spiritualità».«Io invece credo che siate i membri pazzi della famiglia», dichiarò

Caramon. «Questa è la nostra prima notte ad Haven e voi volete visitare untempio... e comunque cos'era quella storia di una sacerdotessa di nomeJudith?» domandò, poi s'interruppe, sbatté le palpebre e ripeté conespressione accigliata: «Judith. Vengo anch'io», disse quindi, fissando conespressione dura il fratello e Kitiara.

«Vengo anch'io!» esclamò Tas. «Magari riuscirò a vedere di nuovo quei

serpenti, per non parlare della possibilità di comunicare con quelli chesono già passati alla vita ultraterrena. A proposito, questo cosa significa?».

«Significa che parlano con i morti», gli spiegò Raistlin.«Prima d'ora non ho mai parlato con un morto», dichiaro Tas, sgranando

gli occhi. «Pensi che mi lascerebbero parlare con lo zio Trapspringer? Nonche si sia sicuri che sia morto, bada bene, dato che al suo funerale c'è statauna certa confusione perché un minuto prima il corpo era lì e quellosuccessivo era sparito. In vecchiaia, zio Trapspringer aveva la tendenza ad

essere distratto, quindi qualcuno ha detto che forse si era dimenticato diessere morto e se n'era andato a zonzo; o magari aveva provato ad esseremorto, non gli era piaciuto ed era quindi tornato in vita, o anche è possibileche il becchino abbia perso il corpo. In ogni caso, parlargli sarebbe unmodo per accertare la verità».

«Questo taglia la testa al toro!» grugnì Flint. «Io non ho nessunaintenzione di avvicinarmi a questo tempio perché è già abbastanzaspiacevole parlare con un kender vivo per voler parlare con uno morto».

«Io andrò perché è mio dovere», dichiarò Sturm. «Se davvero stannocompiendo miracoli nel nome di Belzor è mio compito portare ai Cavalieri

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questa notizia».«Credo che verrò con voi», aggiunse Tanis, ma del resto questo era già

stato sottinteso nel momento in cui Kitiara aveva espresso l'intento diandare al tempio.

«Siete tutti pazzi», ribadì Flint, mentre il carro si andava ad unire aglialtri diretti verso il terreno della fiera.

«A quanto pare non ci potremo divertire quanto pensavamo di fare»,sussurrò Kitiara a Raistlin, scoccando un'occhiata in direzione di Tanis.

Raistlin però le prestò poca attenzione perché stava cercando dilocalizzare la Via degli Erboristi, dove secondo il Maestro Theobald sitrovava la bottega che vendeva articoli per maghi.

CAPITOLO UNDICESIMO

A quel tempo le strade di Haven non avevano un nome, anche se quellaera una delle migliorie civiche attualmente in fase di vaglio, soprattuttodopo che un coraggioso viaggiatore aveva accennato al fatto che gliabitanti di Palanthas davano un nome alle loro strade e per di piùerigevano in ciascuna strada un cartello su cui era scritto come essa sichiamava e questo per permettere al viandante confuso di orientarsi.

Sebbene i visitatori che arrivavano ad Haven avessero di rado modo diconfondersi perché se erano abbastanza alti potevano vedere il villaggio daun'estremità all'altra, l'Alto Sceriffo di Haven si era comunque convintoche quella dei cartelli per indicare le strade fosse un'idea eccellente e avevadeciso di metterla in pratica.

Molte strade di Haven avevano del resto già un nome logico che aveva ache fare con la natura delle merci vendute in ciascuna di esse, com'era nelcaso della Via del Mercato, della Via dei Mugnai o della Via delle Lame;

altri nomi avevano invece a che vedere con la natura stessa della strada inquestione, come la Via Storta o i Tre Bivi, e altre ancora prendevano ilnome dalle famiglie che vi abitavano.

La Via degli Erboristi era facile da trovare, soprattutto basandosi piùsull'odorato che sulla vista dato che il profumo del rosmarino, dellalavanda e della cannella aleggiava nell'aria e creava un piacevole contrastocon la puzza di sterco di cavallo presente lungo la strada; le bancarelle e le botteghe presenti nella Via degli Erboristi erano contrassegnate da

mazzetti di piante secche appesi a testa in giù sotto il sole, cesti di semi edi foglie secche erano disposti in modo artistico lungo la strada in modo da

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indurre i passanti in tentazione e spingerli a fare acquisti.Arrivati a quella via, Raistlin chiese a Tanis di fermare il carro.«Ci sono delle erbe che non coltivo direttamente e con cui non ho

familiarità», spiegò, «quindi mi piacerebbe rinnovare le mie provviste ediscutere del loro impiego».

Dopo avergli spiegato come trovare la bancarella di Flint sul terrenoriservato alla fiera, Tanis gli augurò di divertirsi e Raistlin balzò giù dalcarro, seguito naturalmente da Caramon; quanto a Tasslehoff si venne atrovare in preda ad un'angosciosa indecisione nel tentare di decidere seandare con Raistlin o restare con Flint, e alla fine Flint e la fiera vinserosoltanto perché nello sbirciare lungo la strada il kender non riuscì a vederealtro che piante, che per quanto interessanti non erano certo paragonabili

alle meraviglie che lo aspettavano alla fiera.Quella decisione risparmiò una discussione a Raistlin, in quanto lui non

avrebbe mai permesso al kender di accompagnarlo ed era anche incerto per quanto concerneva Caramon. Era infatti stata sua intenzione visitare ilnegozio di articoli per maghi da solo e in segreto e non aveva detto anessuno che intendeva andarvi, così come non aveva fatto parola connessuno di quello che sperava di acquistare, e adesso il suo istinto sarebbestato quello di continuare a mantenere il segreto e di ordinare a suo fratello

di andare con Flint.Capitava di rado che lui discutesse di cose dell'arcano con Caramon e

non lo faceva mai con i suoi amici, ed era dai giorni della sua gioventù,giorni che adesso ricordava con vergogna, che non vantava o dimostravaapertamente il proprio talento in quanto era perfettamente consapevole chela magia aveva l'effetto di rendere nervose certe persone, com'era del restologico dal momento che essa dava sugli altri un potere in cui lui sicrogiolava. D'altro canto, Raistlin era abbastanza saggio da rendersi conto

che un potere del genere poteva essere sminuito dal suo uso ripetuto, perché perfino la magia diventava una cosa comune se veniva utilizzataogni giorno.

L'opinione che lui aveva nei confronti della gente era mutata nel corsodegli anni, e se un tempo si era sforzato di farsi amare e ammirare quantosuo fratello adesso era invece giunto a comprendere se stesso e adaffrontare la consapevolezza che lui non avrebbe mai conquistato il tipo diconsiderazione elargito al suo gemello.

 Nella casa dell'anima di Caramon, infatti, la porta era sempre aperta, leimposte della finestra erano spalancate, il sole splendeva quotidianamente

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e chiunque era il benvenuto; all'interno di quella casa non c'erano inoltremolti arredi, e il visitatore poteva vedere in ogni angolo.

La casa dell'anima di Raistlin era invece molto diversa: la porta erasempre sbarrata e veniva aperta appena di una fessura per i visitatori, chedel resto non erano molti perché a pochissimi era concesso di varcarequella soglia, senza peraltro che venisse poi permesso loro di avanzare dimolto. Le sue finestre erano sempre chiuse e sprangate, e qua e là ardevauna candela che creava una chiazza di calore e di luce nel buio; la casa era piena di arredi e di oggetti strani e meravigliosi senza essere peròingombra o disordinata, tanto che Raistlin aveva modo di reperireall'istante ciò che gli serviva. Dal momento che non potevano individuaregli angoli della sua casa e tanto meno sbirciare in essi, non c'era quindi da

meravigliarsi se i visitatori non si fermavano a lungo e fossero riluttanti atornare.

«Dove stiamo andando?» chiese Caramon.Raistlin era sul punto di ordinargli di tornare sul carro ma all'ultimo

momento ci ripensò, e senza rispondere si avviò a passo rapido, lasciandoCaramon fermo nel centro della strada.

«È soltanto sensato che lui mi accompagni», si disse intanto. «Sono unostraniero in una città sconosciuta, non ho protezioni che sia disposto ad

usare se non nelle più pericolose circostanze, quindi ho bisogno dell'aiutodi Caramon come ne avrò in futuro: se voglio diventare un mago guerrierodovrò infatti imparare a combattere al suo fianco, quindi tanto vale che miabitui ad averlo intorno».

Quelle ultime riflessioni vennero accompagnate da un sospiro,soprattutto quando Caramon sopraggiunse di corsa con passo pesante,sollevando una grande nuvola di polvere e pretendendo di nuovo di saperedove stavano andando, che cosa stavano cercando e se avrebbero potuto

fermarsi in una taverna lungo la strada.Arrestandosi, Raistlin si girò a fronteggiare il fratello in maniera tanto

improvvisa che Caramon indietreggiò barcollando per non rovinargliaddosso.

«Ascolta bene le mie parole, Caramon, e non le dimenticare», ingiunsein tono duro e severo, ed ebbe la soddisfazione di vedere Caramon reagirecome se gli avesse assestato uno schiaffo in piena faccia. «Sto andando inun certo posto ad incontrare una certa persona per acquistare una

determinata mercanzia, e ti sto permettendo di accompagnarmi soltanto perché siamo giovani e verremo quindi considerati dei bersagli facili da

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ladri e malfattori. Sappi però, fratello mio, che quello che faccio, quelloche dico e quello che compro sono cose private e segrete, note soltanto ame stesso e a te, per cui non ne farai menzione con Tanis o con Flint o conKitiara o con Sturm o con chiunque altro; non dirai nulla di dove siamostati, di chi ho visto, di cosa ho detto o fatto. Me lo devi promettere,Caramon».

«Ma loro vorranno saperlo e mi faranno delle domande. Cosa devorispondere?» replicò Caramon, manifestamente contrariato. «Tenere deisegreti non mi piace, Raist».

«Allora il tuo posto non è accanto a me. Torna indietro!» ordinòfreddamente Raistlin, agitando una mano. «Torna indietro dai tuoi amici. Non ho bisogno di te».

«Invece ne hai, Raist, lo sai anche tu», ribatté Caramon.Raistlin non rispose subito e incontrò invece con il proprio sguardo

deciso quello del fratello, consapevole che quello era un momento dalquale dipendeva tutto il loro futuro.

«In tal caso devi fare una scelta, fratello mio. Devi votare a me la tuafedeltà oppure tornare dai tuoi amici», affermò, e nel sollevare una mano per bloccare la intempestiva risposta del fratello aggiunse: «Pensaci bene,Caramon. Se resterai con me dovrai darmi la tua più completa fiducia,

obbedirmi implicitamente, non fare domande, mantenere i miei segretimeglio di quanto tu faccia con i tuoi. Allora, cosa decidi?».

«Resto con te, Raist», rispose senza esitazione Caramon. «Tu sei il miogemello e noi apparteniamo l'uno all'altro. Era destino che fosse così».

«Può darsi», rispose Raistlin, con un amaro sorriso, pensando che sequesto era vero gli sarebbe piaciuto sapere chi avesse determinato queldestino e perché, e gli sarebbe anche piaciuto un giorno scambiare due parole con quel qualcuno. «Avanti, fratello, allora vieni con me».

Secondo il Maestro Theobald, la bottega di articoli per maghi si trovavain fondo alla Via degli Erboristi, su quello che era il lato sinistro dellastrada se ci si metteva rivolti verso nord; posta ad una certa distanza dallealtre botteghe e abitazioni, essa era isolata all'interno di un boschetto diquerce.

«La bottega si trova al pianterreno della casa», aveva detto Theobald,«mentre l'abitazione del proprietario è al piano superiore. Vederla dalla

strada è difficile perché è circondata dalle querce e da un giardino recintatoda un muro, ma all'esterno c'è un'insegna... un'asse di legno su cui è

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dipinto un occhio rosso, nero e bianco.«Personalmente non ci sono mai andato perché compro tutto ciò che mi

serve alla Torre di Wayreth», aveva aggiunto, sbuffando. «Tuttavia, sonocerto che Lemuel ha alcuni articoli che possono risultare interessanti per maghi di basso livello».

Se c'era una cosa che Raistlin aveva imparato da Theobald questa eracome e quando tenere a freno la lingua, quindi aveva soffocato le parolecaustiche con cui avrebbe risposto un tempo e aveva ringraziato concortesia il maestro, cosa che gli aveva fruttato come ricompensaun'ulteriore informazione che sarebbe potuta risultare di inestimabilevalore.

«Ho sentito dire che Lemuel è interessato all'uso delle erbe, proprio

come te», aveva aggiunto Theobald. «Voi due dovreste andare moltod'accordo».

Sulla scia di quell'informazione, Raistlin aveva portato con sé un paio dirare specie di piante che aveva scoperte, estratte dal terreno e portate acasa, con il risultato che adesso dal loro trapianto erano nate altre piantineche poteva regalare. La sua speranza era di riuscire in questo modo adaccattivarsi la simpatia di Lemuel e di persuaderlo eventualmente adabbassare il prezzo dei libri che gli interessavano qualora esso fosse

risultato eccessivo per i suoi mezzi.I due gemelli percorsero tutta la Via degli Erboristi, con Caramon che

 prendeva i suoi nuovi doveri e le sue responsabilità in modo tanto serioche per poco non inciampava nei piedi del fratello al fine di proteggerlo e prese a fissare con occhi roventi chiunque mostrasse un interesse più chesuperficiale nei loro confronti, oltre a far tintinnare di continuo la spada.

Raistlin sospirò nell'accorgersi di quel comportamento, in merito alquale sapeva di non poter fare nulla perché protestare con suo fratello e

incitarlo a rilassarsi e a non dar tanto nell'occhio sarebbe servito soltanto aconfondergli le idee. Prima o poi Caramon si sarebbe calato nel modogiusto nel suo ruolo di guardia del corpo, ma la cosa avrebbe richiesto deltempo, e nel frattempo a Raistlin non restava che essere paziente esopportare.

Per fortuna lungo la strada non c'erano molte persone che li potesseronotare perché gli erboristi erano impegnati a montare i loro banchi allafiera. Arrivati in fondo alla via i due la trovarono deserta e senza nessuno

in vista, e una volta là Raistlin non ebbe difficoltà a individuare la bottegadi articoli per maghi in quanto era la sola costruzione presente sul lato

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sinistro della strada, nascosta alla vista da alcune querce e circondata da ungiardino cinto da un alto muro di pietra. Mancava però l'insegnadell'occhio a tre colori appesa sopra l'ingresso e la porta era chiusa, lefinestre sprangate; di conseguenza Raistlin temette che la casa fosseabbandonata finché non sbirciò oltre il muro e vide che il giardino era bencurato.

«Sei certo che il posto sia questo?» domandò Caramon.«Sì, fratello mio. Forse l'insegna è stata strappata via da una tempesta».«Se lo dici tu», borbottò Caramon, che aveva la mano sull'elsa della

spada. «Però lascia che sia io a bussare alla porta».«Neppure per idea!» esclamò Raistlin, allarmato. «Vedere un uomo

grande e grosso come te che si acciglia e agita la spada sarebbe sufficiente

a terrorizzare qualsiasi mago, e tu potresti trovarti trasformato in un rospoo in qualcosa di peggio. Aspetta qui sulla strada finché non ti chiamerò enon temere: non c'è nulla che non vada», aggiunse, con maggiore sicurezzadi quanta ne provasse.

Caramon accennò a protestare ma poi ricordò la promessa che avevafatto e rimase in silenzio, anche se forse la minaccia di una possibiletrasformazione in rospo ebbe qualcosa a che vedere con la sua rapidaacquiescenza.

«Certamente, Raist», assentì, «però cerca di stare attento perché non mifido di questi maghi».

Raistlin si avvicinò alla porta con il corpo che vibrava di anticipazione edi timore, di eccitazione all'idea di poter ottenere ciò che gli serviva e di paura dovuta al pensiero che poteva aver fatto tutta quella strada soltanto per scoprire che il mago se n'era andato. Il suo stato di eccitazione nervosaera tale che quando infine arrivò alla porta le forze gli vennero meno e nonriuscì neppure a sollevare la mano tremante per bussare; quando infine ce

la fece, il colpo che ne risultò fu tanto debole da costringerlo a bussareancora.

 Nessuno venne però ad aprire e nessuna faccia curiosa fece capolino dauna finestra.

Poco mancò che Raistlin cedesse alla disperazione, perché le suesperanze e i suoi sogni di successo futuro erano tutti basati su questonegozio e lui non avrebbe mai immaginato che potesse essere chiuso, unadelusione che non riteneva di poter sopportare dopo aver guardato per 

tanto tempo con anticipazione all'acquisizione dei libri che gli servivano,aver fatto tanta strada ed essere giunto tanto vicino alla meta. Bussò quindi

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di nuovo, questa volta con forza molto maggiore, e lanciò anche unrichiamo.

«Maestro Lemuel! Sei in casa, signore? Vengo da parte del MaestroTheobald di Solace. Sono un suo allievo, e...».

Una piccola finestra inserita nella porta si aprì e in essa apparve unocchio pieno di timore che fissò Raistlin.

«Non m'importa di chi sei allievo!» ribatté una voce sottile che giungevaattraverso la piccola apertura. «Cosa credi di fare, gridando il fatto che seiun mago con quanto fiato hai in gola? Vattene!».

La finestrella si richiuse di scatto ma Raistlin bussò di nuovo, con forzaancora maggiore.

«Lui mi ha consigliato la tua bottega», disse ad alta voce. «Sono venuto

 per acquistare...».La finestrella si riaprì e l'occhio riapparve.«La bottega è chiusa», disse la voce, poi l'apertura venne di nuovo

sprangata.«Ho con me un'insolita varietà di pianta», insistette Raistlin, ricorrendo

alla sua carta migliore. «Ho pensato che forse tu non la conoscessi. Sitratta della brionia nera...».

La finestrella si spalancò ancora e questa volta l'occhio si mostrò più

interessato.«La brionia nera, hai detto? Ne hai un campione?».«Sì, signore», rispose Raistlin, infilando con cautela una mano nella sua

sacca ed estraendo con delicatezza un fagotto di foglie, steli e frutti a cuierano ancora attaccate le radici. «Forse t'interessa...».

La finestrella si richiuse, ma questa volta Raistlin sentì il rumore di uncatenaccio che veniva tirato indietro e un momento più tardi la porta siaprì, rivelando un uomo che indossava una sbiadita veste rossa sporca di

terra sulle ginocchia a causa della sua abitudine di inginocchiarsi ingiardino. L'uomo doveva essersi alzato in punta di piedi per sbirciareattraverso la piccola apertura nella porta perché era basso quasi quanto unnano, con un fisico compatto e rotondo e una faccia che un tempo dovevaessere stata allegra e rossa come il sole estivo ma che adesso apparivacome un sole in fase di eclissi perché gli occhi erano ombrati dal timore ela fronte solcata da rughe di preoccupazione. L'ometto sbirciò con ansia indirezione della strada e nel vedere Caramon sgranò gli occhi per la paura,

arrivando quasi a richiudere la porta; Raistlin però fu lesto a insinuare un piede nell'apertura e ad afferrare la maniglia per bloccarla.

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«Signore, ti posso presentare mio fratello?» disse intanto. «Caramon,vieni qui».

Obbediente, Caramon si avvicinò a testa bassa e sfoggiando un sorrisoimbarazzato.

«Sei certo che sia quello che dice di essere?» domandò intanto il mago,scrutando Caramon con intenso sospetto.

«Sì, sono certo che è mio fratello», replicò Raistlin, chiedendosi con unsenso di disagio se stava avendo a che fare con un folle. «Se ci guardi conattenzione noterai la somiglianza, perché siamo gemelli».

Cercando di rendersi utile, Caramon si sforzò di apparire il più possibilesimile al fratello e dal canto suo Raistlin tentò di sfoggiare un sorrisoaperto e onesto come quello di Caramon, mentre Lemuel li osservava con

attenzione per parecchi momenti durante i quali Raistlin temette di andarein pezzi per la tensione che gli derivava da questo strano colloquio.

«Suppongo che sia come dite», affermò infine il mago, senza appariretroppo convinto. «Vi ha seguiti qualcuno lungo la strada?».

«No, signore», rispose Raistlin. «Chi avrebbe potuto seguirci, dato chela maggior parte della gente è alla fiera?»

«Loro sono dappertutto, sai» dichiarò Lemuel, cupo, scrutando ancora lastrada a destra e a sinistra. «Comunque credo che tu abbia ragione, però a

tuo fratello seccherebbe molto andare a controllare che non ci sia nessunonascosto nell'ombra di quell'edificio laggiù?».

Caramon si mostrò notevolmente stupito, ma ad un cenno impaziente delsuo gemello fece come gli era stato detto, tornando indietro lungo la stradafino ad una baracca semidiroccata ed esaminando non soltanto la zona inombra ma anche l'interno. Quando ebbe finito tornò sulla strada, sollevò lemani e scrollò le spalle per indicare che non aveva trovato nulla.

«Ecco, signore, hai visto?» chiese Raistlin, segnalando al fratello di

tornare indietro. «Siamo soli. La brionia nera è molto bella, ed io l'ho usatacon successo per guarire cicatrici e chiudere ferite», aggiunse, protendendola piantina che aveva in mano.

«Sì, ho letto qualcosa al riguardo ma non avevo mai visto la pianta insé», replicò Lemuel fissando l'esemplare con interesse. «Dove l'haitrovata?»..

«Se potessi entrare...».Lemuel scrutò Raistlin con occhi socchiusi, contemplò con desiderio la

 pianta che aveva in mano e alla fine prese una decisione.«D'accordo, però ti suggerisco di piazzare tuo fratello all'esterno perché

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faccia la guardia. Non si è mai abbastanza cauti».«Certamente», assentì con sollievo Raistlin.Il mago allora lo trasse dentro e chiuse la porta così in fretta da bloccare

fra il battente e lo stipite un bordo della veste del giovane, con il risultatoche fu costretto a riaprire per liberarla.

Dopo che il suo gemello fu entrato, Caramon gironzolò nei dintorni per qualche momento, grattandosi la testa e cercando di decidere cosa fare;alla fine trovò da sedersi sopra uno sgretolato muretto di pietra e si disposea montare la guardia, chiedendosi cosa ci si aspettava che vedesse e cosaavrebbe dovuto fare qualora lo avesse visto.

L'interno della bottega del mago era buio perché le imposte chiuseescludevano completamente la luce del sole, quindi Lemuel accese una

candela per sé ed una per Raistlin che vide allora con sgomento come tuttofosse in disordine, con una serie di casse e di botti piene a metà sparse ingiro e gli scaffali spogli perché gran parte delle merci era già stataimballata.

«Un incantesimo per produrre luce costerebbe meno e sarebbe piùefficace delle candele», osservò intanto Lemuel, «ma il tormento a cui loromi hanno sottoposto mi ha talmente sconvolto che da un mese non riesco più a praticare la magia... non che prima fossi un mago particolarmente

abile, del resto», aggiunse con un sospiro.«Chiedo scusa, signore, ma chi ti sta tormentando?» domandò infine

Raistlin.«Belzor», rispose il mago a bassa voce, guardandosi intorno nella stanza

in ombra come se pensasse che il dio potesse balzargli addosso da soprauna credenza.

«Ah», commentò Raistlin.«Conosci Belzor, vero?».

«Al mio ingresso in città ho incontrato uno dei suoi preti, che mi haavvisato che la magia è una cosa malvagia e mi ha incitato a recarmi al suotempio».

«Non farlo!» gridò Lemuel, rabbrividendo. «Non ti avvicinare a quel posto. Sai dei serpenti?».

«Ho visto che i preti portavano con loro delle vipere», annuì Raistlin,«ma ho supposto che fossero stati loro estirpati i denti».

«Niente affatto!» ribatté Lemuel, rabbrividendo. «Quei serpenti sono

velenosi e letali. I preti li catturano sulle Pianure della Polvere, ed essere ingrado di tenerne uno in mano senza essere morso è considerata una prova

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di fede».«Cosa succede a quanti mancano di fede?».«Cosa pensi che succeda? Vengono puniti, me lo ha detto un amico che

è stato presente ad uno dei loro raduni. Ho tentato di andarci anch'io, mahanno rifiutato di lasciarmi entrare, dicendo che avrei contaminato lasantità del loro tempio, e adesso sono lieto di questo perché quel giornostesso uno dei serpenti ha morso una giovane donna che è morta nell'arcodi pochi secondi».

«Cos'hanno fatto i preti?» chiese Raistlin, sconvolto.«Nulla. La Somma Sacerdotessa ha detto che era la volontà di Belzor»,

rispose Lemuel, tremando a tal punto da far oscillare la fiamma dellacandela. «Adesso sai perché ho chiesto a tuo fratello di montare la guardia:

sono tormentato dal terrore di svegliarmi una mattina trovando una diquelle vipere nel mio letto, ma del resto non vivrò ancora a lungo neltimore perché loro hanno vinto: ho deciso di arrendermi e come vedi misto trasferendo», aggiunse accennando alle casse, poi accostòmaggiormente la candela alla pianta e concluse: «Adesso posso esaminaremeglio la brionia nera?».

«Cosa ti hanno fatto?» chiese Raistlin, nel consegnargli la pianta, poidovette ripetere la domanda più volte e arrivare a dare al mago una leggera

spinta prima di indurlo a staccare la propria attenzione dall'esame della pianta.

«La Somma Sacerdotessa in persona è venuta da me e mi ha ingiunto dichiudere la bottega se non volevo affrontare le ire di Belzor. All'inizio horifiutato, ma poi i preti sono diventati insistenti e sgradevoli, piazzandosidavanti alla bottega e mettendosi a gridare che io ero uno strumento delmale ogni volta che si avvicinava un cliente. Io, uno strumento del male?»sospirò. «Riesci a immaginarlo? Però i preti hanno spaventato la gente che

ha smesso di venire da me... e una notte ho trovato una pelle di serpenteappesa alla porta. È stato allora che ho deciso di chiudere la bottega e ditrasferirmi altrove».

«Chiedo scusa se sembro mancarti di rispetto, signore, ma se li temi perché hai cercato di andare al loro tempio?».

«Ho pensato che forse li potevo placare, che potevo fingere diadeguarmi in modo da impedire che mi perseguitassero, ma non hafunzionato», spiegò Lemuel, scuotendo tristemente il capo. «Trasferirmi

non sarà poi una cosa tanto brutta, anche perché la bottega di articoli per maghi di per sé non ha mai fruttato molto denaro. Quello di cui sentirò la

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mancanza sono le mie erbe e le mie piante: le sto togliendo dal terrenonella speranza di trapiantarle ma temo che ne perderò la maggior parte».

«La bottega non aveva successo?» domandò Raistlin, lanciandoun'occhiata malinconica e interessata agli scaffali vuoti.

«Forse ne avrebbe avuto se avessi vissuto in una città come Palanthas»,replicò Lemuel, scrollando le spalle. «La maggior parte delle cose chevendevo facevano parte della collezione di mio padre che era un magonotevole, un arcimago. Lui voleva che seguissi le sue orme, ma le suescarpe erano troppo grandi per me e non potevo sperare di adattarmici perché non ero semplicemente tagliato per fare il mago. Io volevodiventare un contadino, perché ho un'abilità meravigliosa con le piante, mamio padre non ne ha voluto sapere e ha insistito perché studiassi la magia,

e anche se non ero granché ha continuato a sperare che sarei miglioratocon il tempo.

«Quando infine sono diventato abbastanza grande da sottopormi allaProva il Conclave non mi ha però ammesso ad essa e Par-Salian ha detto amio padre che darmi il permesso di affrontarla sarebbe stato un attoequivalente all'omicidio. Lui ne è rimasto terribilmente deluso e se n'èandato di casa quel giorno stesso, quasi vent'anni fa, senza più fareritorno».

Raistlin non stava quasi ascoltando le chiacchiere del mago perché eraimpegnato ad affrontare l'amara constatazione che il suo viaggio era statovano.

«Mi dispiace», disse, più per se stesso che per il mago.«Non devi dispiacerti», rispose però Lemuel, in tono allegro. «Se devo

essere sincero, la partenza di mio padre è stata un sollievo: il giorno stessoin cui lui se n'è andato ho arato il cortile e piantato il mio giardino... a proposito, dobbiamo mettere immediatamente questa pianta nell'acqua!».

Con quelle parole Lemuel si diresse verso la cucina, che si trovava sulretro del negozio, spegnendo al tempo stesso la candela perché là leimposte erano aperte e lasciavano entrare la luce del sole.

«Che genere di mago era tuo padre?» domandò Raistlin, soffiando per spegnere la propria candela.

«Un mago guerriero», rispose Lemuel, prendendosi cura con tenerezzadella brionia nera. «Questo è davvero un bell'esemplare. Hai detto diaverlo coltivato tu? Che genere di fertilizzante usi?».

Raistlin rispose distrattamente, guardando oltre la finestra il giardino diLemuel che era davvero splendido anche se adesso era in parte dissodato.

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In qualsiasi altro momento sarebbe stato interessato alle erbe del mago, maattualmente riusciva a vedere soltanto un'indistinta chiazza verde.

Un mago guerriero...Un'idea cominciò a prendere forma nella sua mente, e anche se fu

costretto a discutere di erbe per qualche altro momento alla fine riuscì ariportare la conversazione sull'arcimago.

«Era considerato uno dei migliori», dichiarò Lemuel, che eramanifestamente orgoglioso di suo padre e non pareva nutrire nei suoiconfronti rancori o risentimenti, tanto che nel parlare di lui s'illuminava involto. «Una volta gli elfi di Silvanesti gli hanno chiesto di andare adaiutarli a combattere contro i minotauri: dal momento che quegli elfi sonoaltezzosi e non vogliono aver a che fare con gli umani, mio padre ha detto

che quello era un grande onore e ne è stato immensamente soddisfatto».«Quando è partito, tuo padre ha preso con sé i suoi libri d'incantesimi?»

chiese con esitazione Raistlin, non osando sperare.«Sono certo che ne ha presi alcuni, quelli più potenti, ma ha

abbandonato gli altri. La mia supposizione è che si sia trasferito nellaTorre di Wayreth, dove non avrà certo avuto bisogno dei librid'incantesimi più elementari. Che genere di terriccio consigli?».

«Leggermente sabbioso. Li hai ancora? Intendo i libri... mi

interesserebbe vederli».«Benedetto Gilean! Certo, sono ancora qui, ma non ho idea di quanti

siano o di quanto siano importanti, perché la maggior parte dei maghi concui faccio, o forse dovrei dire  facevo, affari non è molto interessata allamagia di guerra.

«Gli elfi vengono qui spesso, negli ultimi tempi soprattutto quelli diQualinesti, perché a volte hanno bisogno di quella che definiscono "magiaumana" e a volte delle mie erbe... non lo avresti mai supposto, vero,

considerato che gli elfi sono loro stessi tanto abili con le piante. Eppure midicono che io ho parecchie specie che loro non riescono a coltivare, e c'eraun giovane che era solito dire che io dovevo avere da qualche parte nellevene del sangue elfico. È un mago anche lui, quindi forse lo conosci. Sichiama Gilthanas».

«Non lo conosco, signore, mi dispiace», replicò Raistlin.«Lo supponevo. Naturalmente io non ho sangue elfico nelle vene perché

mia madre era figlia di un fattore ed è nata e cresciuta ad Haven. Ha avuto

la sfortuna di essere estremamente bella, cosa che ha attratto l'attenzione dimio padre, altrimenti sono certo che sarei diventato il figlio di qualche

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onesto contadino. Lei non era molto felice con mio padre, diceva di viverenel terrore che finisse per incendiare la casa. Hai detto che usi la brionianera per cicatrizzare le ferite? Quale parte usi, il succo delle bacche oppuretriti le foglie?».

«Riguardo a quei libri...» azzardò Raistlin, dopo aver soddisfatto Lemuel per quanto concerneva le cure da prestare alla brionia, come innaffiarla ecome utilizzarla.

«Oh, sì, sono nella biblioteca, su per le scale e lungo il corridoio,seconda porta a sinistra. Fa' come se fossi a casa tua, mentre vado adinvasare questa pianta. Supponi che tuo fratello gradirebbe mangiarequalcosa mentre monta la guardia?».

Raistlin si affrettò su per le scale, fingendo di non sentire Lemuel che lo

chiamava per sapere se la brionia nera preferiva la luce diretta del soleoppure un'ombra parziale, e puntò dritto verso la biblioteca, attirato dalcanto sussurrato della magia, una melodia affascinante e provocatoria. La porta risultò chiusa ma non a chiave, e si aprì sui cardini stridenti quandolui abbassò la maniglia.

La stanza puzzava di chiuso e di muffa, segno evidente che non era piùstata arieggiata da anni, sterco secco di topo scricchiolò sotto gli stivali diRaistlin e al suo ingresso sagome scure si precipitarono verso gli angoli

 più nascosti, inducendolo a chiedersi cosa trovassero i topi da mangiare inquella stanza e ad augurarsi che non si trattasse dei libri.

La biblioteca risultò essere un ambiente piccolo arredato con unascrivania, scaffali di libri e una serie di contenitori per pergamene. Nelconstatare che questi ultimi erano vuoti, Raistlin rimase deluso ma nonsorpreso: gli incantesimi scritti sulle pergamene potevano essere letti adalta voce da coloro che conoscevano il linguaggio della magia e nonrichiedevano né l'abilità né il livello di energie necessari per produrre un

incantesimo "all'impronta", come si usava dire fra i maghi. Perfino unnovizio avrebbe potuto usare un incantesimo su pergamena scritto da unarcimago, a patto che avesse saputo pronunciare correttamente le parole,quindi le pergamene erano molto preziose e da sorvegliare attentamente, e potevano essere vendute ad altri maghi se il possessore non ne aveva più bisogno. Era inevitabile perciò che l'arcimago le avesse portate con sé...abbandonando però molti dei suoi libri.

Alcuni di quei volumi giacevano per terra sparsi e rovesciati, come se

fossero stati esaminati e poi scartati, ed era possibile vedere sugli scaffali ivuoti rimasti dove l'arcimago aveva prelevato qualche volume prezioso,

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lasciando gli altri a marcire nella biblioteca.I libri rimasti, che avevano adesso la copertina bianca tinta di un grigio

sporco e le pagine ingiallite dal tempo, erano stati ritenuti privi di valoredal loro precedente proprietario ma agli occhi di Raistlin essi scintillavano più di qualsiasi tesoro ammucchiato da un drago. Sopraffattodall'eccitazione, lui sentì il cuore che prendeva a martellargli nel petto cosìin fretta da farlo sentire stordito e prossimo a svenire.

Quell'improvvisa debolezza lo spaventò e lo indusse a sedersi su unasedia traballante, traendo parecchi profondi respiri, una cura che per poconon gli diede il colpo di grazia perché l'aria densa di polvere lo fece tossireviolentemente e trascorsero alcuni momenti prima che gli riuscisse diriprendere fiato.

 Notando un libro che giaceva praticamente ai suoi piedi, si chino e loraccolse, aprendolo.

La scrittura dell'arcimago era compatta, con angoli aspri e sporgenti, lanetta inclinazione verso sinistra delle lettere indicava che quell'uomo eraun solitario che preferiva la propria compagnia a quella degli altri. Conuna certa delusione, Raistlin scoprì che quel volume non era in fin deiconti un libro d'incantesimi, dato che era scritto nella lingua comune mistaa qualcosa che lui ritenne essere la lingua dei mercenari, un insieme usato

dai soldati di professione. Poi lesse la prima pagina e la sua delusione sidissolse.

Il libro forniva istruzioni dettagliate su come usare incantesimi magici suarmi normali, come spade e asce da battaglia, ed era quindi di immensovalore, almeno per lui. Posatolo da un lato, Raistlin ne prese un altro,questa volta un testo d'incantesimi che dovevano probabilmente esseremolto elementari dato che il volume non aveva blocchi magici cheimpedissero di aprirlo o proibizioni scritte sul frontespizio: constatando

che gli riusciva di decifrare soltanto poche parole e che la maggior partedelle altre gli era ignota, lui si rese conto di quanto ancora avesse daimparare e contemplò il volume con amarezza e frustrazione. Esso erastato accantonato e abbandonato dal grande arcimago, che avevaconsiderato insignificanti gli incantesimi che vi erano annotati, e tuttavialui non riusciva neppure a decifrarli!

«Mi sto comportando da stupido», si rimproverò quindi. «Quando avevala mia età quell'arcimago era probabilmente ignorante quanto me. Un

giorno sarò io a leggere questo libro, io ad accantonarlo».Posò quindi il libro sopra quello esaminato in precedenza e andò avanti

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con le proprie indagini, che lo assorbirono a tal punto da fargli perdere deltutto la nozione del tempo. Quando infine si rese conto che dovevaaccostare i libri al naso per riuscire a leggerli si accorse che era ormai ilcrepuscolo, e mentre stava per andare in cerca di candele Lemuel bussòalla porta.

«Cosa vuoi?» domandò Raistlin, in tono irritato.«Scusami se ti disturbo», rispose in tono mite Lemuel, facendo capolino

oltre la soglia, «ma tuo fratello dice che presto farà buio e che dovresteandarvene».

«Signore, ti prego, perdona la mia scortesia! Ero così interessato, questilibri sono così affascinanti, che ho dimenticato di non essere a casa mia».

«Non importa, non ci badare», lo interruppe Lemuel, con un cortese

sorriso. «Sembravi proprio mio padre e mi hai fatto tornare indietro neltempo, tanto che per un momento mi sono sentito di nuovo un ragazzo.Hai trovato qualcosa di utile?».

Raistlin accennò a tre grosse pile di libri che stavano crescendo didimensioni accanto alla sedia.

«Tutti questi. Lo sapevi che qui c'è un resoconto della battagliacombattuta a Silvanesti contro i minotauri, con una descrizione di comeusare con efficacia gli incantesimi da battaglia senza mettere in pericolo le

 proprie truppe? Questi sono tre libri d'incantesimi e devo ancora esaminaregli altri. Ti proporrei di vendermeli tutti, ma so di non avere il denaronecessario», aggiunse, contemplando con tristezza il mucchio echiedendosi con disperazione come sarebbe mai riuscito a risparmiaretanto denaro.

«Oh, prendili e non ci pensare più», disse però Lemuel, abbracciando lastanza con un gesto noncurante.

«Cosa? Davvero, signore? Parli sul serio?» esclamò Raistlin,

aggrappandosi allo schienale della sedia per sorreggersi, poi si riprese eaggiunse: «No, signore, questo sarebbe troppo, non potrei mai ripagarti».

«Sciocchezze! Se non li prendi tu li dovrò trasferire e sto rimanendo acorto di casse», replicò Lemuel, che parlava con estrema disinvolturadell'abbandonare quella casa ma che si guardava tristemente intorno nelmomento stesso in cui cercava di scherzare sulla cosa. «E dopo finirannoin soffitta ad essere divorati dai topi, mentre io preferirei che venisseroutilizzati al meglio e so che la cosa farebbe piacere a mio padre. Tu sei il

figlio che lui desiderava».Raistlin sentì le lacrime che gli salivano agli occhi: la stanchezza di tre

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giorni di viaggio, che includevano non soltanto il tempo trascorso sullastrada ma anche quello passato a scalare montagne di speranza per poisprofondare in vallate di delusione, lo avevano lasciato debole, e adesso lagentilezza e la generosità di Lemuel lo aveva completamente disarmato.Incapace di trovare le parole necessarie per ringraziarlo, rimase immerso inun umile e gioioso silenzio, sbattendo le palpebre per ricacciare indietro lelacrime che gli facevano bruciare gli occhi e gli serravano la gola.

«Raist?» chiamò la voce ansiosa di Caramon, fluttuando su per le scale.«Comincia a fare buio ed io muoio di fame. Stai bene?».

«Ti servirà un carro per portare a casa tutta questa roba», osservò intantoLemuel.

«Ho... i miei amici... carro... alla fiera...» balbettò Raistlin, che pareva

incapace di mettere insieme una frase coerente.«Splendido. Allora vieni qui quando la fiera sarà finita e ti farò trovare i

libri impacchettati e pronti al trasporto».Tirata fuori la propria borsa del denaro, Raistlin la mise fra le mani del

mago.«Per favore, accettala. Non è molto e non comincia neppure a saldare il

debito che ho contratto con te, ma vorrei che la prendessi lo stesso».«Davvero? Allora l'accetterò anche se non è necessario», sorrise

Lemuel. «Ricordo però che una volta mio padre mi ha detto che gli oggettimagici dovevano sempre essere acquistati, mai regalati, perché lo scambiodi denaro spezza qualsiasi appiglio che il precedente proprietario possaavere su di essi e li lascia liberi di essere usati dal nuovo padrone».

«Se per caso dovessi mai venire a Solace», replicò Raistlin, lanciandoun'altra occhiata piena di desiderio alla biblioteca mentre Samuel nechiudeva la porta, «ti darò talee e sementi di ogni pianta che ho nel miogiardino».

«Se sono eccellenti quanto la brionia nera, allora questo sarà un pagamento più che sufficiente», replicò Lemuel, con assoluta serietà.

CAPITOLO DODICESIMO

Quando infine i due fratelli raggiunsero l'area della fiera, situata a circaun chilometro e mezzo dalla palizzata che circondava la città, era ormaiscesa la notte e loro non ebbero difficoltà ad orientarsi perché fuochi da

campo numerosi come lucciole indicavano l'accampamento dei diversivenditori; anche se nessuna delle bancarelle avrebbe aperto fino

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all'indomani l'area pullulava di gente, perché i venditori continuavano adarrivare e scambiavano saluti con gli amici o battibeccavano allegramentecon i concorrenti mentre scaricavano le loro merci.

Molte delle costruzioni esistenti erano permanenti perché erano stateerette da quei venditori che frequentavano spesso la fiera e venivanochiuse con delle assi durante il resto dell'anno; la bancarella di Flint erauna di queste, un piccolo banco di vendita con un tetto che lo proteggeva e porte su cardini che si potevano spalancare in modo da permettere aiclienti di vedere con comodo le merci esposte in bella vista sul banco esugli scaffali; una piccola stanza sul retro serviva come alloggio in cuidormire.

Flint aveva una posizione ideale, circa a metà dell'intera ampiezza della

fiera e vicino alla tenda a colori vivaci di un fabbricante di flauti elfico;all'inizio, lui si lamentò peraltro abbondantemente della continua musica diflauto che scaturiva dalla tenda, ma dopo che Tanis gli ebbe fatto osservareche la musica serviva ad attirare i clienti nella loro direzione, lui dovettetenere per sé i propri borbottii, e ogni volta che Tanis lo sorprendeva a battere il piede a terra a tempo con la musica, si ostinava a sostenere che lacircolazione gli si era fermata e stava soltanto tentando di riattivarla.

Alla fiera c'erano circa quaranta o cinquanta venditori, oltre a svariate

forme d'intrattenimento che andavano dalle tende in cui si mesceva la birraai venditori di cibo, dagli orsi che danzavano ai giochi d'azzardo studiati per separare i creduloni dalle loro monete, dagli acrobati checamminavano sul filo ai giocolieri e ai menestrelli.

All'interno della fiera i mercanti che erano arrivati per primi avevano giàscaricato le loro merci e disposto i banchi, e adesso erano pronti per l'indomani; prendendosela comoda, riposavano quindi accanto ai lorofuochi, mangiando e bevendo oppure facendo un giro della fiera per vedere

chi c'era e chi non c'era, e scambiandosi pettegolezzi e fiasche di vino.Tanis aveva spiegato ai gemelli come trovare il banco di Flint, e qualche

ulteriore domanda posta ad altri venditori fu sufficiente a permettere ai duedi giungervi senza problemi; al loro arrivo trovarono Kitiara checamminava avanti e indietro davanti al banco, che era chiuso per la nottecon le porte sprangate e munite di lucchetto.

«Dove siete stati?» chiese subito Kitiara, in tono irritato, con le mani suifianchi. «Sono ore che vi aspettiamo! Avete ancora intenzione di andare al

tempio, suppongo, quindi si può sapere cosa avete fatto finora?».«Eravamo...» cominciò Caramon.

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Raistlin gli assestò una gomitata alla base della schiena.«Uh... abbiamo fatto un giro per la città», concluse Caramon, con un

rossore colpevole che lo avrebbe tradito se Kitiara non fosse stata troppoassorta per accorgersene.

«Non ci siamo resi conto di quanto fosse tardi», aggiunse intantoRaistlin, in tutta sincerità.

«Adesso siete qui ed è questo quello che importa», tagliò corto Kit.«Nella tenda c'è un cambio di vestiti per te, fratellino, quindi spicciati atoglierti quella veste».

Raistlin trovò una camicia e un paio di pantaloni di cuoio cheappartenevano a Tanis, entrambi troppo larghi per il suo fisico snello maaccettabili in un'emergenza, anche se dovette assicurarsi i pantaloni intorno

alla vita con la cintura di corda della sua veste per evitare che gliscivolassero intorno alle ginocchia; legati dietro la nuca i lunghi capelli, linascose sotto un cappello floscio che apparteneva a Flint e infine emersedalla tenda, e venne accolto dalle risa divertite di Caramon e di Kitiara.

Abituato com'era alla libertà di movimento data dalla veste, i calzoni gliirritavano le gambe, mentre le maniche della camicia continuavano ascivolargli in avanti sulle braccia sottili e il cappello tendeva a scenderglisugli occhi: nel complesso, era soddisfatto del suo travestimento e

dubitava che perfino la Vedova Judith lo avrebbe riconosciuto.«Avanti, muovetevi», ingiunse quindi Kitiara, avviandosi verso la città.

«Siamo già in ritardo».«Ma io non ho ancora mangiato!» protestò Caramon.«Non c'è tempo, e comunque è meglio che ti abitui a saltare qualche

 pasto se vuoi diventare un soldato... o forse credi che gli eserciti posino learmi per impugnare la padella?».

Caramon inorridì. Aveva sempre saputo che la vita del soldato era

 pericolosa e quella del mercenario difficile, ma non avrebbe maiimmaginato che potessero non dargli da mangiare e d'un tratto la carriera acui stava guardando con desiderio da quando aveva sei anni perse moltodella sua attrattiva. Fermandosi accanto ad un pozzo, lui bevve quindi duetazze d'acqua nella speranza di calmare così i borbottii dello stomaco.

«Non mi biasimate se questi rombi spaventeranno i serpenti», commentòsottovoce con Raistlin.

«Dove sono Tanis, Flint e gli altri?» chiese Raistlin alla sorella, mentre

tornavano verso Haven.«Flint è andato allo Gnomo Scervellato, la sua birreria preferita, mentre

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Sturm ci ha preceduti al tempio perché non sapeva se voi due ci avresteonorati o meno della vostra presenza; quanto al kender è svanito, e io dicoche è meglio così», replicò Kit, come al solito senza fare mistero del fattoche considerava Tasslehoff soltanto una seccatura. «Grazie al kender sonoriuscita a liberarmi anche di Tanis, che credo sia meglio non ciaccompagni».

Caramon lanciò un'occhiata contrariata al fratello, che si accigliò escosse il capo.

«Cosa intendi dicendo che ti sei liberata di Tanis?» insistette peròCaramon, troppo turbato per accettare quel sottile avvertimento. «Comehai fatto?».

«Gli ho detto che un messaggero ci aveva avvertiti che Tasslehoff era

stato messo in prigione», spiegò Kitiara, scrollando le spalle. «Tanis ha promesso alle guardie cittadine di addossarsi la responsabilità del kender,quindi ha dovuto suo malgrado andare a vedere di cosa si trattava».

«Ecco laggiù il tempio... è dove brilla quella luce intensa», intervenneRaistlin, indicando, nella speranza che suo fratello cogliesse ilsuggerimento e lasciasse cadere l'argomento. «È meglio svoltare in questastrada», aggiunse, accennando alla Via degli Stallieri.

«Tas è in prigione?» persistette Caramon.

«Se non c'è ancora ci sarà presto» rispose Kitiara, con un sorrisoammiccante. «Non ho propriamente detto una bugia».

«Credevo che Tanis ti piacesse», affermò Caramon, a bassa voce.«Oh, Caramon, deciditi a crescere!» esclamò Kit, esasperata. «È ovvio

che mi piace, mi piace più di qualsiasi altro uomo abbia mai conosciuto,ma questo non vuol dire che voglia averlo intorno ogni minuto di ogni oradi ogni giorno! Inoltre devi ammettere che Tanis tende ad essere unguastafeste. Per esempio, quella volta in cui ho catturato un orchetto vivo

avevo deciso di divertirmi un po' a sue spese, ma Tanis ha detto...».«Credo che siamo arrivati al tempio», la interruppe Raistlin.Il tempio di Belzor era una grande e imponente costruzione realizzata

con il granito estratto dai vicini Monti Kharolis e trascinato fino ad Havensu slitte trainate da buoi, ma essendo stato eretto in fretta non possedeva négrazia né bellezza e si riduceva ad una struttura squadrata, bassa e tozza,sovrastata da una rozza cupola. In esso non c'erano finestre e degli intaglieseguiti con scarsa abilità, raffiguranti delle vipere, adornavano le pareti di

granito. Evidentemente l'edificio era studiato per uno scopo prettamentefunzionale, e cioè per ospitare i preti e le sacerdotesse che servivano

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Belzor e per tenere delle cerimonie in onore del loro dio.Circa venti preti erano schierati in doppia fila fuori delle porte del

tempio, in modo da incanalare i fedeli e i curiosi verso la porta aperta; i preti tenevano in mano una torcia fiammeggiante e si mostravano cordialie sorridenti, invitando tutti a venire ad assistere al miracolo di Belzor. Suilati della soglia erano stati posti sei grandi bracieri di ferro battuto, con legambe a forma di serpenti intrecciati, e da essi si levavano alte fiamme chescagliavano scintille nel cielo notturno e riempivano l'aria di un fumodall'odore soffocante.

 Nell'avvertirlo Kitiara arricciò il naso e Caramon tossì, assalito dallasensazione che esso gli serrasse la gola; accanto a lui Raistlin annusò l'ariae diede un colpo di tosse.

«Copritevi il naso e la bocca, presto!» intimò al fratello e alla sorella.«Non respirate questo fumo!».

Kitiara si premette subito la mano guantata sul naso e sulla bocca,Raistlin si coprì la faccia con la manica della camicia e Caramon armeggiò per trovare il fazzoletto soltanto per scoprire che era sparito (sarebbe statoritrovato il giorno successivo nella tasca di Tasslehoff, che ve lo avevariposto perché non andasse perduto).

«Trattenete il fiato!» insistette Raistlin, con voce soffocata dalla manica

 premuta contro la bocca.Caramon provò ad obbedire, ma proprio mentre stava entrando nel

tempio, procedendo con lentezza in mezzo alla folla avviata nella stessadirezione, un accolito si servì di un gigantesco ventaglio per spingergli ilfumo in faccia, con il risultato che lui sbatté le palpebre, annaspò e trasseun enorme respiro.

«Allontana da noi quella cosa!» ingiunse Kitiara, e quando l'accolito nonsi mosse abbastanza in fretta da soddisfarla gli assestò una spinta che per 

 poco non lo gettò a terra.Afferrato per una manica Caramon, che stava barcollando come un

ubriaco e deviando sulla destra, si mescolò quindi in fretta alla folla cheentrava nel tempio e accanto a lei Raistlin sgusciò fra la calca per nonessere separato dal fratello e dalla sorella.

Percorso un ampio corridoio, sbucarono in una vasta arena sottostante lacupola, dove una serie di panche di granito formavano un cerchio intornoad un palcoscenico centrale. Tutt'intorno i preti stavano accompagnando la

gente a sedersi, e incitarono i tre fratelli a procedere verso il centro dellasala per fare posto agli altri che ancora dovevano entrare.

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«Ecco Sturm!» esclamò Kitiara, e senza badare alle istruzioni dei pretiscese parecchi gradini in modo da raggiungere il davanti dell'arena.

«Mi sento terribilmente stanco» affermò intanto Caramon, incespicandoe portandosi una mano alla testa. «La stanza mi gira intorno».

«Ti avevo detto di non respirare il fumo», ribatté Raistlin, facendo delsuo meglio per pilotare lungo i gradini i passi esitanti del fratello.

«Cos'era quella roba?» domandò intanto Kitiara, da sopra la spalla.«Stanno bruciando semi di papavero, il cui fumo genera una piacevole

sensazione di euforia. Trovo interessante notare che a quanto pare Belzor  preferisce che i suoi fedeli versino in uno stato di appannamento mentale».

«In effetti è interessante», convenne Kitiara. «Cosa ne sarà di Caramon?Si riprenderà?».

Con un sorriso sciocco sul volto, Caramon stava intanto canticchiandofra sé un motivetto popolare.

«Gli effetti svaniranno con il tempo», rispose Raistlin, «ma per almenoun'ora non possiamo fare affidamento su di lui qualora ci sia da agire inqualche modo. Siediti, fratello mio, questo non è né il posto né il luogo per mettersi a danzare».

«Cosa sta succedendo?» domandò intanto Kitiara a Sturm, che avevatenuto liberi per loro alcuni posti nelle file anteriori, proprio davanti

all'arena.«Nulla d'interessante», rispose lui.Per parlare non c'era bisogno di abbassare la voce perché nella sala

regnava un frastuono assordante. Influenzate dal fumo le persone eranoeuforiche, ridevano e chiamavano gli amici mentre i preti le indirizzavanoai loro posti.

«Io sono arrivato in anticipo. Si può sapere cos'hanno tutti?» chieseintanto Sturm, guardandosi intorno con disapprovazione. «Sembra di

essere in una birreria e non in un tempio!» aggiunse, scoccando a Caramonun'occhiata carica di rimprovero.

«Non sono ubriaco!» protestò questi in tono indignato, scivolando altempo stesso dalla panca sul pavimento. Massaggiandosi il posteriore sirialzò quindi ridacchiando.

«Si tratta di quei bracieri accesi all'esterno: emettono una specie di fumovelenoso», spiegò Kitiara. «Tu non lo hai respirato, vero?».

«Quando sono entrato stavano ancora preparando i fuochi», replicò

Sturm, scuotendo il capo. «Dov'è Tanis? Credevo che dovesse venireanche lui».

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«Il kender si è fatto arrestare», rispose Kitiara, scrollando condisinvoltura le spalle, «e Tanis è dovuto andare a tirarlo fuori di prigione».

Sturm assunse un'espressione grave. Anche se era affezionato aTasslehoff, il vizio che questi aveva di «prendere a prestito» le cose altruilo turbava, inducendolo a tenere a Tas interminabili prediche sullamalvagità del furto, citandogli brani del codice di leggi solamniche notocome la Misura. Tas lo ascoltava con estrema serietà, conveniva cherubare era un peccato terribile e aggiungeva di non riuscire a immaginareche sorta di persona potesse portare via ad un'altra ciò che per questa era più prezioso. In genere a questo punto Sturm si accorgeva della sparizionedella sua daga o della sacca del denaro o del pane e formaggio che avevaavuto intenzione di mangiare per pranzo, oggetti che venivano

invariabilmente ritrovati addosso al kender che aveva approfittato della predica per impossessarsene.

Tanis aveva cercato invano di far capire a Sturm che stava sprecando ilsuo tempo: i kender erano fatti così fin da quando erano stati creati dallaGemma Grigia e cambiarli era impossibile. Peraltro l'aspirante cavaliereriteneva che fosse suo dovere cambiare almeno uno di essi, ma finora nonaveva avuto molta fortuna.

«Forse Tanis arriverà più tardi», disse. «Gli ho conservato un posto».

Incontrando lo sguardo di Raistlin, Kitiara sfoggiò il suo sorriso intralice.

Una volta che ebbero preso posto, con Caramon piazzato fra lui e Kitiarain modo da poter essere tenuto sotto controllo, Raistlin fu libero diguardarsi intorno. L'interno del tempio era illuminato in modo molto fiocoda quattro bracieri disposti sull'arena centrale, ma quando annusò concautela l'aria per verificare se si avvertisse l'odore che lo avevainizialmente avvertito della presenza del derivato dell'oppio nel fumo,

Raistlin non riscontrò nulla d'insolito: a quanto pareva i preti volevano cheil loro pubblico fosse rilassato ma non comatoso.

La luce dei bracieri metteva in evidenza la grande statua di un serpentedotato di cappuccio che incombeva in fondo all'arena. Si trattava di unastatua rozzamente intagliata che se esposta ad una luce diretta sarebberisultata grottesca e addirittura ridicola, ma che vista in quella tremolante penombra appariva invece imponente, soprattutto grazie agli occhi cheerano costituiti da specchi e riflettevano il chiarore dei fuochi: quegli occhi

scintillanti davano alla vipera gigantesca un aspetto molto realistico espaventoso, tanto che fra il pubblico parecchi bambini stavano piangendo e

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 più di una donna si lasciava sfuggire un grido nel vedere la statua per la prima volta.

Una corda tesa attraverso l'arena proibiva l'accesso e alcuni preti eranodi guardia in svariati punti in modo da impedire alla folla di valicare quella barriera; l'unico altro oggetto visibile nel centro dell'arena era una sedia dilegno dall'alto schienale.

«Quel serpente è veramente grosso, non trovate anche voi?» commentòCaramon ad alta voce, fissando la statua con occhi vitrei.

«Zitto, fratello!» ingiunse Raistlin, assestandogli un pizzicotto sul braccio.

«Taci!» borbottò dall'altro lato Kitiara, piantando un gomito nellecostole di Caramon.

Questi obbedì, continuando peraltro a borbottare fra sé, e non creò più problemi fino a quando la testa gli si chinò in avanti sull'ampio petto e lui prese a russare; puntellandolo contro il sostegno di granito del sedile alleloro spalle, Kitiara si disinteressò allora di lui e concentrò la propriaattenzione sull'arena.

In quel momento le porte esterne si chiusero con uno schianto risonanteche colse di sorpresa i membri del pubblico, poi i preti chiesero di faresilenzio e con molto agitarsi, tossire e sussurrare la folla si dispose infine

ad aspettare i miracoli che le erano stati promessi.Due suonatori di flauto entrarono nell'arena e cominciarono a suonare

una musica lamentosa mentre le porte ai due lati della statua si aprivano euna processione di preti e di sacerdotesse vestiti d'azzurro cielo entravanell'arena. Ciascuno di essi portava in mano una vipera arrotolata in uncesto e mentre avanzavano Raistlin esaminò con attenzione le donne, allaricerca della Vedova Judith, rimanendo deluso nel non trovarla fra gli altri.Intanto la musica dei flauti si fece più vivace e le vipere sollevarono la

testa, prendendo a dondolarsi all'unisono con il movimento dei loro padroni. Raistlin aveva avuto modo di leggere su uno dei libri del MaestroTheobald un resoconto inerente alla pratica dell'incantamento dei serpenti,sviluppata presso gli elfi che non uccidevano nessuna creatura vivente se potevano farne a meno e che si servivano di questo sistema per liberare iloro giardini da serpenti potenzialmente letali.

Secondo il libro, l'incantesimo non era di natura magica ma derivava dalfatto che era possibile far scivolare in trance i serpenti mediante la musica,

cosa a cui Raistlin aveva fatto fatica a credere. Adesso però nel vederecome le vipere reagissero ai cambiamenti della musica del flauto lui

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cominciò a pensare che in quelle teorie ci potesse essere qualcosa di vero.Il pubblico era senza dubbio impressionato. Molta gente stava

sussultando per la meraviglia e per l'orrore, le donne si stavanoraccogliendo le gonne intorno alle caviglie per poi tirare in grembo i bambini e gli uomini borbottavano nell'impugnare il coltello. I preti inveceapparivano sereni e tranquilli, e una volta conclusa la loro danza in onoredella statua posarono i cesti contenenti i serpenti sul pavimento dell'arena,dove le vipere rimasero ciascuna all'interno del proprio cestino,dondolando la testa con fare assonnato mentre le persone sedute nelle prime file le tenevano d'occhio con aria guardinga.

I preti e le sacerdotesse si disposero quindi in semicerchio intorno allastatua e presero a intonare un canto, guidati da un uomo di mezz'età dalla

lunga barba nera striata di bianco che indossava una veste di colore piùscuro e di stoffa più pregiata rispetto agli altri e portava al collo una catenad'oro da cui pendeva l'immagine di una vipera; voci sussurrate checircolavano fra gli spettatori affermarono che quello era il SommoSacerdote di Belzor.

L'uomo aveva un'espressione serena e piacevole, ma Raistlin notò che isuoi occhi erano molto simili a quelli della statua e riflettevano la lucesenza emetterne di propria; il canto, che aveva un ritmo sonnolento e

monotono, infranto a tratti da grida sonore che non seguivano uno schema preciso e che parevano avere la funzione di svegliare quanti fra il pubblicosi erano intanto assopiti, si protrasse così tanto che smise di essere soltantofastidioso per diventare addirittura irritante e da far tendere i nervi.

«È intollerabile», borbottò Sturm.Raistlin si trovò d'accordo con lui perché fra il rumore echeggiante, il

fumo prodotto dai fuochi che ardevano nei bracieri e la puzza generata da parecchie centinaia di persone accalcate in una singola stanza priva di

finestre, respirare stava diventando sempre più faticoso. Adesso aveva latesta che doleva e la gola che bruciava, e non sapeva per quanto temposarebbe ancora riuscito a resistere, per cui si augurò che quella sorta dispettacolo finisse presto perché cominciava a temere di potersi sentiremale e di essere costretto ad andarsene senza aver trovato Judith o aver assistito a questi supposti miracoli.

Il canto cessò improvvisamente e dal pubblico si levò un sospiro corale,anche se non era possibile capire se fosse di reverenza o di sollievo. Nello

stesso momento una porta nascosta che si trovava vicino alla statua si aprìe una donna entrò nell'arena.

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Protendendosi in avanti Raistlin fissò con attenzione la nuova venuta:sebbene fossero passati molti anni dall'ultima volta che l'aveva vista lariconobbe immediatamente, però volle essere del tutto certo e afferròquindi Caramon per un braccio, scuotendolo fino a svegliarlo.

«Eh?» balbettò Caramon, guardandosi intorno con aria stordita, poi misea fuoco lo sguardo e di colpo si raddrizzò sulla persona con gli occhi fissisulla sacerdotessa che era appena entrata... e dalla rigidità che pervadevaora il corpo del suo gemello Raistlin comprese che anche lui l'avevariconosciuta.

«La Vedova Judith!» esclamò Caramon, con voce rauca.«È lei?» domandò Kitiara. «Ne sei certo? Io l'ho vista una volta

soltanto».

«È improbabile che la possa mai dimenticare», replicò Caramon, cupo.«Anch'io l'ho riconosciuta», intervenne Sturm. «Quella è la donna che

noi conoscevamo come la Vedova Judith».Sfoggiando un sorriso compiaciuto, Kitiara incrociò le braccia sul petto

e si appoggiò comodamente all'indietro con una gamba piegata eappoggiata sull'altro ginocchio, concentrando la propria attenzioneesclusivamente sulla sacerdotessa.

Raistlin dal canto suo stava a sua volta osservando attentamente Judith,

anche se rivederla aveva fatto riaffiorare nel suo animo ricordi dolorosi.Ciò che stava aspettando era di vederle compiere un miracolo.

La Somma Sacerdotessa indossava una veste azzurro cielo uguale aquella degli altri fedeli di Belzor tranne che per due particolari: il bordo eraricamato in filo dorato e mentre le altre vesti avevano le maniche moltoaderenti la sua aveva maniche voluminose che quando lei allargò le braccia fluttuarono in maniera tale da conferirle un aspetto strano eultraterreno, cosa accentuata ulteriormente dalla sua carnagione

estremamente pallida che Raistlin sospettò essere dovuta ad un abile usodel gesso. Judith si era inoltre scurita le palpebre con il kohl e avevasfregato della polvere di corallo sulle labbra per renderle più evidenti allaluce tremolante dei fuochi.

I suoi capelli erano raccolti sulla nuca in un nodo tanto stretto da tenderela pelle sugli zigomi, cancellando così parecchie rughe e facendolaapparire più giovane di quanto non fosse. Nel complesso costituiva unospettacolo impressionante, che il pubblico saturato dal fumo oppiato

apprezzò a fondo, come dimostrarono i mormorii di ammirazione e direverenza che aleggiarono per l'arena.

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Quando Judith sollevò le braccia per chiedere silenzio il pubblico obbedìe sul tempio cadde una quiete così totale che non si sentiva neppure uncolpo di tosse o un bambino che piangeva.

«I supplici che sono stati ritenuti degni possono venire avanti per parlarecon coloro che sono passati oltre», intonò il Sommo Sacerdote, che avevauna voce stranamente acuta per un uomo della sua mole.

Otto persone che si trovavano in una sorta di recinto da un lato dell'arenascesero le scale in fila per una precedute dai preti; neppure ai supplicivenne però permesso di addentrarsi nell'arena e fu loro imposto di fermarsi prima delle corde che la recintavano.

Sei erano donne di mezz'età che portavano neri abiti da lutto e chesfoggiarono un'aria compiaciuta e piena d'importanza nell'entrare al

seguito dei preti; la settima era una giovane donna non molto più matura diRaistlin che appariva pallida e consumata, e che a tratti si portava le maniagli occhi. Anche lei era vestita a lutto e il suo dolore era palesementerecente. L'ultimo supplice era uno stolido contadino sulla quarantina, cherimase del tutto immobile con lo sguardo fisso davanti a sé e il voltocomposto in modo da non tradire nessuna emozione; non essendo vestito alutto, quell'uomo appariva del tutto fuori posto accanto alle sette donne.

«Venite avanti e presentate la vostra richiesta. Cosa volete domandare a

Belzor?» intonò il Sommo Sacerdote.Accompagnata da un prete la prima donna venne avanti e si arrestò di

fronte alla Somma Sacerdotessa, formulando la sua richiesta: voleva parlare con il suo defunto marito, Arginon.

«Voglio essere certa che indossi la maglia di flanella per proteggersi dalfreddo», affermò la donna. «È quella che gli ho fatto io».

La Somma Sacerdotessa Judith l'ascoltò attentamente e quando lei ebbefinito di parlare le rivolse un cortese inchino.

«Belzor prenderà in considerazione la tua richiesta», disse soltanto.Venne il turno della donna successiva che, come la precedente e le

quattro che la seguirono, voleva a sua volta parlare con il defunto marito.La Somma Sacerdotessa si mostrò cortese con ciascuna delle supplici, promettendo che Belzor le stava ascoltando.

I preti scortarono quindi nell'arena la giovane donna, che congiunse lemani e fissò con estrema serietà la Somma Sacerdotessa.

«La mia bambina è morta di... di una febbre. Aveva cinque anni e aveva

tanta paura del buio! Voglio essere certa... che non ci sia il buio... dove leisi trova...» balbettò la povera madre, chinando il capo e scoppiando in

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singhiozzi.«Povera ragazza», mormorò Caramon.Raistlin non replicò perché aveva visto Judith accigliarsi leggermente e

comprimere le labbra in quel teso e severo sorriso che ricordava molto bene.

Usando un tono alquanto più freddo di quello che aveva impiegato conle altre donne, la Somma Sacerdotessa promise che Belzor si sarebbeoccupato della cosa, poi la giovane donna venne accompagnata al suo posto e giunse il turno del fattore.

Questi si mostrò nervoso ma deciso: serrando le mani, si schiarì la gola econ voce sonora, parlando molto in fretta senza pause per prendere fiato esenza soste di punteggiatura, espose il suo caso.

«Mio padre è morto sei mesi fa noi sappiamo che aveva del denaroquando è morto perché ne ha parlato quando ha avuto l'attacco che lo haucciso deve averlo nascosto ma nessuno di noi è riuscito a trovarlo quelloche vogliamo sapere è dove si trova il denaro grazie».

Con un breve cenno del capo il fattore tornò al suo posto, quasicalpestando il prete che si era avvicinato per accompagnarlo.

Il suo comportamento destò dei mormorii fra il pubblico, dove qualcunorise e venne immediatamente zittito.

«Sono stupito che gli sia stato permesso di presentare una così ignobilerichiesta», mormorò Sturm.

«Al contrario», replicò Raistlin. «Immagino che Belzor guarderà al suocaso con un occhio di favore», ribatté Raistlin.

Sturm si mostrò sconvolto e si tormentò i lunghi baffi scuotendo il capo.«Aspetta e vedrai», consigliò Raistlin.Intanto la Somma Sacerdotessa aveva sollevato nuovamente le braccia

 per imporre il silenzio e il pubblico trattenne il fiato, pieno di eccitazione e

di aspettativa: fra i presenti i più avevano già assistito molte altre volte aquesto spettacolo, che era il motivo della loro presenza lì.

Abbassando le braccia con un gesto improvviso e drammatico che fecericadere le ampie maniche sulle mani, nascondendole alla vista, la SommaSacerdotessa prese a cantilenate un'invocazione a Belzor con la testainclinata da un lato, gli occhi chiusi e le labbra che si muovevano in unasilenziosa preghiera.

E la statua si mosse.

Poiché la sua attenzione era concentrata su Judith, Raistlin recepì ilmovimento soltanto con la coda dell'occhio e subito spostò lo sguardo

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sulla statua, dando al tempo stesso di gomito al fratello per indurlo aguardare a sua volta.

«Eh?» esclamò Caramon, con un violento sussulto. La rozza statua di pietra della vipera pareva essersi animata e si stava agitando econtorcendo, anche se nel fissarla con occhi socchiusi Raistlin ebbel'impressione che non fosse veramente la statua in se stessa a muoversi.

«È come un'ombra», mormorò fra sé. «È come se l'ombra del serpenteavesse preso vita, e mi chiedo...».

«Avete visto?» esclamò Caramon, sussultando meravigliato. «È viva!Kit, hai visto? Sturm? La statua è viva!».

La forma d'ombra del serpente, con il cappuccio dilatato, scivolò inavanti attraverso l'arena. La vipera era enorme, con la testa oscillante che

sfiorava le travi del soffitto e con la lingua biforcuta che saettava dicontinuo fuori delle fauci mentre strisciava verso la Somma Sacerdotessa.Fra il pubblico le donne urlarono, i bambini stridettero e gli uominigridarono rauchi avvertimenti.

«Non abbiate paura!» esclamò però la Somma Sacerdotessa, sollevandole mani con il palmo proteso verso l'esterno per tranquillizzare i fedeli.«Quello che vedete è lo spirito di Belzor e lui non farà del male ai giusti.Viene a portarci notizie dall'Oltre».

Il serpente si arrestò alle spalle di Judith e prese a far oscillare benevolmente sopra di lei la testa incappucciata, fissando al tempo stessola folla con occhi scintillanti. Nel guardare verso i preti e le sacerdotesseche si trovavano nell'arena, Raistlin constatò che alcuni, soprattutto i piùgiovani, stavano contemplando il serpente con meraviglia e con fedeassoluta, condivisa dal pubblico che stava assaporando a fondo quelmiracolo.

Sconcertata, Kitiara era suo malgrado impressionata da quanto stava

vedendo e Caramon stava sviluppando in fretta una fede cieca: a quanto pareva soltanto Sturm era ancora dubbioso, ma del resto ci sarebbe voluto più di una statua che si animava per sloggiare Paladine dal suo animo.

Judith intanto sollevò la testa con un'espressione estatica sul volto,rovesciò gli occhi all'indietro nelle orbite e socchiuse le labbra, mentre unvelo di sudore le appariva sulla fronte.

«Belzor chiama Obadiah Miller!».La vedova del defunto Miller venne avanti con aria nervosa e con le

mani serrate mentre Judith chiudeva gli occhi, barcollava leggermente e prendeva a ondeggiare secondo lo stesso ritmo del serpente.

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«Puoi parlare a tuo marito», disse alla donna.«Obadiah, sei felice?» chiese la vedova.«Molto felice, Allodola» rispose Judith, con voce alterata, profonda e

grave.«Allodola!» esclamò la vedova, serrandosi le mani al seno. «Era il

soprannome che usava per me! È davvero Obadiah!».«Mia cara», continuò intanto il defunto Obadiah, «mi farebbe molto

 piacere se tu elargissi una parte del denaro che ti ho lasciato al Tempio diBelzor!».

«Lo farò, Obadiah, lo farò!».La vedova avrebbe voluto parlare più a lungo con il marito, ma i preti la

sospinsero con gentilezza al suo posto in modo da permettere alla vedova

successiva di farsi avanti.La seconda donna salutò il defunto marito e chiese se l'anno successivo

avrebbero dovuto piantare cavoli oppure seminare rape nel tratto di terrache si stendeva sul pendio soleggiato. Parlando tramite Judith il defuntooptò per i cavoli e aggiunse che gli avrebbe fatto molto piacere se una porzione di tutti i loro prodotti fosse stata elargita al Tempio di Belzor.

 Nel sentire quelle parole, Kitiara si raddrizzò di scatto e scoccòun'occhiata interrogativa a Raistlin, che incontrò il suo sguardo e annuì una

volta in maniera quasi impercettibile.Kitiara inarcò allora le sopracciglia in una silenziosa domanda e Raistlin

scosse il capo perché non era ancora giunto il momento di agire.Soddisfatta, Kitiara tornò a rilassarsi e il sorriso compiaciuto le riaffioròsulle labbra.

Una per volta anche le altre vedove parlarono con i loro cari defunti eogni volta il marito così evocato riuscì a dire qualcosa che soltanto lamoglie poteva sapere, concludendo immancabilmente con una richiesta di

denaro a favore di Belzor, che le vedove promisero di elargirenell'asciugarsi dal volto lacrime di gioia.

Judith chiese quindi al fattore che cercava l'eredità perduta di farsiavanti. Seguì un dialogo fra padre e figlio relativo alle devastazioni portatedai vermi delle patate, una conversazione che Belzor, che parlava per iltramite di Judith... parve trovare tediosa; appena possibile, la SommaSacerdotessa passò all'argomento del denaro nascosto.

«Ho detto a Belzor dove trovare il denaro», affermò il defunto fattore,

 parlando per bocca di Judith. «Non intendo rivelare ad alta voce il suonascondiglio per timore che qualche persona disonesta ne approfitti mentre

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sei lontano da casa. Torna domani con un'offerta per il tempio e riceverail'informazione che cerchi».

Il fattore chinò il capo diverse volte, grato come se Belzor gli avesseconsegnato sul posto una cassa piena di monete d'acciaio. Infine giunse ilturno della madre a cui era morta la bambina.

Rammentando l'espressione minacciosa apparsa sul volto della SommaSacerdotessa, Raistlin s'irrigidì: non riusciva infatti a immaginare cheBelzor potesse ricavare offerte consistenti da quella poveretta che avevagli abiti logori, le scarpe che dovevano essere state scartate da qualcunaltro perché non le calzavano bene e la testa coperta da uno sciallesbrindellato. La sua persona e gli abiti erano però puliti, i capelli erano ben pettinati e in passato lei doveva essere stata graziosa, come sarebbe tornata

ad esserlo quanto il tempo avesse smussato gli aspri angoli del suo dolore.La testa di Judith dondolò di qua e di là, e quando lei riprese a parlare lo

fece con la voce acuta di una bambina, palesemente terrorizzata.«Mamma! Mamma! Dove sei? Mamma, ho paura! Aiutami, mamma!

Perché non vieni da me?».«La mamma è qui, Mia, piccolina!» esclamò la donna, rabbrividendo e

 protendendo le braccia. «La mamma è qui! Non avere paura!».«Mamma! Mamma! Non riesco a vederti! Mamma, delle bestie terribili

stanno venendo a prendermi! I ragni, mamma, e i topi! Mamma, aiutami!».«La mia bambina!» gridò la donna, cercando di precipitarsi nell'arena, e

quando i preti la trattennero prese a implorare: «Lasciatemi andare da lei!Cosa le sta succedendo? Dov'è?».

«Mamma! Perché non mi aiuti?».«Lo farò!» promise la madre, torcendosi le mani per poi serrarle

strettamente. «Dimmi come!».«Il padre della bambina è un elfo, vero?» domandò Judith, che ora stava

 parlando con la sua voce e non con quella di una bambina.«Lui... lo è in parte», balbettò la giovane donna, sorpresa e guardinga.

«Il suo bisnonno era un elfo. Perché? Cosa c'entra questo?».«Belzor non guarda con favore ai matrimoni fra gli umani e persone di

razze inferiori. Tali matrimoni sono un complotto degli elfi per indebolirel'umanità in modo che cada un giorno sotto il loro dominio».

Dal pubblico si levarono mormorii di approvazione e molti presero adannuire.

«La tua bambina è maledetta a causa del suo sangue elfico», continuòintanto Judith, «e per questo dovrà vivere in eterno nell'oscurità e nei

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tormenti».«Che follia è questa?» sbottò Sturm, con voce bassa e irosa, inducendo

 parecchi fra quanti lo sentirono a scoccargli occhiate in tralice.«Una follia pericolosa», rispose Raistlin, serrando la mano intorno al

 polso dell'amico. «Taci, Sturm, non dire più nulla. Non è ancora ilmomento».

«Tu e tuo marito non siete graditi qui ad Haven», proseguì intantoJudith. «Andatevene subito, prima che vi accada qualcosa di peggio!».

«Ma dove andremo? Cosa faremo? La terra è tutto quello che abbiamoed è poca cosa! E la mia bambina... che ne sarà della mia povera bambina?».

«Belzor ha pietà di te, sorella», replicò Judith, in tono ora più dolce.

«Donate la vostra terra al tempio e forse Belzor si sentirà indotto a liberarela tua bambina dall'oscurità per portarla nella luce».

Judith abbassò quindi la testa sul petto e lasciò ricadere le braccia lungoi fianchi, chiudendo gli occhi.

Alle sue spalle la sagoma ombrosa della vipera indietreggiò fino afondersi con la statua e a svanire, poi Judith risollevò il capo e si guardòintorno come se non avesse idea di dove fosse o di cosa fosse successo, e ilSommo Sacerdote si affrettò a sostenerla prendendola per un braccio

mentre lei contemplava il pubblico con un sorriso beato sulle labbra.«L'udienza presso Belzor è conclusa», dichiarò allora il Sommo

Sacerdote.I preti e le sacerdotesse raccolsero i cestini contenenti le vipere

incantate, formarono una processione e girarono per tre volte in cerchiointorno all'arena invocando il nome di Belzor prima di andarseneattraverso la porta adiacente la statua. Nel frattempo alcuni accoliti preseroa circolare fra la folla, accettando con grazia tutte le offerte fatte nel nome

di Belzor e con la sua benedizione, e il Sommo Sacerdote accompagnòJudith alla porta principale del tempio, dove lei salutò i fedeli cheimploravano la sua benedizione e gettavano al tempo stesso moneted'acciaio in un grande cesto posato ai suoi piedi.

Vicino all'arena era rimasta soltanto la povera madre affranta e sola.«Abbiate pietà della mia povera bambina!» implorò la donna,

aggrappandosi ad uno degli accoliti. «Non ha colpa del sangue che lescorre nelle vene».

«Hai sentito la volontà di Belzor, donna», ribatté freddamente l'accolito,liberandosi dalla sua stretta. «Sei fortunata che il nostro dio sia così

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misericordioso: quello che chiede per liberate la tua bambina dal tormentoeterno è un piccolo prezzo».

La giovane madre si nascose il volto fra le mani.«Dov'è andato il serpente?» chiese intanto Caramon, alzandosi in piedi

con mosse incerte.Afferrandolo saldamente, Raistlin lo trattenne dall'addentrarsi nell'arena

alla ricerca della vipera gigantesca.«Kitiara, Sturm, riportate Caramon alla fiera e mettetelo a letto»,ordinò.

«Io vi raggiungerò là».«Non voglio credere in questo miracolo, ma non posso neppure

spiegarlo», affermò Sturm, fissando la statua.«Io posso spiegarlo ma non ne ho l'intenzione», ribatté Raistlin. «Non

ora».«Cosa vuoi fare?» chiese Kitiara, afferrando il barcollante Caramon per 

il dietro della camicia.«Vi raggiungerò più tardi», si limitò a rispondere Raistlin, e si allontanò

 prima che Kitiara potesse insistere per accompagnarlo.Facendosi largo fra gli accoliti che circolavano ancora con i loro cesti,

scese verso l'arena dov'era ferma la madre della bambina morta, isolata datutto e da tutti. Nel passarle accanto un uomo le diede una spinta,

definendola una «sgualdrina elfica», mentre una donna le si avvicinò e ledisse con voce stentorea che era un bene che la sua bambina fosse morta, perché sarebbe stata soltanto un mostro dagli orecchi a punta.

Vedendo la povera madre ritrarsi da quelle parole come da colpi crudeli,Raistlin sentì insorgere dentro di sé un'ira alimentata dal ricordo di paroleche gli erano state gridate contro tanto tempo prima, parole che i deboliusavano per infierire su chi era più debole di loro, e nelle fiamme roventidi quell'ira un'idea prese forma a poco a poco, emergendone come una

lama d'acciaio incandescente e pronta ad essere forgiata. Nel tempo cheimpiegò a muovere tre passi lui elaborò nella mente il piano che avrebbeusato per portare alla rovina la Somma Sacerdotessa Judith e per screditaretutti i falsi preti di Belzor, causando la caduta di quel falso dio.

Avvicinandosi alla sventurata madre protese quindi una mano per trattenerla: il suo tocco fu gentile, lui sapeva essere molto delicato, quandolo voleva, ma la donna rabbrividì comunque sotto di esso per la paura e lofissò con occhi colmi di panico.

«Lasciami stare!» implorò. «Ti prego, ho già sofferto abbastanza!».«Io non sono uno dei tuoi tormentatori, signora», replicò Raistlin,

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ricorrendo al tono calmo e sommesso che usava di solito per rilassare imalati; nel serrare la mano intorno a quella della donna si accorse che leistava tremando e prese ad accarezzarla per calmarla mentre si protendevain avanti e sussurrava: «Belzor è una frode, un inganno. La tua bambina èin pace e sta dormendo serena, come se tu stessa l'avessi cullata fino a farlaassopire».

«L'ho cullata, l'ho tenuta stretta e alla fine era serena, come tu hai detto»,rispose la donna, con occhi colmi di lacrime. «"Adesso mi sento meglio,mamma", ha sussurrato, e ha chiuso gli occhi. Io voglio crederti»,continuò, aggrappandosi freneticamente a Raistlin, «ma come posso farlo?Che prova mi puoi dare?».

«Torna al tempio domani notte».

«Tornare qui?» ripeté la donna, scuotendo il capo.«Devi farlo», ribadì Raistlin, in tono deciso. «Domani ti dimostrerò che

quanto ho detto è la verità».«Ti credo e mi fido di te», replicò lei, con un pallido sorriso. «Verrò».Raistlin si girò a guardare verso l'arena e verso la lunga fila di fedeli

adoranti che circondava Judith, mentre la luce dei bracieri si rifletteva sullemonete ammucchiate nei cesti e sulle altre che continuavano ad affluirvi:quella notte Belzor aveva curato bene i suoi interessi.

Uno degli accoliti si avvicinò a Raistlin e fece tintinnare il proprio cestocon aria speranzosa.

«Spero di vederti alla cerimonia di domani notte, fratello», disse.«Ci puoi contare», rispose Raistlin.

CAPITOLO TREDICESIMO

 Nel tornare alla fiera, Raistlin esaminò mentalmente il suo piano. Il

fuoco presente nella sua anima aveva divampato intenso come quello diuna fucina ma le fiamme si erano spente in fretta a contatto con l'ariafredda della notte e lui cominciava già ad essere tormentato dai dubbi e arimpiangere la promessa che aveva fatto a quella povera madre: se avessefallito sarebbe diventato la barzelletta di tutto Haven.

Affrontare vergogna e derisione gli riusciva molto più difficile chesopportare qualsiasi punizione fisica, e nell'immaginare la folla che ridevadivertita mentre il Sommo Sacerdote celava un compiaciuto sorriso di

compassione e la Somma Sacerdotessa Judith contemplava in trionfo lasua umiliazione lui quasi si contorse per l'angoscia e cominciò a pensare ad

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una serie di scuse. L'indomani non sarebbe andato al tempio sostenendo dinon sentirsi bene: la giovane madre sarebbe rimasta delusa e se ne sarebbeandata in preda ad un'acuta infelicità, ma non sarebbe stata in condizioni peggiori di quelle in cui versava attualmente.

La cosa più giusta e corretta da fare sarebbe stata riferire ogni cosa alConclave dei Maghi, perché loro erano le persone più adatte a occuparsi diquesta faccenda, mentre lui era troppo giovane e inesperto...

Ma se avesse avuto successo sarebbe stato un trionfo, perché avrebbe posto fine alle sofferenze di quella madre e al tempo stesso si sarebbedistinto per il suo talento. Di certo avrebbe fatto un'altra impressione se nelriferire il problema al Conclave avesse anche precisato con debitamodestia di averlo già risolto. Il grande Par-Salian, che senza dubbio

finora non aveva mai sentito parlare di lui, si sarebbe accorto dell'esistenzadi Raistlin Majere... un pensiero che gli fece correre un brivido per tutto ilcorpo. Forse lo avrebbero invitato ad assistere ad una riunione delConclave! Con un'azione del genere avrebbe potuto dimostrare agli altri ea se stesso che era capace di usare potenti magie in situazioni di crisi, e dicerto lo avrebbero ricompensato... un premio che valeva qualche rischio.

«Inoltre, adempirei alla mia promessa ai tre dèi che in passato si sonointeressati a me. Se non posso dimostrare agli altri la loro esistenza posso

almeno infrangere l'immagine di questo falso dio che sta tentando diusurpare il loro posto. In questo modo attirerò anche la loro attenzione e illoro favore», aggiunse fra sé.

Riesaminò quindi nella mente il proprio piano, questa volta conimpazienza ed entusiasmo, cercando eventuali pecche, ma la sola cheriuscì a trovare risiedeva in lui stesso: era abbastanza forte, abile ecoraggioso? Purtroppo nessuna di quelle domande avrebbe trovato rispostafino a quando non fosse giunto il momento di agire.

I suoi amici lo avrebbero aiutato? Oppure Tanis, che era nominalmenteil loro capo, gli avrebbe perfino negato il permesso di tentare di mettere inatto il suo piano?

«Mi aiuteranno, se li avvicinerò nel modo giusto», decise.Trovò gli altri raccolti intorno al fuoco da campo che avevano acceso nel

retro della bancarella di Flint.Tanis e Kit sedevano fianco a fianco, segno evidente che il mezzelfo non

aveva scoperto l'inganno di Kitiara; Caramon era accasciato su un tronco

con la testa fra le mani, Flint era un po' alticcio perché era appena tornatoda una taverna dove si era imbattuto in alcuni nani delle colline che

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 provenivano dai Monti Kharolis e che, pur non appartenendo al suo clan,erano passati vicino alla sua antica patria ed erano stati felici dicondividere con lui birra e pettegolezzi. Quanto a Tasslehoff, eraaccoccolato accanto al fuoco, intento ad arrostire castagne in una padella.

«Sei tornato», commentò Kitiara, quando Raistlin arrivò.«Cominciavamo a preoccuparci e stavo per mandare Tanis a cercarti,anche se è già dovuto andare a salvare il kender».

Approfittando di un momento in cui Tanis non stava guardando Kitiarafece seguire a quelle parole una strizzata d'occhio che Raistlin compresealla perfezione e che anche Caramon parve comprendere, dato che sollevòla testa per fissare con aria accigliata il gemello prima di tornare adabbandonarla fra le mani.

«La testa mi fa male», si lamentò.Tanis spiegò intanto che aveva trovato Tasslehoff e altri venti kender 

incarcerati nelle prigioni di Haven, aveva pagato la multa inflitta a quanti"consapevolmente e volontariamente frequentavano dei kender" e avevariportato a forza Tas alla fiera, confidando che l'indomani essa avrebbeofferto distrazioni sufficienti a tenerlo lontano dalla città vera e propria.

Tasslehoff era molto dispiaciuto di non aver potuto partecipare alla loroavventura serale, ed era incantato soprattutto dal serpente gigantesco e dal

fumo intossicante; al contrario, la prigione di Haven era risultata per luiuna delusione.

«Era sporca, Raistlin, e c'erano i topi! Riesci a crederci? I topi! Per unamanciata di topi mi sono perso un serpente gigante e fumi intossicanti. Lavita è davvero ingiusta!».

Tas però non riusciva a rimanere infelice a lungo e dopo aver riflettutoche non poteva trovarsi in due posti contemporaneamente (soltanto zioTrapspringer una volta ci era riuscito) finì per rasserenarsi. Dimenticandosi

delle castagne (che di lì a poco bruciarono in maniera irreparabile), presequindi a vagliare tutti i suoi nuovi averi e infine, spossato da quellagiornata eccitante, si addormentò con la testa appoggiata su una delle suesacche.

 Nel sentire la storia relativa a Belzor, Flint scosse il capo e si accarezzòla lunga barba dichiarandosi tutt'altro che sorpreso: non si era maiaspettato nulla di meglio dagli umani, naturalmente a esclusione dei presenti.

Kit la ritenne una battuta divertente.«Avresti dovuto vedere Caramon», raccontò ridendo. «Barcollava come

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un grosso orso ubriaco».Gemendo, Caramon si alzò in piedi con mosse incerte, borbottò qualcosa

sul fatto che si stava sentendo male e si allontanò in direzione delle latrinedegli uomini.

«Questi seguaci di Belzor non mi piacciono», dichiarò Sturm,accigliandosi di fronte al tono per lui troppo scherzoso di Kitiara, «madevo ammettere che nell'arena abbiamo visto compiere un miracolo. Qualealtra spiegazione ci può essere se non che Belzor è un dio e che i suoi pretihanno poteri miracolosi?».

«Posso darti io una spiegazione», replicò Raistlin. «La magia».«La magia?».«Lo sapevo», commentò Flint, mentre Kitiara scoppiava a ridere e Sturm

assumeva un'aria di disapprovazione.«Ne sei certo, Raistlin?» chiese Tanis.«Sì, perché ho familiarità con l'incantesimo che quella donna usa»,

rispose Raistlin.«Perdonami, Raistlin», obiettò Tanis, in apparenza dubbioso, «non

voglio certo contestare le tue conoscenze, ma tu sei soltanto un novizio».«E come tale sono in grado soltanto di lavare il pitale del mio maestro?

È questo che stai dicendo, Tanis?».

«Non intendevo...».«So cosa intendevi», tagliò corto Raistlin, accantonando quelle scuse

con un cenno irritato della mano, «e non m'importa di cosa pensate di me edel mio talento. Ho altre prove che quanto ho detto è vero, ma è evidenteche a Tanis non interessa sentire di cosa si tratta».

«Io voglio sentire», dichiarò Caramon, che era tornato dal suo breve giroalle latrine e pareva sentirsi meglio.

«Dicci di cosa si tratta», rincarò Kitiara, i cui occhi neri scintillavano

alla luce del fuoco.«Sì, ragazzo, sentiamo quali sono queste prove», annuì Flint. «Bada, io

ho sempre saputo che si trattava di magia».«Portami una coperta, fratello mio,» ordinò Raistlin, «altrimenti mi

ammalerò di certo, seduto su questo terreno umido». Una volta che fucomodamente seduto accanto al fuoco su una coperta, intento a sorseggiareun bicchiere di vino caldo speziato che Kitiara gli aveva preparato, esposequindi il suo ragionamento.

«Ho avuto il primo sospetto che ci fosse qualcosa che non quadravaquando ho sentito che i preti non permettevano a nessun mago di entrare

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nel tempio e che stavano addirittura perseguitando l'unico mago che vivead Haven, una Veste Rossa di nome Lemuel che Caramon e io abbiamoconosciuto questo pomeriggio e che loro hanno spaventato al punto daindurlo ad abbandonare la città e la casa in cui è nato. In aggiunta a tuttoquesto, i preti non permettono a nessun mago di entrare nel tempiosoprattutto quando viene compiuto il "miracolo"... perché? Perchéqualsiasi mago, perfino un novizio quale io sono», concluse in tono acido,«saprebbe riconoscere l'incantesimo usato da Judith».

«Perché hanno costretto quel tuo amico, quel Lemuel, a chiudere la sua bottega di articoli per maghi?» domandò Caramon. «Che danno potevarecare loro?».

«Chiudere la bottega di Lemuel significa garantire che i maghi che la

frequentavano, e che potrebbero denunciare Judith quale impostora, nonavranno più motivo di venire ad Haven. Una volta che Lemuel avràlasciato la città i preti si riterranno al sicuro».

«In tal caso, fratellino, perché quel prete ti ha invitato a recarti altempio?» obiettò Kitiara.

«Per essere certo che non sarei diventato un problema» replicò Raistlin.«Se ben ricordi, ha detto che non mi sarebbe stato permesso di entrare per assistere al miracolo, e senza dubbio se avessi fatto come mi era stato

chiesto al mio arrivo sarei stato incitato a rinunciare alla magia per abbracciare la fede di Belzor».

«A me piacerebbe abbracciare lui», commentò Caramon, flettendo legrosse mani. «Ho i peggiori postumi di sbornia che abbia mai patito in vitamia senza aver toccato una sola goccia di birra. Come ha detto il kender, lavita è ingiusta».

«Ma cosa mi dici di quelle persone che hanno parlato con Belzor?»chiese Sturm, difendendo la tesi del miracolo. «Come faceva la Vedova

Judith a sapere certe cose sul loro conto, come per esempio il soprannomeche un marito dava alla moglie o dove il padre del fattore ha nascosto ilsuo denaro?».

«Ricorda che le persone che si sono presentate davanti a Belzor sonostate scelte una per una», replicò Raistlin. «Probabilmente Judith ha parlato in precedenza con loro, e mediante abili domande ha senza dubbioottenuto informazioni sul conto del marito e della famiglia senza che essesi rendessero neppure conto di fornirle. Quanto al fattore e al tesoro

nascosto, non gli hanno detto apertamente dove trovare i soldi. Quando si presenterà al tempio con l'offerta gli diranno di cercare sotto il materasso e

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se il tesoro non dovesse essere lì dichiareranno che lui non ha avuto fede inBelzor e che se porterà un'altra offerta gli indicheranno un posto diversodove cercare».

«C'è però una cosa che non capisco», interloquì Flint, con aria riflessiva.«Se questa vedova è una maga, perché ha fatto amicizia con tua madre per  poi denunciarla pubblicamente durante il funerale di tuo padre?».

«In un primo tempo la cosa ha sconcertato anche me», ammise Raistlin,ma poi ho capito che aveva senso. Judith stava cercando di introdurre aSolace il culto di Belzor, e il suo primo atto all'arrivo in città deve esserestato quello di cercare eventuali maghi che potessero risultare unaminaccia. Mia madre aveva una certa reputazione come veggente ed eraquindi la scelta più ovvia. Per tutto il tempo che ha trascorso nella nostra

città Judith ha cercato di crearsi un seguito di fedeli. A quel tempo noneseguiva i suoi "miracoli", forse perché non aveva ancora padronanza dellatecnica necessaria o forse perché stava aspettando di avere una sede e un pubblico adatti. Prima però che potesse portare avanti i suoi piani, tu eTanis li avete stroncati sul nascere: al funerale di mio padre lei si è resaconto che la gente di Solace non sarebbe caduta facilmente vittima dei suoigiochetti.

«Quanto a ciò che abbiamo visto stanotte, Judith e il Sommo Sacerdote,

che deve essere il suo complice in questo imbroglio, sfruttano i lati peggiori del carattere delle persone: paura, pregiudizio e avidità... mentregli abitanti di Solace tendono ad avere meno paura degli stranieri e adessere più aperti nell'accettare gli altri per il semplice fatto che la loro cittàsorge ad un crocevia».

«Questa vedova sta portando avanti un brutto gioco, sottraendo allagente il poco che ha», commentò Flint, cupo, assumendo un aspetto piuttosto feroce con le sopracciglia irte per l'ira. «Per non parlare del modo

in cui ha tormentato quella povera ragazza che ha perso la sua bambina».«È un brutto gioco», convenne Raistlin, «ma io credo che noi vi

 possiamo mettere fine».«Io ci sto», dichiarò subito Kitiara.«Anch'io», aggiunse prontamente Caramon, anche se questo era

scontato. Se il suo gemello avesse proposto di avviare una spedizione per cercare la Gemma Grigia di Gargath, Caramon avrebbe cominciato a fare i bagagli.

«Se questi "miracoli" in realtà non sono altro che i subdoli trucchi di unamaga, allora è mio dovere smascherarla», affermò Sturm.

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Raistlin sfoggiò un cupo sorriso e si trattenne dal rispondere in modotagliente perché aveva bisogno dell'aspirante cavaliere.

«Non mi dispiacerebbe procurare un occhio nero a quella vedova»,rifletté Flint. «Tu cosa ne dici, Tanis?».

«Voglio prima sentire il piano di Raistlin», rispose il mezzelfo, con laconsueta cautela. «Attaccare la fede delle persone è pericoloso, più cheaggredirle fisicamente».

«Sono anch'io dei vostri», intervenne Tasslehoff, sollevandosi a sedere esfregandosi gli occhi. «Cosa dobbiamo fare?».

«Qualsiasi cosa sia non abbiamo bisogno di un kender, quindi toma adormire», ribatté Flint, in tono brusco. «Anzi, meglio ancora, perché nontorni alla prigione e spieghi alle guardie come dovrebbero gestirla?».

«Oh, l'ho già fatto», rispose Tas, che si stava svegliando del tuttonell'avvertire l'eccitazione presente nell'aria. «Sono state estremamentescortesi perfino quando ho offerto loro i miei più disinteressatisuggerimenti. Posso venire anch'io, Raistlin? Per favore! Dove stiamoandando?».

«Niente kender», ribadì Flint, con enfasi.«Il kender può venire», lo contraddisse però Raistlin. «Anzi, si dà il caso

che Tasslehoff sia il cardine su cui poggia il mio piano».

«Che Reorx ci aiuti!» gemette Flint.«Spero che lo farà», replicò Raistlin in tono grave.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Il mattino successivo Raistlin si alzò di buon'ora, dopo essere rimastodesto per la maggior parte della notte ed essere infine scivolato in unsonno agitato nelle ore che precedevano l'alba per poi svegliarsi da un

sogno che non riusciva a ricordare ma che gli aveva lasciato un senso diturbamento nella mente, insieme con l'impressione di aver sognato suamadre.

Anche Flint e Tanis si alzarono per tempo e cominciarono a ridisporre lemerci nel modo più vantaggioso possibile. Il giorno precedente avevanosistemato le polsiere con le loro splendide incisioni raffiguranti grifoni,draghi e altre bestie mitologiche su uno scaffale anteriore, le collane difine e delicata treccia d'argento su un panno di velluto rosso e gli anelli

d'amore in oro e argento, fatti in modo da sembrare tralci d'edera,all'interno di lucide custodie di legno.

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Flint non era però contento del modo in cui le merci erano esposte perché era certo che verso mezzogiorno il sole avrebbe messo in ombra la bancarella, il che significava che l'argento andava posto da un lato e nondall'altro. Tanis lo ascoltò con pazienza, poi gli ricordò che quella era unacosa di cui avevano già discusso il giorno precedente, e che grazie ai ramidi una vicina quercia i raggi del sole sarebbero stati deviati e sarebberocaduti sull'argento, facendo scintillare le gemme che lo decoravano, senza bisogno di doverlo spostare.

I due stavano ancora discutendo quando Raistlin si recò alle latrine degliuomini per le abluzioni del mattino, lavandosi la faccia e il corpo conacqua attinta da un secchio comune; tremando, si rivestì in fretta con la suaveste bianca, già pronto a muoversi mentre Caramon ancora russava nella

loro tenda, impegnato a smaltire i residui del fumo oppiato che avevarespirato.

L'aria del mattino era fredda e pungente, il sole cominciava appena atingere di rosso i picchi montani che erano già ammantati da una spruzzatadi neve, in cielo non c'era una nuvola e la giornata si annunciava tiepida e piacevole, il che significava che i visitatori sarebbero accorsi numerosi allafiera.

Flint intanto chiamò Raistlin perché venisse a risolvere la discussione

relativa a dove posizionare i gioielli ma il giovane mago, a cui nonimportava nulla di dove essi fossero messi, riuscì ad allontanarsi fingendodi non aver sentito la voce tonante del nano.

 Nell'attraversare l'area riservata alla fiera osservò con interesse l'attivitàche già vi ferveva: dovunque c'erano imposte che venivano aperte, carrettitrascinati al loro posto, fuochi da cui un profumo di pancetta e di panefresco si levava a pervadere l'aria; quanto al chiasso, per ora era minimo se paragonato a quello previsto più tardi nel corso della giornata, in quanto

 per il momento i venditori si limitavano ad augurarsi reciprocamente buona fortuna oppure si riunivano in gruppetti per condividere cibo estorielle o per barattare le reciproche mercanzie.

Anche se erano lì soltanto da un giorno, quei venditori avevano giàcreato una loro comunità, completa di capi, di pettegolezzi e di scandali,uniti da un senso di cameratismo che derivava da una sorta di mentalità delgenere "Noi contro di Loro", nell'ambito della quale con quel "loro"s'intendevano i clienti, di cui per ora si parlava nei termini più dispregiativi

e che sarebbero stati in seguito accolti con sorrisi cortesi e atteggiamentoservile.

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Raistlin contemplò quel piccolo mondo con divertito cinismo fino aquando giunse alla bancarella di uno dei fornai, dove una giovane donnastava disponendo in un cesto dei muffin freschi e ancora caldi il cui aromaspeziato alla cannella si mescolava così gradevolmente con il profumo dilegna che emanava dal forno che Raistlin si sentì indotto in tentazione e siavvicinò per chiedere quanto costassero quei muffin. Stava armeggiandoalla ricerca delle poche monete che gli rimanevano quando la giovanedonna sorrise e scosse il capo.

«Metti via quel denaro, signore. Tu sei uno di noi».Il muffin gli scaldò le mani mentre camminava e il suo sapore di mela e

di cannella parve esplodergli sulla lingua: senza dubbio quello era ilmuffin migliore che avesse mai mangiato, ed essere parte di questa piccola

comunità era in fin dei conti piacevole, anche se un po' strano.Le strade di Haven stavano cominciando a svegliarsi. I bambinetti

erompevano ovunque dalle case, strillando con eccitazione che quel giornosarebbero andati alla fiera mentre le madri irritate saettavano a recuperarli per lavare loro la faccia sporca, e i membri della guardia cittadina diHaven andavano in giro per le vie con aria piena d'importanza, decisi afare buona impressione sugli stranieri che visitavano Haven in quel periodo.

Durante il tragitto Raistlin tenne gli occhi aperti per scorgere in anticipole tonache azzurre dei preti di Belzor, e ogni volta che ne avvistò uno dalontano si affrettò a svoltare in un'altra strada per evitarli, perché anche seera improbabile che chiunque fra loro potesse riconoscere in lui iltrasandato e malvestito contadino della sera precedente quello eracomunque un rischio che lui non osava correre. Prima di avviarsi aveva preso in considerazione l'opportunità di ricorrere anche quel giorno altravestimento, ma poi aveva riflettuto che avrebbe dovuto spiegarne il

motivo a Lemuel, cosa che non voleva fare a meno che risultasseinevitabile perché senza dubbio quell'ometto mite e gentile avrebbe cercatodi dissuaderlo dal mettere in atto il suo piano e lui non se la sentiva diascoltare altre obiezioni dato che le aveva già vagliate tutte da solo.

I raggi del sole cominciavano a sciogliere la brina sulle foglie quandoRaistlin arrivò alla casa di Lemuel. Nella costruzione regnava il silenzio, eanche se una cosa del genere non era insolita per quel mago portatoall'isolamento, Raistlin si rese conto con disagio che era ancora molto

 presto e che forse Lemuel stava dormendo.Per parecchi momenti si aggirò quindi intorno alla casa, riluttante a

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svegliare il mago ma altrettanto riluttante ad andarsene e a sprecare cosìtanto tempo e tante energie; portatosi sul retro della casa nella speranza di poter sbirciare attraverso una delle finestre, sentì con piacere e sollievo deirumori che provenivano dal giardino.

Trovato un mattone che sporgeva nella parte più bassa del muro direcinzione, vi appoggiò sopra il piede e si issò fino alla cima del muro.

«Chiedo scusa, signor Lemuel», chiamò a bassa voce, per nonspaventare quell'uomo tanto nervoso.

Le sue buone intenzioni andarono però a vuoto perché Lemuel sussultò,lasciò cadere la vanga e lo fissò con aria costernata.

«Chi... chi ha parlato?» domandò con voce tremula.«Sono io, signore. Raistlin» rispose il giovane mago, consapevole della

 propria posizione poco dignitosa, aggrappato precariamente al murocom'era, appeso con entrambe le mani.

Dopo aver cercato per un momento con lo sguardo, infine Lemuelindividuò il visitatore e lo salutò con estrema cordialità; purtroppo i salutivennero troncati sul nascere dal fatto che il piede di Raistlin scivolò dalmattone e lui scomparve dalla vista del mago in maniera improvvisa ealquanto brusca, ma subito dopo Lemuel si affrettò ad aprire il cancello delgiardino e a invitare Raistlin ad entrare, chiedendogli ansiosamente se

avesse scorto dei serpenti nelle vicinanze.«No, signore», rispose con un sorriso Raistlin, che aveva sviluppato una

notevole simpatia per quest'ometto nervoso. Una parte dei motivi per cuivoleva portare avanti il proprio piano, la parte non egoistica, era la suadeterminazione che Lemuel potesse continuare a curare il suo amatogiardino. «I preti sono in giro per la fiera alla ricerca di nuovi seguaci, enon credo che ti disturberanno oltre finché essa sarà in corso».

«Dovrei essere grato per le piccole benedizioni, come ha detto lo gnomo

quando si è fatto saltare in aria una mano invece della testa. Hai già fattocolazione? Ti dispiace se portiamo il cibo in giardino? Ho un sacco dilavoro da fare».

Raistlin replicò che aveva già mangiato e che sarebbe statocontentissimo di andare in giardino; una volta là scoprì che il terreno erastato smosso per circa un quarto della sua ampiezza e che le piante eranodisposte ora in fagotti ordinati, pronte ad essere trasportate.

«La metà non sopravviverà al viaggio, ma alcune ce la faranno e oso

sperare che entro pochi anni avrò di nuovo il mio giardino», commentòLemuel, cercando di mostrarsi sereno.

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Mentre parlava il suo sguardo si posò però con tristezza sui cespugli dimore, sul ciliegio, sul melo e sull'enorme lillà, consapevole che gli alberi ele piante che non fosse riuscito a portare con sé non avrebbero più potutoessere rimpiazzate.

«Forse non te ne dovrai andare, signore», osservò Raistlin. «Ho sentitodire che alcune persone sono convinte che Belzor sia una frode e cheintendono denunciarlo come tale».

«Davvero?» esclamò Lemuel, illuminandosi in volto, poi tornò arattristarsi mentre aggiungeva: «Non ci riusciranno perché i suoi seguacisono troppo potenti. In ogni caso, sei gentile a darmi speranza, anche se per un momento soltanto. Ora posso sapere che cosa desideri, giovanotto?»domandò, scrutando Raistlin con aria astuta. «C'è qualcuno che sta male?

Ti serve qualcuna delle mie medicine?».«No, signore», arrossì Raistlin, vergognandosi di essere così trasparente.

«Se non ti dispiace, vorrei dare un'altra occhiata ai libri di tuo padre».«Adesso sono i tuoi libri, benedetto ragazzo», gli ricordò Lemuel, con

tanto calore e gentilezza che Raistlin decise in quel momento di abbattereBelzor indipendentemente da quanto questo potesse costare e senza pensare alla propria ambizione mentre lasciava il mago a rovistare con ariainfelice nel proprio giardino, nel tentativo di decidere cosa poteva essere

trapiantato senza rischi e cosa doveva essere abbandonato... nella speranzache il prossimo proprietario della casa abbeverasse adeguatamentel'hydrangea.

Una volta nella biblioteca, Raistlin si concesse un momento per contemplare con orgoglio i libri... i  suoi libri, che presto sarebberodiventati la sua biblioteca, e poi si mise al lavoro, rintracciando senzadifficoltà l'incantesimo che stava cercando perché il mago guerriero erastato un uomo meticoloso e preciso e aveva annotato ciascun incantesimo

e dove esso si trovasse su un volume a se stante. Dopo aver letto ladescrizione dell'incantesimo, che il mago aveva aggiunto probabilmente per propria comodità, si convinse quindi senza ombra di dubbio che era proprio quello che la Somma Sacerdotessa stava usando.

La sua convinzione fu ulteriormente rafforzata quando constatò chel'incantesimo non richiedeva componenti di sorta... niente sabbia lanciatanegli occhi o sterco di pipistrello da appallottolare fra le dita. Judithdoveva soltanto pronunciare le parole e compiere i gesti richiesti perché la

magia entrasse in funzione, il che spiegava il perché delle sue manichetanto voluminose.

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L'interrogativo adesso era se anche lui fosse in grado o meno di usarequell'incantesimo che non era particolarmente difficile e non richiedeva iltalento di un arcimago per cui era facilmente accessibile anche ad unapprendista... solo che Raistlin non era neppure questo, era appena unnovizio a cui non sarebbe stato permesso di diventare apprendista finchénon si fosse sottoposto alla Prova. Secondo le leggi del Conclave, che suquel punto erano estremamente specifiche, fino a quel momento gli eraquindi proibito usare l'incantesimo in questione.

La legge del Conclave era però molto specifica anche su un altro punto:se mai avesse incontrato un mago rinnegato, e cioè uno che operava al difuori delle leggi del Conclave, un mago avrebbe il dovere di ricondurloalla ragione, di portarlo davanti alla giustizia del Conclave, oppure, in casi

estremi, di porre fine alla sua vita.Judith era una rinnegata? Questo era un interrogativo su cui Raistlin

aveva riflettuto per tutta la notte. Era possibile che quella donna fosse unamalvagia maga dalia veste nera che si serviva della magia per ottenerericchezze in modo fraudolento e per avvelenare l'anima della gente. I praticanti la magia malvagia, i membri dell'Ordine delle Vesti Nere,adoravano Nuitari ed erano accettati all'interno del Conclave, anche se pochi profani potevano capire questo che a loro appariva come un patto

stretto con le forze dell'oscurità.Raistlin ricordò d'un tratto l'argomentazione che aveva sottoposto a

Sturm proprio a questo riguardo.«Noi maghi riconosciamo che nel mondo ci deve essere un equilibrio»,

aveva cercato di spiegargli. «L'oscurità segue la luce del giorno, edentrambe sono necessarie perché noi si continui ad esistere; nello stessomodo il Conclave rispetta sia l'oscurità sia la luce, chiedendo in cambioche tutti i maghi rispettino le sue leggi, che sono state elaborate nel corso

dei secoli per proteggere la magia e quanti la praticano. La fedeltà di ognimago deve andare innanzitutto alla magia, e poi a qualsiasi altra cosa».

Inutile dire che Sturm non si era lasciato convincere.Secondo la tesi esposta dallo stesso Raistlin, era possibile che una maga

dalla veste nera praticasse la magia sotto mentite spoglie e tuttavia fosse perdonata dal Conclave... però con un'importante eccezione: infatti ilConclave non avrebbe visto di buon occhio che si ricorresse all'uso dellamagia per promuovere l'adorazione di un falso dio. Inoltre era risaputo che

 Nuitari, il dio della luna nera e della magia oscura, era famoso per essereun dio geloso che pretendeva una fedeltà assoluta da parte di coloro che

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cercavano il suo favore, quindi Raistlin non riusciva a immaginare che Nuitari potesse accettare in qualsiasi modo l'esistenza fittizia di Belzor.

In aggiunta a tutto questo, Judith stava svilendo la magia, perseguitandoi maghi e cercando di persuadere gli altri che la magia era una cosamalvagia, e questo sarebbe stato di per sé sufficiente a condannarla agliocchi del Conclave. Alla luce di tutto questo Raistlin non aveva dubbi chelei fosse una rinnegata ed era certo che se anche fosse incorso nelle ire delConclave per aver usato un incantesimo prima di essere stato accettato inseno ad esso, avrebbe potuto presentare una valida linea di difesa: ciò chestava facendo era denunciare una truffatrice, punire una rinnegata erisanare in questo modo la reputazione della magia nel mondo.

Placati i dubbi e presa la sua decisione, si mise quindi al lavoro frugando

nella biblioteca fino a trovare un pezzo di pelle d'agnello arrotolatainsieme con altre e riposta in un cesto, che srotolò sul piano della scrivania bloccandola agli angoli con dei libri; purtroppo, la fiala di sangue d'agnelloche gli doveva servire come inchiostro si era ormai seccata...un'eventualità, questa, che Raistlin aveva comunque previsto.

Tirato fuori il coltello che aveva preso a prestito dal fratello, lo posò sultavolo perché fosse pronto all'uso e si preparò a trasferire l'incantesimo dallibro sulla pelle d'agnello. In realtà gli sarebbe piaciuto essere in grado di

utilizzarlo sulla sola base della memoria, ma con un incantesimo tantocomplesso, molto più di qualsiasi altro che lui avesse appreso fino a quelmomento... non osava fidarsi delle proprie capacità, anche perché finoranon aveva mai usato la magia in una situazione di crisi e non sapeva comeavrebbe reagito sotto pressione. Per quanto gli piacesse pensare che nonavrebbe avuto esitazioni, peraltro non doveva peccare di eccessivasicurezza.

Adesso aveva a disposizione il tempo e la solitudine necessari per il suo

lavoro, poteva concentrare le proprie energie e il proprio talento sulcompito di trasferire l'incantesimo sulla pergamena e concedersi distudiare in anticipo le parole in modo da essere certo di pronunciarlecorrettamente, dato che questo era ciò che avrebbe dovuto fare sia mentrele copiava sulla pelle d'agnello sia quando fosse giunto il momento diattivare l'incantesimo.

Sedutosi con il libro aperto davanti, si concentrò quindi sulla letturadell'incantesimo, pronunciando ad alta voce prima ogni lettera e poi ogni

 parola, ripetendole fino a quando il suono non gli echeggiava giustoall'orecchio, nello stesso modo in cui un menestrello avrebbe accordato il

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suo liuto. Se la stava cavando davvero bene e cominciava a sentirsialquanto orgoglioso di se stesso quando giunse alla settima parola, una chenon gli era mai capitato di sentir pronunciare e che aveva svariati tipi di pronuncia, ciascuno con un diverso significato. Qual era quello giusto?

Per un momento prese in considerazione l'idea di andare a chiederlo aLemuel, ma per farlo avrebbe dovuto rivelargli quello che avevaintenzione di fare, e questa era un'alternativa che lui aveva già scartato.

«Posso farcela», disse fra sé. «La parola è composta di sillabe, e tuttoquello che devo fare è capire quale sia la funzione di ciascuna sillaba inmodo da poterla pronunciare correttamente. Quando ci sarò riuscito mi basterà combinare le sillabe per ottenere la parola».

In teoria era facile, ma la pratica risultò esserlo molto meno di quanto si

fosse aspettato: non appena ebbe chiarito il significato della prima sillabascoprì infatti che quello della seconda pareva contraddirlo e che la terzanon aveva nulla a che fare con le altre due. Parecchie volte giunse sul punto di arrendersi per la disperazione perché quell'impresa sembravaimpossibile a compiersi; con il corpo gelido a causa del sudore, abbandonòinfine la testa fra le mani.

«È troppo difficile ed io non sono pronto. Devo abbandonare il mio piano riferire tutto al Conclave e lasciare che sia un arcimago a vedersela

con Judith. Dirò a Kitiara e agli altri che ho fallito...».Sollevandosi di scatto abbassò di nuovo lo sguardo sulla parola. Lui

sapeva quale fosse l'effetto di quell'incantesimo e di certo usando ladeduzione logica e ricorrendo allo studio dei testi ad esso correlati sarebberiuscito a determinare quali fossero i significati corretti. Pungolato da quel pensiero, si rimise al lavoro.

Due ore più tardi, due ore trascorse cercando nei diversi testi ogniesempio dell'uso della parola in questione o di sue parti in ogni

incantesimo magico che riuscì a rintracciare, paragonando quegliincantesimi fra loro e cercando schemi e correlazioni, Raistlin si accasciòcontro lo schienale della sedia, già stanco anche se la parte più difficile, ilcopiare l'incantesimo... era ancora da affrontare. D'altro canto si sentiva però in certa misura soddisfatto perché adesso aveva la padronanza deltesto, sapeva, o almeno riteneva di sapere, come esso andava pronunciato.

Si concesse quindi qualche minuto di riposo, crogiolandosi nel piaceredella propria vittoria, e quando ebbe ritrovato le forze si praticò

nell'avambraccio un taglio lungo circa tre centimetri, tenendo poi il bracciosopra un piatto che aveva preparato sul tavolo a questo scopo e

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raccogliendo il proprio sangue per usarlo come inchiostro. Una volta chene ebbe a sufficienza esercitò pressione sulla ferita per fermare lafuoriuscita del sangue e la fasciò con un fazzoletto.

Aveva appena finito quando un rumore di passi lungo il corridoio loindusse ad abbassare affrettatamente la manica sul braccio ferito e adaprire il libro alla pagina di un altro incantesimo.

«Spero di non disturbarti», disse Lemuel, facendo capolino dalla porta.«Volevo chiederti se gradivi qualcosa per pranzo...».

Il mago vide poi il piattino di sangue e la pelle d'agnello e s'interruppecon aria alquanto sconcertata.

«Sto copiando un incantesimo», spiegò Raistlin. «Spero che non tidispiaccia... si tratta di un incantesimo del sonno che mi sta causando

qualche problema, motivo per cui ho pensato che se lo avessi copiato avrei potuto impararlo meglio. Ti ringrazio per la tua offerta, ma in realtà non hofame».

«Sei davvero molto dedito allo studio», sorrise Lemuel, meravigliato.«Non mi avresti mai trovato chiuso in una stanza con i miei libri in unsoleggiato pomeriggio del periodo della Fiera del Raccolto». Accennòquindi ad andarsene ma poi esitò ancora e aggiunse: «Sei certo in merito al pranzo? La governante ha preparato stufato di coniglio. Sai, lei è in parte

elfa, viene da Qualinesti, e il suo stufato è decisamente buono, insaporitocon le erbe che coltivo io stesso: timo, maggiorana, salvia...».

«Sembra buono. Più tardi, magari», replicò Raistlin, che non aveva per nulla fame ma non voleva ferire i sentimenti del mago.

Lemuel sorrise e si affrettò ad andarsene, lieto di tornare al suo giardino.Raistlin intanto si concentrò di nuovo sul proprio lavoro e sfogliò il libro

fino a ritrovare l'incantesimo che gli interessava, poi prese la pennaricavata dalla piuma di un cigno e dotata di una punta d'argento; uno

strumento piuttosto stravagante e in realtà non necessario per creare la pergamena, ma che indicava come il mago guerriero avesse prosperatonell'esercitare la propria professione. Intinta la punta della penna nelsangue, Raistlin l'accostò alla pergamena sussurrando una rapida preghieraa tutti e tre gli dèi della magia... in quanto non voleva offendere nessuno diloro.

L'elegante penna scorreva con estrema scioltezza, al contrario di altreche s'impuntavano o schizzavano e portavano alla devastazione di più di

una pergamena, e mentre la prima lettera pareva fluire senza sforzo sulla pelle d'agnello Raistlin promise a se stesso che un giorno si sarebbe

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 procurato una penna come quella. Senza dubbio Lemuel sarebbe stato lietodi dargliela se gliel'avesse chiesta, ma il mago aveva già fatto anche troppo per il suo nuovo amico e l'orgoglio proibiva a Raistlin di chiedere altro.

Copiare l'incantesimo pronunciando ogni parola mentre veniva scritta fuun lavoro lento e faticoso, durante il quale il sudore gli si formò sotto icapelli e gli colò lungo il collo; dopo ogni parola doveva smettere discrivere per liberare la mano dai crampi che gli derivavano dal fatto cheserrava troppo la penna fra le dita e per asciugarsi il palmo sudato. Scrisseinfine la settima parola con il cuore pieno di paura, perché essa potevaessere errata e far sì che la pergamena, per quanto completa, risultasse cosìinutile: se avesse sbagliato a pronunciarla, infatti, l'incantesimo e tutto ilsuo accurato lavoro sarebbero stati vani.

Arrivato alla fine, Raistlin esitò un momento prima di aggiungere il punto conclusivo e chiuse gli occhi, levando un'altra preghiera di supplicaai tre dèi.

«Sto svolgendo la vostra opera, sto facendo questo per voi. Concedetemila magia!».

Quando infine contemplò il proprio operato esso risultò perfetto: le onon avevano tremiti, il ricciolo delle  s era aggraziato e non esagerato. Per un momento indugiò quindi a fissare con ansia la settima parola,

consapevole di aver fatto del suo meglio e di non poter chiedere di più.Infine tornò ad accostare alla pergamena la fine penna dalla puntad'argento e appose il punto conclusivo che avrebbe dovuto attivare lamagia.

 Non accadde nulla: a quanto pareva aveva fallito.D'un tratto colse con la coda dell'occhio un minuscolo tremito di luce e

trattenne il fiato, desiderando ciò che sperava stesse succedendo con lastessa intensità con cui aveva desiderato che sua madre vivesse,

imponendogli con la volontà di accadere come aveva cercato di imporre asua madre di continuare a respirare. Rosamun era morta, ma il tremolio diluce che avviluppava la prima lettera della prima parola crebbe inveced'intensità.

 Non era frutto dell'immaginazione; la lettera splendeva e la sualuminosità si stava estendendo a quella accanto, poi a tutta la prima parolae da essa alla seconda e così via. La settima parola parve fiammeggiareaddirittura in maniera trionfale, poi il punto di chiusura scintillò a sua volta

e il bagliore svanì: adesso le lettere erano incise a fuoco nella pelled'agnello, e l'incantesimo era pronto all'uso.

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Chinando il capo, Raistlin sussurrò un'intensa e sentita preghiera diringraziamento agli dèi che non gli erano venuti meno, poi si alzò in piedie si sentì assalire da vertigini tanto intense che per poco non svenne.Lasciatosi ricadere sulla sedia si rese conto di non avere idea di che orafosse, e rimase stupito di constatare dalla posizione del sole che era ormai primo pomeriggio, accorgendosi al tempo stesso di avere fame e sete, e unurgente bisogno di usare il pitale.

Arrotolata la pelle d'agnello la ripose con cura in una custodia per  pergamene che si legò saldamente alla cintura, poi si issò in piedi e scesefaticosamente dabbasso, dove usò la latrina e divorò poi due ciotole distufato di coniglio.

Raistlin non ricordava di aver mai mangiato tanto in tutta la sua vita;

spingendo indietro la ciotola si appoggiò allo schienale della sedia conl'intenzione di concedersi soltanto un breve momento di riposo.

Lemuel lo trovò immerso in un sonno profondo e lo lasciò dormire dopoaverlo avvolto con gentilezza in una coperta.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Raistlin si svegliò nel tardo pomeriggio, intontito e instupidito per il

sonnellino che non era stata sua intenzione fare, con il collo irrigidito e lanuca che doleva per essere rimasta troppo a lungo appoggiata alloschienale della sedia, e fu subito assalito dall'improvviso timore di aver dormito troppo a lungo e di aver così mancato di presenziare al "miracolo" previsto al tempio per quella notte; un'occhiata ad una chiazza di lucesolare che penetrava pigra attraverso l'edera che s'inerpicava intorno allafinestra fu però sufficiente a rassicurarlo; massaggiandosi il collo si liberòdella coperta e andò in cerca del suo ospite, certo di sapere dove trovarlo.

Come previsto, Lemuel era in giardino intento a lavorare con diligenzaanche se non pareva aver fatto molti progressi nei suoi preparativi per la partenza, come lui stesso confessò a Raistlin.

«Comincio a fare una cosa, poi me ne viene in mente un'altra e lascio perdere la prima per passare ad essa soltanto per ricordarmi poi che nedevo fare una terza prima delle altre due, con il risultato che abbandonotutto per provvedere e dopo un po' mi rendo conto che avrei dovuto inrealtà portare a termine innanzitutto la prima... non sto procedendo molto

m fretta», concluse con un sospiro nel contemplare con aria triste losconvolgimento che lo circondava: vasi rovesciati, cumuli di terra, buchi

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dove le piante erano state sradicate, e le piante stesse che apparivano nudee desolate stese al suolo con le radici che tremavano. «Suppongo dipendadal fatto che non sono mai stato in nessun altro posto e che in realtà nonvoglio andare in nessun altro posto. Se devo essere sincero, non ho ancoraneppure deciso dove recarmi. Che ne pensi di Solace?».

«Forse non te ne dovrai andare per niente», replicò Raistlin, incapace disopportare passivamente la sofferenza dell'ometto: dopo tutto, anche senon poteva dirgli cosa voleva fare, poteva almeno accennarvi in modoindiretto. «Può sempre succedere qualcosa che induca i seguaci di Belzor alasciarti in pace».

«Un secondo Cataclisma? Montagne di fuoco che cadono loro sullatesta?» ribatté Lemuel, con un pallido sorriso. «È sperare troppo, ma ti

sono grato per il pensiero. Hai trovato quello che stavi cercando?».«I miei studi hanno dato buon esito», rispose Raistlin, con aria grave.«Ti fermerai per cena?».«No, signore, ti ringrazio ma devo tornare alla fiera perché i miei amici

saranno preoccupati per me. Per favore, signore», aggiunse, nelcongedarsi, «non abbandonare la speranza. Ho la sensazione che tu saraiancora qui molto tempo dopo che Belzor sarà scomparso».

Lemuel rimase notevolmente stupito di fronte a quell'affermazione e gli

avrebbe posto altre domande se Raistlin non gli avesse indicato dei bulbidi tulipano che correvano il pericolo di essere portati via da uno scoiattolo.Mentre Lemuel si affrettava ad andare in soccorso dei suoi bulbi, Raistlincontrollò per la ventesima volta che la preziosa custodia per pergamenefosse ancora appesa alla sua cintura e se ne andò.

«Mi chiedo cosa stia escogitando...» rifletté intanto Lemuel, che dopoaver scacciato il ladro di tulipani stava ora osservando Raistlin allontanarsilungo la strada in direzione della fiera. «Non stava copiando un

incantesimo del sonno, questo è certo. Forse non sono granché comemago, ma perfino io riuscirei ad attivare un incantesimo del genere senzadoverlo scrivere. No, lui stava copiando qualcosa di molto più avanzato e parecchio al di là del suo rango di novizio. E tutti questi discorsi sul fattoche ai Belzoriti starebbe per succedere qualcosa...».

Per un momento Lemuel rosicchiò pensosamente un ramoscello dimenta, sempre più preoccupato.

«Immagino che dovrei cercare di fermarlo...» si disse, ma poi considerò

quell'alternativa e scosse il capo. «No, sarebbe come cercare di fermareuna gigantesca macchina degli gnomi una volta che abbia cominciato a

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rotolare giù per la collina: lui non mi darebbe ascolto e naturalmente nonc'è motivo per cui dovrebbe farlo. Per quel che ne so potrebbe anche avereuna possibilità di riuscita, considerato che ci sono molte cose nascostedietro quei suoi strani occhi. Molte cose davvero».

Borbottando fra sé accennò a riprendere a scavare, poi s'immobilizzò per un momento con la vanga a mezz'aria, fissando lo stato di caos cheregnava nel suo giardino un tempo ordinato.

«Forse dovrei aspettare e vedere cosa porterà il domani», rifletté quindi,e dopo aver coperto con la terra le radici delle piante che aveva giàestirpato, accertandosi che fossero calde e umide, entrò in casa per cenare.

Raistlin arrivò alla fiera in tempo per impedire che Caramon si

rivolgesse alla guardia cittadina per farlo cercare.«Ero occupato», dichiarò in tono seccato, in risposta alle persistenti

domande del fratello. «Hai fatto quello che ti ho ordinato?».«Se ho tenuto Tasslehoff sotto controllo?» sospirò Caramon, con aria di

rassegnata sopportazione. «Sì, fra tutti e due, Sturm ed io, ci siamo riusciti,ma non voglio più patire nulla del genere per tutta la vita. Questa mattinaeravamo convinti di aver trovato il modo di tenerlo impegnato: dato cheSturm voleva dare un'occhiata alle mappe di Tas, lui le ha rovesciate tutte

 per terra e ha passato un'ora ad esaminarle con Sturm. Immagino diessermi assopito, e intanto Sturm si è assorto eccessivamente nell'esame diuna mappa di Solamnia, con il risultato che quando mi sono svegliato cisiamo accorti che il kender era sparito».

Raistlin si accigliò visibilmente.«Siamo subito andati a cercarlo e lo abbiamo raggiunto», si affrettò a

 proseguire Caramon. «Per fortuna non era andato lontano... sai, la fiera èdavvero molto interessante, così lo abbiano preso e abbiamo riconsegnato

la scimmia al suo padrone che la stava cercando dappertutto; dovrestivedere cosa sa fare quella bestiola, Raist, è davvero intelligente. Il proprietario era decisamente infuriato, e anche se Tas ha detto e ripetutoche la scimmia lo aveva accompagnato di sua volontà e la bestiola ha ineffetti mostrato di trovarlo simpatico...».

«Spiriti affini», commentò Raistlin.«... in ogni caso il proprietario ha cominciato a gridare per chiamare la

guardia cittadina, ma per fortuna in quel momento è arrivato Tanis e noi

abbiamo portato via Tas mentre lui spiegava che si era trattato di un erroree dava al padrone della bestiola un paio di monete d'acciaio per il disturbo.

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A quel punto Sturm ha deciso che un po' di disciplina militare era ciò checi voleva, quindi abbiamo portato Tas sul terreno di parata e lo abbiamofatto marciare avanti e indietro per un'ora. Lui pensava che fosse moltodivertente e avrebbe voluto continuare, ma a causa del sole molto caldo edel fatto che ci eravamo dimenticati di portarci dietro dell'acqua, io eSturm abbiamo dovuto arrenderci perché eravamo sfiniti. Naturalmente ilkender era in perfetta forma.

«Non eravamo quasi neppure tornati alla fiera che lui ha visto una donnache inghiottiva il fuoco, lo faceva davvero, Raist, l'ho vista anch'io; ed èscappato via. Noi lo abbiamo inseguito e quando lo abbiamo ripreso avevagià rubato due sacche di soldi e un panino dolce, ed era sul punto dicercare di mettersi dei carboni ardenti in bocca. Gli abbiamo tolto di mano

i carboni ardenti e abbiamo restituito le sacche con il denaro, ma ormai il panino dolce era sparito tranne per poche briciole sulle labbra di Tas. Aquel punto...».

«Rispondi soltanto ad una domanda», interruppe Raistlin, sollevandouna mano. «Dov'è Tasslehoff, adesso?».

«Legato», replicò in tono stanco Caramon. «È nel retro della bancarelladi Flint e c'è Sturm che sta montando la guardia: era il solo sistema dicontrollarlo».

«Eccellente, fratello mio», si complimentò Raistlin.«È stato un dannato inferno», borbottò Caramon.Flint stava avendo un notevole successo alla fiera perche la gente si

affollava davanti al suo banco e lo teneva impegnato a tirare fuori anellidalle custodie e ad affibbiare polsiere. La giornata gli aveva già fruttatouna buona quantità d'acciaio, che lui teneva chiuso in una cassetta dotata dilucchetto, e anche molti oggetti ricevuti come baratto, una praticacomunemente accettata alle fiere soprattutto fra i venditori. In questo

modo Flint era entrato in possesso di una nuova zangola per il burro (cheavrebbe ceduto ad Otik in cambio di brandy), di una vasca da bagno (lasua aveva una perdita) e di una bella cintura di cuoio lavorato (la suaattuale cintura era un po' troppo piccola, cosa che secondo Flint dipendevadal fatto che si era ristretta quando era caduto nel Lago Crystalmir, mentresecondo Tanis era invece il nano ad essersi espanso».

Evitando la calca sul davanti del banco, Raistlin entrò nel retro dovetrovò il kender saldamente legato su una sedia con Sturm seduto sulla

sedia di fronte. Se si fosse dovuto giudicare però dall'espressione del lorovolto, si sarebbe detto che era Sturm il prigioniero, perché Tasslehoff stava

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godendo notevolmente della novità di essere legato mani e piedi, e stava passando il tempo intrattenendo Sturm.

«... e a quel punto zio Trapspringer ha detto: "Sei certo che quello sia iltuo tricheco?". E il barbaro ha risposto... Oh, salve, Raistlin! Guardami!Sono legato ad una sedia, non è eccitante? Scommetto che se glielochiedessi cortesemente Sturm legherebbe anche te... vero, Sturm?Legheresti Raistlin?».

«Che ne è stato del bavaglio?» domandò Caramon.«Tanis mi ha costretto a toglierlo dicendo che era crudele... lui non

conosce il significato di quella parola», replicò Sturm, fissando Raistlincon aria tanto cupa da far supporre che intendesse seguire il suggerimentodel kender. «Confido che tutto questo serva a qualcosa, anche se non

riesco a immaginare nulla che possa ricompensarci adeguatamente dellagiornata che abbiamo passato, tranne forse il ritorno dell'intero panteondegli dèi che appare per denunciare la falsità di Belzor».

«Sarà qualcosa di meno clamoroso ma di altrettanto efficace», replicòRaistlin. «Dov'è Kitiara?».

«È andata a fare un giro per la fiera ma ha promesso di tornare intempo», rispose Caramon, inarcando un sopracciglio. «Ha detto che quil'atmosfera era troppo fredda per i suoi gusti, se capisci cosa intendo».

Raistlin annuì per indicare che aveva capito. La notte precedente fraKitiara e Tanis era scoppiata una lite che probabilmente era stata sentitadalla maggior parte degli altri venditori e forse anche da metà della città diHaven, perché se da un lato Tanis aveva tenuto la voce tanto bassa daimpedire a chiunque di sentire cosa stesse dicendo, Kitiara non aveva certoavuto scrupoli del genere.

«Per chi mi hai presa? Per una delle vostre viziate e fragili fanciulleelfiche che hanno bisogno di aggrapparsi a te ad ogni momento? Io vado

dove mi pare, quando mi pare e con chi mi pare, e se proprio vuoi sapere laverità... no, non ti volevo con me perché alle volte ti comporti come unvecchietto e rovini tutto il divertimento».

La lite si era protratta fino a notte inoltrata.«Hanno fatto la pace, questa mattina?» chiese Raistlin a suo fratello,

lanciando un'occhiata verso la schiena di Tanis, che era dietro il banco,impegnato a contare denaro, a rispondere alle domande dei clienti, a prendere misure e ad annotare gli ordini particolari.

«Argento e ametista», stava ordinando una nobile dama. «E voglioanche un paio di orecchini abbinati».

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«Neppure per idea» rispose Caramon. «Tu conosci Kit, lei era già prontaa fare la pace con un bacio e a dimenticare tutto, ma Tanis...».

Come se si fosse accorto che stavano parlando di lui, il mezzelfo si girònell'atto di riporre tre monete d'acciaio nella cassetta del denaro.

«Hai ancora intenzione di andare fino in fondo?» domandò.«Sì», rispose Raistlin.«La cosa non mi piace», dichiarò Tanis, scuotendo il capo; i suoi occhi

erano cerchiati di scuro e lui appariva stanco.«Nessuno ha mai chiesto che ti piacesse», ribatté Raistlin.Sul gruppo scese un imbarazzato silenzio mentre Caramon arrossiva e si

mordeva un labbro, imbarazzato a causa del fratello e tuttavia troppofedele per dire qualsiasi cosa; Sturm dal canto suo scoccò a Raistlin

un'altezzosa occhiata di disapprovazione intesa a ricordarglisilenziosamente che non doveva mancare di rispetto a chi era più anzianodi lui e Tas accennò a raccontare l'ennesima storia sullo zio Trapspringer,ma per una volta non riuscì a trovarne una che si attagliasse alla situazionee rimase in silenzio, contorcendosi con aria infelice sulla sua sedia. Ilkender sarebbe stato pronto ad entrare allegramente nella bocca aperta diun drago senza scomporsi di un solo capello, ma avvertire ira reciproca frai suoi amici era una cosa che lo metteva sempre a disagio.

«Hai ragione, Raistlin: nessuno lo ha chiesto a me - ribatté infine Tanis,accennando a girarsi per tornare davanti, al banco di vendita.

«Tanis, mi dispiace», lo richiamò Raistlin. «Come mi rammenterebbevolentieri il nostro aspirante cavaliere, non avevo il diritto di parlare inquesto tono a te, che mi sei maggiore d'età. Come giustificazione possooffrire soltanto il fatto che stanotte mi aspetta un compito difficile. Aquesto proposito voglio ricordare a te e anche agli altri», continuò,abbracciando tutti con lo sguardo, «che se fallirò sarò io a pagarne il

 prezzo e che nessuno di voi rimarrà implicato nella cosa».«Tuttavia io mi chiedo se tu sia consapevole dell'enorme rischio che stai

correndo», replicò in tono estremamente serio Tanis. «Questa falsareligione sta facendo arricchire Judith e i suoi seguaci, e denunciandola potresti esporti ad un considerevole rischio. Secondo me dovrestiripensarci e lasciare che siano altri a toglierla di mezzo».

«Già», convenne Flint, che era venuto nel retro per portare dell'altrodenaro nella cassetta e aveva così sentito l'ultima parte della

conversazione. «Se seguirai il mio consiglio, ragazzo, cosa che peraltronon fai mai, terremo tutti il naso fuori da questa faccenda. Ci ho pensato

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sopra, la scorsa notte, e dopo quello che mi hai raccontato su come la gentesi è messa a tormentare quella povera ragazza che aveva perso la sua bambina, sono giunto alla conclusione che gli umani di Haven e Belzor simeritano a vicenda».

«Non puoi dire sul serio, signore!» esclamò Sturm, sconvolto. «Secondola Misura, se qualcuno è a conoscenza del fatto che una legge sta venendoviolata e non fa nulla per porre termine alla cosa, si rende colpevole quantochi ha infranto personalmente la legge. Noi dovremmo fare tutto ciò che èin nostro potere per porre fine alle attività di questa falsa sacerdotessa».

«Possiamo farlo denunciandola alle autorità competenti», ribatté Tanis.«Che non ci crederanno mai», gli fece notare Caramon.«Io ritengo...».

«Basta così! Ho preso la mia decisione», esclamò Raistlin, ponendo finea quella discussione che stava ridestando i suoi dubbi e minando lefortificazioni che lui aveva eretto con tanta cura per contenerli. «Porteròavanti il mio piano, e quanti mi vogliono aiutare potranno farlo; quelli cheinvece non vogliono possono comportarsi come meglio credono».

«Io ti aiuterò», dichiarò Sturm.«Anch'io», ribadì Caramon, fedele come sempre.«Anch'io! Io sono la chiave!» strillò Tas, e tentò di mettersi a saltellare

 per l'eccitazione ma scoprì che in quel momento saltare gli riuscivadifficile perché comportava portare con sé la sedia a cui era legato. «Nonessere arrabbiato, Tanis. Ci divertiremo!».

«Non sono arrabbiato», rispose Tanis, mentre il suo volto stanco sirilassava in un sorriso. «Sono contento che voi ragazzi siate disposti arischiare un grave pericolo per una causa che ritenete giusta... o, almeno,confido che sia questo il motivo che vi spinge ad agire», aggiunse,lanciando un'occhiata penetrante in direzione di Raistlin.

 Non cercare di conoscere le mie motivazioni perché non le capiresti,consigliò fra sé Raistlin al mezzelfo. Cosa t'importa del perché lo faccio, se comunque l'esito che intendo ottenere ti soddisfa e porta beneficio aglialtri?

Irritato, accennò a volgere le spalle al gruppo proprio nel momento incui Kitiara attraversava la porta del banco da fiera e si faceva largo agomitate fra i clienti, che le scoccarono occhiate risentite, fino ad arrivaredietro il banco.

«Vedo che siamo tutti qui. Siamo pronti ad andare a dare Judith in pastoai serpenti?» chiese con un sorriso. «A proposito, fratellino, io sono fra i

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 prescelti di stanotte. Ho chiesto di parlare con la mia defunta madre, e laSomma Sacerdotessa ha gentilmente acconsentito alla mia richiesta».

Pensando che questo non faceva parte del  suo  piano, Raistlin si chiesecosa avesse in mente Kitiara, ma prima che potesse interrogarla alriguardo, lei cinse Tanis con il braccio e gli passò una mano sulla spallacon fare carezzevole.

«Stanotte verrai ad aiutarci, amore mio?» domandò.«La fiera non chiude se non quando è notte fatta», rispose Tanis,

ritraendosi dal suo tocco. «Ho del lavoro da fare qui».«Tanis è ancora infuriato con Kitiara?» insistette lei in tono scherzoso,

facendoglisi più vicina e mordicchiandogli un orecchio.«Non qui», ammonì lui, respingendola con gentilezza, e a bassa voce

aggiunse: «Ci sono molte cose di cui dobbiamo parlare, Kit».«Oh, per l'amore di... Parlare! Non vuoi mai fare altro che parlare!»

s'infuriò Kitiara. «Già tutta la scorsa notte abbiamo parlato e parlato e parlato! D'accordo, ti ho detto una piccola e innocua bugia! Non è stata la prima volta e non sarà neppure l'ultima! Del resto, sono certo che anche tumi hai mentito spesso e volentieri!».

«Non stai parlando sul serio», affermò Tanis in tono quieto,impallidendo.

«No, certo che no. Io dico di continuo cose che non penso veramente, esono una bugiarda... puoi chiedere a chiunque», ribatté Kitiara, poi aggiròrabbiosamente il bancone sferrando un calcio a Caramon quando questinon si tolse abbastanza in fretta dalla sua strada, e domandò: «Voialtrivenite oppure no?».

«Slegate il kender» ordinò Raistlin. «Sturm tu ti occuperai di Tas.Quanto a te», continuò, fissando il kender con occhio severo, «dovrai fareesattamente quello che ti dirò, altrimenti potresti essere tu a finire in pasto

alle vipere».«Ooh, quanto è eccit...» cominciò Tas, poi si accorse dal repentino

accigliarsi di Raistlin che quella non era la risposta giusta e si fece d'untratto estremamente solenne. «Volevo dire di sì, Raistlin: farò tutto quelloche tu mi dirai, e non  guarderò neppure un solo serpente a meno che nonsia tu ad ordinarlo», aggiunse, formulando una promessa che ai suoi occhiera un sacrificio veramente eroico.

Raistlin represse a fatica un sospiro, perché già poteva vedere ogni sorta

di falle che si aprivano nel suo piano e una quantità di cose che potevanoandare storte. Tanto per cominciare, stava facendo affidamento su un

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kender, cosa che chiunque su Krynn avrebbe definito una pura follia; insecondo luogo stava contando sul fatto che un aspirante cavaliereanteponesse onore e onestà ad ogni altra cosa, incluso il buon senso;infine, non aveva la minima idea di cosa stesse complottando Kitiara, equella era forse la falla più pericolosa di tutte... un vero e proprio abisso incui sarebbero potuti precipitare tutti.

«Io sono pronto», dichiarò con fermezza Caramon, con una fedeltà cheRaistlin trovò confortante, ma subito dopo rovinò tutto assestando conorgoglio uno strattone al collo della camicia e aggiungendo: «Questa voltanon respirerò il fumo: ho indossato questa camicia così larga proprio per  potermela tirare sopra la testa».

Posto di fronte ad un'improvvisa visione di Caramon che entrava nel

tempio con la camicia avvolta intorno alla testa, Raistlin chiuse gli occhi e pregò silenziosamente gli dèi, quelli della magia e qualsiasi altro vero dio,dovunque si trovasse, di camminargli al fianco.

CAPITOLO SEDICESIMO

Arrivarono al tempio in tempo per mescolarsi con la folla che si stavariversando in esso e che quella notte era molto più numerosa perché la

notizia del "miracolo" compiuto da Judith si era diffusa fra i visitatori dellafiera, con il risultato che fra il pubblico c'erano adesso anche alcuni Nanidelle Colline, parecchi Uomini delle Pianure con le loro decorazioni piumate e il loro aspetto barbarico, e una quantità di famiglie nobili,abbigliate con eleganza e accompagnate dai loro servitori.

Fra gli altri, Raistlin notò anche con sgomento parecchi dei loro vicini dicasa di Solace, cosa che lo indusse a calcarsi sulla faccia l'informecappello di feltro e a raggomitolarsi nello spesso mantello nero che portava

sopra la veste bianca, sentendosi al tempo stesso addirittura sollevato nelvedere che Caramon si era in effetti tirato su la camicia fino agli orecchi,cosa che lo faceva somigliare ad una sorta di gigantesca testuggine, eaugurandosi che nessuno dei vicini li riconoscesse e facesse qualcheaccenno al talento magico del loro giovane conoscente.

 Nel guardarsi intorno, Raistlin si sentì piuttosto intimidito nel rendersiconto che persone provenienti da ogni parte dell'Abanasinia avrebberoassistito alla sua esibizione: fino a quel momento non aveva infatti pensato

al fatto che avrebbe eseguito l'incantesimo davanti ad un vasto pubblico eadesso stava scoprendo che l'idea lo metteva a disagio. In quel momento,

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se qualcuno gli si fosse presentato davanti e gli avesse offerto una monetafalsa purché fuggisse, lui avrebbe afferrato la moneta e si sarebbe messo acorrere.

L'orgoglio lo costrinse però ad andare fino in fondo: dopo il suoconfronto con Tanis e i bei discorsi che aveva fatto a parenti e amici non poteva certo tirarsi indietro adesso, non senza perdere il loro rispetto equalsiasi possibilità di poter un giorno esercitare ancora il controllo su diloro.

Tenendosi a ridosso di Caramon, si servì del corpo massiccio del fratellocome di uno scudo fino a quando non si furono fatti largo fra la folla,consapevole che Sturm era accanto a loro e stava spingendo Tasslehoff davanti a sé tenendogli una mano sulla spalla e usando l'altra per staccare

le dita irrequiete del kender dalla sacca del denaro e dagli altri averi delresto dei fedeli.

«Io devo andare davanti dove ci sono i preti! È il mio grande momento!Buona fortuna!» gridò Kitiara, agitando la mano in un cenno di saluto.

«Aspetta!» esclamò Raistlin, lottando per aggirare Caramon e cercare diraggiungere la sorella, ma entrambi erano intrappolati nella calca ecomunque era ormai troppo tardi, perché Kitiara si era già rivolta ad unodei preti che la stava precedendo fra la folla.

Che cosa aveva intenzione di fare?Raistlin imprecò contro la natura chiusa e diffidente della sorella, ma nel

 borbottare quelle parole fu costretto a ricacciarle in gola: sangue al sangue,dicevano i nani, e da questo punto di vista lui avrebbe potuto imprecarealtrettanto giustamente contro se stesso, dato che non aveva esposto i propri piani a Kitiara.

«Adesso puoi abbassare la camicia», disse in tono secco a Caramon,reso irritabile dal nervosismo.

«Dove vuoi che ci mettiamo?» chiese intanto Sturm.«Tu e il kender prendete posto a ridosso del muro di fondo», rispose

Raistlin, indicando le ultime file di posti dell'arena, poi impartì loro leultime istruzioni: «Tas, quando griderò "Mirate!" dovrai cominciare acamminare lungo la navata. Bada però di procedere lentamente e di tenerela mente concentrata su quello che stai facendo senza lasciarti distrarre danulla. Hai capito? Se mi obbedirai avrai modo di contemplare la magia piùsplendida che tu abbia mai visto in tutta la tua vita».

«Ti obbedirò, Raistlin», promise Tas. «Mirate», disse quindi fra sé, e per non dimenticarsi continuò a ripetere: «Mirate, mirate, mirate. Una volta ho

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visto uno che mirava. Ti ho mai raccontato...».«I kender non sono ammessi», avvertì un prete in tonaca azzurra,

calando su di loro.Incapace di mentire e riluttante a farlo, Sturm rimase immobile con la

mano stretta intorno alla spalla del kender e Raistlin sentì il respiro che glisi bloccava in gola senza però osare d'intervenire perché non potevaattirare l'attenzione su se stesso. Per fortuna di tutti loro, Tasslehoff era però abituato ad essere buttato fuori da ogni genere di posto.

«Oh, mi stava soltanto scortando fuori, signore», dichiarò infatti, con unraggiante sorriso.

«È vero?».Con i baffi irti per la tensione interiore, Sturm inclinò la testa di una

frazione di centimetro in un cenno di assenso, l'atto più vicino a proferireuna menzogna che lui avesse mai compiuto in tutta la sua vita. Forse peròla Misura ammetteva le bugie se erano per una buona causa.

«In tal caso mi dispiace di aver interferito, signore», affermò il prete, intono più conciliante. «Per favore, non lasciare che ti trattenga oltredall'ultimare il tuo compito. Le porte sono da quella parte», aggiunse,accennando con una mano.

Sturm gli rivolse un freddo inchino e trascinò con sé Tasslehoff,

 ponendo fine ai suoi commenti con la severa ingiunzione di tacere e conuna scrollata che serviva ad enfatizzare il concetto.

Raistlin intanto riprese a respirare.«Noi dove andiamo?» domandò Caramon, scrutando sopra la testa della

folla.«Da qualche parte nelle prime file».«Tieniti dietro di me», consigliò Caramon, poi protese in fuori i gomiti e

si creò a spintoni un sentiero in mezzo alla folla mentre le altre persone si

accigliavano ma tenevano per sé i commenti rabbiosi che stavano per farequando notavano le dimensioni di chi le aveva urtate.

I posti a sedere più vicini all'arena erano però tutti occupati. In fondoalla navata c'era posto al massimo per una persona, a patto che fosseminuta.

«Sta' a guardare», disse Caramon, strizzando l'occhio al fratello.Un attimo più tardi occupò quel posto vuoto e prese ad agitarsi e a urtare

con il proprio corpo quello dell'elegante e facoltosa donna che gli sedeva

accanto, che lo fissò con occhi di brace e si ritrasse con freddadeterminazione dal suo tocco. Raistlin si stava chiedendo cosa suo fratello

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sperasse di ottenere in quel modo, dato che ancora non c'era spazio asufficienza anche per lui, quando Caramon emise all'improvviso un ruttosonoro seguito da una flatulenza altrettanto rumorosa.

Le persone sedute nelle vicinanze contrassero il volto in una smorfia efissarono Caramon con disgusto mentre la donna che gli sedeva accanto si premeva una mano sul naso e gli scoccava un'occhiata rovente a cui luirispose con un sorriso contrito.

«Fagioli per cena», spiegò.La donna si alzò in piedi e raccolse intorno a sé le vesti di seta nel

trapassarlo con uno sguardo disgustato.«Zoticone!» esclamò. «Non capisco perché permettano a gente della tua

risma di entrare qui, ma puoi essere certo che ora andrò a protestare!».

E si avviò lungo la scala alla ricerca di uno dei preti.Caramon intanto segnalò al fratello di venire ad occupare il posto vuoto

che si era creato accanto a lui.«Non mi ero reso conto che sapessi essere tanto astuto, fratello mio»,

commentò Raistlin, sedendogli accanto.«Astuto io? Altroché!» ridacchiò Caramon.Raistlin intanto si guardò intorno alla ricerca di Sturm, che ben presto

localizzò in piedi all'ombra di una colonna vicino alla navata. Tasslehoff 

non era visibile, ma probabilmente Sturm aveva nascosto il kender nell'ombra.

Anche Sturm stava cercando di individuare Raistlin, e non appena loavvistò gli rivolse un breve cenno del capo, accennando al tempo stessocon il pollice a qualcosa; contemporaneamente una piccola mano apparveda dietro la sua schiena, si agitò in un gesto di saluto e scomparve. Ilkender e il cavaliere erano in posizione.

Girandosi verso l'arena, Raistlin non ebbe difficoltà a trovare sua sorella,

che era nel recinto sul davanti dell'arena insieme con gli altri che eranostati invitati a comunicare con i loro parenti morti.

Quasi avesse avvertito su di sé il suo sguardo, Kitiara sfoggiò il proprioabituale sorriso in tralice, e Raistlin si rese conto con una certa dose diamarezza che lei era calma e rilassata, e che si stava perfino divertendo.

Lui invece no.Quando anche gli ultimi ritardatari si furono affrettati a prendere posto,

le porte vennero chiuse e sul tempio calò il buio. Un momento più tardi i

 bracieri disposti nell'arena si accesero e il canto ebbe inizio, annunciandol'arrivo dei preti e delle sacerdotesse con i cesti contenenti le vipere

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incantate. Presto Judith avrebbe fatto il proprio ingresso, il che significavache il momento in cui Raistlin avrebbe dovuto agire si stava avvicinando.

Lui era terrorizzato, e dai sintomi aveva anche capito quale fosse lanatura del suo problema: era un attacco di panico da palcoscenico.

In passato, gli era capitato di sperimentare qualcosa di simile, anche sein misura drasticamente minore, prima delle sue esibizioni durante le piccole fiere che si tenevano a Solace, ma in quei casi la paura era sempresvanita non appena aveva cominciato ad esibirsi e quindi non se n'era particolarmente preoccupato.

D'altro canto, non si era mai esibito davanti ad un pubblico di questedimensioni, e che andava per di più considerato ostile, e la posta in gioconon era mai stata tanto grande, il che significava che la sua paura era cento

volte più intensa di quanto lo fosse mai stata in passato.Le sue mani erano gelate fino all'osso, le dita tanto rigide da indurlo a

temere di non riuscire a muoverle quanto bastava per estrarre la pelled'agnello dalla custodia; al tempo stesso gli intestini gli si stavanocontraendo in maniera tale che per un orribile momento lui ebbe il timoredi dover abbandonare l'assemblea per andare in cerca di una latrina, la bocca era tanto arida da non permettergli di pronunciare una sola parola...ma come avrebbe fatto ad attivare l'incantesimo se non poteva parlare? In

aggiunta a tutto questo era madido di sudore e si sentiva percorrere dai brividi.

D'un tratto lo stomaco gli si contrasse in modo tale da indurlo a pensareche la sua esibizione stesse per concludersi nell'ignominia e nella vergognaancor prima di essere cominciata, con lui che si vomitava addosso.

Intanto il Sommo Sacerdote aveva cominciato con le frasi diintroduzione ma Raistlin non vi badò e si piegò su se stesso, sentendosiinfelice e nauseato. Di lì a poco arrivò anche la Somma Sacerdotessa

Judith che rivolse al pubblico il suo solito discorso di benvenuto di cuiRaistlin non riuscì a sentire una sola parola a causa del ruggito che gliecheggiava negli orecchi: adesso il momento dell'azione era imminente,Caramon lo stava guardando pieno di aspettativa e da qualche partenell'ombra anche Kit lo stava fissando; Sturm era in attesa del suo segnalee così pure Tasslehoff. Tutti aspettavano lui, contavano su di lui,dipendevano da lui. Se avesse fallito lo avrebbero capito, sarebbero staticortesi e non lo avrebbero rimproverato. Lo avrebbero compatito...

Judith intanto aveva abbassato le braccia, con le maniche che lericadevano a coprire le mani, segno che stava per pronunciare

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l'incantesimo.Armeggiando con la custodia per pergamene, Raistlin costrinse le dita

intorpidite ad aprirne il coperchio e tirò fuori la pelle d'agnello con maniche tremavano a tal punto che per poco non la lasciò cadere. In preda al panico, timoroso di perderla nell'oscurità e di non riuscire poi a ritrovarla,serrò il pugno intorno ad essa.

Lentamente, tremando, si liberò quindi del mantello nero e si alzò in piedi. I suoi vicini di posto lo guardarono con irritazione, qualcuno alle suespalle emise un sibilo sonoro per ingiungergli di sedersi, e quando lui nonobbedì altre voci si levarono in segno di protesta, creando una confusioneche indusse altri fra il pubblico a girarsi a guardare verso di lui, compresouno dei preti che si trovavano nell'arena.

Frenetico, Raistlin si frugò nella mente alla ricerca del discorso cheaveva preparato con tanta cura e ripetuto così spesso, ma non riuscì aricordarne neppure una parola: stordito dalla paura che lo paralizzava,srotolò la pergamena e la fissò, nella speranza di trovare ispirazione inessa.

Le lettere delle parole magiche brillavano di un tenue e piacevolechiarore come se la punta del pennino che le aveva stilate fosse stataintinta nel fuoco. Il calore della magia si diffuse dalla pergamena alle sue

dita ghiacciate, portando con sé un senso di rassicurazione: lui possedevala capacità di attivare quell'incantesimo, di gestire la magia. Avrebbeimposto la propria volontà su queste persone, le avrebbe tenute sotto il proprio controllo.

Quella consapevolezza lo galvanizzò e il senso di potere consumò la sua paura.

Quando infine parlò, la sua stessa voce gli suonò poco familiare perchéera in genere sommessa e non si era aspettato di sentirla risuonare così

 possente. Cercò allora di modularla in modo da sfruttare al megliol'acustica del tempio e il risultato fu così drammatico che perfino lui nerimase sorpreso.

«Cittadini di Haven» esordì, «amici e vicini. Mi presento davanti a voi per avvertirvi che vi si sta raggirando!».

Mormorii e borbottii si levarono dalla folla. Alcuni gli gridarono conrabbia di smetterla di insultare il dio, altri si mostrarono irritati e preoccupati che il suo intervento impedisse il preannunciato miracolo. Qua

e là qualcuno batté le mani e lo incitò invece a proseguire: quelle erano persone che erano venute per assistere ad uno spettacolo, e questo

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intervento garantiva che il loro denaro era stato ben speso. Da tutte le partila gente protese il collo per cercare di vedere meglio chi aveva parlato, e parecchi fra gli spettatori si alzarono in piedi.

 Nell'arena i preti e le sacerdotesse guardarono con incertezza il lorocapo, chiedendosi cosa dovevano fare. Ad un segnale del SommoSacerdote levarono allora la voce nel canto per cercare di soffocare le parole di Raistlin; intanto Caramon si era alzato in piedi per ergersi protettivamente accanto al fratello e stava tenendo d'occhio con fareminaccioso gli accoliti che si erano muniti di torce e stavano scendendolungo la navata per venire verso di loro.

Raistlin non stava però badando a tutta quella confusione: il suo sguardoera fisso su Judith, che aveva sospeso l'attivazione dell'incantesimo e dopo

averlo localizzato fra la folla lo stava fissando a sua volta. A causadell'oscurità lei non era in grado di riconoscerlo, ma vide la sua veste bianca e comprese immediatamente il pericolo che stava correndo; la suaconfusione durò però un solo istante, poi lei ritrovò subito il controllo.

«Attenti al mago!» esclamò. «Prendetelo e portatelo via! A quelli comelui è proibito entrare nel tempio: viene ad operare fra di noi la sua magiamalvagia!».

«Sentiamo qualcosa di più in merito alla magia malvagia, Vedova

Judith», gridò di rimando Raistlin.A quel punto lei lo riconobbe e il sangue le salì al volto per l'ira, le

 pupille le si dilatarono negli occhi sgranati e le labbra pallide si mosserosenza emettere suono, mentre Raistlin si sentiva assalire da un senso diallarme e di sgomento alla vista dell'odio che si leggeva nel suo sguardo.

Sotto il suo impatto la sicurezza appena ritrovata vacillò e Judith parveavvertirlo. Socchiudendo le labbra in un terribile sorriso fece ciò cheavrebbe dovuto fare fin dall'inizio, volgergli le spalle ignorandolo.

Intanto gli accoliti stavano scendendo rumorosamente le scale direttiverso di lui, ma per fortuna alcuni fra il pubblico si erano spostati nellanavata per vedere meglio e stavano bloccando loro il passo; con i pugniserrati, Caramon era pronto a tenere a bada gli aggressori, ma era soltantoquestione di tempo prima che essi lo sopraffacessero grazie alla lorosemplice superiorità numerica.

«Posso provare che le mie accuse sono vere!» gridò Raistlin, ma la vocegli s'incrinò e la gente prese a fischiare e a deriderlo. Imbarazzato e

consapevole che stava perdendo il controllo sul pubblico, lui lottòdisperatamente per ritrovarlo. «La donna che si definisce una Somma

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Sacerdotessa compie quello che lei chiama un miracolo... ma io possodimostrare che è soltanto una magia usando esattamente lo stessoincantesimo e facendo apparire fra di voi un altro cosiddetto dio. Mirate!».

Arrivato al momento cruciale scoprì di non avere bisogno della pergamena perché le parole dell'incantesimo gli erano penetrate nel sanguee la magia stava creando una polla di fuoco intorno al suo cuoremartellante per poi essere trasportata dal sangue in ogni parte del corpo.Recitò quindi le parole dell'incantesimo, pronunciando ciascuna di esse inmodo preciso e corretto, crogiolandosi nell'esaltante sensazione che lamagia gli dava nel fluirgli come acciaio fuso lungo le gambe, le braccia ele dita.

Attingendo alle energie di quanti lo stavano osservando, utilizzando

l'odio e la furia dei suoi nemici a proprio vantaggio, scagliò quindi lamagia fuori da sé e l'incantesimo sciamò dalla sua persona, parvesollevarlo per trasportarlo lungo un irradiarsi di onde di fuoco e di calore.

Contemporaneamente un gigante apparve davanti al pubblico: ungigante spaventoso che aveva un'enorme coda di cavallo e indossava pantaloni a scacchi verdi e una camicia di seta porpora, che aveva sacche e borse drappeggiate su tutto il corpo e faceva del suo meglio per darel'impressione di apprezzare l'enormità della situazione.

«Mirate!» ripeté intanto Raistlin. «Il Kender Gigante di Balifor!».Alcune persone sussultarono, altre scoppiarono in risatine nervose e

cariche di tensione mentre il gigantesco kender procedeva lungo la navatamantenendo un'espressione così seria e solenne che il naso gli vibrava per lo sforzo.

«Evocate Belzor!» gridò qualcuno. «Fatelo lottare con il kender!».«Io scommetto sul kender!» gridò qualcun altro.Ondate di risa divertite aleggiarono fra la folla, buona parte della quale

era venuta per vedere uno spettacolo e si sentiva ricompensata; alcuni fra ifedeli lanciarono invece grida di rabbia, pretendendo che il mago cessasseil suo sacrilegio, ma una volta scatenato il riso era una cosa difficile daarrestare.

Il riso... un'arma letale quanto qualsiasi lancia.«In quest'angolo Belzor e nell'altro...» esclamò qualcuno.Le risate salirono di tono, facendosi ruggenti. Nel frattempo quattro

accoliti erano riusciti ad arrivare in fondo alle scale e stavano cercando di

afferrare Raistlin, ma Caramon non ebbe difficoltà a respingerli a maninude, spintonandoli; i vicini di posto, che si stavano godendo lo spettacolo

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e non volevano che finisse, intervennero a dargli una mano e alcuni deifedeli si schierarono dalla parte degli accoliti mentre tre uomini che eranovenuti al tempio dopo essere passati da una birreria si lanciavano conentusiasmo nella mischia senza badare alla fazione con cui si stavanoschierando. Ben presto un piccolo tumulto scoppiò tutt'intorno a Raistlin.

Le grida e le imprecazioni attirarono l'attenzione degli uomini dellaGuardia Cittadina di Haven che si trovavano fra il pubblico e che fino aquel momento avevano continuato a scoccare occhiate nervose al lorocapitano, timorose che questi potesse ordinare loro da un momento all'altrodi arrestare il kender gigantesco. Quanto al capitano, era anche luiconsiderevolmente sconvolto dato che gli si stava parando davanti agliocchi l'immagine di quell'immenso kender rinchiuso nella prigione di

Haven, con la testa e la maggior parte del torso che sbucavano dal foro cheavrebbero dovuto praticare nel soffitto.

In quelle circostanze un semplice e comune tumulto era decisamente il benvenuto, quindi il capitano si disinteressò del kender e ordinò ai suoiuomini di andare a sedare la rissa in corso.

 Nel frattempo il kender continuò indisturbato la propria marcia lungo lanavata, anche se adesso ben pochi gli stavano ancora prestando attenzione,dato che ormai quasi tutti i presenti erano in piedi.

I più prudenti, notando che la situazione stava sfuggendo pericolosamente al controllo, radunarono la famiglia e si avviarono versol'uscita, mentre quanti amavano le situazioni emozionanti rimanevanoinvece al loro posto, salendo in piedi sui sedili per cercare di vederemeglio e i giovani presenti fra il pubblico si lanciarono di corsa attraversol'arena per andare a prendere parte alla mischia. Nel frattempo parecchi bambini sfuggirono alla presa delle madri frenetiche per gettarsiall'inseguimento del kender gigantesco e alcuni nani presero a lottare

contro chiunque gli capitasse a tiro, giurando che questo era il miglior raduno religioso a cui avessero preso parte dall'epoca del Cataclisma.

Raistlin intanto si era rifugiato sopra il sedile di marmo, sentendosidapprima sgomento e poi eccitato al pensiero di essere lui l'artefice di tantaconfusione, il sobillatore di quel caos.

In quel momento assaporò il potere e scoprì che il suo gusto era dolce... per lui più dolce anche dell'amore e del profitto. Raistlin non avevadifficoltà a vedere i fatali difetti presenti negli esseri mortali, vedeva la

loro avidità, i loro pregiudizi, la loro credulità, la loro perfidia e la loro bassezza d'animo, tutte pecche per le quali li disprezzava, e in quel

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momento comprese che avrebbe potuto sfruttare quelle pecche per i proprifini, quali che potessero essere, operando il bene o il male con il suo potere, a seconda di quello che avesse scelto.

In preda ad un senso di trionfo si girò verso la Somma Sacerdotessa escoprì che era scomparsa... e con lei anche Kitiara.

Sgomento, Raistlin afferrò Caramon per il dietro della camicia, la sola parte di lui che fosse visibile, e diede uno strattone. In quel momentoCaramon stava lottando contro due accoliti, tenendone uno per la gola el'altro ad un braccio di distanza mentre continuava a ripetere loro chedovevano calmarsi e lasciare in pace la gente onesta. Quando lo strattonealla camicia rischiò quasi di soffocarlo, Caramon girò di scatto la testa per vedere di cosa si trattasse.

«Lasciali andare e vieni con me!» gridò Raistlin.Intorno a loro c'erano pugni che si agitavano, uomini che si

spintonavano, gridavano e imprecavano, una confusione che le guardieavevano soltanto aumentato nel loro tentativo di ripristinare l'ordine.Guardandosi intorno per un momento, Raistlin cercò di rintracciare Sturmin quella confusione ma non riuscì a trovarlo; intanto il kender gigantescoera scomparso perché l'incantesimo si era dissolto quando la disponibilitàdel pubblico a credere nell'illusione era scomparsa, e adesso Tasslehoff,

tornato alle sue dimensioni normali, era sepolto sotto una valanga diragazzini.

Con lo svanire dell'incantesimo anche la magia era defluita da Raistlin,lasciandolo prosciugato come se si fosse aperto un'arteria e ne avesse fattoscaturire tutto il proprio sangue. Adesso ciò che desiderava disperatamenteera raggomitolarsi sotto una coperta e dormire, dormire per giorni, perònon osava farlo. La sua debolezza era tale che quando cercò di muovere un passo barcollò e per poco non cadde.

«Raist, hai un aspetto spaventoso!» esclamò Caramon, prendendolo per un braccio. «Cosa ti succede? Stai male? Avanti, lascia che ti porti io!».

«Niente affatto! Adesso taci e ascoltami!» ordinò Raistlin, che nonaveva né tempo né energie da sprecare con le stupidaggini di Caramon;accennò quindi ad allontanare da sé il braccio con cui il fratello lo stavasostenendo ma poi si rese conto che senza di esso avrebbe rischiato dicollassare e aggiunse: «D'accordo, allora aiutami a camminare! Non daquella parte, stupido! La porta sotto il serpente! Dobbiamo trovare

Judith!».«Trovare quella strega?» ribatté Caramon, accigliandosi. «E perché? Ci

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siamo liberati di lei, e che l'Abisso se la prenda!».«Non sai cosa stai dicendo, Caramon!» sussultò Raistlin, assalito da un

senso di minacciosa premonizione che gli destò un brivido in tutto ilcorpo. «Se non verrai con me andrò da solo».

«D'accordo, Raist», assentì Caramon in tono sottomesso, impressionatodal tono urgente del fratello. «Togliti di mezzo!» gridò quindi, assestandoun pugno ad una magra guardia cittadina che stava invano cercando dicircondargli con le mani il collo taurino.

Aiutato Raistlin a scendere dal gradino di marmo, Caramon loaccompagnò verso la corda che impediva ai fedeli l'accesso all'arena.

«Attento alle vipere!» ammonì Raistlin, appoggiandosi al braccio possente del fratello. «L'incantesimo che le teneva sottomesse è cessato».

Caramon fece un largo giro per evitare i serpenti che continuavano adondolarsi nei loro cesti, abbandonati dal Sommo Sacerdote e dai suoiseguaci che si erano saggiamente lasciati alle spalle sia l'arena sia levipere. Nel momento stesso in cui Raistlin pronunciava il suoavvertimento, uno dei serpenti scivolò fuori dal cesto e prese a strisciaresul pavimento.

Intanto la gente cominciava a riversarsi verso il centro dell'arena per sfuggire alla mischia sempre più violenta oppure per cercare nuovi

avversari. Una delle guardie andò a sbattere contro un braciere e nerovesciò i carboni ardenti sulla paglia che copriva il pavimento al fine diovattare i rumori: subito dal suolo si levarono lingue di fiamma, volute difumo si arrotolarono nell'aria e il pandemonio generale aumentòulteriormente quando qualcuno prese a gridare in tono isterico chel'edificio era in fiamme.

«Da questa parte!» ordinò Raistlin, indicando la stretta porta inseritanella statua di pietra del serpente.

I due fratelli si addentrarono in un corridoio di pietra rischiarato da torcetremolanti, nel quale si aprivano parecchie porte su entrambi i lati, e nelguardare oltre una di quelle soglie, Raistlin vide un'ampia stanzasplendidamente arredata e rischiarata da centinaia di candele di cera:dunque quelle erano le camere in cui i preti di Belzor vivevano,lussuosamente, a quanto pareva, e lavoravano. Era stata speranza diRaistlin di trovare Judith in una di quelle stanze, ma esse erano tutte vuotecome pure quella parte del corridoio, segno che i seguaci di Belzor 

avevano ritenuto più saggio abbandonare il tempio in balia della folla intumulto.

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Lanciando intorno a sé un'occhiata affrettata, Raistlin scoprì poi che nontutti i fedeli seguaci del dio erano fuggiti: in un angolo in ombra c'era unafigura accoccolata, e quando fu più vicino lui poté constatare che sitrattava di una delle sacerdotesse, che doveva essere ferita oppure esserecrollata per la paura. Quale che fosse il motivo per cui era rimasta indietro,gli altri seguaci di Belzor l'avevano abbandonata e adesso lei eraraggomitolata contro la parete di pietra e stava piangendo disperatamente.

«Chiedile dove possiamo trovare Judith» ordinò Raistlin, ritenendo piùsaggio rimanere nascosto nell'ombra dietro suo fratello.

Caramon si protese a sfiorare con gentilezza la mano della sacerdotessa per attirare la sua attenzione e lei sussultò, sollevando il volto striato dilacrime a fissarlo con aria spaventata.

«Dov'è la Somma Sacerdotessa?» chiese Caramon.«Non è stata colpa mia! Lei ci ha mentito!» esclamò la ragazza,

deglutendo a fatica. «Io le credevo!».«Ne sono certo. Dove...»Da qualche parte echeggiò un urlo di rabbia che si mutò in un acuto

grido di paura per poi interrompersi di colpo con un orribile gorgoglio cheebbe l'effetto di raggelare Raistlin fino alle ossa per l'orrore; quanto allaragazza, urlò a sua volta e sì coprì gli orecchi con le mani.

«Dov'è Judith?» insistette Caramon, che non aveva idea di cosa stessesuccedendo ma aveva un ordine a cui obbedire e non intendeva permetterea nulla di distrarlo. Per dare enfasi alle proprie parole scosse leggermentela ragazza spaventata.

«È nella sua sala d'attesa... laggiù», gemette la sacerdotessa,sollevandosi in ginocchio. «Dovete credermi! Io non lo sapevo...».

 Notando che Raistlin si era già avviato nella direzione indicata dallaragazza, Caramon non attese di sentire altro e si affrettò a raggiungere il

fratello all'estremità del corridoio, che in quel punto si biforcava a Y in duediversi passaggi. Le torce poste sul lato sinistro del corridoio, quello dovesi trovava la stanza di Judith, erano state spente e quella parte del tempioera immersa nel buio.

«Ci serve una luce», ordinò Raistlin.Prima di addentrarsi nella parte buia del corridoio Caramon afferrò una

delle torce accese e la levò in alto.Il fumo prodotto dalla paglia che stava bruciando nell'arena era intanto

filtrato fin lì e si stava muovendo in riccioli sinuosi lungo il pavimento; infondo al corridoio buio era adesso visibile grazie alla torcia una singola

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 porta su cui spiccava il simbolo del serpente lavorato in oro.«Hai sentito quell'urlo, Raist?» domandò a disagio Caramon, fermandosi

di colpo.«Sì, e di certo non siamo stati i soli a sentirlo», rispose Raistlin,

scoccando al fratello un'occhiata impaziente. «Perché te ne stai fermo lì?Spicciati, presto la gente verrà ad indagare e non abbiamo molto tempo».

Con quelle parole si avviò nel corridoio buio, e dopo un momento diesitazione Caramon si affrettò a raggiungerlo; quando Raistlin bussò condecisione alla porta essa si aprì da sola non appena entrò in contatto con lasua mano.

«Tutto questo non mi piace, Raist. Andiamo via», incitò Caramon,nervoso e scosso.

Raistlin però spinse la porta, spalancandola.La piccola stanza era intensamente illuminata da venti o trenta grosse

candele disposte su una sporgenza di pietra della parete, spessi tendaggi divelluto nascondevano in parte un'altra porta, questa chiusa, che davaaccesso ad una stanza posteriore che era probabilmente la camera da lettodi Judith; un boccale di peltro pieno di vino e un piatto di pane e carne, chesarebbero dovuti servire a ripristinare le energie della sacerdotessa dopo ilrituale erano sistemati su un piccolo tavolo di legno.

Judith però non aveva più bisogno di mangiare e le sue esibizioni eranofinite per sempre: la maga giaceva infatti al suolo sotto il tavolo e intorno alei il pavimento era coperto di sangue perché la gola le era stata tagliatacon violenza tale che chi l'aveva uccisa le aveva quasi troncato la testa dalcollo.

Di fronte a quello spettacolo orribile, Caramon fu assalito da un conatodi vomito e si coprì gli occhi con le mani.

«Oh, Raist! Non dicevo sul serio!» mormorò, sgomento. «Riguardo

all'Abisso, io non dicevo sul serio!».«Nonostante questo, fratello mio», replicò Raistlin, che stava invece

contemplando il corpo con una calma spaventosa, «possiamo supporresenza tema di errore che l'Abisso sia proprio la sua attuale residenza.Vieni, dobbiamo andare via subito perché nessuno ci deve trovare qui».

Stava per volgere le spalle al cadavere quando con la coda dell'occhiointravide un bagliore prodotto dalla luce della torcia che si rifletteva suqualcosa di metallico, e guardando più attentamente scorse un coltello

abbandonato a terra accanto al corpo: lui conosceva quel coltello, lo avevagià visto in precedenza, quindi dopo appena una frazione di secondo

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d'esitazione si chinò rapidamente a raccoglierlo e lo infilò nella manicadella veste.

«Presto, fratello mio! Sta arrivando qualcuno!».All'esterno della stanza si sentì un rumore di piedi calzati di stivali, unito

alla voce acuta della ragazza che indirizzava la guardia cittadina verso lecamere della Somma Sacerdotessa, e nel momento stesso in cui Raistlinarrivò alla porta sulla soglia apparvero il capitano della Guardia e parecchidei suoi uomini, che alla vista del cadavere si arrestarono di colpo,allarmati e stupiti; una delle guardie volse le spalle alla scena e si ritirò inun angolo dove vomitò senza dare nell'occhio.

Il capitano era pero un vecchio soldato che aveva visto la morte in moltidei suoi orribili aspetti e che non era quindi particolarmente sconvolto da

quello spettacolo. Fissò quindi dapprima i resti di Judith, che era venuto ainterrogare perché sospetta di aver frodato il denaro dei buoni cittadini diHaven, poi spostò lo sguardo severo sui due giovani presenti nella stanza eli riconobbe immediatamente come i due che avevano scatenato i disastrosieventi della serata.

«Io... io non dicevo sul serio...» balbettò con voce rotta Caramon, cheera pallido quasi quanto il cadavere esangue.

Raistlin rimase invece in silenzio, impegnato a riflettere rapidamente: la

situazione era infatti disperata, perché le circostanze erano tutte contro diloro.

«Cos'è questa?» domandò intanto il capitano, indicando una macchia disangue sulla manica della veste bianca di Raistlin.

«Ho una certa reputazione come guaritore e mi sono chinato adesaminarla», rispose Raistlin. Stava per aggiungere che voleva vedere sec'era qualche segno di vita ma un'occhiata al corpo gli fece capire quantosarebbe parsa assurda un'affermazione del genere e preferì non dire altro.

Intanto era acutamente consapevole del coltello che teneva stretto inmano: l'impugnatura era coperta di sangue che gli si stava appiccicandoalle dita e lui si sentiva così disgustato che avrebbe dato qualsiasi cosa per  potersele lavare.

Raccogliere il coltello era stato un atto di una stupidità incredibile eadesso Raistlin stava imprecando contro se stesso per la propria follia,senza riuscire a capire cosa potesse averlo spinto ad un gesto cosìsconsiderato... probabilmente qualche vago e istintivo desiderio di

 proteggere lei, anche se sapeva che lei al suo posto non avrebbe mai fattoaltrettanto per lui.

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«L'arma non è qui», affermò intanto il capitano, dopo aver scoccatoun'altra occhiata alla veste insanguinata di Raistlin e aver esaminato lastanza con uno sguardo superficiale. «Perquisiteli entrambi».

Una delle guardie afferrò rudemente Raistlin, bloccandogli le bracciamentre una seconda guardia gli sollevava le lunghe maniche, rivelando ilcoltello insanguinato stretto nella mano a sua volta sporca di sangue.

«Prima il kender gigante e adesso un assassinio», commentò il capitano,con un cupo sorriso di trionfo. «Hai avuto una nottata impegnata,giovanotto».

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Come aveva giustamente protestato Tasslehoff, la prigione di Haven nonera particolarmente accogliente. Posta vicino alla casa dello sceriffo, erasituata all'interno di un edificio che un tempo era stato un granaio e che eraquindi freddo e pieno di correnti, con i pavimenti sporchi coperti di rifiuti;in aggiunta a questo le celle puzzavano di escrementi sia di cavallo siaumani, e anche del vomito di coloro che avevano bevuto troppo spirito deinani nel corso della fiera.

Raistlin però non si accorse dell'odore, almeno dopo i primi secondi,

 perché era troppo stanco per badare a qualsiasi cosa, al punto che in quelmomento avrebbero potuto impiccarlo, l'impiccagione era la pena previstaad Haven per l'assassinio, e lui avrebbe accettato la cosa senza protestare.Lasciatosi cadere su uno sporco materasso di paglia, scivolò in un sonnocosì profondo che non sentì neppure i topi che gli passavano sulle gambe.

Quel suo sonno senza sogni fornì intanto un argomento di conversazionealle guardie della prigione, in quanto una di esse sosteneva che chidormiva in maniera così serena doveva essere innocente di qualsiasi

accusa di assassinio in quanto una coscienza colpevole non avrebbe mai potuto godere di un sonno sereno; un'altra guardia più vecchia ed espertarise però della teoria del compagno, e dichiarò che un sonno tranquillo erainvece indice del fatto che il prigioniero era un incallito criminale, capacedi dormire profondamente quando aveva ancora sulle mani il sangue dellasua vittima.

Raistlin però non sentì la loro discussione e neppure le voci chiassosedegli altri prigionieri, per lo più kender pieni di eccitazione perché quella

era stata una giornata ricca di eventi, compresi una rissa, un incendio, unassassinio e, cosa più meravigliosa di tutti, un membro della loro razza

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trasformato in un gigante... un'impresa davvero incredibile di cui nonrisultava fosse mai stato capace neppure zio Trapspringer; dopo quella serail kender gigante era destinato a diventare una figura mitologica celebratanei canti e nelle storie dei kender, spesso vista attraversare a grandi passigli oceani o saltare da una cima montana all'altra. Da allora, se capitavauna notte in cui la luna d'argento e quella rossa non sorgevano, i kender divennero propensi a raccontare a tutti che era stato il kender gigante a"prenderle in prestito".

Impazienti di discutere di quell'evento incredibile, i kender entravano euscivano di continuo dalle rispettive celle, forzando le serrature quasi prima che la porta fosse stata chiusa, e le guardie facevano appena intempo a riportare uno di essi nella sua cella che ne trovavano altri due in

circolazione per la prigione.«Sta tremando», osservò d'un tratto la guardia più giovane, guardando

nella cella di Raistlin durante un momento di pausa concesso loro daikender, pausa che peraltro non presagiva nulla di buono perché significavache essi stavano escogitando chissà che cosa. «Non dovrei portargli unacoperta?».

«No», ribatté con un sogghigno il carceriere. «Presto avrà caldo asufficienza... anzi, anche troppo se capisci cosa intendo. Dicono che

l'Abisso sia più caldo della fucina di un fabbro».«Immagino che lo processeranno prima d'impiccarlo», protestò l'altra

guardia, che era nuova della zona.«Lo sceriffo terrà un processo per pura formalità», annuì il carceriere,

scrollando le spalle, «ma per quel che mi riguarda non vedo che bisogno cisia di farlo, dato che lo hanno trovato con il coltello in mano e fermoaccanto al cadavere. Avanti, coprilo pure, se vuoi», continuò, esibendo unacoperta sporca. «Sarebbe un peccato se dovesse ammalarsi e morire prima

dell'impiccagione. Dammi le chiavi».«Non le ho. Credevo che le avessi tu».Dopo qualche ricerca risultò che erano i kender ad avere le chiavi: essi

infatti si riversarono fuori da tutte le celle e organizzarono un picnic nelcentro della prigione.

Intenti com'erano a cercare di persuadere i kender a restituire loro lechiavi, il carceriere e la guardia erano troppo distratti per notare il baglioredi torce che si stava avvicinando alla prigione, e le grida dei kender 

impedirono loro di sentire le urla della folla che si stava avvicinando.Spossato a causa dell'incantesimo e dell'interrogatorio dello sceriffo,

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Raistlin rimase immerso nel suo sonno quasi comatoso e a sua volta nonsentì nulla.

 Neppure Caramon vide il bagliore delle torce, perché in quel momentoera lontano dalla prigione e stava correndo più in fretta che poteva verso lafiera dopo aver evitato di stretta misura di essere preso prigioniero a suavolta. Quando era stato interrogato dallo sceriffo di Haven, aveva negatocon costanza e determinazione di sapere qualsiasi cosa in merito alcrimine, sia per quanto riguardava se stesso sia a nome del fratello, cheintanto continuava a sua volta a ripetere stancamente la propria versionedell'accaduto, e cioè che era inginocchiato accanto al corpo per esaminarela vittima. Quanto al coltello non aveva idea del perché lo avesse raccolto

o avesse cercato di nasconderlo, probabilmente aveva agito così perché siera trovato in stato di shock e non si era reso conto di quello che stavafacendo. Inoltre, aveva ribadito enfaticamente, Caramon non aveva nulla ache vedere con quanto era accaduto.

Per fortuna la giovane sacerdotessa si era presentata come testimone eaveva dichiarato che stava parlando con Caramon nel corridoio quandoavevano sentito Judith urlare. Caramon aveva giurato che il suo gemelloera stato con lui in quel momento, ma la ragazza aveva ribadito di aver 

visto soltanto lui.A causa di quell'alibi lo sceriffo era stato costretto sia pure con riluttanza

a liberare Caramon, che aveva scoccato un'occhiata devota, ansiosa e preoccupata al fratello, che l'aveva ignorata, e si era allontanato in tuttafretta verso la fiera, riflettendo lungo il tragitto su quanto era accaduto.

La gente lo accusava di essere stupido e lento di mente, e pur nonessendo stupido lui in effetti era lento nel ragionamento, anche se nonnella comune accezione di quella definizione con cui di solito s'intendeva

una persona stupida. Caramon infatti era un pensatore, lento e razionale,che considerava ogni aspetto di un problema prima di arrivare infine allasoluzione, e a causa della lentezza di quel procedimento la maggior partedella gente di solito non notava che lui arrivava invariabilmente allasoluzione giusta.

Adesso Caramon aveva davanti a sé parecchi chilometri lungo i qualiriflettere sulla terribile situazione che si era creata. Lo sceriffo era stato deltutto trasparente e aveva ammesso che ci sarebbe stato un processo

 puramente formale, il cui esito era già scontato in partenza: Raistlinsarebbe stato riconosciuto colpevole di omicidio e sarebbe stato impiccato,

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sentenza che sarebbe probabilmente stata eseguita il giorno stesso del processo, non appena fosse stato possibile montare il patibolo.

Quando infine giunse alla fiera, Caramon aveva ormai preso unadecisione e sapeva con esattezza cosa doveva fare.

L'area della fiera era tranquilla, rischiarata qua e là da una luce chefiltrava attraverso gli antoni chiusi delle bancarelle perché sebbene fosseormai passata la mezzanotte alcuni artigiani stavano ancora lavorandoduramente per preparare una nuova scorta di merce per l'indomani, chesarebbe stato l'ultimo giorno di fiera, l'ultima occasione per indurre iclienti a comprare le loro mercanzie.

La notizia di quanto era successo ad Haven non era evidentementeancora giunta fin lì oppure, se vi era giunta, era stata accolta come una

storia interessante e niente di più, perché quei mercanti certo non pensavano che essa potesse avere il minimo riflesso sui loro interessi;senza dubbio avrebbero avuto un parere diverso l'indomani, perché sedavvero ci fossero stati un processo per omicidio e un'impiccagionel'afflusso alla fiera sarebbe stato scarso e le vendite poche.

Caramon rintracciò la bancarella di Flint orientandosi in base allesagome dei diversi edifici che spiccavano sotto la pallida luce delle stelle equella della luna rossa, che era piena e proiettava un chiarore anche troppo

intenso... cosa che a Caramon parve un buon presagio perché pur portandola veste bianca Raistlin aveva affermato una volta che la sua preferenzaandava a Lunitari.

Innanzitutto Caramon andò alla ricerca di Sturm, ma non riuscì a trovareda nessuna parte né lui né Tasslehoff e infine si recò alla tenda di Tanis,esitando davanti all'apertura.

Essendo abbastanza disperato da non avere il minimo scrupolo ainterrompere qualsiasi piacevole attività che potesse essere in corso

all'interno della tenda, Caramon ascoltò per un momento e quando nonriuscì a sentire nulla sollevò il telo d'ingresso per sbirciare all'interno,scoprendo che Tanis era solo e immerso in un sonno tutt'altro che sereno,dato che stava mormorando qualcosa in una lingua incomprensibile, probabilmente elfica, e si agitava con inquietudine. Deducendo che aquanto pareva la lite non era ancora stata superata, Caramon lasciòricadere il telo e indietreggiò.

Entrando nella tenda che divideva con il suo gemello, non rimase

sorpreso di trovarvi Kitiara, avvolta in una coperta e all'apparenza immersain un sonno tranquillo e sereno, almeno a giudicare dal suo respiro

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uniforme; un'ondata di luce lunare si riversò nella tenda insieme conCaramon, quasi che Lunitari stessa fosse decisa ad essere presente a quelcolloquio, e questo destò nell'animo di Caramon un senso di meravigliache si andò a mescolare all'ira che gli divampava nell'anima.

Accoccolandosi, toccò la spalla della sorella ed ottenne una reazionesoltanto dopo averla scossa parecchie volte... e da questo così come dallascarsa credibilità del modo in cui lei si girò e finse di non riconoscerloimmediatamente, comprese che Kitiara aveva finto di dormire. Sapevainfatti per passate e dolorose esperienze, che lei non era tipo da permetterea qualcuno di avvicinarlesi tanto di soppiatto.

«Chi è? Caramon?» mormorò Kitiara, fingendo uno sbadiglio e passandosi la mano fra i capelli arruffati. «Cosa vuoi? Che ore sono?».

«Hanno arrestato Raistlin», affermò Caramon.«Già, certo, non mi sorprende. Domattina pagheremo la multa e lo

tireremo fuori di prigione», ribatté Kit, tirandosi la coperta sulle spalle eaccennando a girarsi dall'altra parte.

«Lo hanno arrestato per omicidio», aggiunse Caramon, parlando allaschiena della sorella. «Per l'omicidio della Vedova Judith. Noi l'abbiamotrovata morta nelle sue stanze con la gola tagliata. Accanto al corpo c'eraun coltello che Raistlin ed io abbiamo entrambi riconosciuto perché lo

avevamo già visto in precedenza... alla tua cintura».Poi tacque, in attesa.Per un momento Kitiara rimase immobile, poi si liberò della coperta e si

levò a sedere, rivelando di essere ancora quasi del tutto vestita in quantoaveva indosso pantaloni, camicia e stivali, e si era tolta soltanto ilgiustacuore di cuoio.

«Allora perché hanno arrestato Raistlin?», domandò con disinvoltanoncuranza, addirittura leggermente divertita.

«Lo hanno trovato con il coltello in mano».«Questo è stato stupido da parte sua», affermò Kitiara, con una smorfia.

«Di solito il fratellino non fa simili errori. Quanto ad aver riconosciuto ilcoltello in questo mondo c'è una quantità di coltelli simili», aggiunsescrollando le spalle.

«Non molti con impresso il marchio di Flint, o con l'elsa avvolta nelcuoio intrecciato come sei solita fare tu. Quello era il tuo coltello, Kit, io eRaistlin lo sappiamo entrambi».

«Ma davvero?» ribatté Kitiara, inarcando un sopracciglio. «Raistlin hadetto qualcosa al riguardo?».

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«Naturalmente no, non lo farebbe mai, almeno non prima che io abbia parlato con te», replicò Caramon, cupo. «Però prima o poi lo farà».

«Non gli crederanno».«Allora dovrai essere tu a parlare. Sei stata tu ad ucciderla, vero, Kit?».Kitiara scrollò le spalle e non rispose; la luce della luna rossa, che si

rifletteva nei suoi occhi, continuò a riversarsi intensa nella tenda.«Allora lo farò io, Kit», disse Caramon, alzandosi in piedi. «Dirò loro la

verità». E si chinò per uscire dalla tenda.Kitiara scattò in piedi e l'afferrò per una manica.«Caramon, aspetta! C'è una cosa che devi considerare, qualcosa a cui

non hai pensato», affermò, traendolo di nuovo nella tenda e chiudendone iltelo d'ingresso in modo da escludere la luce lunare.

«Allora, di cosa si tratta?», chiese in tono freddo Caramon.«Sapevi che Raistlin poteva compiere magie come quelle?» domandò

Kitiara, facendoglisi più vicino.«Come cosa?» replicò lui, perplesso.«Come l'incantesimo che ha usato stanotte. Era potente, Caramon, io lo

so perché ho frequentato un po' alcuni maghi e ho visto... ecco, non haimportanza ciò che ho visto, ma puoi fidarti di me se ti dico che Raistlinnon avrebbe dovuto essere in grado di fare quello che ha fatto, non alla sua

giovane età».«È abile nella magia», affermò Caramon, che ancora non comprendeva

dove intendesse andare a parare Kitiara con questo discorso, usando lostesso tono con cui avrebbe potuto affermare che Raistlin era abile nelgiardinaggio o in cucina, perché per lui quella era una cosa del tuttonaturale.

«Sei imparentato con i nani dei fossi per essere tanto stupido?» domandòKitiara, accennando un gesto impaziente. «Possibile che tu non riesca a

capire?», aggiunse quindi, riducendo la voce ad un sibilo sommesso.«Ascoltami, Caramon. Tu hai detto che Raistlin è abile nella magia, eadesso io ti dico che lui è troppo abile, cosa di cui non mi ero resa conto prima di stanotte. Credevo che stesse soltanto giocando a fare il mago enon avevo idea che fosse così potente, non mi aspettavo...».

«Cosa stai dicendo, Kit?» chiese Caramon, che cominciava a perdere la pazienza.

«Lascialo a loro, Caramon», mormorò Kitiara, in tono sommesso.

«Lascia che lo impicchino! Raistlin è pericoloso, è come una di quellevipere: finché è sottoposto a incantesimo è gentile, ma se lo si contraria...

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non tornare alla prigione, Caramon, va' a letto e domattina se qualcunodovesse chiederti del coltello rispondi che apparteneva a Raistlin. Questo èciò che devi fare perché tutto finisca in fretta».

Caramon rimase sconvolto da quelle parole che lo colpirono come un pugno e lo lasciarono troppo stordito perché riuscisse a pensare ad unarisposta; incapace di decifrare il suo volto a causa dell'oscurità, Kitiaragiudicò la sua reazione in base ai propri standard e ritenne che lui sisentisse indotto in tentazione.

«Dopo saremo soltanto tu ed io, Caramon», continuò. «Ho avutoun'offerta per un lavoro, su al nord. La paga è buona e andrà migliorando.Si tratta di un lavoro mercenario, del genere di cui abbiamo sempre parlato, ed io metterò una buona parola per te. Senza dubbio il nobile ti

assolderà perché sta cercando soldati addestrati, e tu sarai libero da Solace,libero da qualsiasi legame», aggiunse, scoccando un'occhiata in tralice indirezione della tenda di Tanis per poi tornare a fissare il fratellastro econcludere: «Sarai libero di fare quello che vorrai. Che ne dici? Sei conme?».

«Vuoi che... che lasci morire... Raistlin?» chiese infine Caramon convoce roca, quasi strozzandosi nel proferire quelle parole.

«Lascia che accada quel che deve accadere», replicò Kitiara,

 blandendolo. «È per il meglio».«Non puoi dire davvero!» esclamò lui, incredulo. «Non parli sul serio!».«Non essere idiota, Caramon!» ribatté Kitiara, in tono severo. «Raistlin

ti sta usando, lo ha sempre fatto e sempre lo farà! Non gli importa niente dite e ti userà per ottenere quello che vuole, salvo poi scartarti come fossiuno straccio sporco quando non gli servirai più. Renderà la tua vita uninferno, Caramon! Lascia che lo impicchino! Non sarà colpa tua!».

Caramon indietreggiò con tanta violenza che per poco non abbatté il

 palo della tenda.«Come puoi... no. non lo farò!» esclamò, annaspando con il telo di

apertura nel disperato tentativo di uscire.Kitiara si scagliò contro di lui e gli affondò le unghie nella carne,

incombendo con il volto così vicino al suo che Caramon ne poté sentiresulla guancia il respiro rovente.

«Mi sarei aspettata una risposta del genere da Sturm o da Tanis, ma nonda te! Tu non sei uno smidollato, Caramon, Pensa a quello che ti ho

detto!».Caramon scosse con violenza il capo, sentendosi nauseato come quando

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aveva visto per la prima volta il cadavere della sacerdotessa, e anche sestava ancora cercando di uscire, adesso era così sconvolto che non riuscivaa trovare la porta.

Kitiara lo contemplò in silenzio con le mani sui fianchi, e alla fine emiseun sospiro esasperato.

«Lascia perdere!» ordinò in tono irritato. «Smettila di dibattertialtrimenti abbatterai la tenda. Adesso calmati, d'accordo? Non dicevo sulserio, stavo scherzando: non permetterei mai che impiccassero Raistlin».

«Questa è la tua idea di uno scherzo?» ribatté Caramon, asciugandosi ilsudore gelido dalla fronte. «Non sto ridendo. Allora, dirai la verità?».

«A cosa diavolo servirebbe?» ribatté Kitiara, e con un lampo d'iraaggiunse: «Vuoi che impicchino me invece di lui? Si tratta di questo?».

Angosciato e infelice, Caramon non replicò.«Non l'ho uccisa io» dichiarò intanto Kitiara, in tono freddo.«Il tuo coltello...».«In mezzo alla confusione che c'era nel tempio qualcuno me lo ha rubato

sfilandomelo dalla cintura. Te lo avrei detto se me lo avessi chiesto, invecedi accusarmi in quel modo. Questo è ciò che è veramente successo, ma pensi che qualcuno mi crederebbe?».

Caramon era del tutto certo che nessuno le avrebbe mai creduto.

«Vieni con me», ordinò intanto Kitiara. «Andiamo a svegliare Tanis, luisaprà cosa fare».

Si infilò quindi il giustacuore di cuoio e afferrò la spada che giaceva per terra accanto alla coperta, affibbiandosela alla cintura.

«Non fare parola con il mezzelfo del mio scherzo di prima perché luinon capirebbe», disse quindi a Caramon, accarezzandogli un braccio.

Incapace di parlare, Caramon si limitò ad annuire, consapevole che nonlo avrebbe mai raccontato a nessuno perché era una cosa troppo

vergognosa e orribile: forse si era trattato davvero di uno scherzo, per quanto macabro, ma lui non ne era convinto. Gli pareva di sentire ancorale parole di Kitiara, la veemenza con cui erano state pronunciate, ericordava bene la strana luce che le era apparsa nello sguardo. D'istinto, siritrasse dalla mano di lei perché il suo contatto gli faceva accapponare la pelle.

Kitiara gli batté un colpetto sul braccio come se fosse stato un bravo bambino che aveva mangiato tutta la cena, poi lo oltrepassò e uscì con

 passo deciso dalla tenda, urlando il nome di Tanis mentre camminava.Caramon era diretto verso il retro della bancarella per svegliare Flint

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quando sentì una voce eccitata echeggiare nel silenzio dell'area della fiera.«Stanno per bruciare un mago! Venite a vedere! Stanno per bruciare un

mago!».

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Raistlin venne svegliato di colpo da un senso di pericolo che mentredormiva lo pervase con una scarica simile a quella di un fulmine,riscuotendolo da sogni spaventosi. D'istinto rimase immobile, tremandosotto la coperta, fino a quando la mente non fu del tutto sveglia e attiva enon ebbe individuato la fonte del pericolo.

Dalla cella poteva avvertire l'odore delle torce accese e sentire le voci

che echeggiavano fuori della prigione, che ascoltò con timore restandoimmobile.

«Vi garantisco che il processo del mago avrà luogo domani», stavadicendo la guardia, «o per meglio dire oggi. Allora potrete dire quello che pensate al cospetto dello sceriffo».

«Lo sceriffo non ha giurisdizione su questo caso!» rispose una voce profonda. «Quel mago ha assassinato mia moglie, la nostra sacerdotessa!Brucerà questa notte stessa, come devono bruciare tutti gli stregoni per 

 pagare i loro orrendi crimini! Fatti da parte, carceriere: siete soltanto in duee noi siamo più di trenta... non vogliamo che persone innocenti si faccianodel male».

 Nelle celle adiacenti i kender stavano parlando pieni di eccitazione,spingendo le panche sotto le finestre per poter vedere e lamentandosi delfatto che essendo chiusi in prigione non avrebbero potuto assistere al rogodel mago. A questo punto qualcuno suggerì che potevano forzare di nuovola serratura, ma purtroppo in seguito al furto delle chiavi le guardie

avevano aggiunto una catena munita di lucchetto alla porta della loro cella,cosa che elevava notevolmente il livello di difficoltà dell'impresa. Per nulla scoraggiati, i kender si misero all'opera.

«Rankin! Corri a chiamare il capitano», ordinò intanto il carceriere.All'esterno si sentì un rumore di lotta accompagnato da grida,

imprecazioni e infine da un urlo di dolore.«Ecco le chiavi», disse la stessa voce profonda di poco prima. «Voi due

entrate nella prigione e portatelo fuori».

«Come faremo con il capitano delle guardie e con lo sceriffo?» domandòqualcuno. «Non cercheranno d'interferire?».

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«Qualcuno dei nostri confratelli si è già occupato di loro e per questanotte non ci causeranno problemi. Andate a prendere il mago».

Raistlin balzò in piedi, cercando disperatamente di soffocare il panico edi pensare al da farsi. I pochi incantesimi di cui disponeva gli affioraronoalla mente, ma il carceriere gli aveva sottratto le sacche con i componentinecessari ad attivare la magia, senza contare che a causa della stanchezzaestrema e della paura dubitava che sarebbe comunque riuscito ad avere laforza o la coerenza per farvi ricorso.

E del resto a cosa gli sarebbe servito? Con amarezza pensò che non poteva certo far addormentare trenta persone. Avrebbe potuto usare unincantesimo che bloccasse la porta della prigione, ma stanco com'era nonavrebbe potuto mantenerlo a lungo e non aveva altre armi a cui ricorrere:

era impotente, del tutto alla mercé di quegli uomini!I preti vestiti delle loro tuniche azzurro cielo apparvero in fondo al

corridoio con in mano delle torce e cominciarono a cercare in una celladopo l'altra mentre Raistlin lottava contro l'impulso dettato dal panico dinascondersi in un angolo in ombra: immaginandosi mentre veniva trovatoe trascinato vergognosamente all'aperto si costrinse ad aspettare con stoicacalma che i due lo raggiungessero perché dignità e orgoglio erano le solecose che gli rimanessero ed era deciso a conservarle fino alla fine.

Per un momento, in modo fugace, pensò a Caramon, ma poi accantonòquella speranza considerandola utopica perché la fiera era lontana dalla prigione e suo fratello non aveva modo di sapere quello che stavasuccedendo. Sarebbe tornato l'indomani mattina, e allora sarebbe statoormai troppo tardi.

Poi uno dei preti si fermò davanti alla porta della sua cella.«È qui dentro!» avvertì.Raistlin serrò strettamente le mani per soffocarne il tremito e fronteggiò

i due uomini con atteggiamento di sfida, componendo il volto in unamaschera di freddezza e di orgoglio per nascondere la paura.

I preti avevano le chiavi della cella, che il carceriere non aveva difesomolto strenuamente, e ignorando le suppliche e le esortazioni dei kender che stavano avendo problemi ad eliminare il lucchetto, aprirono la portadella cella di Raistlin, afferrandolo e legandogli i polsi con un pezzo dicorda.

«Non opererai altre immonde magie contro di noi», dichiarò uno di essi.

«Non è la mia magia che temete», ribatté con orgoglio Raistlin, lieto chela voce non gli tremasse. «Invece temete le mie parole ed è per questo che

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mi volete uccidere prima che possa essere processato. Sapete che se avessila possibilità di parlare vi denuncerei per quei ladri e quei ciarlatani chesiete».

Uno dei preti gli sferrò al volto un colpo che gli spinse la testaall'indietro, gli smosse un dente e gli lacerò un labbro; il sapore del sanguegli riempì la bocca e la cella e i preti ondeggiarono davanti ai suoi occhi.

«Non farlo svenire!» rimprovero l'altro prete. «Vogliamo che sia sveglioin modo che possa sentire le fiamme quando si leveranno a lambirlo!».

Afferrarono quindi Raistlin per le braccia e lo trascinarono fuori dallacella muovendosi così in fretta che per poco non lo fecero cadere.Incespicando lui fu costretto quasi a correre per non perdere l'equilibrio eogni volta che cercò di rallentare il passo venne costretto a proseguire con

un doloroso strattone alle braccia.Il carceriere era raggomitolato vicino alla porta con la testa bassa e lo

sguardo fisso al suolo mentre la giovane guardia, che pareva aver fattoalmeno un tentativo per difendere il prigioniero, giaceva al suolo priva disensi con una pozza di sangue che si andava formando sotto la sua testa.

All'apparire di Raistlin, i preti levarono un grido di gioia che però siquietò immediatamente ad un ordine del Sommo Sacerdote. In silenzio,animati da un intento letale, i Belzoriti circondarono Raistlin e attesero

ordini dal loro capo.«Lo porteremo al tempio e lo giustizieremo là, in modo che la sua morte

serva da esempio ad altri che possano avere in mente di ostacolarci.«Dopo la morte del mago dichiareremo che nessuno di noi ha visto il

kender gigantesco e manderemo in giro i nostri seguaci perché diffondanola stessa versione dei fatti. Presto, quanti hanno visto il kender cominceranno a dubitare dei loro sensi e noi sosterremo che il mago,spaventato dal potere di Belzor, ha scatenato una rissa in modo da poter 

sgusciare via senza essere notato e assassinare la nostra sacerdotessa».«Funzionerà?» chiese qualcuno, in tono dubbioso. «La gente sa bene

quello che ha visto».«Presto tutti cambieranno idea e vedere il corpo carbonizzato del mago

davanti al tempio li aiuterà ad arrivare alla giusta decisione. Quanti non siconvinceranno andranno incontro alla stessa sorte».

«E gli amici del mago? Il nano e il mezzelfo e gli altri?».«Judith li conosceva e mi ha parlato di loro. Non abbiamo nulla da

temere perché la sorella è una prostituta, il nano è un ubriacone a cuiimporta soltanto del suo boccale di birra e il mezzelfo è un bastardo, un

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vigliacco come tutti gli elfi. Quella gente non ci causerà problemi e saràfin troppo lieta di lasciare di soppiatto la città. Qualcuno di voi cominci acantare», ordinò il Sommo Sacerdote. «La cosa avrà un aspetto migliore sela faremo nel nome di Belzor».

Raistlin riuscì a sfoggiare un cupo sorriso anche se questo gli costò ilriaprirsi del labbro ferito. Al pensiero dei suoi amici la disperazione che loopprimeva si era attenuata e lui aveva ricominciato a sperare. Quei pretinon volevano tanto la sua morte quanto il dramma che l'avrebbeaccompagnata, necessario per instillare il timore di Belzor nella mentedella popolazione, e questo ritardo poteva tornare soltanto a suo vantaggio perché il rumore, la luce e l'agitazione sarebbero certo stati notati in città ela notizia sarebbe arrivata fino alla fiera.

Cominciando a cantilenare e a gridare il nome di Belzor i preti lotrascinarono lungo le strade di Haven e il suono stentoreo del loro cantounito al chiarore delle torce indusse la gente ad alzarsi per guardare dallafinestra. Nel vedere la macabra processione, gli abitanti si affrettarono avestirsi per uscire ad assistere, i buoni a nulla che erano intenti a bere nelletaverne abbandonarono i boccali per accertare la causa di tanto chiasso efurono pronti ad unirsi alla folla crescente che stava seguendo i preti conun coro di grida ubriache che adesso punteggiavano il canto religioso.

Il dolore causato dalla mascella che si andava gonfiando stava intantocausando a Raistlin un'emicrania intollerabile, le corde gli penetravanonella carne e la stretta dei preti intorno alle braccia era altrettanto dolorosamentre lui lottava per restare in piedi e non cadere finendo calpestato. Iltutto era così irreale che non riusciva a provare paura.

Essa sarebbe giunta più tardi, per ora si trattava soltanto di un incubo, diuna sorta di orribile sogno ad occhi aperti da cui non era possibilesvegliarsi.

La luce delle torce lo accecava e gli impediva di vedere qualsiasi cosatranne di tanto in tanto qualche volto sogghignante che appariva nelchiarore e subito svaniva nel buio circostante per essere sostituito da unaltro. Ad un certo punto intravide la giovane donna che aveva perso la sua bambina e che lo contemplava con dolorosa compassione e con timore;d'un tratto la donna protese la mano verso di lui come per cercare diaiutarlo, ma i preti la spinsero indietro con brutalità.

Poi in lontananza apparve la mole incombente del Tempio di Belzor. A

quanto pareva la struttura di pietra non era stata danneggiata dal fuoco cheaveva distrutto soltanto alcune parti dell'interno e la grande folla che si era

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creata al seguito dei preti si raccolse nell'ampio spiazzo verde antistante lacostruzione per guardare mentre gli uomini in tunica azzurra piantavanonel terreno un grosso palo di legno e altri preti accatastavano intorno adesso delle fascine di legna da ardere.

Molti cittadini di Haven diedero loro una mano nei preparativi per ilrogo, gli stessi che appena poche ore prima avevano riso dei Belzoriti e sierano fatti beffe del loro dio. Raistlin però non ne rimase sorpreso perché per lui quella era soltanto un'ulteriore dimostrazione della brutturadell'animo umano: che quella gente fosse pure soggiogata, derubata eraggirata da Belzor. Dopo tutto, quel dio e i suoi seguaci si meritavano avicenda.

I preti e la folla eccitata lo trascinarono quindi lungo la strada che

 portava al tempio. Ormai erano molto vicini al rogo... dov'era Caramon?Dov'erano Kit e Tanis? Possibile che i preti fossero riusciti a intercettarli ead assalirli, che in quel momento stessero lottando per salvarsi la vita alloro accampamento senza avere modo di raggiungerlo? Oppure, pensieroraggelante, si erano resi conto che salvarlo era impossibile e vi avevanorinunciato?

«Belzor! Belzor!» cominciò a gridare la folla, inebriandosi con quellafolle litania, e Raistlin sentì morire la speranza rimpiazzata da una orribile

 paura. Poi una voce si levò tanto possente da sovrastare il canto dei preti ele grida della folla.

«Fermi! Cosa significa tutto questo?».Sollevando il capo, Raistlin vide Sturm Brightblade fermo nel centro

della strada fra il palo e la vittima designata, in modo da bloccare il passoai preti. Illuminato dal chiarore di molte torce, Sturm costituiva una figuraimpressionante mentre si ergeva alto e impavido, con i lunghi baffi irti per l'indignazione e il volto severo che sembrava più maturo della sua età

effettiva. In pugno stringeva la spada snudata e la luce delle torcedivampava sul metallo come se fosse stato incandescente. Nel complesso,Sturm appariva orgoglioso e fiero, calmo e dignitoso, un punto fisso alcentro di quel vorticante tumulto.

Un silenzio fatto di meraviglia e di rispetto calò sulla folla e i preti cheerano all'avanguardia si arrestarono, intimoriti da questo giovane che nonera un cavaliere ma che appariva tale in virtù del suo portamento e del suocoraggio. In quel momento, Sturm sembrava un'apparizione emersa

dall'epoca leggendaria di Huma: incerti e a disagio, i preti si girarono versoil Sommo Sacerdote in attesa di ordini.

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«Stolti!» esclamò questi, in tono furente. «È un uomo soltanto!Toglietelo di mezzo e proseguite!».

Un sasso partì dalla calca di spettatori e andò a colpire Sturm alla fronte.Premendosi una mano sulla ferita lui barcollò ma non lasciò il suo postosulla strada e non si fece sfuggire di mano la spada nonostante il sangueche ora gli colava sul volto impedendogli di vedere bene da un occhio.Sollevando la spada, prese quindi ad avanzare verso i preti con fareminaccioso.

Avendo visto scorrere il primo sangue, la folla era adesso ansiosa divederne altro, a patto che non fosse il proprio: parecchi ruffiani sistaccarono di corsa dalla calca, aggirarono Sturm e lo aggredirono allespalle con calci e pugni, spingendolo a terra fra grida e imprecazioni.

Vedendo che la via era libera, i preti si affrettarono a trascinare verso il palo il prigioniero, che ebbe appena il tempo di lanciare un'occhiata indirezione dell'amico, che giaceva ora gemente sulla strada con i vestitilaceri e insanguinati; poi la folla tornò a stringerglisi intorno e gli bloccò lavisuale.

Ormai il giovane mago aveva perso ogni speranza: Caramon e gli altrinon sarebbero arrivati in tempo e questo significava che lui sarebbe mortoin maniera orribile e dolorosa.

Il palo di legno si ergeva al centro delle fascine di legna secca che sispezzava sotto i piedi e i cui rami sporgenti s'impigliavano nella veste diRaistlin, lacerandola in più punti mentre i preti lo spingevano a ridosso del palo e lo costringevano rudemente a girarsi in modo da fronteggiare lafolla che era adesso una massa di occhi scintillanti e di bocche aperte conespressione avida e interessata; intanto qualcuno stava versando un liquidosulla legna secca... spirito dei nani, a giudicare dall'odore, di certo l'idea diqualche spettatore ubriaco e non dei preti.

Questi legarono i polsi di Raistlin dietro il palo, poi gli passarono piùvolte una corda intorno al petto e al torace in modo da legarlo saldamente,tanto che per quanto si dibattesse con le poche forze che gli rimanevano luinon riuscì a liberarsi. A questo punto il Sommo Sacerdote accennò a tenereun discorso, ma qualcuno degli ubriachi più impazienti di assistere allospettacolo lanciò una torcia fra la legna prima ancora che i preti avesserofinito di legare il prigioniero, con il rischio di bruciare con lui anche ilSommo Sacerdote che insieme con i suoi seguaci fu costretto a battere in

ritirata con fretta indecorosa per allontanarsi dalla legna intrisa di liquoreche stava prendendo fuoco anche troppo in fretta, tanto che già lingue di

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fiamma si levavano a lambire e a divorare i mucchietti di esca.Il fumo aggredì gli occhi di Raistlin, riempiendoli di lacrime, e nel

chiuderli per proteggerli il più a lungo possibile dalle fiamme e dal fumolui imprecò contro la propria debolezza e impotenza, preparandosi allasofferenza lancinante che lo avrebbe aggredito quando le fiamme gliavessero raggiunto la pelle.

«Salve, Raistlin!» trillò una voce alle sue spalle. «Non trovi che siaeccitante? Prima d'ora non avevo mai visto bruciare nessuno sul rogo,anche se naturalmente preferirei che non si trattasse di te...».

Mentre chiacchierava, Tasslehoff si servì di un coltello per tagliare infretta le corde che bloccavano i polsi di Raistlin.

«Il kender!» gridò qualcuno con voce irosa. «Fermatelo!».

«Prendi, ho pensato che questo potesse esserti d'aiuto», aggiunse infretta Tasslehoff, e mentre Raistlin sentiva l'impugnatura di un coltello chegli veniva messo in mano aggiunse: «È da parte del tuo amico Lemuel. Luiha detto...».

Raistlin era però destinato a non sapere mai cosa avesse detto Lemuel, perché in quel momento un ruggito devastante sovrastò il vociare dellafolla, e la gente prese a gridare e a urlare allarmata quando un bagliored'acciaio divampò alla luce delle torce. All'improvviso, Caramon

incombette davanti a Raistlin, che si sentì sul punto di scoppiare in pianto per la gioia alla vista del volto del fratello che senza badare al dolore presead afferrare fascine di legna ardente per scagliarle lontano.

Tanis intanto si era addossato con la schiena a quella di Caramon e stavacolpendo di piatto con la spada per allontanare torce e randelli; al suofianco Kitiara non stava invece usando la spada di piatto, come indicava ilfatto che già un prete giaceva sanguinante ai suoi piedi mentre leicombatteva con un sorriso sulle labbra e gli occhi neri che scintillavano

 per il divertimento.Anche Flint era lì, impegnato a lottare con i preti che avevano afferrato

Tasslehoff e stavano cercando di trascinarlo nel tempio ma che di fronteall'attacco imprevedibilmente feroce del nano abbandonarono ben presto la preda per fuggire, proprio mentre Sturm veniva a raggiungere gli amici,con il volto trasformato dal sangue in una sorta di maschera e con la spadache non mancava un colpo.

Per quanto dispiaciuti di vedere che dopo tutto il mago non sarebbe

arrostito fra le fiamme, i cittadini di Haven trovarono divertente eappassionante quel coraggioso salvataggio e ben presto la folla incostante

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si rivoltò contro i preti, applaudendo quel pugno di eroi. Vedendo come sistavano mettendo le cose il Sommo Sacerdote fuggì verso il tempio imitatoin tutta fretta dai suoi complici, quelli che erano ancora in piedi, e la follascagliò loro dietro una gragnuola di sassi, elaborando al tempo stesso piani per invadere il tempio.

Intanto il sollievo e la consapevolezza che non sarebbe morto fra lefiamme si riversarono in Raistlin con un'ondata così violenta che lui sisentì debole e stordito e si accasciò fra i legami.

Liberato dalle corde il fratello prossimo a svenire, Caramon lo sorresse elo prese fra le braccia, portandolo lontano dal rogo e adagiandolo al suolomentre la folla gli si accalcava intorno, ansiosa di contribuire a soccorrereil giovane mago nella stessa misura in cui poco prima era stata impaziente

di vederlo morire bruciato.«Fate largo, buoni a nulla!» ruggì Flint, agitando le braccia con occhi

roventi. «Lasciatelo respirare».Qualcuno gli porse una bottiglia di spirito dei nani perché la desse a quel

"coraggioso giovane", e con una parola di ringraziamento Flint bevve luistesso un lungo sorso prima di passare la bottiglia a Caramon, che l'accostòalle labbra di Raistlin. Il bruciante contatto del liquore con il labbrolacerato e la scia infuocata che esso gli tracciò in gola riportarono in sé

Raistlin, che tossì, sputacchiò e allontanò la bottiglia.«Sono sfuggito di stretta misura dal morire bruciato vivo, Caramon, e

adesso mi vuoi avvelenare?» chiese, fra i colpi di tosse e i conati divomito, poi lottò per alzarsi in piedi senza badare alle proteste del fratello,secondo il quale lui avrebbe dovuto riposare ancora; poco lontano, intanto,la folla aveva circondato il tempio e stava gridando che i preti di Belzor avrebbero dovuto essere bruciati tutti.

«Questo giovanotto è ferito?» chiese poi una voce ansiosa. «Ho qui un

unguento contro le ustioni».«Va tutto bene, Caramon», affermò Raistlin, bloccando il fratello che

stava cercando di allontanare quello che riteneva un semplice curioso. «Èun mio amico».

«Ti hanno fatto del male?» domandò Lemuel, scrutando Raistlin conansia.

«No, signore, ti ringrazio ma non sono ferito, soltanto un po' stordito».«Ho preparato io stesso quest'unguento a base di aloe...» cominciò

Lemuel, protendendo un vasetto.«Ti sono grato», lo interruppe Raistlin, accettando il vasetto. «Io non ne

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ho bisogno, ma ritengo che possa servire a mio fratello». Nel parlare lanciò un'occhiata alle mani di Caramon, che erano scottate e

coperte di vesciche; arrossendo e sorridendo con imbarazzo, lui si affrettòintanto a nascondere le mani dietro la schiena.

«Ti ringrazio anche per il coltello», aggiunse intanto Raistlin, «sebbenenon abbia avuto bisogno di usarlo».

«Tienilo. È il meno che possa fare, giovanotto, dal momento che graziea te non sarò costretto a lasciare la mia casa», replicò Lemuel.

«Ma mi hai già dato i tuoi libri», protestò Raistlin, porgendogli l'arma inquestione.

«Apparteneva a mio padre, e lui avrebbe voluto che entrasse in possessodi un mago come te», dichiarò però Lemuel, rifiutandola. «Di certo a me

non serve a nulla, anche se lo trovo utile per aerare il terriccio intorno allegardenie; ad esso si abbina uno strano laccio di cuoio che mio padre usava per tenere il coltello nascosto lungo il braccio. Lui affermava che era ilmezzo estremo di difesa di un mago».

Il coltello in questione era di eccellente fattura e di ottimo acciaioaffilato, e dal leggero formicolio che esso gli trasmetteva Raistlin intuì chedoveva essere stato permeato di qualche magia; infilandolo nella cinturasenza protestare oltre, strinse quindi calorosamente la mano a Lemuel.

«Passeremo più tardi a prendere i libri», promise.«Sarei molto contento se tu e i tuoi amici voleste anche prendere un tè

con me», invitò Lemuel, con un cortese inchino.Dopo altri inchini e una serie di presentazioni, abbinati alla promessa di

 passare a trovarlo quando avessero lasciato la città, Lemuel si congedò,impaziente di rimettere nel terreno le piante che aveva estirpato.

I compagni si ritrovarono allora soli perché la folla che aveva circondatoil tempio stava cominciando a disperdersi. Correva infatti voce che i preti

di Belzor avessero abbandonato l'edificio mediante un passaggio segretosotterraneo e stessero ora fuggendo verso le montagne per salvarsi la vita.Qualcuno già parlava di formare delle squadre per dare loro la caccia, maormai era quasi l'alba, l'aria era fredda e tagliente e gli ubriachi sisentivano assonnati e storditi. D'un tratto gli uomini si ricordarono chedovevano andare a lavorare nei campi, le donne rammentarono i bambinilasciati in casa da soli e i cittadini di Haven si allontanarono allaspicciolata, lasciando che ai preti pensassero gli orchetti e gli orchi che

infestavano le montagne.I compagni invece si avviarono per tornare alla fiera, e lungo la strada

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Flint annunciò la propria intenzione di andare via subito anche se la fierasarebbe durata ancora un giorno.

«Non intendo passare un minuto più del necessario in quest'immondacittà», affermò. «Qui la gente è pazza, semplicemente pazza: prima iserpenti, poi le impiccagioni e adesso un rogo. Sono pazzi», borbottò frasé. «Del tutto pazzi».

«Perderai un giorno di vendite», obiettò Tanis.«Non voglio il loro denaro perché probabilmente è maledetto», ribatté in

tono secco il nano. «Sto addirittura prendendo in seria considerazionel'idea di restituire quanto ho già incassato».

 Naturalmente non fece nulla di simile e in seguito la cassetta contenenteil denaro fu la prima cosa che mise sul carro, riponendola al sicuro e ben

nascosta sotto il sedile di guida.«Voglio ringraziarvi tutti», disse Raistlin, mentre percorrevano le strade

ora deserte, «e mi voglio scusare per avervi messi in pericolo. Aveviragione, Tanis, ho sottovalutato questa gente e non mi sono reso conto diquanto fosse veramente pericolosa. La prossima volta starò più attento».

«Speriamo che non ci sia una prossima volta», sorrise Tanis.«Voglio ringraziare anche te, Kitiara», continuò Raistlin.«Per cosa? Per averti salvato?» domandò lei, con il suo sorriso in tralice.

«Sì, per avermi salvato», replicò Raistlin, in tono asciutto.«Non c'è di che!» rise Kitiara, assestandogli una pacca sulla spalla.

«Non c'è di che».Il suo comportamento parve turbare Caramon, che assunse

un'espressione solenne e distolse lo sguardo.La battaglia faceva bene a Kitiara, che aveva adesso le guance arrossate,

gli occhi scintillanti e le labbra rosse come se avesse bevuto il sangue cheaveva versato. Senza smettere di ridere, prese Tanis per un braccio e si

strinse a lui.«Sei uno spadaccino eccellente, amico mio», dichiarò, «al punto da

lasciarmi sorpresa che tu non abbia pensato di fare il mercenario».«Mi guadagno già di che vivere, e in modo  sicuro», obiettò Tanis, ma lo

disse con un sorriso, manifestamente compiaciuto dall'ammirazione di lei.«Bah!» esclamò Kitiara, in tono sprezzante. «La sicurezza è per i vecchi!

 Noi combattiamo bene, fianco a fianco, e stavo pensando...».Traendo in disparte Tanis continuò quindi a parlare abbassando la voce:

a quanto pareva, la lite scoppiata fra loro era ormai stata dimenticata.«Non intendi ringraziare anche me, Raistlin?» strillò Tasslehoff,

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saltellando intorno al mago. «Guarda qui», aggiunse poi, esibendo con ariatriste l'estremità della sua lunga coda di cavallo. «Mi sono strinato un pocoma ne valeva la pena, anche se non sono riuscito a vederti bruciare sulrogo. Questo mi ha deluso parecchio, ma so che non hai potuto farealtrimenti», concluse, abbracciando Raistlin con fare conciliatorio.

«Sì, Tas, ti ringrazio», rispose Raistlin, districandosi e togliendo il suonuovo coltello dalle mani del kender. «Sono molto grato anche a te, Sturm:quello che hai fatto è stato incredibilmente coraggioso... sconsiderato macoraggioso».

«Non avevano il diritto di tentare di giustiziarti senza prima averticoncesso un equo processo. Erano nel torto ed era quindi mio doverecercare di fermarli, tuttavia...». Arrestandosi nel centro della strada con la

mano premuta contro le costole doloranti, Sturm. solenne, fronteggiòRaistlin, continuando: «Mentre camminavamo ho riflettuto a fondo sullacosa e devo insistere perché tu ti consegni allo sceriffo di Haven».

«Perché dovrei? Non ho fatto nulla di male».«Per l'assassinio della sacerdotessa», dichiarò Sturm con aria accigliata,

 pensando che Raistlin stesse peccando di riprovevole leggerezza enoncuranza.

«Lui non ha ucciso la Vedova Judith, Sturm», intervenne Caramon, in

tono quieto e pacato. «Quando siamo entrati in quella stanza lei era giàmorta».

«Non mi risulta che tu abbia mai mentito, Caramon», affermò Sturm,spostando con aria turbata lo sguardo dall'uno all'altro dei due gemelli,«ma credo che potresti farlo se ne andasse della vita di tuo fratello».

«Forse», ammise Caramon, «però non sto mentendo. Ti giuro sullatomba di mio padre che Raistlin è innocente di questo assassinio».

Sturm lo fissò per un lungo momento e infine annuì, persuaso,

riprendendo a camminare insieme con gli altri.«Sapete chi l'abbia uccisa?» domandò dopo un momento.I due fratelli si scambiarono una lunga occhiata.«No», rispose infine Caramon, fissando i propri stivali con fare

imbarazzato.

Era ormai giorno quando arrivarono al terreno della fiera, e già ivenditori stavano aprendo le bancarelle per prepararsi agli affari mattutini.

All'arrivo del gruppo essi accolsero Raistlin come un eroe e applaudironoil suo coraggio mentre il gruppo raggiungeva il banchetto di Flint senza

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 però rivolgere direttamente la parola a nessuno di loro.Invece di aprire la bancarella, Flint lasciò le imposte chiuse e procedette

a caricare le sue merci sul carro; quando parecchi mercanti, sopraffattidalla curiosità, vennero infine a chiedere cosa stesse succedendo, il nano lirespinse in modo rude ed essi se ne andarono offesi.

La mattinata riservava però ancora una visita e un ultimo spavento: losceriffo in persona venne a cercare Raistlin e nel vederlo arrivare Kitiaraestrasse la spada, ordinando al fratello di sparire dalla circolazione. Per unmomento parve che stesse per scatenarsi un altro scontro, ma Raistlin dissealla sorella di riporre la spada.

«Sono innocente», ribadì, scoccandole un'occhiata significativa.«Per poco non sei diventato un innocente arrosto», ribatté in tono

rabbioso Kitiara, mentre riponeva la spada nel fodero con un gesto secco.«Va', allora, ma questa volta non aspettarti che venga a salvarti».

A quanto pareva, però, lo sceriffo era venuto a scusarsi, cosa che fececon riluttanza e con imbarazzo. La giovane sacerdotessa aveva infineammesso di aver visto Raistlin accanto al fratello nel momento i cui venivacommesso l'assassinio, e aveva anche confessato di non averlo detto prima perché odiava il mago per il ruolo avuto nel causare la rovina di Belzor;adesso però era inorridita per le azioni del Sommo Sacerdote e non voleva

 più avere nulla a che fare con quella gente.«Che cosa le succederà?» domandò Caramon, preoccupato.«Nulla», rispose lo sceriffo, scrollando le spalle. «Come il resto di noi,

quei giovani sono stati raggirati dalla donna che è morta e da suo marito,ma immagino che supereranno la cosa, che la supereremo tutti». Tacquequindi per un momento, fissando il sole che stava apparendo sopra la cimadegli alberi, e senza guardare verso i suoi interlocutori aggiunse: «AdHaven non ci piacciono i maghi. Lemuel è diverso, lui è innocuo e non ci

crea problemi, ma qui non ne vogliamo altri».«Avrebbe dovuto ringraziarti», commentò più tardi Caramon, ferito e

sconcertato.«Per cosa? Per aver distrutto la sua carriera?» ribatté Raistlin, con un

amaro sorriso. «Se non sapeva che Judith e gli altri seguaci di Belzor eranodegli imbroglioni quell'uomo è lo stupido più grande di tutta l'Abanasinia,mentre se lo sapeva era senza dubbio pagato profumatamente perché lilasciasse in pace. In ogni caso, la sua carriera è finita. Adesso lascia che

applichi un po' di unguento su quelle ustioni, fratello. È evidente che staisoffrendo».

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Una volta pulite le ustioni e applicato su di esse uno strato di unguentocurativo, Raistlin lasciò gli altri a finire di fare i bagagli e si andò asdraiare sul fondo del carro perché era del tutto esausto, tanto spossato dasentirsi quasi male. Stava per arrampicarsi sul veicolo quando venneavvicinato da uno sconosciuto che indossava una veste marrone e cheaveva l'aria di un chierico; avendo visto di recente un numero tale dichierici che gli poteva bastare per tutta una vita, Raistlin gli volse le spallenella speranza che capisse di non essere il benvenuto e se ne andasse.

«Un momento soltanto, giovanotto», affermò però lo sconosciuto,tirandolo per una manica. «So che hai avuto una giornata spossante, ma tivoglio ringraziare per aver abbattuto quel falso dio, Belzor. I miei seguacied io ti siamo eternamente debitori».

Grugnendo, Raistlin si liberò dalla sua stretta e salì sul carro, ma l'uomosi aggrappò ai bordi del veicolo e sbirciò dentro di esso.

«Io sono Hederick, il Sommo Teocrate», si presentò con un tonod'importanza. «Rappresento un nuovo ordine religioso che spera di fiorirequi ad Haven adesso che i truffaldini seguaci di Belzor sono stati scacciati. Noi siamo conosciuti come i Cercatori, perché cerchiamo i veri dèi».

«Spero con tutto il cuore che li troviate, signore», replicò Raistlin.«Ne siamo certi!» esclamò l'uomo, che non aveva colto il sarcasmo

insito in quelle parole. «Forse t'interesserebbe...».A Raistlin però non interessava minimamente: srotolata la propria

coperta, la stese sul mucchio delle tende e si sdraiò.Per qualche momento ancora il chierico rimase vicino al carro, parlando

dei suoi dèi, ma quando infine Raistlin si tirò sulla testa il cappuccio dellaveste l'uomo si decise ad andarsene e Raistlin non pensò più a lui,dimenticandosi del tutto della sua esistenza.

Steso sul fondo del carro cercò di dormire, ma ogni volta che chiudeva

gli occhi gli pareva di vedere le fiamme, di sentirne il calore e di avvertirel'odore di fumo, e immancabilmente si trovava del tutto desto e tremante.

Ricordando con spaventosa chiarezza il senso d'impotenza che aveva provato, chiuse la mano intorno all'elsa del suo nuovo coltello enell'avvertire il contatto freddo e rassicurante dell'arma giurò che da quelmomento non si sarebbe più separato da quell'estremo mezzo di difesa, acosto di usarlo per togliersi personalmente la vita prima che lo facessero isuoi nemici.

Poi i suoi pensieri si spostarono su un altro coltello, quello insanguinatoche aveva trovato abbandonato accanto alla donna assassinata e che aveva

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riconosciuto come appartenente a Kitiara, e con un profondo sospiro riuscìinfine a chiudere gli occhi e a scivolare nel sonno.

I figli di Rosamun si erano vendicati.

LIBRO QUINTO

 L'aspirante mago Raistlin Majere è convocato presso la Torre dellaGrande Stregoneria di Wayreth perché si presenti davanti al Conclave dei Maghi nel settimo giorno del settimo mese, il settimo minuto della settimaora. Nel tempo e nel luogo fissati sarà messo alla prova dai suoi superiori per essere incluso fra le file di coloro che sono stati dotati dì talento dai

tre dèi: Solinari, Lunitari e Nuitari.

IL CONCLAVE DEI MAGHI

CAPITOLO PRIMO

Quell'inverno fu uno dei più miti che Solace avesse mai conosciuto, con pioggia e nebbia al posto di neve e brina, e nel riporre le decorazioni proprie di Yule in attesa dell'anno successivo, rimuovendo rami di pino edi vischio, gli abitanti si congratularono con loro stessi per essere sfuggiti

agli inconvenienti di un duro inverno. La gente stava già pensando ad una primavera anticipata quando a Solace giunse una visitatrice spaventosa edel tutto sgradita: la Peste, che era accompagnata dalla sua spettralecompagna, la Morte.

 Nessuno seppe determinare con certezza chi avesse invitato quei temutiospiti a Solace perché il numero di viandanti era stato elevato nel corso diquel mite inverno e chiunque poteva aver portato il contagio. Alcuniaccusarono anche le fosse di fango che circondavano il Lago Crystalmir e

che quell'inverno non si erano ghiacciate come di consueto, maindipendentemente da come il male fosse giunto, i sintomi risultaronouguali in tutti i casi, cominciando con una febbre elevata accompagnata daestrema letargia, a cui facevano seguito emicrania, vomito e diarrea; lamalattia faceva il proprio corso nell'arco di un paio di settimane e chi eraforte e sano guariva mentre i giovanissimi, i vecchi e i deboli nonsopravvivevano.

 Nei giorni precedenti il Cataclisma, i chierici avevano invocato in questi

casi l'aiuto della dea Mishakal che concedeva loro poteri di risanamento,con il risultato che le pestilenze erano state una cosa virtualmente

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sconosciuta. Mishakal aveva però abbandonato Krynn insieme con il restodegli dèi e adesso coloro che praticavano le arti del risanamento dovevanofare affidamento sulla loro abilità e sul loro sapere, il che significava chenon potevano curare la malattia ma ne potevano controllare i sintomi,cercando di impedire che il paziente s'indebolisse a tal punto da svilupparela polmonite, che inevitabilmente portava alla morte.

Meggin la Pazza lavorò incessantemente fra i malati, somministrandoloro corteccia di salice per abbassare la febbre e un amaro medicinale pastoso che pareva aiutare coloro che riuscivano a inghiottirlo.

In passato molti abitanti di Solace avevano deriso la vecchia definendolauna «svitata» o una strega, ma adesso quelle stesse persone furono fra le prime a chiedere il suo aiuto nel momento in cui si sentirono assalire dalla

febbre e lei non venne meno alle richieste di nessuno accorrendo inqualsiasi momento del giorno o della notte, e anche se i suoi modi eranoun po' strani, per esempio, parlava spesso fra sé e insisteva per lavarsi dicontinuo le mani, costringendo quanti si trovavano nella stanza di unmalato a fare altrettanto, era sempre la benvenuta.

Raistlin cominciò ben presto ad accompagnare Meggin nei suoi giri,aiutandola a fare spugnature ai pazienti febbricitanti e a persuadere i bambini malati a inghiottire la medicina amara, e imparando a lenire le

sofferenze dei morenti. Nonostante i loro sforzi la peste però si diffuse eun numero sempre maggiore di cittadini di Solace si trovò stretto nella suamorsa letale, con il risultato che Raistlin fu ben presto costretto a curare dasolo un certo numero di pazienti.

Caramon fu uno dei primi a contrarre la malattia, cosa che lo sconvolse perché prima di allora non era mai stato malato in tutta la sua vita e chedestò in lui la certezza di essere in punto di morte; massiccio com'era dicorporatura, nel corso del delirio per poco non distrusse la camera da letto

nel lottare contro giganteschi serpenti muniti di torce che stavano cercandodi dargli fuoco.

Il suo corpo robusto si liberò però presto del contagio e poiché avevaavuto la malattia ed era sopravvissuto lui poté poi aiutare il fratello a prendersi cura degli altri, anche se era tormentato dal continuo timore cheRaistlin potesse contrarre a sua volta la peste, a cui non sarebbe certosopravvissuto a causa della sua costituzione fragile. Raistlin però si mostròsordo alle sue suppliche di rimanere a casa al sicuro e al tempo stesso

scoprì con sorpresa di ricavare una profonda e appagante soddisfazionenell'aiutare quanti cadevano vittime della malattia.

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Lui non stava assistendo i malati per compassione perché in genere nongli importava nulla dei vicini che considerava stupidi e cafoni, e neppurelo stava facendo per guadagno, dato che era pronto a curare i ricchi e i poveri in pari misura; in realtà stava scoprendo che ciò che in effetti gli piaceva davvero era il potere che esercitava sui vivi, che erano giunti amanifestare nei suoi confronti una speranza che rasentava la reverenza, e il potere che a volte poteva esercitare sulla sua più grande e temuta nemica,la Morte.

Per quanto accudisse i malati lui non contrasse la peste, e quando lechiese il perché Meggin rispose che dipendeva dal fatto che stava beneattento a lavarsi le mani dopo aver assistito i malati; Raistlin accolsequell'affermazione con un sorriso di derisione, ma non contraddisse la

vecchia perché le era affezionato.Alla fine, la Peste aprì a poco a poco le sue dita scheletriche e liberò

Solace dalla propria morsa letale. Obbedendo alle istruzioni di Meggin, gliabitanti bruciarono i vestiti e le coltri dei malati... e di lì a poco giunsefinalmente la neve, che ricoprì parecchie nuove tombe nel cimitero diSolace.

Fra le altre c'era anche quella di Anna Brightblade.È scritto nella Misura che il dovere della nobile sposa di un cavaliere è

quello di nutrire i poveri e di curare i malati del maniero, e anche se eralontana dalla terra in cui la Misura era stata scritta e la gente vi obbediva,all'insorgere della peste Lady Brightblade si era mostrata fedele alla leggeed era andata in aiuto dei vicini malati, contraendo lei stessa la malattia ma persistendo nel suo dovere d'infermiera anche dopo aver notato in sél'insorgere dei primi sintomi.

Quando alla fine era crollata, Sturm l'aveva portata a casa ed era corso achiamare Raistlin, che aveva curato la donna come meglio sapeva ma

senza risultato.«Sto morendo, vero, ragazzo?» aveva chiesto una notte Anna

Brightblade a Raistlin. «Dimmi la verità. Io sono la moglie di un nobilecavaliere e posso sopportarla».

«Sì», aveva risposto Raistlin, che poteva sentire i suoni crepitanti prodotti dai fluidi che si andavano addensando nei polmoni della donna.«Sì, stai morendo».

«Quanto tempo mi rimane?» aveva domandato lei, con calma.

«Non molto, ormai».Inginocchiato accanto al capezzale della madre, Sturm si era lasciato

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sfuggire un singhiozzo e aveva abbassato la testa contro la coperta mentreAnna protendeva una mano consumata dalla febbre ad accarezzargli ilunghi capelli.

«Lasciaci soli», aveva quindi ordinato a Raistlin con la consuetaimperiosità, ma un momento più tardi aveva levato lo sguardo su di lui conun pallido sorriso che aveva attenuato la sua espressione severa,aggiungendo: «Ti sono grata per tutto quello che hai fatto. È possibile cheabbia sbagliato a giudicarti, ragazzo, e ti do la mia benedizione».

«Ti ringrazio, Lady Brightblade», aveva risposto Raistlin. «Onoro il tuocoraggio. Possa Paladine accoglierti presso di sé».

Pensando che quelle fossero parole blasfeme lei lo aveva fissato conespressione cupa e accigliata, poi aveva distolto il viso.

Il mattino successivo, mentre Caramon era impegnato a preparare algemello una ciotola di farinata d'avena calda che gli desse energie nelcorso della faticosa giornata che lo aspettava, qualcuno aveva bussato alla porta e nell'andare ad aprire Caramon si era trovato davanti Sturm, cheappariva stanco e spaventosamente pallido, con gli occhi rossi e gonfi, mache si era mostrato anche composto e controllato.

Quando Caramon lo aveva fatto entrare, Sturm era crollato su una sediacome se le gambe gli avessero ceduto, perché aveva dormito ben poco da

quando sua madre si era ammalata.«Lady Brightblade è...» aveva cominciato Caramon, senza riuscire a

finire la frase, e allorché Sturm aveva annuito si era asciugato una lacrimamormorando: «Mi dispiace, Sturm. Era una grande dama».

«Sì», aveva risposto lui, accasciandosi sulla sedia mentre un tremito e unsinghiozzo gli percorrevano tutto il corpo.

«Quanto tempo è passato dall'ultima volta che hai mangiato qualcosa?»aveva chiesto Raistlin.

Sospirando, Sturm aveva agitato una mano con indifferenza.«Caramon, porta un'altra ciotola di farinata», aveva allora ordinato

Raistlin, e rivolto a Sturm aveva aggiunto: «Mangia, Sir Cavaliere, se nonvuoi seguire a breve termine tua madre nella tomba».

 Negli occhi scuri di Sturm era apparso un bagliore d'ira in reazione altono usato da Raistlin, ma poi lui si era accorto che Caramon aveva presoun cucchiaio e pareva avere tutte le intenzioni di imboccarlo come un bambino e aveva borbottato che forse sarebbe riuscito a inghiottire qualche

 boccone; alla fine aveva invece mangiato tutta la ciotola di farinata,accompagnandola con un bicchiere di vino, e a poco a poco un po' di

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colore era riaffiorato sulle sue guance pallide.Raistlin invece aveva allontanato la propria ciotola quando era ancora

 piena a metà, ma per quanto concerneva lui questa era una cosa normale eCaramon sapeva bene che non era il caso di protestare.

«Verso la fine mia madre ed io abbiamo parlato», aveva infine dettoSturm, a bassa voce. «Lei mi ha raccontato di Solamnia e di mio padre,ammettendo di aver cessato da tempo di credere che lui fosse vivo e diaver mantenuto la finzione soltanto per amor mio».

A quel punto aveva abbassato il capo e serrato le labbra, ma non avevaversato una lacrima e dopo un momento aveva ritrovato il controllo,sollevando lo sguardo su Raistlin che era impegnato a raccogliere le suemedicine per poi avviarsi a visitare i malati.

«Alla... alla fine è successa una cosa strana ed ho pensato diraccontartela per sapere se avevi mai sentito di qualcosa di simile. Forse siè trattato soltanto di una manifestazione della malattia», aveva aggiunto.

Raistlin aveva subito sollevato la testa con interesse perché stava prendendo annotazioni sulla malattia, registrandone i sintomi e scrivendo itipi di cure adottate per un riferimento futuro.

«Mia madre era scivolata in un sonno profondo da cui nulla parevariuscire a svegliarla».

«Il sonno della morte», aveva precisato Raistlin. «L'ho visto spesso nelcorso di questa malattia; quando sopraggiunge può durare anche parecchigiorni, ma in tutti i casi il paziente non si risveglia più».

«Invece mia madre lo ha fatto», aveva replicato bruscamente Sturm.«Davvero? Dimmi con esattezza cosa è successo».«Ha aperto gli occhi ma non ha guardato verso di me, bensì alle mie

spalle in direzione della porta della sua stanza. "Io ti conosco, vero,signore?" ha detto con esitazione, e in tono lamentoso ha chiesto: "Dove

sei stato tutto questo tempo? Ti stavamo aspettando da un'eternità." Poi haaggiunto: "Presto, figlio, porta a questo anziano gentiluomo una sedia".

«Io mi sono girato a guardare ma sulla porta non c'era nessuno. "Ah, nonti puoi fermare?" ha detto intanto mia madre. "Ed io devo venire con te?Ma questo vorrà dire lasciare del tutto solo il mio ragazzo". Ha dato quindil'impressione di ascoltare e dopo un momento ha sorriso, aggiungendo: "Èvero, non è più un ragazzo. Veglierai su di lui dopo che me ne saròandata?". A quel punto ha sorriso ancora, come se fosse stata rassicurata,

ed ha esalato l'ultimo respiro.«Adesso c'è la cosa più strana. Io mi ero alzato per andare da lei quando

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mi è parso di vedere al suo fianco la figura di un vecchio dall'aspettotrasandato che indossava una veste grigia e sfoggiava un malconciocappello a punta», aveva aggiunto Sturm, accigliandosi. «Il suo aspetto eraquello di un mago. Allora, cosa ne pensi?».

«Penso che tu sia rimasto troppo tempo senza mangiare e senzadormire», aveva dichiarato Raistlin.

«Può darsi», aveva ammesso Sturm, perplesso. «Però la visionesembrava molto reale. Chi poteva essere quel vecchio? E perché miamadre era contenta di vederlo? Lei non ha mai potuto tollerare i maghi».

Raistlin si era diretto verso la porta, pensando che era stato fin troppo paziente con Sturm rispetto al suo dolore, ma che adesso era stanco diessere insultato; Caramon dal canto suo gli aveva scoccato un'occhiata

spaventata e apprensiva dovuta al timore che lui potesse reagire conqualche commento sarcastico, ma il suo gemello aveva lasciato la stanzasenza una parola e Sturm se n'era andato poco dopo per prendere gliaccordi necessari per la sepoltura di sua madre.

Con un sospiro dolente, Caramon si era seduto per finire quanto restavadella colazione del fratello.

CAPITOLO SECONDO

La primavera compì il consueto miracolo: nuove foglie verdi rivestironoi vallenwood e i fiori selvatici sbocciarono nel cimitero dove i piccolivallenwood piantati sulle nuove tombe crebbero con la rapidità propria diquella pianta, portando conforto ai dolenti, certi che lo spirito di quantierano morti stesse fiorendo e trovasse rinnovamento in quegli alberiviventi.

La primavera portò però a Solace anche una nuova malattia, di un

genere che si sapeva essere trasmesso dai kender e che era spessocontagioso soprattutto fra i giovani che si erano appena resi conto di comela vita fosse breve e molto dolce, e andasse quindi assaporata fino infondo. Quella malattia si chiamava «voglia di girovagare».

Anche se gli stessi sintomi cominciavano già ad affiorare anche nei suoiamici, Sturm fu il primo a contrarla perché il suo caso aveva cominciato a profilarsi all'orizzonte fin da quando sua madre era morta: orfano e solo,Sturm aveva rivolto i suoi pensieri e i suoi sogni verso nord, in direzione

della propria terra natale.«Non posso rinunciare alla speranza che mio padre sia ancora vivo»,

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confessò una mattina a Caramon. Ultimamente, Sturm aveva presol'abitudine di venire a fare colazione con i gemelli perché mangiare da solonella casa vuota gli riusciva intollerabile. «Peraltro devo ammettere che lateoria di mia madre ha un certo fondamento: se fosse vivo, perché mio padre non avrebbe cercato di contattarci almeno una volta?».

«Potrebbero esserci una quantità di ragioni», rispose Caramon. «Forse ètenuto prigioniero in una segreta da qualche mago folle... oh, scusa, Raist,non è esattamente quello che intendevo dire».

Intento a nutrire i suoi conigli, Raistlin stava prestando poca attenzionealla conversazione e si limitò a reagire sbuffando.

«Comunque sia», ribadì Sturm, «ho intenzione di scoprire la verità.Ormai le strade torneranno ad essere praticabili entro un mese ed io ho

intenzione di andare a Solamnia».«No! Nel nome dell'Abisso», esclamò Caramon.Anche Raistlin era stupefatto, al punto che volse le spalle ai conigli con

le foglie di cavolfiore ancora in mano, per vedere se il giovane cavalierestesse parlando sul serio.

«Sono ormai tre anni che desidero compiere questo viaggio, ma eroriluttante a lasciare sola mia madre per un prolungato periodo di tempo,mentre adesso non c'è più nulla che mi trattenga. Di conseguenza partirò

sapendo di avere la sua benedizione, anche perché se mio padre èveramente morto devo reclamare la mia eredità, mentre se è vivo...».

Sturm scosse il capo, incapace di esprimere completamente il propriosogno, troppo bello per poter essere vero.

«Intendi partire da solo?» domandò Caramon, ancora stupefatto.Sturm sorrise, una cosa rara in lui che era di solito così serio e solenne.«A dire il vero speravo che saresti venuto con me, Caramon. Chiederei

anche a te di accompagnarmi, Raistlin», aggiunse in tono più rigido, «ma

si tratterà di un viaggio lungo e difficile e temo che potrebbe risultaretroppo gravoso per la tua salute, senza contare che so quanto poco tudesideri allontanarti dai tuoi studi».

Fin da quando erano tornati da Haven, Raistlin aveva trascorso, ognimomento che riusciva a trovare, a studiare i volumi del mago guerriero,con il risultato che aveva aggiunto parecchi nuovi incantesimi al suo libro.

«Invece questa primavera mi sento insolitamente in forze», ribatté, «ecomunque mi potrei portare dietro i miei libri. Ti ringrazio per l'offerta,

Sturm: ci rifletterò sopra, come farà anche mio fratello».«Io sono pronto a venire a patto che lo faccia anche Raist», dichiarò

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Caramon. «In effetti ha ragione nel dire che ultimamente si è rimesso parecchio in forze. È molto tempo che non si ammala più».

«Mi fa piacere sentirlo», commentò Sturm, sia pure con scarsoentusiasmo. Infatti lui sapeva benissimo che era impossibile separare i duegemelli, ma aveva comunque sperato contro ogni logica di poter  persuadere Caramon a lasciare Raistlin a casa. «Raistlin, ti ricordo che imaghi non sono certo venerati nella mia terra, anche se ti sarànaturalmente accordata l'ospitalità che si deve ad un visitatore».

«Cosa di cui sono profondamente grato», rispose Raistlin, con uninchino. «Ti garantisco, Sturm, che sarò un ospite assai accomodante, chenon incendierò le lenzuola e non avvelenerò i pozzi. Anzi, lungo la strada potresti perfino trovare utili alcuni miei talenti».

«È davvero molto abile come cuoco», interloquì Caramon.«Benissimo. In tal caso comincerò con i preparativi», dichiarò Sturm,

alzandosi. «Mia madre mi ha lasciato un po' di denaro, anche se non èmolto e temo che non sia sufficiente per acquistare dei cavalli, il chesignifica che dovremo viaggiare a piedi».

 Nel momento stesso in cui la porta si fu chiusa alle sue spalle, Caramon prese a saltellare per la piccola casa, spostando i mobili e creando una verae propria devastazione sulla scia della sua gioia, arrivando al punto di

avere la temerarietà di abbracciare suo fratello.«Sei impazzito?», domandò Raistlin. «Guarda cos'hai fatto! Quello era il

nostro unico contenitore per la crema... no, non cercare di aiutarmi, hai giàcausato danni sufficienti. Perché non vai a lucidare la spada o ad affilarla oa prendertene cura in qualche altro modo?».

«Certamente, è un'idea grandiosa!» esclamò Caramon, precipitandosi incamera da letto soltanto per tornare indietro altrettanto a precipizio unmomento più tardi e gemere: «Non ho una pietra per affilare!».

«Va' a prenderne a prestito una da Flint... oppure, meglio ancora, portada lui la tua spada e lavora là», ribatté Raistlin, che era impegnato adasciugare la crema sparsa per terra. «Qualsiasi cosa, purché ti tolga dai piedi».

«Mi chiedo se a Flint piacerebbe partire con noi, insieme a Kit, a Tanis ea Tasslehoff! Vado a chiederglielo».

Quando suo fratello se ne fu andato e nella casa fu tornata la quiete,Raistlin raccolse i pezzi della caraffa rotta e li gettò via. Anche lui si

sentiva eccitato quanto il fratello alla prospettiva di un viaggio in terrenuove e lontane, ma aveva abbastanza buon senso da non mettersi a

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fracassare il vasellame per esprimere la propria gioia. Stava riflettendo suquali erbe si sarebbe dovuto portare dietro e quali avrebbe invece potutoraccogliere lungo la strada quando qualcuno bussò alla porta.

«Caramon è andato da Flint», gridò, pensando che si trattasse di Sturm,ma i colpi si ripeterono, questa volta con una certa impazienza, e quandoinfine andò ad aprire la porta lui rimase immobile sulla soglia acontemplare il suo visitatore con stupore, sorpresa e non poca preoccupazione. «Maestro Theobald!» esclamò infine.

Fermo sulla passatoia di legno antistante la casa, il mago portava unmantello sopra la veste bianca ed era munito di un robusto bastone, duesegni certi del fatto che era di ritorno da qualche viaggio.

«Posso entrare?», domandò in tono burbero.

«Ma certo, è ovvio. Chiedo scusa, Maestro», rispose Raistlin, traendosidi lato e lasciando passare il suo ospite oltre la soglia. «Non ti aspettavo,ecco tutto».

Questo era vero, perché nel corso dei numerosi anni durante i quali luiaveva frequentato la scuola del maestro, questi non si era recato maineppure una volta a casa sua né aveva mostrato la minima propensione adesiderare di farlo.

Sconcertato e alquanto apprensivo, le imprese da lui compiute ad Haven

erano state da tempo abbondantemente risapute per tutta Solace, Raistlininvitò il maestro a sedersi sull'unica sedia buona della casa, e cioè la sediaa dondolo appartenuta a sua madre; una volta sedutosi, Theobald rifiutò però qualsiasi offerta di cibo o di vino.

«Non ho tempo di fermarmi perché sono rimasto assente una settimana enon sono ancora rientrato a casa», disse. «Arrivo proprio adesso dallaTorre di Wayreth, dove si è tenuta una riunione del Conclave».

«Non è piuttosto insolito che ci sia una riunione del Conclave in questa

stagione dell'anno, Maestro?» domandò Raistlin, sentendo aumentare la propria apprensione. «Credevo che avessero luogo sempre d'estate».

«In effetti è una cosa insolita, ma noi maghi avevamo cose di grandeimportanza di cui discutere, ed io sono stato convocato espressamente»,rispose Theobald, accarezzandosi la barba.

Raistlin rispose con adeguati commenti d'interessamento, mentreaspettava con impazienza e con crescente nervosismo che questo irritantevecchio idiota si decidesse a venire al dunque.

«Le azioni da te compiute ad Haven sono state fra gli argomenti indiscussione, Majere», affermò infine Theobald, fissando Raistlin con occhi

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roventi. «Hai infranto molte regole, non ultima quella che ti proibiva diusare un incantesimo al di sopra delle tue capacità».

Raistlin avrebbe voluto ribattere che evidentemente l'incantesimo nonera stato al di sopra delle sue capacità dato che lui era riuscito ad attivarlo,ma sapeva che con Theobald un sarcasmo del genere sarebbe andatosprecato.

«Ho fatto quello che ritenevo fosse giusto in quelle circostanze,Maestro», rispose soltanto, sforzandosi di mostrarsi il più mite e contrito possibile.

«Sciocchezze!» sbuffò Theobald. «Sai cosa sarebbe stato giusto fare inquelle circostanze: avresti dovuto denunciare a noi quella maga rinnegata,lasciando che ci occupassimo a tempo debito della faccenda».

«A tempo debito, Maestro», ribatté Raistlin, con enfasi. «Nel frattempo persone innocenti venivano private del poco che avevano e altre addiritturascacciate dalla loro casa. Quella sacerdotessa ciarlatana e i suoi seguacistavano causando danni irreparabili, ed io ho cercato di porvi fine».

«Senza dubbio hai usato un metodo davvero definitivo», commentòTheobald, con voce piena di cupi sottintesi.

«Sono stato riconosciuto innocente dell'assassinio, Maestro», ribattéRaistlin, in tono ora tagliente. «Ho un atto stilato dallo sceriffo di Haven in

 persona in cui si proclama la mia innocenza».«Allora chi l'ha uccisa?» domandò Theobald.«Non ne ho idea, Maestro», rispose Raistlin.«Hmmm», grugnì Theobald. «Hai gestito male la cosa ma comunque sei

riuscito a gestirla, anche se a quanto ho sentito per poco non ti sei fattoammazzare. Come ti ho detto, il Conclave ha discusso dell'accaduto».

Raistlin rimase in silenzio, aspettando di sentire quale fosse la sua punizione, già deciso nel proprio intimo a sfidare qualsiasi proibizione di

 praticare in futuro la magia e a diventare eventualmente lui stesso unrinnegato.

 Nel frattempo, Theobald aveva tirato fuori una custodia per pergamene,l'aveva aperta con una lentezza incredibile, armeggiando in maniera cosìimpacciata che Raistlin si sentì tentato di attraversare d'un balzo la stanza per strappargli di mano la custodia, e alla fine riuscì a rimuovere ilcoperchio e a estrarre una pergamena, che consegnò a Raistlin.

«Ecco, allievo, tanto vale che legga tu stesso», disse.

Adesso che aveva la pergamena fra le mani Raistlin si chiese se avrebbeavuto il coraggio di leggerla: dopo un momento di esitazione, inteso a

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garantire che le mani non gli tremassero e non tradissero l'apprensione chestava cercando di mascherare dietro un'apparente disinvoltura, srotolòinfine la pergamena e cercò di leggerla. A causa dell'eccessivo nervosismo, però, i suoi occhi non furono inizialmente in grado di mettere a fuoco le parole, e quando infine ci fu riuscito esse gli parvero prive di senso.

Per quanto si sforzasse, il loro significato gli sfuggiva.«Questo... questo non può essere esatto», mormorò infine, sgomento.

«Io sono troppo giovane».«È ciò che ho detto io stesso», annuì Theobald, esprimendosi in tono

incattivito, «ma sono stato messo in minoranza».Raistlin tornò a rileggere la pergamena e gli parve che le parole scritte su

di essa, pur non essendo magiche, stessero scintillando di un bagliore

simile a quello di mille soli. L'aspirante mago Raistlim Majere è convocato alla Torre della Grande

Stregoneria di Wayreth perché si presenti davanti al Conclave dei Maghinel settimo giorno del settimo mese, il settimo minuto della settima ora. Nel tempo e nel luogo fissati sarà messo alla prova dai suoi superiori per essere incluso fra le file di coloro che sono stati dotati di talento dai tredèi: Solinari, Lunitari e Nuitari.

 Raistlin Majere, essere invitati a sottoporsi alla Prova è un grande

onore accordato a pochi, e come tale dovrebbe essere preso seriamente.Tale onore può essere comunicato ai membri più intimi della famiglia manon deve essere rivelato a nessun altro. Il mancato rispetto di questadirettiva potrebbe comportare la perdita del diritto a sottoporsi alla Prova.

 Porterai con te il tuo libro d'incantesimi e i tuoi componenti magici,indosserai le vesti che rappresentano l'alleanza scelta dal tuo patrocinatore mentre il colore delle vesti che indosserai se e quando sarai

accettato come apprendista, e cioè il simbolo della tua alleanza con unodei tre dèi, verrà determinato durante la Prova. Non porterai con te armio manufatti magici, in quanto i manufatti magici necessari ti saranno forniti durante la Prova stessa al fine di valutare la tua abilità nel gestirli.

 Nella sfortunata eventualità della tua morte nel corso della Prova tutti ituoi effetti personali saranno restituiti alla tua famiglia.

Ti è permesso farti accompagnare fino alla Torre, ma chi tiaccompagnerà dovrà essere informato che non gli, o le, sarà permesso di

entrare nella Foresta Guardiana; qualsiasi tentativo di penetrarvi con la forza comporterebbe per la tua scorta danni estremamente gravi di cui noi

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non ci riterremo responsabili.Quest'ultima frase era stata scritta e poi cancellata, come se chi aveva

stilato il documento avesse avuto dei ripensamenti, e al suo posto eranostate aggiunte altre poche righe.

Un' eccezione a questa regola potrà essere fatta per Caramon Majere, il  fratello gemello del summenzionato aspirante mago. Si desideraespressamente che Caramon Majere presenzi alla Prova di suo fratello e per questo motivo gli sarà permesso di entrare nella Foresta Guardiana, ela sua sicurezza sarà garantita per tutto il tempo in cui lui rimarrà al suointerno.

Raistlin abbassò la pergamena e lasciò che tornasse ad arrotolarsi su sestessa perché le sue mani non avevano la forza di sorreggerla o di tenerla

aperta: essere invitato a sottoporsi alla Prova quando era ancora cosìgiovane, essere considerato capace di affrontarla per quanto fosse ancoraun semplice novizio, era un onore di portata incredibile, e lui si sentìsopraffatto dalla gioia e dall'orgoglio.

 Naturalmente esisteva sempre quella frase cautelativa... nell'eventualitàdella tua morte. Più tardi, nel cuore della notte, quando si ritrovò sveglio eincapace di prendere sonno per l'eccitazione, quella frase gli affioròdavanti agli occhi come una mano scheletrica che si protendesse per 

afferrarlo e trascinarlo verso il basso, ma per il momento si sentiva pienodi sicurezza, orgoglioso di ciò che aveva realizzato e del fatto che le sueazioni avevano senza dubbio impressionato i membri del Conclave, e inquesto stato d'animo non c'era posto per i dubbi o per la paura.

«Ti ringrazio, Maestro», cominciò, quando fu certo di poter controllare asufficienza la voce.

«Non mi ringraziare», replicò però il Maestro Theobald, alzandosi in piedi, «perché è probabile che io ti stia mandando incontro alla morte, e

non voglio avere la tua fine sulla coscienza. L'ho detto a Par-Salian e hovoluto che si mettesse agli atti la mia opposizione ad una simile follia».

«Mi dispiace che tu abbia così poca fede in me, Maestro», commentòRaistlin, accompagnandolo alla porta.

«Vieni da me se avrai delle domande da porre in merito al tuo librod'incantesimi», ribatté soltanto il Maestro Theobald, con un gesto irritato.

«Lo farò, Maestro», garantì Raistlin, anche se dentro di sé non ne avevala minima intenzione. «Ti ringrazio».

Dopo che il maestro se ne fu andato, Raistlin richiuse la porta alle suespalle e si mise a sua volta a saltellare per la stanza. Trasportato dalla gioia

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sollevò la veste ed eseguì una serie di passi di danza che Caramon avevacercato per anni di insegnargli.

Entrando proprio allora, Caramon rimase a fissare a bocca aperta ilfratello, e il suo stupore si decuplicò un momento più tardi quando Raistlincorse verso di lui, lo abbracciò e scoppiò in pianto.

«Cosa c'è che non va?» domandò Caramon, fraintendendo quelcomportamento e sentendo il cuore che quasi gli si bloccava per il terrore.Lasciata andare la spada, che cadde rumorosamente al suolo, afferrò il suogemello e lo scrollò, esclamando: «Raistlin! Cosa succede? Cosa c'è chenon va? Chi è morto?».

«Non c'è nulla che non vada, fratello mio!» replicò Raistlin, ridendo easciugandosi le lacrime. «Nulla al mondo! Per una volta sta andando tutto

a meraviglia».Agitando la pergamena, che teneva ancora in mano, riprese a saltellare

 per la piccola stanza fino a crollare senza fiato ma ancora ridente, sullasedia a dondolo di sua madre.

«Chiudi la porta, fratello, e vieni a sederti vicino a me perché abbiamomolte cose di cui discutere», disse.

CAPITOLO TERZO

Costringere Caramon a giurare di mantenere il segreto in merito allaProva risultò un compito arduo. Quando Raistlin gli mostrò il preziosodocumento che li convocava entrambi alla Torre di Wayreth, Caramonnotò infatti quella spiacevole frase, nell'eventualità della tua morte, e ne fuestremamente turbato... al punto che in un primo momento giurò cheRaistlin non sarebbe andato a sottoporsi alla Prova, che lui avrebbe chiestoa Tanis e a Sturm e a Flint e a Otik e alla metà della popolazione di Solace

di sederglisi addosso per impedirgli di affrontare una Prova nella quale la pena per il fallimento era la morte.

In un primo tempo, Raistlin si sentì commuovere dalla sincera preoccupazione del fratello e facendo sfoggio di una pazienza per luiinsolita cercò di spiegargli il ragionamento che si celava dietro misure cosìdrastiche.

«Mio caro fratello, come tu stesso hai avuto modo di vedere, la magiagestita dalle persone sbagliate può essere estremamente pericolosa. Per 

questo motivo il Conclave accetta nei propri ranghi soltanto coloro chehanno dimostrato di essere disciplinati, abili e, soprattutto, votati anima e

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corpo all'arte magica. In questo modo quanti si limitano a pasticciare conla magia e a praticarla per il loro divertimento, non si sentono indotti asottoporsi alla Prova perché non sono pronti a rischiare la loro vita per amore della magia».

«È un assassinio», ribatté Caramon, con voce sommessa. «Un puro esemplice assassinio».

«No, no, fratello mio», lo blandì Raistlin, in tono rassicurante; pensandoa Lemuel, sorrise e aggiunse: «Coloro che non vengono ritenuti adatti asottoporsi alla Prova ricevono dal Conclave la proibizione di affrontarla. Il permesso viene concesso soltanto a quei maghi che si ritiene abbiano buone probabilità di superarla e quelli che falliscono, fratello mio, sonodavvero pochissimi. Il rischio è tanto minimo da essere pressoché

inesistente, e per me non è neppure qualificabile come un rischio. Saiquanto ho lavorato e studiato intensamente: come potrei mai fallire?».

«È vero?» domandò Caramon, sollevando il volto pallido e teso per scrutare il fratello con occhi penetranti e fissi.

«Lo giuro», replicò Raistlin, appoggiandosi con un sorriso allo schienaledella sedia a dondolo. Quel giorno non riusciva a smettere di sorridere.

«Allora perché vogliono che io venga con te?» obiettò Caramon, in tonosospettoso.

Raistlin fu costretto a riflettere un momento prima di rispondere, perchéla verità era che lui stesso non sapeva perché Caramon fosse stato invitatoad accompagnarlo. Quanto più ci pensava sopra, tanto più si risentiva dellacosa, perché se da un lato era logico che suo fratello lo scortasse fino allaforesta, d'altro canto per quale motivo doveva poi proseguire fino allaTorre? Era estremamente insolito che il Conclave permettesse di accederealla Torre a qualcuno che non faceva parte delle sue file.

«Non lo so con certezza», ammise infine. «Probabilmente è qualcosa che

ha a che vedere con il fatto che siamo gemelli. In questo non c'è nulla disinistro, Caramon, se è quello che stai pensando. Basterà che tu miaccompagni alla Torre e aspetti che io abbia concluso la Prova, poitorneremo insieme a casa».

«Non mi piace, e credo che ne dovresti discutere con Tanis», ribattéCaramon, scuotendo il capo con aria dolente.

«Ti ripeto che non mi è permesso di discuterne con nessuno, Caramon!»esclamò Raistlin in tono iroso, perdendo infine la pazienza. «Possibile che

tu non riesca a ficcarti questo concetto in quella tua testa da nano deifossi?».

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Caramon si mostrò infelice e a disagio, ma continuò a mantenere unatteggiamento di sfida e alla fine Raistlin si alzò dalla sedia a dondolo, piantandosi davanti a lui con le mani serrate a pugno e trapassandolo conlo sguardo nel parlargli con appassionata intensità.

«Mi è stato ordinato di mantenere il segreto e intendo farlo, così come lofarai anche tu, fratello caro. Non accennerai della cosa con Tanis e neppurecon Kitiara o con Sturm o con chiunque altro. Hai capito, Caramon? Nondeve saperlo nessuno!» gridò, poi fece una pausa, trasse un profondorespiro e proseguì in tono più sommesso, in modo che non si potessemettere in discussione la sincerità della sua affermazione: «Se tu dovessi parlarne... se dovessi rovinare quest'opportunità che mi si offre... allora ionon avrò più un fratello».

«Raist, io...» cominciò Caramon, impallidendo fino alle labbra.«Ti disconoscerò», insistette Raistlin, ben sapendo che il colpo doveva

essere inferto fino in fondo. «Lascerò questa casa e non vi farò mai piùritorno, il tuo nome non sarà mai più pronunciato in mia presenza e se micapiterà di vederti arrivare lungo una strada mi avvierò nella direzioneopposta».

Caramon era profondamente ferito, al punto che il suo grosso corpo fuattraversato da un brivido, come se il colpo sferrato da Raistlin fosse stato

effettivamente inferto con una vera spada.«Immagino che significhi molto... per te», mormorò infine con voce

affranta, abbassando il capo e fissando le mani strette l'una all'altra.Raistlin si sentì commuovere dalla sua angoscia, ma dentro di sé sapeva

che doveva indurlo a capire. Inginocchiandoglisi accanto, gli accarezzò icapelli ricciuti.

«È ovvio che significa molto per me, Caramon, significa tutto! Holavorato e studiato per quasi tutta la mia vita proprio per avere

quest'opportunità. Adesso cosa vorresti che facessi... che vi rinunciassi perché è pericolosa? Non ci si può nascondere dal pericolo, la mortefluttua nell'aria, striscia attraverso le finestre, viene trasmessa dalla strettadi mano di uno sconosciuto. Se cessiamo di vivere per paura della morte,allora siamo già morti.

«Tu vuoi diventare un guerriero, Caramon, e ti eserciti con una spadavera... questo non è forse pericoloso? Quante volte tu e Sturm per poconon vi siete tranciati a vicenda gli orecchi? Sturm ci ha parlato dei giovani

Cavalieri che muoiono nei tornei indetti proprio per determinare il lorovalore, e tuttavia se ti sì offrisse l'opportunità di partecipare ad uno di quei

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tornei tu forse la rifiuteresti?».Caramon annuì e una lacrima gli cadde sulle mani ancora serrate.«Quello che faccio io è la stessa cosa», proseguì con gentilezza Raistlin.

«Ogni lama deve essere forgiata nel fuoco. Verrai con me, fratello mio?»domandò infine, premendo la mano su quelle di Caramon. «Sai che io sareial tuo fianco se mai tu dovessi combattere per dimostrare di che stoffa seifatto».

Caramon sollevò il capo e fissò il gemello con occhi colmi di una nuovaespressione di ammirazione e di rispetto.

«Sì, Raist, verrò con te. Ora che mi hai spiegato ogni cosa ho capito, enon ne parlerò con nessuno».

«Bene», sospirò Raistlin. Adesso la sua esaltazione si era esaurita perché

il confronto di volontà con il fratello gli aveva prosciugato le energie,lasciandolo debole ed esausto: tutto quello che voleva era sdraiarsi,rimanere tranquillo e solo nell'oscurità.

«Cosa dirò agli altri?» chiese Caramon.«Quello che preferisci, a patto che non sia la verità», rispose Raistlin,

avviandosi verso la propria stanza.«Raist...» chiamò ancora Caramon, poi fece una pausa e infine chiese:

«Non faresti mai quello che hai detto, vero? Saresti capace di

disconoscermi, di sostenere di non aver mai avuto un fratello?».«Oh, non essere idiota, Caramon», rispose Raistlin, e andò a letto.

CAPITOLO QUARTO

Quando Caramon lo informò che né lui né suo fratello avrebbero potutoaccompagnarlo a Solamnia, Sturm cercò di discutere e di persuaderlo acambiare idea, ma Caramon rimase inflessibile anche se non poté fornire

una motivazione plausibile per questo cambiamento. Al tempo stessoSturm si accorse che l'amico appariva turbato e preoccupato per qualcosa esuppose che Raistlin avesse deciso di non intraprendere il viaggio e avesse proibito anche al fratello di partire; di conseguenza, pur sentendosi offesoe ferito, non riprese più l'argomento.

«Se vuoi un compagno di viaggio, Brightblade, verrò io con te», si offrìKitiara. «Dopo tutto conosco le strade migliori e più rapide per arrivare alnord. Inoltre, stando a quanto ho sentito lassù stanno accadendo cose poco

 piacevoli e sarebbe quindi sconsigliabile per ciascuno di noi viaggiare dasolo; dal momento che anch'io sono diretta da quelle parti, tanto vale che

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facciamo la strada insieme».I tre si trovavano alla Locanda dell'Ultima Casa, intenti a bere un

 boccale di birra. Kitiara, che era stata indotta a raggiungere i due giovanidal fatto che aveva sentito menzionare Raistlin, era convinta che i duegemelli stessero escogitando qualcosa ed era irritata per la loro pretesa chenon stesse invece accadendo nulla d'insolito. Consapevole che non sarebbemai riuscita ad estorcere il segreto in questione a Raistlin, sperava diriuscire ad ottenere informazioni con le blandizie dal più malleabileCaramon.

«Tu e Tanis sarete di certo i benvenuti, Kitiara», replicò Sturm,riprendendosi dall'iniziale stupore destato in lui da quell'offerta. «All'inizionon vi avevo detto nulla perché sapevo che Tanis era intenzionato ad

accompagnare Flint nei suoi viaggi estivi, ma...».«Tanis non verrà con me», lo interruppe Kitiara, in tono piatto e opaco,

 poi vuotò il proprio boccale di birra e chiamò a gran voce Otik perchétornasse a riempirglielo.

Sturm intanto guardò verso Caramon, chiedendosi cosa stessesuccedendo, dato che Tanis e Kitiara avevano trascorso insieme tuttol'inverno ed erano parsi affezionati come sempre.

Caramon però scosse il capo per indicare che non ne sapeva nulla.

«Non sono certo...» iniziò, con aria turbata.«Ottimo, allora è tutto deciso, partirò con te», lo interruppe Kitiara,

rifiutandosi di sentire qualsiasi obiezione. «Adesso, Caramon, vuoi dirmi perché tu e quel tuo fratello mago non verrete con noi? Viaggiare inquattro è molto più sicuro, e poi al nord ci sono alcune persone che vogliofarvi conoscere».

«Come ho detto a Sturm, non posso partire», rispose Caramon.Il suo volto abitualmente allegro appariva solenne e velato, e lui non

aveva bevuto neppure un sorso della sua birra, che aveva intanto persotutta la schiuma; spingendo da un lato il boccale, gettò una moneta sultavolo e lasciò la locanda perché non si sentiva più a proprio agio quandoc'era in giro Kitiara. In cuor suo era lieto che lei stesse per partire e cheTanis non l'accompagnasse. Si era chiesto spesso se fosse il caso di dire aTanis la verità in merito ai fatti di quella notte ad Haven, di informarlo cheera stata Kitiara ad assassinare la Vedova Judith e che, dopo, lei lo avevaincitato a lasciare che Raistlin venisse incolpato della cosa e impiccato.

Kitiara aveva poi sostenuto che stava scherzando, e tuttavia...Caramon si concesse un sospiro di sollievo: adesso lei stava per partire,

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e se fossero stati fortunati non sarebbe più tornata. La sua preoccupazioneera adesso per Sturm, che avrebbe viaggiato in compagnia di Kitiara, madopo averci riflettuto sopra, Caramon decise che il giovane cavaliere, fortedella sua fedeltà al Giuramento e alla Misura, avrebbe saputo badare a sestesso. Inoltre, viaggiare soli era pericoloso, proprio come aveva detto Kit.

La preoccupazione maggiore di Caramon era invece per Tanis, chesarebbe rimasto terribilmente ferito dalla decisione presa da Kit di partire; basandosi sul ragionamento logico, infatti, Caramon era convinto che fossestata Kitiara, irrequieta come sempre, a porre fine al loro rapporto.

Chi scoprì invece la verità fu Raistlin.Anche se aveva ancora davanti a sé parecchi mesi di attesa prima

d'intraprendere con Caramon il viaggio fino alla Torre, Raistlin iniziò

subito i suoi preparativi, uno dei quali consisteva nel far rimodellare illaccio di cuoio che serviva a trattenergli il coltello a ridosso del braccio,nascosto sotto la manica della veste in posizione tale da far sì che unsemplice scatto del polso permettesse all'arma di scivolargli in mano senzaessere notata.

Questo era almeno lo scopo per cui era stato progettato il laccio, soloche il polso di Raistlin era molto più sottile di quanto lo fosse stato quellodel mago guerriero a cui erano appartenuti in origine il laccio e il coltello,

e quando Raistlin aveva provato ad utilizzare il marchingegno gli erascivolato in mano il laccio mentre il coltello era caduto per terra. Diconseguenza, lui mostrò la striscia di cuoio a Flint nella speranza che potesse adattarla.

Dopo averla esaminata, il nano si mostrò impressionato dall'abilemanifattura dell'oggetto, che pensava essere un prodotto del suo popolo.Guardandosi bene dall'accennare al fatto che secondo Lemuel erano statigli elfi di Silvanesti a fabbricare sia il coltello sia il laccio come dono per il

loro amico, Raistlin convenne con il nano che il laccio era stato senzadubbio modellato da qualche grande artigiano del cuoio del suo popolo eFlint si offrì di modificarne le dimensioni se lui glielo avesse lasciato per un paio di settimane.

Il giorno in cui andò a portare il laccio al nano, Raistlin stava per  bussare alla porta di casa quando sentì giungere dall'interno un tenuesuono di voci, che appartenevano a Tanis e a Flint, e pur non riuscendo asentire quasi nulla di quello che dicevano colse comunque alcune parole,

fra cui un nome: Kitiara.Certo che qualsiasi conversazione relativa a sua sorella sarebbe cessata

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nel momento in cui lui fosse entrato, Raistlin allontanò con cautela e insilenzio la mano dalla porta e si guardò intorno per verificare se qualcunosi fosse accorto di lui; dopo aver constatato che era solo sgusciò quindilungo il lato della casa e raggiunse la bottega di Flint, che aveva aperto lefinestre per lasciar entrare la mite aria primaverile. Nascosto alla vista dauna clematide rossa che cresceva rigogliosa lungo la parete della bottega,si arrestò accanto alla finestra, soffocando con facilità qualsiasi riluttanza poteva avvertire all'idea di spiare i suoi amici perché da molto tempodesiderava sapere fino a che punto Tanis fosse a conoscenza delle attivitàdi Kit, dei suoi incontri notturni con degli sconosciuti, dell'assassinio dellasacerdotessa... Kit stava forse fuggendo da qualche pericolo? Oppure Tanisaveva minacciato di denunciarla? E quale sarebbe stata in questo caso la

sua posizione? Comprensibilmente, Raistlin aveva ben poca fiducia nellalealtà di sua sorella.

«Sono giorni che continuiamo a discutere», stava dicendo Tanis,«perché lei vuole che l'accompagni nel nord».

La conversazione venne interrotta per un momento da un furiosomartellare per poi riprendere quando esso fu cessato.

«Sostiene di avere là degli amici disposti a pagare grosse somme a chisappia usare bene arco e spada», aggiunse Tanis.

«Anche dei mezzelfi?» grugnì Flint.«Gliel'ho fatto notare, ma lei sostiene, giustamente, che se volessi potrei

nascondere il mio retaggio, facendomi crescere la barba e portando icapelli lunghi per coprire gli orecchi».

«Sai che bell'aspetto avresti, con la barba!» ritorse Flint, riprendendo amartellare, e quando ebbe finito domandò: «Allora, hai intenzione diandare?».

«No», rispose con riluttanza Tanis, restio a condividere i propri

sentimenti perfino con quell'amico di così vecchia data. «Ho bisogno direstarle lontano per qualche tempo perché quando le sono vicino nonriesco a riflettere. La verità, Flint, è che mi sto innamorando di lei».

Fuori della finestra Raistlin sbuffo e per poco non scoppiò a ridere, ma sicostrinse a soffocare la propria ilarità per timore di tradirsi: si sarebbeaspettato un comportamento così stupido da Caramon ma non dalmezzelfo, che era senza dubbio abbastanza maturo da sapersi guardare dacerte cose.

«L'unica volta che ho anche solo accennato al matrimonio, Kit si è fatta beffe di me», proseguì intanto Tanis, parlando ora più in fretta come se

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sfogarsi gli stesse dando sollievo. «Dopo mi ha rimproverato per giorni,chiedendomi se volevo rovinare tutto il divertimento: dividevamo il letto,quindi che altro potevo mai volere? Io però non sono felice di limitarmi adividere con lei il mio letto, Flint, voglio condividere anche la mia vita, imiei sogni, le mie speranze e i miei piani, mi voglio sistemare per sempre.Kitiara invece non lo vuole affatto, si sente intrappolata, chiusa in gabbia,e sta diventando irrequieta e annoiata, con il risultato che litighiamo dicontinuo per cose stupide. Se restassimo insieme finirebbe per svilupparedel risentimento nei miei confronti e forse perfino per odiarmi, e questonon potrei sopportarlo. Sentirò terribilmente la sua mancanza, ma è megliocosì».

«Bah! Lascia che resti un anno o due con quei suoi amici su nel nord e

vedrai che tornerà indietro. Magari allora si mostrerà ricettiva alla tua proposta, ragazzo».

«Forse tornerà», convenne Tanis, e dopo un momento di silenzioaggiunse: «Però io non sarò qui ad aspettarla».

«Dove pensi di andare, allora?».«A casa», rispose Tanis, in tono sommesso. «È da molto tempo che non

torno più a casa, e anche se so che così non ti potrò accompagnare nella prima parte dei tuoi viaggi ci potremmo sempre incontrare in seguito a

Qualinesti».«Certamente, però... ecco... a dire la verità non penso di andare da quella

 parte, Tanis», spiegò Flint, schiarendosi la gola con aria imbarazzata.«Avevo intenzione di parlartene, ma dato che non sembro trovare mai ilmomento giusto, suppongo che sia il caso di farlo adesso.

«Quella fiera ad Haven mi ha amareggiato, ragazzo, ho visto la brutturache si cela dietro la maschera che gli umani portano sul volto e questo miha lasciato un sapore sgradevole in bocca, senza contare che parlare con

quei nani delle colline mi ha indotto a ripensare alla mia terra. Naturalmente non potrò mai tornare presso il mio clan per i motivi cheanche tu conosci, ma ho in mente di visitare alcuni degli altri clan chevivono nelle vicinanze perché per me sarà un conforto trovarmi in mezzo agente della mia razza. Sai, stavo pensando a quello che afferma il giovaneRaistlin in merito agli dèi, e mi piacerebbe scoprire se Reorx è in giro daqualche parte, magari intrappolato dentro Thorbardin».

«Cercare qualche traccia dei veri dèi... è un'idea interessante»,

commentò Tanis, poi aggiunse con un sospiro: «Chissà, cercando loro,forse lungo la strada potrei trovare me stesso».

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Il dolore e la tristezza che trasparivano dalla sua voce indussero Raistlina vergognarsi di aver ascoltato quella conversazione privata. Stavalasciando il suo posto, diretto alla porta principale per annunciarsi nelmodo convenzionale, quando sentì il nano domandare, in tono acido:

«Chi di noi due si prenderà il kender?».

CAPITOLO QUINTO

Era l'ultimo giorno del mese dell'epoca dei Boccioli di Primavera, lestrade erano ormai aperte e i viandanti riempivano di nuovo al massimodella sua capienza la Locanda dell'Ultima Casa, mangiavano le patate diOtik, lodavano la sua birra e raccontavano storie che annunciavano il

 profilarsi di problemi per il mondo, storie di eserciti di orchetti in marcia,di orchi che lasciavano i loro covi nascosti fra le montagne, di creature acui si accennava appena ma che erano descritte come ancor piùspaventose.

Sturm e Kitiara stavano progettando di partire il primo giorno d'estate, ea quanto pareva anche Tanis aveva intenzione di partire quel giorno perché, come spiegò con un certo imbarazzo, era stato invitato a Qualinesti per partecipare ad una celebrazione elfica che aveva a che fare con il sole.

La verità era che lui sapeva benissimo di non poter tornare alla sua casavuota, che avrebbe echeggiato per sempre della risata di Kitiara; quanto aFlint, avrebbe accompagnato l'amico per un tratto di strada quindi si stava preparando anche lui a partire l'indomani.

Adesso gli altri membri del gruppo erano infine stati messi al correntedel fatto che Caramon e Raistlin avevano a loro volta in programma unviaggio... come aveva scoperto Kitiara che, consumata dalla curiosità acausa dell'aria insolitamente circospetta di Caramon lo aveva tormentato,

minacciato e blandito fino a costringerlo ad ammettere almeno quello.Timoroso che Kitiara potesse finire per infrangere la determinazione del

fratello e costringerlo a rivelare il suo segreto, Raistlin aveva alloralasciato intendere che stessero andando in cerca dei parenti del padre, chesi presumeva fosse originario di Pax Tharkas; se avessero guardato unamappa, i loro amici avrebbero scoperto che Pax Tharkas era situata nelladirezione esattamente opposta a quella in cui si trovava la Foresta diWayreth.

 Nessuno però controllò una mappa, perché le uniche disponibili erano in possesso di Tasslehoff Burrfoot, che non era presente. Infatti uno dei

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motivi per cui i compagni si erano riuniti quella sera, a parte l'accomiatarsigli uni dagli altri, era decidere cosa fare del kender.

Sturm esordì dichiarando senza mezzi termini che i kender non erano i benvenuti a Solamnia, aggiungendo che qualsiasi Cavaliere che fosse statovisto viaggiare con un kender ne avrebbe avuto la reputazione rovinata per sempre.

Kit dal canto suo affermò in tono secco che i suoi amici nel nord nonsapevano cosa farsene dei kender, e che se ci teneva alla pelle Tasslehoff avrebbe fatto meglio a non andare da quelle parti, come aveva commentatofissando Tanis con espressione altezzosa. I rapporti fra loro si erano fatti più che mai tesi, perché Kit era stata certa che Tanis l'avrebbe implorata dirimanere o di accompagnarlo a Qualinesti, mentre lui non aveva fatto

nessuna delle due cose e questo l'aveva fatta infuriare.«Non posso portare Tas a Qualinesti», mormorò Tanis, evitando lo

sguardo di lei. «Gli elfi non lo permetterebbero mai».«Non guardate me!» esclamò Flint, allarmato nel notare che gli altri

stavano facendo esattamente questo. «Se un qualsiasi membro del mio clandovesse vedermi in compagnia di un kender verrei considerato pazzo e mitroverei in difficoltà a spiegare che si stanno sbagliando e che sono sano dimente. Tasslehoff dovrebbe andare a Pax Tharkas con Raistlin e

Caramon».«No», replicò Raistlin, in un tono tanto definitivo da non ammettere

repliche. «Assolutamente no».«Allora cosa ne facciamo di lui?» domandò Tanis, perplesso.«Possiamo legarlo, imbavagliarlo e calarlo in fondo ad un pozzo per poi

sgusciare via nel cuore della notte con la speranza, ripeto, la  speranza, chelui non ci trovi», consigliò Flint.

«Chi volete legare sul fondo di un pozzo?» chiese una voce allegra.

Avendo scorto gli amici attraverso una finestra aperta, Tasslehoff avevadeciso che non era il caso di fare tutto lo stancante giro fino alla porta e siera issato sul davanzale per poi calarsi all'interno.

«Attento al mio boccale di birra, per poco non lo hai rovesciato! Scendidal tavolo, razza di pomolo di porta!» esclamò Flint, afferrando il proprio boccale e tenendolo stretto al petto. «Se proprio lo vuoi sapere, eri tuquello che volevamo legare in fondo ad un pozzo».

«Davvero? Meraviglioso!» esclamò Tas, illuminandosi in volto. «Prima

d'ora non sono mai stato in fondo ad un pozzo, e... Ah, mi sono appenaricordato che non posso farlo. Apprezzo il pensiero», proseguì,

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 protendendosi a battere un colpetto sulla mano di Flint, «lo apprezzo al punto che mi sento quasi indotto a rimanere per poterlo mettere in atto, mail problema è che domani non sarò più qui».

«Dove stai andando?» chiese con trepidazione Tanis.«Prima di rispondere voglio dire qualcosa. Stavate discutendo per 

decidere chi di voi mi dovrà prendere con sé, vero?» domandò il kender,fissando il gruppo con aria severa.

«Non puoi venire con noi, Tas», cominciò Tanis, imbarazzato perchénon voleva ferire i sentimenti del kender, e subito Flint gli fece eco in tonoinorridito: «Non può davvero!».

«Vedete», affermò Tas, sollevando una piccola mano per chiederesilenzio, «se andrò con uno di voi gli altri se ne risentiranno ed io non

voglio che questo succeda, quindi ho deciso di partire per conto mio... no,non cercate di farmi cambiare idea, sto tornando a Kendermore e devoammettere che là non vi trovereste a vostro agio», concluse con ariaestremamente severa.

«Vuoi dire che i kender non ci permetterebbero di entrare nelle loroterre?», domandò Caramon, sentendosi insultato.

«No, voglio dire che non entrereste nelle case, soprattutto tu, Caramon:nel momento in cui tentassi di alzarti in piedi scoperchieresti il tetto della

mia casa, per non parlare dei danni che arrecheresti ai miei mobili. Naturalmente potrei fare un'eccezione per Flint...».

«No, non puoi», si affrettò a correggerlo il nano.Tasslehoff continuò intanto a descrivere le meraviglie di Kendermore,

dipingendo il quadro di una contea libera dove il concetto di proprietà privata e di beni personali era del tutto sconosciuto, in toni così vividi chetutti coloro che sedevano al tavolo votarono con risolutezza di non recarsimai laggiù.

Una volta risolto il problema del kender, agli amici non rimase altro dafare se non dirsi addio e rimasero a lungo seduti al loro tavolo mentre ilsole al tramonto splendeva come una palla infuocata attraverso la porzionerossa della finestra colorata, si tingeva d'arancione in quella gialla eassumeva una strana tonalità verde in quella blu; quella sera il sole parveattardarsi come i compagni, allargando la sua luce dorata nel cielo prima discivolare oltre l'orizzonte lasciandosi alle spalle un luminoso crepuscolo.

Otik portò candele e lampade per dissipare l'improvvisa penombra e

servì la cena che comprendeva le sue famose patate speziate, stufatod'agnello, trota del Lago Crystalmir, pane e formaggio di capra. Il cibo era

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così eccellente che perfino Raistlin mangiò qualcosa di più dei consueti pochi bocconi svogliati e divorò un'intera trota. Quando ebbero finito dicenare mangiando tutto fino all'ultima briciola perché quando a tavolac'era Caramon non restavano mai avanzi, Tanis chiamò Otik per saldare ilconto.

«Questa cena è offerta dalla casa, amici miei, amici carissimi», disseOtik, stringendo la mano a tutti, incluso Tasslehoff, e augurando loro buonviaggio.

Otik accettò poi l'invito di Tanis a bere un bicchiere con loro e quello diFlint a berne un altro e poi un altro ancora, con il risultato che quandoinfine venne richiesta la sua presenza in cucina la giovane Tika dovettevenire per aiutarlo ad alzarsi.

Intanto altri abitanti di Solace passarono dalla locanda per salutarli e porgere i loro auguri di buon viaggio. Molti erano clienti di Flint, cheavevano appreso con dispiacere che lui se ne stava andando quando avevavenduto tutta la sua merce affermando di essere intenzionato a restareassente almeno un anno, ma molti altri vennero ad accomiatarsi daRaistlin, con celato stupore dei suoi compagni, che non avevanoimmaginato che quel giovane riservato e dalla lingua caustica e tagliente potesse avere tanti amici.

Quelli però non erano suoi amici, erano i suoi pazienti, venuti adesprimere gratitudine per le cure che lui aveva prodigato loro. Fra gli altric'era anche Miranda, che non era più la bella della città e appariva pallida esmorta nei suoi abiti a lutto, dovuti al fatto che sua figlia era stata fra le prime vittime della peste. Dando un bacio sulla guancia a Raistlin loringraziò con voce soffocata di essere stato tanto gentile con la sua bambina morente, poi il suo giovane marito porse a sua volta i propriringraziamenti e portò via la moglie affranta.

Raistlin li osservò allontanarsi, lieto in cuor suo di essersi trattenuto intempo dal seguire quel grazioso sentiero coperto di rose, e quella sera simostrò particolarmente gentile con Caramon che ne rimase stupito, nonsapendo cos'aveva fatto per guadagnarsi la gratitudine di Raistlin.

Anche gli stranieri che si trovavano alla locanda notarono lo stranoassortimento di amici, e furono stupiti soprattutto del fatto che di tanto intanto Tanis o Flint provvedevano a restituire gli oggetti preziosi di cui ilkender si era appropriato, fatto che induceva i forestieri a scuotere il capo e

a inarcare le sopracciglia.«Per fare il mondo ci vuole gente di ogni sorta», commentavano quegli

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stranieri, ma in un tono di disprezzo da cui si capiva che credevano ben poco a quel vecchio adagio e che a loro parere l'unica razza necessaria eraquella umana.

Fuori scese la notte e l'oscurità si addensò intorno alla locanda, penetrando dentro di essa con le proprie ombre perché ormai gli altriclienti erano andati a letto portandosi dietro lampade e candele per rischiararsi la strada; piacevolmente brillo, Otik si era ritirato ormai datempo, affidando il compito di ripulire ogni cosa a Tika, al cuoco e allecameriere.

Mentre essi pulivano i tavoli e spazzavano il pavimento, accompagnatida un rumore di vasellame che giungeva dalla cucina, i compagni rimaseroancora al loro tavolo, riluttanti a separarsi perché ciascuno di essi sentiva

in cuor suo che quella separazione sarebbe durata a lungo.«Per noi è ora di andare, fratello», disse infine Raistlin, che già da un po'

si assopiva a tratti sulla sedia. «Ho bisogno di riposare perché domanidovrò studiare a lungo».

Caramon rispose con un suono incomprensibile perché aveva bevuto unaquantità spropositata di birra e adesso aveva il naso rosso ed era giunto aquel livello di ubriachezza che rende litigiosi alcuni uomini incapaci e altridi articolare parola; lui apparteneva alla seconda categoria.

«Anch'io devo andare», affermò Sturm, «perché domattina dovremo partire per tempo in modo da percorrere parecchi chilometri prima delleore più calde».

«Vorrei che cambiassi idea e venissi con noi», mormorò Kitiara,fissando Tanis negli occhi.

Quella sera Kitiara era stata l'elemento più allegro, rumoroso e vivacedel gruppo, tranne quando il suo sguardo si posava su Tanis e il suo sorrisoin tralice scompariva; pochi momenti più tardi esso riappariva, ora più

duro, e la sua risata squillava aspra. La sua allegria era però svanita a manoa mano che la locanda si era fatta più silenziosa e le ombre si eranoaccentuate intorno a loro; a quel punto la risata di Kit era svanita e le storieche raccontava avevano dato l'impressione di non arrivare mai ad unaconclusione mentre lei si spostava sempre più vicino a Tanis, a cui orastava stringendo la mano sotto il tavolo.

«Per favore, Tanis, vieni nel nord» implorò. «Ti giuro che troverai gloriain battaglia, ricchezza e potere».

Tanis esitò. Quegli occhi scuri erano caldi e morbidi, il sorriso di leitremava per l'intensità della sua passione e nel complesso lui non aveva

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mai visto una persona tanto adorabile, cosa che gli stava rendendo sempre più difficile rinunciare a lei.

«Sì, Tanis, vieni con noi», lo incitò Sturm. «Non ti posso prometterericchezza o potere, ma di certo troveremo la gloria».

Il mezzelfo aprì la bocca e parve sul punto di dire di sì: tutti al tavolo siaspettavano che lo facesse, incluso lui stesso, e quando invece dalle labbragli uscì un «no» il primo a rimanere stupito fu proprio Tanis.

Come avrebbe commentato in seguito Raistlin con Caramon, mentretornavano a casa quella notte, il lato umano di Tanis era stato disposto adandare con Kitiara, ma quello elfico lo aveva trattenuto.

«Del resto, chi vuole la tua compagnia?» divampò Kitiara, feritanell'orgoglio e furente perché non aveva previsto quel fallimento, poi si

allontanò da lui e si alzò in piedi, aggiungendo: «Viaggiare con te sarebbecome viaggiare con mio nonno. Sturm e io ci divertiremo molto di più dasoli».

Sturm apparve alquanto allarmato da quell'affermazione perché il pellegrinaggio alla volta della sua terra natale era per lui un viaggio sacro enon stava andando al nord «per divertirsi». Accigliandosi, si lisciò i baffi eripeté che sarebbero dovuti partire di buon'ora.

Scese allora sul gruppo un silenzio pieno di disagio perché nessuno

voleva essere il primo ad andarsene, soprattutto adesso che la separazionesembrava avvenire sulla scia di una nota di attrito. Perfino Tasslehoff stavarisentendo dell'atmosfera e sedeva quieto e silenzioso, così infelice cherestituì addirittura la sacca del denaro di Sturm, anche se per sbaglio laconsegnò a Caramon.

«Ho un'idea», suggerì infine Tanis. «Pianifichiamo di incontrarci dinuovo quest'autunno, la prima notte del Mese del Raccolto».

«Io potrei essere di ritorno oppure no, quindi non contate su di me»,

dichiarò Kit, scrollando con noncuranza le spalle.«Quanto a me, spero di non essere di ritorno», dichiarò Sturm in tono

enfatico, e i suoi amici compresero cosa stesse intendendo: tornarequell'autunno a Solace avrebbe significato che lui aveva fallito nella propria ricerca di suo padre e della sua eredità.

«Allora c'incontreremo ogni anno successivo, la prima notte del Mesedel Raccolto, quelli di noi che si troveranno qui», propose Tanis.«Giuriamo inoltre che fra cinque anni da adesso torneremo alla locanda,

indipendentemente da dove si sia o da che cosa si stia facendo».«Quelli di noi che saranno ancora vivi», aggiunse Raistlin.

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Era stata sua intenzione scherzare, ma Caramon si raddrizzò di scatto eassunse un'espressione sconvolta nel momento in cui le parole del fratello penetravano nella sua mente ottenebrata dalla troppa birra bevuta, e scoccòa Raistlin un'occhiata spaventata che questi bloccò sul nascere incontrandoil suo sguardo con occhi socchiusi.

«Era solo un piccolo tentativo di umorismo, fratello», aggiunse.«Comunque non dovresti dire cose del genere, Raist», supplicò

Caramon. «Porta sfortuna».«Bevi la tua birra e taci», ordinò Raistlin in tono irritato.«Questa è una buona idea», osservò intanto Sturm, la cui espressione

severa si era fatta più rilassata. «Mi impegno a tornare qui fra cinqueanni».

«Tornerò anch'io, Tanis!» promise Tas, saltellando per l'eccitazione.«Fra cinque anni sarò qui».

«È più probabile che fra cinque anni tu sia in qualche prigione», borbottò Flint.

«In quel caso tu pagherai la multa e mi farai uscire, vero, Flint?».Il nano giurò che avrebbe dovuto esserci un giorno freddo nell'Abisso

 prima che lui tirasse ancora una volta il kender fuori di prigione.«Ci sono giorni freddi nell'Abisso?» domandò Tasslehoff. «Anzi, ci

sono giorni di qualsiasi tipo nell'Abisso oppure è quasi sempre buio espaventoso come in un gigantesco buco nel terreno... o magari è pieno difuoco? Non credi che l'Abisso sarebbe un posto grandioso da visitare,Raistlin? Un giorno mi piacerebbe proprio andarci, e scommetto cheneppure lo zio Trapspringer ha mai...».

Tanis impose il silenzio appena in tempo per impedire che Flintrovesciasse il proprio boccale di birra sulla testa del kender, e posò lamano sul tavolo con il palmo rivolto verso il basso.

«Giuro sull'affetto e l'amicizia che provo per tutti voi», disse, sfiorandocon lo sguardo tutti i suoi amici, «che fra cinque anni da oggi tornerò allaLocanda dell'Ultima Casa nel primo giorno del Mese del Raccolto».

«Io tornerò fra cinque anni», dichiarò Kitiara, posando la mano su quelladi Tanis mentre la sua espressione si addolciva, e accentuando la strettadelle dita intorno a quelle di lui aggiunse: «Se non molto prima di allora».

«Giuro sul mio onore, da quel Cavaliere che spero di diventare, chetornerò qui fra cinque anni» scandì in tono solenne Sturai Brightblade,

 posando la mano su quelle di Tanis e di Kit.«Io ci sarò», garantì Caramon, calando la sua mano enorme a coprire

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quelle degli amici.«E anch'io», annuì Raistlin, sfiorando con la punta delle dita il dorso

della mano del fratello.«Non vi dimenticate di me! Tornerò anch'io!» esclamò Tasslehoff,

arrampicandosi sul piano del tavolo per aggiungere al mucchio la sua piccola mano.

«Allora, Flint?» domandò Tanis, sorridendo al suo vecchio amico.«Dannazione, è possibile che abbia cose più importanti da fare che

tornare in questo posto per vedere le vostre brutte facce», brontolò il nano, poi strinse le mani dei suoi amici nelle proprie, nodose e segnate dallavoro, e aggiunse: «Reorx vi accompagni tutti fino a quandoc'incontreremo di nuovo». Infine distolse il capo e rimase a lungo a

guardare fuori della finestra, in silenzio.La porta della locanda era già stata da tempo chiusa a chiave per la notte,

ma una cameriera assonnata aprì per lasciarli uscire. Raistlin fu rapido coni saluti perché desiderava andare a casa a riposare, e dalla soglia guardòcon impazienza Caramon abbracciare Sturm e i due amici di vecchissimadata restare per un momento stretti l'uno all'altro. I due si separarono insilenzio, incapaci di parlare, poi Caramon strinse la mano a Tanis e cercòdi abbracciare anche Flint che, scandalizzato, si ritrasse e gli disse di

andare a casa. Tasslehoff invece circondò il grosso corpo di Caramon conle braccia nella misura in cui questo gli era possibile e lo abbracciò mentrelui gli torceva scherzosamente la coda di cavallo.

Intanto Kitiara venne avanti per abbracciare il fratello ma Caramon non parve vederla. Consapevole che Raistlin stava adesso battendo il piede per terra per l'irritazione si affrettò ad uscire oltrepassando senza una parola lasorella, che per un momento lo seguì con lo sguardo e infine scrollò lespalle con un sorriso. I saluti di Sturm furono brevi e formali,

accompagnati da profondi e rispettosi inchini diretti a Flint e a Tanis, poilui stabilì con Kitiara il posto dove si sarebbero incontrati l'indomani e sene andò.

«Credo che mi fermerò ancora un poco», dichiarò allora Tas, e stava per rovesciare le sue sacche per vagliare i "ritrovamenti" della giornata quandoqualcuno bussò pesantemente alla porta.

«Salve, sceriffo, stai cercando qualcuno?» chiese in tono allegroTasslehoff.

 Naturalmente il kender se ne andò insieme con lo sceriffo, e le sueultime parole della serata furono la richiesta che l'indomani qualcuno si

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ricordasse di tirarlo fuori di prigione.Ferma sulla soglia, Kit intanto stava aspettando Tanis.«Flint, vieni con noi?» chiese questi.La locanda era buia perché la cameriera aveva portato via le candele e il

nano, seduto nell'oscurità, non rispose.«La ragazza sta aspettando di poter chiudere», insistette Tanis, ma

ancora non ebbe risposta.«Mi occuperò io di lui, signore», promise la cameriera in tono

sommesso.Tanis annuì e raggiunse Kit, passandole un braccio intorno alle spalle e

traendola contro di sé mentre si allontanavano fianco a fianco nella notte.Il nano rimase seduto là da solo fino all'alba.

LIBRO SESTO

 La lama deve passare attraverso il fuoco, altrimenti un giorno si spezzerà.

PAR-SALIAN

CAPITOLO PRIMO

Era il sesto giorno del settimo mese, e Antimodes era fermo accanto allafinestra della sua stanza nella Torre di Wayreth, intento a contemplare lanotte. La camera che lui occupava era una delle molte che nella torre eranomesse a disposizione dei maghi che vi affluivano per studiare, per conferire con altri maghi oppure, come nel caso di Antimodes, per  partecipare all'organizzazione della Prova, che avrebbe avuto luogo

l'indomani.Gli alloggi disponibili nella torre erano di diverse dimensioni e di

diversa progettazione, e andavano da camere simili a celle destinate agliapprendisti maghi ad altre più grandi e più lussuose riservate invece agliarcimaghi. Quella in cui Antimodes si era comodamente insediato era lasua stanza abituale e quella che lui preferiva, e dal momento chel'arcimago viaggiava spesso e compariva alla torre nei momenti piùinattesi, Par-Salian aveva l'abitudine di badare che essa fosse sempre

tenuta pronta per l'eventuale arrivo del suo amico.Collocato vicino alla sommità della torre, quell'alloggio comprendeva

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una camera da letto e un salotto dotato di una piccola balconata che a voltesi affacciava sulla Foresta di Wayreth e a volte no, a seconda di dove fossein quel momento la foresta magica.

 Nei momenti in cui la foresta era chissà dove, Antimodes evocava disolito un panorama di suo gusto, costituito da gialli campi di grano omagari da una costa marina percossa dalla risacca, a seconda dell'umore dicui era in quel particolare giorno. Questa notte la foresta non era presente,ma poiché era buio e lui era stanco a causa della giornata di viaggio,Antimodes non si era preso il disturbo di evocare un particolare panoramaed era semplicemente uscito sulla balconata per godere della rinfrescante brezza serale. Lasciate le imposte aperte per permettere all'aria di circolaredato che la notte era insolitamente calda, il mago tornò infine alla scrivania

dove riprese a studiare con aria accigliata una pergamena il cui esame eragià stato interrotto dalla cena.

Un momento più tardi un colpo battuto contro la porta gli causò unanuova interruzione.

«Avanti», disse Antimodes, irritato.La porta si aprì e Par-Salian fece capolino nella stanza.«Ti disturbo? Se vuoi posso tornare in un altro...».«No, no, mio caro amico», rispose Antimodes, affrettandosi ad alzarsi in

 piedi per accogliere il visitatore. «Entra, entra, sono davvero lieto divederti e speravo proprio di poter avere l'occasione di parlarti prima dellagiornata di domani, al punto che sarei venuto io da te se non avessi temutodi disturbarti mentre lavoravi. So quanto sei di solito impegnato prima diuna Prova».

«Sì, e questa in particolare sarà più difficile della media. Stai studiandoun nuovo incantesimo?» domandò Par-Salian, lanciando un'occhiata alla pergamena posata sulla scrivania e in parte srotolata.

«È quella che ho comprato», rispose Antimodes, con una smorfia. «Aquanto pare sono stato truffato, perché non è ciò che mi era stato promessoda chi me l'ha venduta».

«Mio caro Antimodes, non l'hai letta prima di acquistarla?» esclamòPar-Salian, sorpreso e sconvolto.

«Le ho solo dato una rapida occhiata, e il fatto che quindi la colpa siamia serve soltanto ad accentuare la mia irritazione».

«Immagino che non ti sia possibile restituirla».

«Temo di no. Si è trattato di uno di quegli acquisti che si fanno nellelocande... naturalmente avrei dovuto sapere che non era il caso di fidarmi,

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ma si trattava di un incantesimo che stavo cercando da parecchio tempo elei era molto gentile, per non parlare di quanto era graziosa, e mi hagarantito che questo incantesimo avrebbe fatto esattamente quello che iodesideravo. Ah, bene, vivendo s'impara», concluse Antimodes, scrollandole spalle. «Per favore, siediti. Gradisci un po' di vino?».

«Grazie», accettò Par-Salian, assaporando il vino giallo chiaro.«Evocato o acquistato?» chiese poi.

«Acquistato», rispose Antimodes. «A mio parere il vino evocato mancadi corpo. Soltanto gli elfi di Silvanesti sanno come procedere nel modogiusto, e ultimamente sta diventando sempre più difficile procurarsi del buon vino di Silvanesti».

«Verissimo», convenne Par-Salian. «Re Lorac era solito portarmene in

dono parecchie bottiglie ogni volta che veniva in visita, ma ormai sono passati molti anni dall'ultima volta che è venuto da noi».

«Sta tenendo il broncio», osservò Antimodes. «È convinto che avrebbedovuto essere eletto lui a capo del Conclave».

«Non credo che si tratti di questo. Certo, riteneva di meritare la posizione, ma è stato pronto ad ammettere di essere già estremamenteimpegnato con i suoi doveri di sovrano degli elfi di Silvanesti. Piuttosto,credo che volesse che gli venisse conferito quell'onore in modo da poterlo

cortesemente rifiutare», rispose Par-Salian, poi assunse un tono pensoso e proseguì: «Sai, amico mio, ho la stranissima sensazione che Lorac ci stianascondendo qualcosa e che non venga più da me per timore di esserescoperto».

«Di cosa pensi che si tratti? Di qualche potente manufatto magico? Cen'è qualcuno che manca?».

«Non che io sappia. È possibile che la mia sensazione sia errata, ed io lospero davvero».

«Lorac è sempre stato propenso ad agire di testa sua, senza curarsi dellavolontà del Conclave», rifletté Antimodes.

«Però ha sempre accettato le nostre regole, almeno nella misura in cuiqualsiasi elfo rispetta regole che non siano state create dal suo popolo», gliricordò Par-Salian, finendo il vino e concedendosene un altro bicchiere.

Per qualche momento Antimodes rimase immerso in un pensososilenzio.

«Gli dèi concedano allora a Lorac di trarre del bene dal suo segreto,

quale che esso sia, perché temo che ne avrà bisogno. Hai ricevuto il mioultimo rapporto?».

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«Sì, e voglio sapere se sei assolutamente certo dei fatti che hai riferito»,sospirò Par-Salian.

«Certo? No, naturalmente non lo sono e non potrò mai esserlo fino aquando non avrò verificato con i miei stessi occhi!» esclamò Antimodes,agitando una mano. «Si tratta di voci, di sentito dire, e niente di più, etuttavia... tuttavia io ci credo», concluse in tono sommesso.

«I draghi! I draghi stanno ritornando su Krynn, e quelli di Takhisis, per di più! Amico mio, spero e prego che tu ti stia sbagliando», dichiarò intutta serietà Par-Salian.

«Però combacia con i fatti di cui siamo certi. Hai parlato della cosa con inostri fratelli dalla veste nera, come ti avevo consigliato di fare?».

«Ho discusso il problema con Ladonna», rispose Par-Salian, «senza

specificare dove o come avevo sentito parlare della cosa, ma lei è stataevasiva».

«Non lo è forse sempre?» commentò in tono asciutto Antimodes.«Sì, ma se la si conosce si ha comunque di solito il modo di capire ciò

che non dice», ribatté Par-Salian.Antimodes si limitò ad annuire perché era un vecchio e fidato amico di

Par-Salian, e fra loro non c'era bisogno di accennare al fatto che questiconosceva Ladonna meglio della maggior parte degli altri maghi.

«Per tutto lo scorso anno lei è stata di umore eccellente», continuò Par-Salian, «direi addirittura felice ed esaltata, ed è stata anche estremamenteimpegnata con qualcosa perché ha visitato la torre soltanto due volte, edesclusivamente per passare al setaccio la nostra collezione di pergamene».

«Quanto all'altra notizia che ti ho inviato, ho avuto modo di verificarla»,affermò Antimodes. «Come avevo sentito dire, un ricco nobile delsettentrione sta assoldando dei soldati senza essere troppo schizzinoso inmerito al genere di persone che recluta: orchi, orchetti, perfino umani

disposti a barattare la loro anima in cambio di una porzione di bottino. Alnord si stanno radunando vasti eserciti, eserciti di oscurità. Conosco perfino il nome di questo nobile... Ariakas. Lo conosci?».

«Mi pare di ricordare qualcosa sul suo conto... se non mi sbaglio, sitratta di un mago di rango minore, molto più interessato a ottenere quelloche gli sta a cuore in modo rapido e brutale per mezzo della spada che coni mezzi più sottili ed eleganti della magia».

«Sembra che si tratti proprio di lui», sospirò Antimodes, scuotendo il

capo con un sospiro. «Il sole sta tramontando, amico mio. La notte stacalando e noi non la possiamo fermare».

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«Però potremmo riuscire a tenere alcune luci accese nell'oscurità»,obiettò Par-Salian.

«Non senza aiuto!» esclamò Antimodes, serrando i pugni. «Se soltantogli dèi ci dessero un segno!»

«Direi che Takhisis lo ha appena fatto», commentò in tono asciutto Par-Salian.

«Mi riferivo agli dèi del bene. Oppure lasceranno che lei li calpesti?»domandò Antimodes, impaziente ed esasperato. «Quand'è che Paladine eMishakal renderanno finalmente nota la loro presenza nel mondo?».

«Forse stanno aspettando un segno da parte nostra», osservò in tono mitePar-Salian.

«Un segno di cosa?».

«Di fede. Aspettano che mostriamo di credere in loro e di avere fiducia,anche se non comprendiamo il loro piano».

Antimodes fissò il suo amico socchiudendo gli occhi con perplessità, poisi appoggiò allo schienale della sedia senza cessare di scrutarlo e si grattòla mascella coperta da un velo di barba lunga mentre Par-Salian sostenevaquell'intenso e prolungato esame con un sorriso inteso a segnalare al suoamico che anche le sue riflessioni stavano andando nella stessa direzione.

«Allora è di questo che si tratta?» domandò Antimodes, dopo un

momento, e Par-Salian annuì.«Me lo ero chiesto. Lui è così giovane. Abile, lo ammetto, ma giovane e

inesperto».«Acquisterà esperienza», replicò Par-Salian. «Dopo tutto abbiamo

davanti a noi un po' di tempo, no?».«Questi orchi, orchetti e umani dovranno essere addestrati e modellati

fino a diventare un esercito, cosa che potrebbe risultare estremamentedifficile», rifletté Antimodes. «Nella loro condizione attuale ci sono

altrettante probabilità che si sgozzino fra loro quante ce ne sono cheattacchino il nemico, il che significa che Ariakas ha davanti a sé un lavorotitanico. Se poi le voci sono vere e i draghi sono davvero tornati, allorasarà necessario controllarli in qualche modo, anche se per riuscirci civorranno individui forti e coraggiosi! Di conseguenza, in risposta alla tuadomanda ti posso dire che abbiamo del tempo, ma non molto. Inoltre quelgiovane non indosserà mai la veste bianca... lo sai anche tu, vero?».

«Lo so», rispose con calma Par-Salian. «Ho ascoltato per anni Theobald

infuriare contro Raistlin Majere e lamentarsi di lui praticamente da quandoha cominciato gli studi, da bambino. Conosco i suoi difetti: è taciturno e

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 portato a tramare di nascosto, arrogante, ambizioso e avido».«Però è anche creativo, intelligente e coraggioso», aggiunse Antimodes,

che era orgoglioso del suo protetto. «Ne è testimone l'abile modo in cui hatrattato quella strega rinnegata, Judith, usando un incantesimo nettamentesuperiore al suo livello di abilità e che non avrebbe dovuto essere neppurecapace di leggere, tanto meno di controllare. Inoltre lo ha usato da solo,senza aiuti».

«Il che prova soltanto che sarà sempre pronto a piegare le regole oaddirittura a infrangerle per conseguire i suoi scopi», obiettò Par-Salian.«No, no, non sentire il bisogno di difenderlo. Sono consapevole dei suoimeriti come lo sono delle sue debolezze, ed è per questo che l'ho invitato asottoporsi alla Prova invece di chiedergli di presentarsi al Conclave per 

essere accusato del suo operato, come avrei dovuto fare di diritto. Crediche l'abbia uccisa lui?».

«No», rispose con decisione Antimodes, «se non altro per il motivo chetagliare la gola ad una persona non rientra nel suo stile, è troppo volgare.Lui è esperto nell'uso delle erbe, e se l'avesse voluta morta avrebbe trovatoil modo di versare un po' di veleno nel suo tè».

«Allora lo credi capace di commettere un assassinio?», domandò Par-Salian, accigliandosi.

«Chi fra noi non lo è, posto nelle giuste circostanze? Nella mia città c'èun sarto nostro rivale, un uomo odioso che truffa i clienti e diffondesgradevoli menzogne sul conto dei suoi concorrenti, compreso miofratello, e io stesso sono stato tentato più di una volta di mandare la ManoDevastante di Bigby a bussare alla sua porta», dichiarò Antimodes con ariaferoce.

Par-Salian nascose il proprio sorriso sorseggiando dell'altro vino.«Tu stesso sei sempre stato solito dire che coloro che percorrono i

sentieri della notte devono sapere come vedere al buio», continuòAntimodes. «Immagino che non vorrai vederlo brancolare di qua e di làalla cieca».

«Questo è stato parte integrante del mio ragionamento. La Prova gliinsegnerà alcune cose sul conto di se stesso che forse non gli piaceràsapere ma che gli sono necessarie per poter capire la propria stessa natura eil potere che gestisce».

«La Prova è un'esperienza che insegna l'umiltà», commentò Antimodes,

con un gesto che era una via di mezzo fra un sospiro e un brivido.D'un tratto entrambi s'incupirono in volto e si scambiarono occhiate in

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tralice per verificare se ancora una volta i loro pensieri stessero viaggiandonella stessa direzione: a quanto pareva anche questa volta stavanoseguendo la stessa linea di pensiero, come venne dimostrato dal fatto chenessuno dei due ebbe bisogno di citare il nome della persona di cui adessostavano parlando.

«Lui sarà senza dubbio presente», sussurrò Antimodes, scrutandointorno a sé con aria guardinga come se temesse di poter essere sentito inquella camera peraltro isolata nella parte più elevata della Torre, unacamera a cui soltanto loro due potevano accedere.

«Sì, lo temo anch'io», annuì Par-Salian, «e manifesterà di certo un particolare interesse per questo giovane».

«Dovremmo finirlo una volta per tutte», osservò Antimodes.

«Ci abbiamo provato», gli ricordò Par-Salian, «e conosci quanto me ilrisultato. Non possiamo toccarlo sul suo piano dell'esistenza, e oltre aquesto ho il sospetto che Nuitari lo protegga».

«Mi sembra giusto, dato che non ha mai avuto un servitore più fedele...quello sì che era un esperto di assassinii!» esclamò Antimodes, poi si protese in avanti e proseguì, in tono confidenziale: «Potremmo semprelimitare le possibilità di quel giovane di accedere a lui».

«E che ne sarebbe della libera volontà? Essa è sempre stata l'emblema

dei nostri ordini, una libertà per la cui protezione molti di noi hannosacrificato la vita. Vogliamo forse gettare nell'Abisso il diritto di scegliereil nostro destino?».

«Perdonami, amico mio, ho parlato affrettatamente», si scusòAntimodes, mortificato. «Però sono affezionato a quel giovane, e sonoanche orgoglioso di lui perché ha reso onore alla mia capacità di giudizio,e detesterei di vedergli succedere qualcosa di male».

«In effetti ti ha davvero reso onore e spero che continuerà a farlo. Le sue

scelte lo condurranno al sentiero che è destinato a percorrere così come èsuccesso a noi, e confido che saranno scelte sagge».

«La Prova sarà dura per lui, perché è fragile di costituzione».«La lama deve passare attraverso il fuoco, altrimenti un giorno si

spezzerà».«E se dovesse morire? Che ne sarà allora dei nostri piani?».«In quel caso cercherò altrove. Labanna mi ha parlato di un promettente

giovane elfo di nome Dalamar...».

La conversazione si spostò quindi su altri argomenti, come l'allievo diLadonna, i nefasti eventi che si stavano verificando nel mondo e infine

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l'argomento che più li interessava entrambi, la magia.Sopra la torre l'argentea Solinari e la rossa Lunitari splendevano intense,

e anche Nuitari era lassù, un buco nero in mezzo alle costellazioni. Quellanotte le tre lune erano tutte piene, com'era necessario per la Prova.

 Nelle terre al di là della Torre, molto, molto lontano dalla stanza in cui idue arcimaghi sorseggiavano vino elfico e parlavano del destino delmondo, i giovani maghi che stavano viaggiando alla volta della torre per sottoporsi alla Prova stavano dormendo di un sonno irrequieto nei casi incui erano riusciti ad addormentarsi. L'indomani la Foresta di Wayreth liavrebbe trovati e scortati incontro al loro destino. E l'indomani alcuni diloro si sarebbero forse addormentati per non svegliarsi mai più.

CAPITOLO SECONDO

I gemelli impiegarono più di un mese a raggiungere la Torre, un viaggio peraltro più breve di quanto essi avessero inizialmente preventivato, inquanto in origine avevano supposto che avrebbero viaggiato a piedi; però poco dopo che i loro amici avevano lasciato Solace, un messaggero vennea riferire che alle stalle pubbliche erano stati consegnati due cavalli per iMajere inviati in dono da Antimodes, il mecenate di Raistlin.

Una volta in viaggio verso sudovest i due fratelli passarono da Haven, eRaistlin ne approfittò per fermarsi a fare visita a Lemuel, da cui appreseche il tempio di Belzor era stato raso al suolo e i blocchi di pietra usati per costruire case per i poveri, operazione effettuata sotto gli auspici di unnuovo e all'apparenza innocuo ordine religioso, quello dei Cercatori.Lemuel, che intanto aveva riaperto la sua bottega di articoli per maghi,mostrò a Raistlin come stesse prosperando la sua brionia nera, poi chiesedove i due fratelli fossero diretti e quando si sentì rispondere che erano in

viaggio di piacere e che si stavano dirigendo a Pax Tharkas facendo unampio giro, assunse un'espressione molto grave e augurò loro molte voltedi fare un viaggio sicuro, concedendosi poi un profondo sospiro dopo che idue se ne furono andati.

Proseguendo il loro viaggio, i due gemelli si diressero a sud lungo i pendii meridionali dei Monti Kharolis e costeggiarono i confini diQualinesti, senza avvistare neppure un elfo per quanto tenessero gli occhi bene aperti e tuttavia avendo sempre la consapevolezza di essere

sorvegliati a vista da loro. Quando Caramon propose di andare a trovareTanis e di visitare così il regno elfico, Raistlin gli ricordò che il loro era un

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viaggio segreto e che si supponeva che adesso si trovassero a Pax Tharkas,senza contare che sarebbe stato difficile convincere gli elfi a lasciarlientrare nelle loro terre, perché per quanto gli elfi di Qualinesti avesseromaggiore simpatia per gli umani di quanta ne dimostrassero i loro cugini diSilvanesti, in questo periodo in cui voci malvagie giungevano dal nord suali nere anche loro erano diventati molto guardinghi nei confronti deglisconosciuti.

Il mattino successivo all'ultima notte trascorsa nelle vicinanze delconfine elfico, al risveglio i due fratelli trovarono una freccia conficcatavicino al giaciglio di ciascuno e non ebbero difficoltà a decifrare queltacito messaggio degli elfi di Qualinesti: vi abbiamo lasciati passare, manon tornate.

Una volta fuori delle terre elfiche i due fratelli si rilassarono un poco manon allentarono la vigilanza perché adesso dovevano cominciare lericerche della girovaga Foresta di Wayreth, cosa non esente da pericoli inquanto quella parte dell'Abanasinia era selvaggia e desolata, comedimostrò il fatto che i due fratelli s'imbatterono in alcuni banditi eincrociarono una banda di orchetti, che passò loro tanto vicina da poter quasi essere toccata.

I banditi avevano pensato di piombare su due giovani viandanti indifesi,

ma la spada di Caramon e gli incantesimi di fuoco di Raistlin fecero ben presto capire loro che avevano commesso un errore e li indussero a darsialla fuga lasciando un compagno morto sulla strada. Gli orchetti invecerisultarono troppo numerosi per poter essere affrontati, quindi i due fratellisi rifugiarono in una grotta fino a quando essi non furono passati oltre,diretti a nord con passo veloce.

I gemelli trascorsero poi quattro giorni impegnati a cercare la Forestamentre Caramon, nervoso e frustrato, ripeteva più di una volta che

sarebbero dovuti tornare indietro e continuava a consultare tre mappe, unaottenuta da Tasslehoff, una fornita da un locandiere di Haven e la terzatrovata addosso al bandito ucciso, scoprendo soltanto che su ciascuna diesse la Foresta era indicata in un punto diverso.

Raistlin intanto cercò di placare i timori del fratello con la massimacalma a cui riusciva a fare appello, consapevole che l'indomani sarebbestato il settimo giorno e che ancora non avevano visto traccia della Foresta.

Quella notte i due stesero le loro coperte in una radura circondata da pini

stentati, e al risveglio si trovarono distesi sotto i grandi rami di querceenormi.

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Per poco Caramon non si diede alla fuga nel vedere quelle querce, chenon erano piante normali in quanto era possibile vedere degli occhi neinodi dei tronchi e cogliere delle parole nel frusciare delle foglie e perfinonel canto degli uccelli... parole che lui non riusciva a comprendere benema che parevano ingiungergli di andarsene.

Raccolte le loro cose, i gemelli montarono a cavallo. Fronteggiando glienormi alberi che formavano una barriera compatta e bloccavano loro il passo, Raistlin li contemplò in silenzio per un momento, poi fece appello atutto il proprio coraggio e incitò il cavallo ad avanzare: immediatamente lequerce si divisero in modo da formare un sentiero sgombro che portavadritto alla Torre.

Quando però Caramon cercò di entrare nella Foresta per seguire il

fratello gli alberi lo fissarono con odio e agitarono le foglie con ira a stentorepressa: sentendo il coraggio che gli veniva meno e la paura che loassaliva lasciandolo impotente, debole e incapace di muoversi, lui lanciòun rauco grido d'aiuto.

«Raist!» chiamò.Girandosi, Raistlin si accorse della situazione del fratello e tornò

indietro, protendendosi a prendere la mano di Caramon nella propria.«Non avere paura, Caramon», rispose. «Io sono con te».

I due entrarono nella Foresta insieme.

Il settimo giorno del settimo mese, sette maghi vennero introdotti in ungrande cortile alla base della Torre della Grande Stregoneria.

Si trattava di quattro uomini e di tre donne, di cui quattro umani, due elfie uno che sembrava per metà umano e per metà nano, un incrocio insolito per un mago. Raistlin Majere era più giovane degli altri di almeno cinqueanni, ed era inoltre il solo che fosse arrivato con una scorta, cosa che

indusse gli altri a scoccargli occhiate in tralice che non mancarono dinotare i lineamenti delicati, la carnagione pallida e la magrezza eccessivache lo facevano apparire più giovane di quanto non fosse in realtà.Osservandolo senza parere, gli altri si chiesero cosa ci facesse qui e perchégli fosse stato permesso di portare con sé un membro della sua famiglia,cosa a cui gli elfi reagirono con aperto disprezzo mentre il novizio per metà nano mostrò di sospettare che Raistlin fosse riuscito ad arrivare fin lìsenza essere stato invitato, anche se non avrebbe saputo spiegare come.

Il giardino che occupava il cortile della Torre della Grande Stregoneriaera un luogo strano, attraversato da una serie di corridoi della magia che i

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maghi percorrevano con regolarità nel recarsi alla Torre per assolvere aincarichi ufficiali o per affari personali; quanti erano adesso raccolti nelgiardino non potevano vedere quei viandanti che stavano percorrendo inascosti sentieri della magia ma potevano avvertire in qualche modo il loro passaggio.

I maghi più maturi ed esperti che frequentavano la Torre si abituavano ben presto ai mutevoli vortici di magia che permeavano il cortile mentre per i novizi, che erano alla loro prima visita alla Torre, le voci chescaturivano dal nulla, le improvvise folate d'aria o l'apparire appenaintravisto e fugace di una mano o di un piede erano cose abbastanzasconvolgenti e aumentavano la tensione con cui stavano aspettando quelloche speravano sarebbe stato l'inizio della loro vita come membri di questa

ristretta cerchia di maghi. Nell'attesa, gli iniziati cercavano di non pensareche quello avrebbe potuto essere l'ultimo giorno della loro vita.

Altrettanto teso, Caramon sussultò rumorosamente e si girò di scatto per guardarsi alle spalle.

«Sta' fermo, Caramon! Ti stai rendendo ridicolo», ammonì Raistlin.«Ho sentito una mano toccarmi la schiena», rispose Caramon, pallido e

sudato.«È molto probabile», rispose Raistlin, imperturbato. «Non ci badare».

«Questo posto non mi piace, Raist!» ribatté Caramon, con voce cherisuonò più forte del dovuto nel silenzio pervaso da sussurri che regnavanel cortile. «Torniamo a casa. Sei un mago abbastanza abile senza dovertisottoporre a tutto questo».

Sentendo con chiarezza le sue parole, gli altri iniziati si girarono afissarlo e uno degli elfi arricciò le labbra in un sogghigno che fece salireun'ondata di rossore al volto di Raistlin.

«Taci, Caramon!» ingiunse questi, con voce carica d'ira. «Ci stai

coprendo entrambi di vergogna».Caramon chiuse la bocca e si morse un labbro mentre Raistlin gli

volgeva le spalle con una mossa deliberata, incapace di comprendere per quale motivo il Conclave avesse insistito perché Caramon fosse presentealla sua Prova.

«A meno che non abbiano intenzione di irritarmi a morte», borbottò frasé.

Cercò quindi di ignorare la presenza del fratello e si concentrò sul

tentativo di liberarsi del proprio nervosismo e della paura. Non c'eramotivo per cui dovesse avere paura perché aveva studiato il proprio libro

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degli incantesimi fino a conoscerlo così bene che avrebbe potuto recitaregli incantesimi a ritroso stando a testa in giù e piedi in aria, e inoltre avevadimostrato di essere in grado di operare un incantesimo anche se postosotto pressione, senza che lui o la sua magia venissero meno a causa di unasituazione di tensione.

Di conseguenza, non aveva motivo di essere preoccupato in merito allasua capacità o meno di impiegare la magia durante la Prova; quanto alla parte meno tangibile di essa, quella in cui il mago era indotto a scoprire sestesso, essa non gli causava timori perché lui era stato portatoall'introspezione fin dalla nascita ed era quindi certo di sapere sul proprioanimo tutto quello che c'era da sapere.

Per lui, la Prova sarebbe stata una semplice formalità.

Riuscendo infine a rilassarsi, Raistlin scoprì di essere addiritturaimpaziente di cominciare, e una volta placati i propri timori trascorse iltempo dell'attesa dell'arrivo dei giudici osservando la favolosa Torre diWayreth.

«In futuro la vedrò spesso», disse a se stesso, immaginandosi nell'atto di percorrere i sentieri invisibili della magia, di curare le erbe che crescevanonel giardino e di studiare nella grande biblioteca.

La Torre di Wayreth era costituita in effetti da due torri principali di

lucida ossidiana nera, circondate da un muro che aveva la forma di untriangolo equilatero e che aveva tre torri più piccole posizionate suciascuno degli angoli; all'interno del muro era racchiuso il giardino, nelquale cresceva una grande varietà di piante usate non solo comecomponenti per incantesimi ma anche per scopi medicinali e per la cucina.

La sommità delle mura era priva di bastioni, perché le difese eranocostituite da potenti magie e comunque la foresta non avrebbe permesso il passaggio a nessuno che non fosse stato invitato dal Conclave. Se per puro

caso un nemico si fosse imbattuto in essa, le creature magiche che vi siaggiravano lo avrebbero neutralizzato immediatamente.

Per quanto potessero sembrare eccessive, simili precauzioni eranonecessarie. Un tempo c'erano state cinque Torri della Grande Stregoneria,centri della magia di Ansalon. ma nel periodo dell'ascesa di Istar il Re-Prete, che segretamente temeva la magia e il potere dei maghi, avevadichiarato entrambi fuorilegge e aveva indotto le folle a insorgere contro imaghi nella speranza di sterminarli.

 Naturalmente i maghi avrebbero potuto reagire e difendersi, e alcuni diessi avevano suggerito che si ricorresse all'uso della forza, ma il Conclave

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aveva ritenuto poco saggio ricorrere a misure drastiche in quanto se imaghi si fossero difesi questo avrebbe portato a tragiche perdite di viteumane da entrambe le parti, un sanguinoso conflitto che avrebbe fatto ilgioco del Re-Prete e dei suoi seguaci, permettendo loro di puntare contro imaghi un dito accusatore e di denunciarli come una minaccia che andavadistrutta.

Di conseguenza, il Conclave aveva stretto un accordo con il Re-Prete: imaghi avrebbero abbandonato le loro torri per ritirarsi in una soltanto,quella che si trovava a Wayreth, dove avrebbero continuato i loro studisenza essere molestati. Per quanto deluso dal fatto che i maghi non fosserodisposti a combattere, il Re-Prete aveva acconsentito: avendo già assunto ilcontrollo della Torre della Grande Stregoneria di Istar era adesso

impaziente di fare altrettanto con l'adorabile torre che sorgeva a Palanthase che voleva trasformare in un tempio che esaltasse il suo potere.

Quando vi aveva fatto il suo ingresso, però, un mago dalla veste nerache si supponeva fosse pazzo si era gettato da una delle finestre superioridella torre, impalandosi sulle punte di ferro della recinzione sottostante:con il suo ultimo alito di vita quel mago aveva gettato una maledizionesulla torre, secondo la quale non vi avrebbe mai potuto dimorare nessunotranne il Signore del Passato e del Presente.

 Nessuno era stato in grado di determinare chi fosse questo misteriososignore, anche se di certo non si era trattato del Re-Prete, che con occhiinorriditi aveva visto la torre mutare aspetto e diventare così orribile daindurre chi cercava di osservarla a distogliere lo sguardo e ad essere per sempre perseguitato da ciò che aveva visto.

Il Re-Prete aveva incaricato chierici potenti di cercare di annullare lamaledizione, ma intorno alla torre era sorto intanto il Boschetto diShoikan, una foresta di terrore, e la torre stessa era sorvegliata dall'oscuro

dio Nuitari che non prestava attenzione alle preghiere rivolte a qualsiasialtra divinità. I chierici di Paladine erano quindi fuggiti gemendo e ichierici di Mishakal che avevano cercato di penetrare nella torre eranoriusciti a stento a salvarsi la vita.

Quando poi gli dèi avevano scagliato su Ansalon una montagnainfuocata, il Cataclisma che ne era conseguito aveva sprofondato Istar sulfondo del Mare di Sangue e aveva scatenato in tutto il continente deiterremoti che avevano spaccato la terra, formando nuovi mari e creando

catene montuose. La città di Palanthas era stata scossa fino allefondamenta, case e palazzi erano crollati, ma nel Boschetto di Shoikan non

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aveva tremato neppure una foglia.Cupa e silenziosa, la torre stava aspettando il suo signore, chiunque

 potesse essere.Mentre aspettava, Raistlin rifletteva sulla storia delle torri, e con l'occhio

della mente si stava già vedendo nell'atto di passeggiare per le sale dellaTorre di Wayreth nei panni di un mago accettato e riverito, quando unacampana invisibile scandì sette rintocchi.

I sette iniziati, che stavano passeggiando per il giardino, conversando fraloro o recitando incantesimi fra sé e sé, si arrestarono di colpo e tacquero.Alcuni impallidirono per il timore, altri arrossirono per l'eccitazionementre gli elfi, che andavano orgogliosi della loro capacità di non tradireemozioni davanti agli umani, si mostrarono noncuranti e annoiati.

«Cos'è stato?» domandò Caramon, con voce resa rauca dal nervosismo.«È il momento, fratello mio», rispose Raistlin.«Raist, per favore...» cominciò Caramon, ma nel vedere l'espressione

apparsa sul volto del fratello, il socchiudersi minaccioso degli occhi,l'aggrottarsi della fronte, il deciso serrarsi delle labbra, troncò sul nascerequell'ultima supplica.

In quel momento una mano priva di corpo apparve nell'aria al di sopra diun roseto che cresceva nel centro del giardino.

«Dannazione!» sussurrò Caramon, serrando convulsamente la manointorno all'elsa della spada senza però avere bisogno dell'occhiata diammonimento del fratello per sapere che non era il caso di estrarre un'armain quel luogo... cosa che comunque dubitava di avere la forza di fare.

La mano rivolse un cenno ai sette iniziati, che si sollevarono ilcappuccio sulla testa, infilarono le mani nelle maniche della veste es'incamminarono in silenzio nella direzione loro indicata, alla volta di una piccola torre posta fra le due più grandi. Essendo stati gli ultimi ad

arrivare, Raistlin e suo fratello si avviarono dietro agli altri.La mano indicò quindi la porta della prima torre, che aveva il batacchio

a forma di testa di drago; nessuno dovette però bussare per farsi aprire, perché all'avvicinarsi degli iniziati il battente si schiuse da solo.

Ad uno ad uno i membri della piccola processione oltrepassarono lasoglia, lasciando il giardino rischiarato dal sole per passare in un'oscuritàcosì fitta da renderli temporaneamente ciechi. I primi della fila siarrestarono, incerti su dove andare e timorosi di addentrarsi in un luogo

che non riuscivano a vedere, e quelli che li seguivano si accalcarono dietrodi loro appena oltre la soglia. Entrando per ultimo, Caramon andò a

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sbattere contro gli altri.«Chiedo scusa. Mi dispiace, ma non ho visto...».«Silenzio», ingiunse l'oscurità circostante.Gli iniziati obbedirono e così pure Caramon, o almeno ci provò, senza

 però riuscire a impedire che il giustacuore di cuoio scricchiolasse, la spadatintinnasse e il suo respiro possente echeggiasse per la stanza.

«Svoltate a sinistra e dirigetevi verso la luce», ordinò quella voceincorporea quanto la mano.

Gli iniziati obbedirono e nel veder comparire una luce si diressero versodi essa con passi sommessi, seguiti da Caramon che procedeva conun'andatura molto più rumorosa, addentrandosi in un piccolo corridoio di pietra rischiarato da torce il cui fuoco pallido ardeva in modo costante,

senza emanare calore o fumo, e sbucando infine in una vasta sala.«La Sala dei Maghi!» sussurrò Raistlin, affondando le unghie nella

carne del braccio e facendo ricorso al dolore per soffocare la propriaeccitazione.

Gli altri parevano condividere la sua meraviglia e la sua esaltazione,dato che gli elfi abbandonarono la loro maschera d'indifferenza e siguardarono intorno con gli occhi che brillavano e le labbra socchiuse per lameraviglia. Ciascuno degli iniziati aveva sognato a lungo questo momento,

aveva sognato di trovarsi nella Sala dei Maghi, un luogo proibito che lamaggior parte degli abitanti di Krynn non avrebbe mai visto.

«Qualsiasi cosa accada, ne sarà valsa la pena», disse fra sé Raistlin.L'unico a non manifestare altra emozione che non fosse il timore, fu

Caramon, che chinò il capo e si rifiutò di guardarsi intorno, quasi sperasseche così sarebbe svanito tutto.

Le pareti della camera erano di ossidiana, resa liscia e lucida con lamagia, l'alto soffitto si perdeva nelle ombre sovrastanti e non c'erano

colonne che ne reggessero il peso.Una luce bianca pervadeva la camera, che era il luogo di raduno del

Conclave dei Maghi, e illuminava ventuno seggi di pietra disposti asemicerchio e corredati da cuscini, sette neri, sette rossi e sette bianchi; alcentro del semicerchio c'era un seggio di poco più grande degli altri, quelloriservato al capo del Conclave, sul quale posava attualmente un cuscino bianco.

I seggi, che al loro ingresso erano apparsi vuoti, risultarono ora occupati

da altrettanti maghi, uomini e donne di diverse razze che portavanociascuno il colore proprio del suo ordine.

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Sussultando, Caramon barcollò vistosamente e subito la mano di Raistlingli si chiuse intorno al braccio in una morsa tale che probabilmente gli fecemale nella stessa misura in cui lo sostenne.

Era evidente che Caramon si stava trovando in seria difficoltà. Nel corsodegli anni lui non aveva mai preso troppo sul serio né la magia né il talentoche il fratello dimostrava in quel campo, in quanto per lui la magia eranomonete che scaturivano dal naso, conigli che saltavano fuori da uncappello, kender giganteschi. Perfino quel particolare incantesimo avevafatto su di lui un'impressione minima, perché in fin dei conti il kender nonera stato effettivamente trasformato in un gigante e in pratica si era trattatosoltanto di un'illusione, di un trucco: nella sua mente, trucchi e magiaavevano finito per diventare la stessa cosa.

Qui però non si poteva trattare di trucchi, ciò che stava vedendo era unamanifestazione di vero e puro potere, studiata apposta per fare impressionee per intimidire. Sentendo crescere il proprio timore per il gemello,Caramon desiderò di poter fuggire da quel posto trascinando Raistlin consé... ma si trattenne perché da qualche parte nelle profondità della suamente stava infine cominciando a capire quanto fosse alta la posta a cuisuo fratello stava mirando, abbastanza alta da far sì che per lui valesse la pena di mettere in gioco la propria vita.

Infine il mago che sedeva al centro del semicerchio si alzò in piedi.«Quello è Par-Salian, il capo del Conclave», sussurrò Raistlin al fratello,

sperando di evitargli nuove brutte figure. «Sii cortese!».Quando gli iniziati si inchinarono con rispetto, Caramon fece altrettanto.«Salute a voi», disse allora Par-Salian, in tono gentile e accogliente.Il grande arcimago aveva a quell'epoca poco più di sessant'anni, anche

se i lunghi e lanugginosi capelli bianchi, la barba candida e le spalle curvelo facevano apparire più vecchio. Preferendo lo studio all'azione, lui non

era mai stato robusto e dedicava tutto il suo tempo a sviluppare nuoviincantesimi e a perfezionare quelli vecchi, oltre ad essere avido dimanufatti magici nello stesso modo in cui un bambino poteva esserlo didolciumi, il che spiegava perché i suoi apprendisti trascorressero gran parte del loro tempo viaggiando per il continente in cerca di manufatti o di pergamene, oppure per accertare se voci inerenti a oggetti del generefossero vere o false.

Par-Salian era anche un acuto osservatore e tendeva a partecipare in

modo attivo alla politica di Ansalon, contrariamente a molti maghi che siritenevano al di sopra delle attività quotidiane della popolazione ignorante.

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Il capo del Conclave aveva quindi dei contatti all'interno di ogni governoimportante di Ansalon, e Antimodes non era certo la sua unica fonted'informazione, anche se lui teneva segreto ciò che sapeva a meno chedivulgarlo potesse tornare utile ai suoi piani.

Sebbene fossero in pochi a conoscere l'effettiva portata della suainfluenza in Ansalon, un'aura di potere e di saggezza creava intorno allasua persona un alone quasi visibile di luce bianca e così intensa da indurrei due elfi di Silvanesti, che di solito avevano per gli umani la stessaconsiderazione che la maggior parte delle altre razze aveva per i kender, arivolgergli un profondo inchino e poi un altro ancora.

«Salute a voi, iniziati», ripeté Par-Salian. «E ospite», aggiunse quindi,spostando il proprio sguardo su Caramon, che si sentì trapassare il cuore e

cominciò a tremare. «Dietro nostro invito, ognuno di voi si è presentato nelmomento stabilito per mettere alla prova la sua abilità, il suo talento, la suacreatività, i suoi processi mentali e, cosa più importante, se stesso. Qualisono i vostri limiti? Fino a che punto siete in grado di valicarli? Quali sonoi vostri difetti e in che modo possono ostacolare il vostro talento? Sonodomande spiacevoli, ma a cui è necessario dare una risposta perchésoltanto quando conosciamo noi stessi, quando siamo coscienti in parimisura dei nostri punti di forza e delle nostre debolezze, possiamo

accedere appieno al potenziale che è racchiuso dentro di noi».Gli iniziati lo ascoltarono in silenzio e circospetti, pervasi di nervosismo,

di reverenza e di ansia.«Non vi preoccupate», sorrise Par-Salian. «So quanto siete impazienti di

cominciare quindi non vi terrò un lungo discorso. Voglio soltanto porgervidi nuovo il benvenuto e darvi la mia benedizione. Chiedo a Solinari diessere oggi al vostro fianco», concluse, sollevando le mani, e mentre gliiniziati chinavano il capo si rimise a sedere.

Il capo dell'Ordine delle Vesti Rosse si alzò allora a sua volta e procedette a dare in tono asciutto le necessarie istruzioni.

«Quando verrà chiamato il vostro nome verrete avanti e seguirete unodei giudici, che vi condurrà nell'area in cui avrà inizio la Prova. Sono certoche avete familiarità con i criteri su cui essa si basa, ma il Conclaverichiede che io adesso ve li legga in modo che in seguito nessuno possasostenere di aver affrontato la Prova ignorandone la natura. Vi ricordo chequesti sono soltanto i criteri fondamentali e che ogni Prova viene studiata

in modo specifico per il singolo iniziato e può quindi includere tutti questielementi oppure soltanto alcuni di essi.

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«Ci saranno almeno tre situazioni in cui verrà messa alla prova laconoscenza che l'iniziato ha della magia e del suo utilizzo, la Provarichiederà l'uso di tutti gli incantesimi noti all'iniziato e ci saranno almenotre situazioni che non potranno essere risolte soltanto con la magia, ealmeno una che preveda un combattimento contro un avversario di rango più elevato dell'iniziato. Avete delle domande?».

 Nessuno degli iniziati parlò, perché le eventuali domande eranoracchiuse nel cuore di ciascuno di essi; Caramon, per contro, aveva moltiinterrogativi che avrebbe voluto porre, ma era troppo spaventato per riuscire a formularli.

«In tal caso», concluse la Veste Rossa, rimettendosi a sedere, «chiedo aLunitari di accompagnarvi».

Infine si alzò in piedi la donna che presiedeva all'Ordine delle Vesti Nere.

«Che Nuitari vi accompagni», disse, poi srotolò una pergamena ecominciò a scandire i nomi degli iniziati.

A mano a mano che il suo nome veniva chiamato, ciascuno di essiveniva avanti e preso in consegna da un membro del Conclave che insilenzio e con assoluta solennità lo conduceva verso le ombre cheavvolgevano la sala, scomparendo con lui.

Uno dopo l'altro tutti gli iniziati se ne andarono, e infine nella salarimase soltanto Raistlin Majere.

Raistlin aveva aspettato con stoica calma mentre i suoi compagnidiminuivano di numero intorno a lui, ma le sue mani nascoste nellemaniche erano serrate a pugno e lui cominciava ad avvertire l'irrazionale paura che ci fosse stato un errore di qualche tipo e che la sua presenza lìnon fosse stata prevista. Forse i maghi avevano cambiato idea e loavrebbero mandato via, o forse quello zotico di suo fratello li aveva offesi

in qualche modo e adesso loro lo avrebbero scacciato coprendolo divergogna e d'ignominia.

La Veste Nera finì di leggere i nomi e arrotolò la pergamena con ungesto secco... e ancora Raistlin era in attesa nella Sala dei Maghi, solo cheadesso era l'unico novizio presente. Mantenendo una posa rigida, ilgiovane attese di sentire quale fosse la sua sorte, e infine Par-Salian si alzòin piedi, venendo verso di lui.

«Raistlin Majere, ti abbiamo lasciato per ultimo a causa delle

circostanze alquanto insolite, dovute al fatto che hai con te una scorta».«Mi è stato chiesto di venire accompagnato, signore», rispose Raistlin,

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con voce che scaturì, ridotta ad un sussurro, dalle labbra aride.Schiarendosi la gola aggiunse quindi in tono un po' più deciso: «Questo èil mio gemello Caramon».

«Benvenuto, Caramon Majere», salutò Par-Salian, mentre i suoi occhiazzurri affondati in un nido di rughe parevano sbirciare in profonditànell'animo di Caramon che borbottò qualcosa d'incomprensibile e si chiusein un cupo silenzio. «Volevo spiegarti perché abbiamo richiesto la presenza di tuo fratello», proseguì intanto Par-Salian, riportando suRaistlin il proprio sguardo astuto. «Vogliamo innanzitutto garantirti chenon sei unico e che questo non è un trattamento speciale a te riservato:facciamo questo per ogni caso di gemelli che si sottopongono alla Prova perché abbiamo scoperto che i gemelli hanno fra loro un vincolo molto

stretto, più della maggior parte dei fratelli, al punto che sembrano quasi unsolo essere diviso in due. Naturalmente nella maggior parte dei casientrambi i gemelli intraprendono lo studio della magia in quanto sono tuttie due dotati di talento, e la tua unicità consiste soltanto in questo, Raistlin,nel fatto di essere il solo dei due che abbia del talento per la nostra arte. Tuhai mai avuto interesse per la magia, Caramon?».

Chiamato a rispondere ad una domanda così sorprendente, che in realtànon aveva mai neppure preso in considerazione, Caramon aprì la bocca per 

replicare ma venne prevenuto da Raistlin.«No, non ne ha mai avuto», dichiarò.«Capisco», commentò Par-Salian, osservandoli entrambi. «Ti

ringraziamo di essere venuto, Caramon. Quanto a te, Raistlin, vuoi per favore seguire Justarius? Lui ti accompagnerà nell'area dove avrà inizio latua Prova».

Il sollievo che pervase Raistlin fu così intenso che per un momento sisentì assalire dalle vertigini e dovette chiudere gli occhi fino a quando non

ebbe ritrovato l'equilibrio; di conseguenza non prestò molta attenzione allaVeste Rossa che gli stava venendo incontro e notò soltanto che era unuomo anziano che camminava zoppicando in modo vistoso.

Tenendo stretto a sé il suo libro degli incantesimi, Raistlin rivolse un profondo inchino a Par-Salian e si avviò per seguire la Veste Rossa equando Caramon si mosse per accompagnarlo Par-Salian fu pronto aintervenire per bloccarlo.

«Mi dispiace, Caramon, ma non puoi andare con tuo fratello», disse.

«Ma mi avete detto di venire qui!» protestò Caramon, ritrovando la vocesotto il pungolo del timore.

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«Sì, e sarà nostro piacere intrattenerti in assenza di tuo fratello», replicòPar-Salian, in tono cortese ma inflessibile.

«Buona... buona fortuna, Raist», esclamò allora Caramon all'indirizzodel gemello.

Imbarazzato, Raistlin lo ignorò e finse di non averlo sentito, seguendoJustarius nelle ombre della sala... e un attimo più tardi scomparve, avviatosu un cammino lungo il quale il fratello non poteva seguirlo.

«Ho una domanda da fare!» gridò intanto Caramon. «È vero che a voltegli iniziati muoiono...».

D'un tratto si rese conto che stava parlando ad una porta e che adesso sitrovava all'interno di una camera estremamente accogliente che parevaessere stata estratta da una delle migliori locande di Ansalon. Un fuoco

ardeva nel camino, il tavolo era coperto di vivande che comprendevanotutti i suoi piatti preferiti a cui si accompagnava una birra di qualitàeccellente.

Caramon però non prestò attenzione al cibo: furente per quello checonsiderava un trattamento altezzoso e prepotente, cercò di aprire la porta,con il solo risultato che la maniglia gli rimase in mano. Ormai veramentespaventato per il fratello e assalito dal sospetto che i maghi avessero intentisinistri nei suoi confronti, Caramon decise di andare a salvarlo e si scagliò

contro la porta che tremò sotto il suo peso ma non cedette. Tempestando il battente di pugni, lui prese allora a gridare perché qualcuno venisse aliberarlo.

«Caramon Majere», chiamò una voce che proveniva da un punto alle suespalle.

Sorpreso e allarmato, Caramon si girò così in fretta da inciampare nei propri piedi; aggrappandosi al tavolo per non cadere, fissò interdetto Par-Salian che si trovava ora nel centro della stanza e gli stava rivolgendo un

sorriso rassicurante.«Perdona il mio arrivo drammatico, ma la porta è bloccata con una

magia ed è fastidioso rimuovere l'incantesimo per poi riapplicarlo. Lastanza è confortevole? C'è qualcosa che possiamo portarti?».

«Che m'importa della stanza?» tuonò Caramon. «Mi hanno detto che lui potrebbe morire».

«È vero, ma è consapevole dei rischi che corre».«Voglio stare con Raistlin», dichiarò Caramon. «Sono il suo gemello ed

è nel mio diritto!».«Tu sei con lui», affermò in tono sommesso Par-Salian. «Ti porta con sé

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dovunque vada».Caramon non riuscì a capire cosa il mago intendesse dire: per quanto lo

riguardava sapeva soltanto che non era con Raistlin e che lo stavanoingannando, quindi decise di ignorare tutti quei discorsi strani.

«Lasciatemi andare da lui», ringhiò, serrando i pugni, «altrimenti farò a pezzi questa Torre pietra su pietra».

«Farò un patto con te, Caramon», replicò Par-Salian, accarezzandosi la barba per nascondere un sorriso. «Tu lascerai che la nostra Torre restiintegra e io ti permetterò di assistere mentre tuo fratello si sottopone allaProva. Non potrai aiutarlo in nessun modo, ma forse vederlo potràalleviare i tuoi timori».

«Sì, d'accordo», assentì Caramon, dopo aver riflettuto, pensando che

quando avesse saputo dove si trovava Raistlin sarebbe potuto andare in suosoccorso qualora avesse avuto bisogno di aiuto. «Sono pronto,accompagnami da lui... oh, ti ringrazio, ma adesso non ho sete», aggiunse,vedendo che Par-Salian stava versando in una bacinella l'acqua contenutain una brocca.

«Siediti, Caramon», ordinò l'arcimago.«Dobbiamo andare da Raist...».«Siediti, Caramon», ripeté Par-Salian. «Vuoi vedere il tuo gemello?

Allora guarda nella ciotola».«Ma è soltanto acqua...».Par-Salian passò la mano sulla bacinella, pronunciò una parola magica e

lasciò cadere nell'acqua alcune foglie sbriciolate mentre infine Caramon sisedeva, con l'intenzione di fingere di assecondare quel vecchio per poiafferrarlo per il suo collo magro, e abbassava lo sguardo sull'acqua.

CAPITOLO TERZO

Raistlin stava camminando lungo una solitaria e poco trafficata stradaalla periferia di Haven. La notte era ormai prossima, una brezza tesafaceva ondeggiare le cime degli alberi, disperdendo le foglie autunnali, enell'aria umida si avvertiva l'odore dei fulmini. Avendo viaggiato a piedi per tutto il giorno Raistlin era stanco e affamato, e adesso che si stavaavvicinando una tempesta aveva accantonato del tutto la sua idea inizialedi trascorrere la notte dormendo all'aperto.

In risposta ad una sua richiesta d'informazioni, un arrotino incontrato in precedenza gli aveva detto che più avanti c'era una locanda dal nome

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alquanto insulso, Locanda Inmezzo, e aveva aggiunto a titolo diavvertimento che quel posto aveva una brutta reputazione in quanto sisapeva che era frequentato da ogni sorta di persone. A Raistlin però nonimportava che genere di gente vi andasse a bere, a patto che la locandaavesse da mettergli a disposizione un letto al coperto, e comunque aveva ben poca paura dei ladri perché le sue vesti logore dovevano rendereevidente che non aveva con sé nulla di prezioso, senza contare che di solitola semplice vista delle vestì di un mago era sufficiente a indurre qualsiasiladro a pensarci due volte prima di avvicinarglisi.

La Locanda Inmezzo, così chiamata perché era posta a pari distanza fraHaven e Qualinesti, non aveva un aspetto invitante e i colori dell'insegnaerano sbiaditi da tempo fino a diventare irriconoscibili, anche se questa

non era una grave perdita per il patrimonio artistico in quanto il proprietario della locanda, dopo aver consumato tutto il suo ingegno per trovare il nome adatto al locale non era riuscito a pensare ad un'insegna piùfantasiosa di una semplice X in mezzo ad un ghirigoro che avrebbe potutoessere una strada.

L'edificio in se stesso aveva un'aria cupa e al tempo stesso piena di sfida,come se si fosse stancato di essere deriso a causa del suo nome e fosse pronto in una crisi d'ira a crollare sulla testa della prossima persona che se

ne fosse fatta beffe; le imposte semichiuse davano alle finestre l'aria diocchi storti e sospettosi, le grondaie quasi divelte sembravano sopraccigliaaggrottate.

La porta era così riluttante ad aprirsi che al primo tentativo Raistlintemette che la locanda fosse chiusa, ma poi dall'interno gli giunsero voci,risa e un odore di cibo, e ad una seconda spinta più decisa da parte sua la porta infine cedette con riluttanza, si aprì stridendo sui cardini arrugginiti esi richiuse di scatto alle sue spalle quasi a voler dire, «Non biasimare me,

io ho fatto del mio meglio per avvertirti».All'ingresso di Raistlin le risa cessarono e gli avventori si girarono tutti a

guardarlo come per soppesarlo e prepararsi ad agire nel modo che fosse parso più appropriato. Abbagliato dalla luce intensa di un fuoco ruggente,in un primo momento lui non riuscì a vedere nulla e non poté quindideterminare se qualcuno degli altri clienti della locanda stessemanifestando un insolito interesse nei suoi confronti; quando infine la vistagli si fu abituata era ormai troppo tardi perché tutti erano tornati a

concentrarsi sulle loro attività... o almeno questo valeva per la maggior  parte dei presenti, dato che un gruppetto costituito da tre individui avvolti

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nel mantello e con il cappuccio sollevato che sedevano al lato oppostodella stanza lo stavano osservando con considerevole attenzione. Dopo un po' infine i tre ripresero a parlare in tono eccitato, sollevando di tanto intanto la testa per scoccare rapide occhiate nella sua direzione.

Trovato un tavolo vuoto vicino al fuoco, Raistlin si sedette con sollievo per riposarsi e scaldarsi; una sola occhiata ai piatti dei vicini di tavolo glirivelò che il cibo era estremamente semplice, e pur non apparendo particolarmente gustoso esso non sembrava tale avvelenarlo: dal momentoche la sola portata disponibile era lo stufato, ne ordinò un piatto insiemecon un bicchiere di vino, ma dopo aver mangiato qualche boccone diquella carne di natura indecifrabile non riuscì a inghiottire altro e si limitòa giocherellare con le patate immerse nel denso condimento, sorseggiando

al tempo stesso il vino che era invece sorprendentemente buono, con unsentore di fondo di chiodo di garofano. Stava rimpiangendo che la sua borsa poco fornita non gli permettesse di ordinarne un secondo bicchierequando una brocca di vino fresco gli apparve accanto al gomito.

Sollevando il capo, Raistlin trovò accanto a sé uno degli uominiincappucciati che avevano mostrato tanto interesse nei suoi confronti.

«Salve, straniero», salutò l'uomo, parlando la lingua comune con unlieve accento che ricordò a Raistlin quello di Tanis, motivo per cui lui non

rimase particolarmente sorpreso di constatare che il suo interlocutore eraun elfo, mentre venne invece preso in contropiede dalle sue parolesuccessive: «I miei amici ed io abbiamo notato quanto tu abbia apprezzatoil vino, che proviene da Qualinesti, proprio come noi. Io e i miei compagnigradiremmo quindi dividere con te questa caraffa del nostro eccellentevino, signore».

 Nessun elfo rispettabile si sarebbe fatto vedere a bere in una taverna posseduta da un umano, né avrebbe avviato una conversazione con un

umano e tanto meno gli avrebbe offerto una caraffa di vino, cosa che diedea Raistlin un'idea abbastanza precisa della condizione sociale dei suoinuovi conoscenti: quelli dovevano essere elfi scuri... coloro che erano stati"scacciati dalla luce", o per meglio dire esiliati dalle terre elfiche, il checostituiva la sorte peggiore che si potesse abbattere su un elfo.

«Cosa bevi e con chi lo bevi è una tua prerogativa, signore», risposequindi con cautela.

«Non è una prerogativa, è vino», replicò l'elfo con un sorriso, credendosi

spiritoso. «E il vino è tuo, se lo vuoi. Ti dispiace se mi siedo?».«Perdona se ti sembro scortese, signore, ma non sono dell'umore giusto

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 per avere compagnia».«Grazie, accetto il tuo invito», ribatté l'elfo, sedendoglisi di fronte.Ritenendo che la cosa si fosse protratta anche troppo, Raistlin si alzò in

 piedi.«Ti auguro la buona notte, signore, perché ho bisogno di riposare. Se mi

vuoi scusare...».«Sei un mago, vero?» domandò l'elfo; anche se non si era tolto il

cappuccio, gli occhi erano adesso visibili sotto di esso, a mandorla escintillanti.

 Non ritenendo opportuno rispondere a quella domanda impertinente eforse pericolosa, Raistlin volse le spalle al suo interlocutore conl'intenzione di contrattare con il locandiere perché gli permettesse di

dormire sul pavimento, vicino al fuoco, della sala comune.«Peccato», commentò l'elfo. «Sarebbe stata una fortuna se lo fossi

stato... un mago, voglio dire. I miei amici e io», proseguì, accennando conla testa in direzione dei suoi due compagni, «avevamo in mente unlavoretto in cui un mago ci sarebbe potuto tornare utile».

Raistlin non rispose ma neppure si allontanò dal tavolo, rimanendo in piedi e guardando l'elfo con maggiore interesse.

«C'è da guadagnare del denaro», aggiunse questi, sorridendo.

Raistlin si limitò a scrollare le spalle, e quella reazione parve sconcertareil suo interlocutore.

«Strano», osservò. «Credevo che voi umani foste sempre interessati aldenaro, ma pare che mi sia sbagliato. In che modo posso allora indurti intentazione? Ah, ma certo, con la magia! È ovvio... ti interessano manufatti,anelli incantati e libri d'incantesimi. Vieni a incontrare i miei amici», propose l'elfo, alzandosi in piedi con mosse aggraziate, «e ascolta la nostra proposta. In questo modo, se ti capiterà di incontrare un mago potrai

informarlo che unendosi a noi guadagnerebbe una fortuna», concluseammiccando.

«Porta il vino», rispose Raistlin, avviandosi attraverso la sala dellalocanda per sedersi al tavolo occupato dai due elfi; sorridendo, il terzocomponente del gruppetto prese la caraffa e lo seguì.

Raistlin aveva appreso da Tanis qualcosa sugli elfi di Qualinesti, e forsene sapeva sull'argomento più della maggior parte degli umani perché avevainterrogato a lungo il mezzelfo sugli usi e abitudini del popolo elfico. I tre

avevano la corporatura alta e snella tipica della loro razza, e sebbene glielfi tendessero ad apparire tutti uguali agli occhi degli umani, Raistlin ebbe

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l'impressione di notare fra loro una certa rassomiglianza, soprattuttodovuta al mento affilato e sporgente e agli occhi verdi comuni a tutti e tre.Ancora in giovane età, probabilmente non avevano più di un paio dicentinaia di anni, i suoi interlocutori erano armati di spada corta, che si poteva sentir urtare a tratti contro il legno della sedia e probabilmenteanche di coltello; dallo scricchiolio di cuoio pareva inoltre evidente chesotto il mantello indossassero una corazza di quel materiale.

Raistlin si chiese quale crimine avessero commesso per essere staticondannati all'esilio, una punizione che per gli elfi era peggiore dellamorte, e d'un tratto ebbe la sensazione di essere in procinto di scoprirlo.

Quello dei tre che lo aveva accostato risultò essere il portavoce delgruppo, mentre gli altri due interloquivano molto di rado, cosa che indusse

Raistlin a pensare che non parlassero la lingua comune, com'era tipico dimolti elfi che non si degnavano di apprendere la lingua degli umani.

«Io mi chiamo Liam», si presentò il primo elfo, «e loro sono Micah eRenet. Il tuo nome invece è...».

«È di scarso interesse per voi», ribatté Raistlin.«Oh, invece ti assicuro che lo è, signore», ribatté Liam. «A me piace

conoscere il nome di ogni uomo con cui mi siedo a bere».«Majere», disse Raistlin.

«Majere?» ripeté Liam, accigliandosi. «Mi pare di ricordare che questofosse il nome di uno degli antichi dèi».

«Pare anche a me», annuì Raistlin, sorseggiando il vino, «ma non per questo pretendo di avere una natura divina. Per favore, signore, spiegamiin cosa consiste questo lavoro perché la compagnia degli elfi scuri non miè così gradita da indurmi a voler prolungare il nostro colloquio».

Un bagliore di rabbia apparve nello sguardo dell'elfo chiamato Renet,che serrò i pugni ed accennò ad alzarsi in piedi, soltanto per essere

 bloccato da alcune secche parole che Liam gli rivolse nella lingua elfica,spingendolo al tempo stesso di nuovo a sedere. Quella reazione fornì aRaistlin la risposta ad un interrogativo che si stava ponendo, in quantoindicava che almeno uno dei suoi altri due interlocutori comprendeva lalingua comune.

Dal canto suo, Raistlin aveva un'infarinatura della lingua di Qualinestiche aveva appreso da Tanis, ma non diede a vedere che la comprendeva perché riteneva che se gli elfi avessero creduto di poter parlare liberamente

fra loro nella propria lingua, lui avrebbe potuto così apprendere qualcheinformazione utile.

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«Non è il momento di essere troppo sensibili, cugino, perché abbiamo bisogno di quest'umano», disse Liam in lingua elfica, poi passò alla linguacomune e aggiunse: «Devi perdonare mio cugino, signore, perché ha uncarattere un po' focoso. Credo però che dovresti essere più cortese neinostri confronti, Majere, dato che ti stiamo facendo un grosso favore».

«Se state soltanto cercando compagnia vi suggerisco di parlare con lacameriera», replicò Raistlin, «che sembra in grado di potervi soddisfare.Se invece volete assoldare un mago dovete spiegarmi di che lavoro sitratta».

«Allora sei un mago?» domandò Liam, con un astuto sorriso, e quandoRaistlin annuì lo squadrò attentamente, aggiungendo: «Sei molto giovane».

«Sei stato tu ad avvicinarmi, signore», gli fece notare Raistlin, che

cominciava ad irritarsi, «e sapevi che aspetto avevo quando mi hai invitatoad unirmi a voi. A quanto pare, ho sprecato il mio tempo», concluse,accennando ad alzarsi.

«D'accordo, d'accordo! Suppongo che la tua età non abbia importanza, a patto che tu sia in grado di fare il lavoro», affermò Liam, poi si protese inavanti e continuò abbassando la voce: «Ecco la nostra proposta: qui adHaven vive un mago che possiede una bottega di articoli magici. È unumano, come te, e si chiama Lemuel... lo conosci?».

In effetti Raistlin conosceva Lemuel, con il quale aveva fatto degli affariin passato, lo considerava un amico e per questo pensò di cercare discoprire cosa volessero da lui questi elfi in modo da poterlo avvertire.

«Chi conosco o non conosco è soltanto affar mio e non vostro», replicò,scrollando le spalle.

«Questo tuo mago non mi piace molto, cugino», commentò in elficoMicah, accennando con un pollice in direzione di Raistlin.

«Nessuno ha mai detto che dovesse piacerti», ribatté Liam nella stessa

lingua, accigliandosi. «Bevi il tuo vino e tieni la bocca chiusa. Lascia chesia io a parlare».

Durante quello scambio, Raistlin fissò i due con aria inespressiva, comese non si fosse reso conto di cosa stavano dicendo.

«Dunque», riprese poi Liam, tornando alla lingua comune, «il nostro piano è questo: entreremo di notte nella casa del mago, ruberemo le cose preziose che ci sono nel suo negozio e le venderemo in cambio di acciaiosonante. È a questo punto che entri in gioco tu, perché puoi indicarci cosa

è prezioso e cosa non lo è, oltre a dirci dove ottenere un prezzo onesto incambio della merce. Naturalmente avrai la tua parte».

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«Signore, si dà il caso che io abbia frequentato la bottega di questoLemuel, e ti posso garantire subito che state sprecando il vostro tempo»,dichiarò Raistlin, in tono sprezzante. «Lui non ha nulla di prezioso e tuttala sua collezione di articoli può valere al massimo venti monete d'acciaio,una cifra che non ripagherebbe di certo la fatica e il rischio».

 Naturalmente supponeva che questo avrebbe posto fine allaconversazione e che sarebbe stato sufficiente a indurre quei ladri arinunciare al loro piano, ma decise comunque che per buona misurasarebbe stato bene avvertire Lemuel perché prendesse le debite precauzioni.

«E ora, signori, se volete scusarmi...» aggiunse, accennando ad alzarsi.Liam però si protese a trattenerlo per un polso. Sentendo il mago

irrigidirsi, l'elfo fu pronto ad abbandonare la presa, ma la sua mano snellae forte continuò a librarsi nelle vicinanze del braccio di Raistlin mentre luiscambiava un'occhiata con i suoi cugini come per chiedere loro il permesso di proseguire, che gli venne accordato con un riluttante cennodel capo.

«Hai ragione riguardo al negozio, signore», affermò quindi Liam, «maforse non sai cosa il mago tiene nascosto nella cantina sottostante lacucina».

«Di cosa si tratta?» domandò Raistlin, al quale non risultava che Lemuelavesse qualcosa nascosto in cantina.

«Di libri d'incantesimi», rispose Liam.«Un tempo Lemuel ne aveva qualcuno, ma so per certo che li ha venduti

tutti».«Non tutti!» lo corresse Liam, con voce ora ridotta ad un sussurro. «Ne

ha altri, molti altri, testi antichi che risalgono ai tempi precedenti ilCataclisma, volumi che molti ritengono essere andati perduti. Si tratta di

un vero tesoro!».Poiché Lemuel non gli aveva mai parlato di quei libri e aveva anzi

sostenuto di avergli ceduto tutti quelli che suo padre aveva posseduto,Raistlin si sentì tradito.

«Come fai a saperlo?» chiese in tono tagliente.«Non sei il solo ad avere dei segreti, signore», sorrise Liam.«In tal caso ti auguro la buona notte».«Oh, nel nome della Regina, diglielo!» esclamò uno dei due cugini di

Liam, in elfico. «Stiamo sprecando tempo! Dracart vuole quei libri entroquindici giorni».

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«Dracart ci ha proibito...».«Allora digli una parte della verità».«Micah ha visitato il negozio fingendo di voler acquistare delle erbe»,

disse allora Liam, rivolto a Raistlin. «Se conosci questo Lemuel di certosai che è stupido e ingenuo perfino per gli standard degli umani. Diconseguenza ha lasciato solo Micah nel negozio per andare in giardino, elui ne ha approfittato per fare un calco in cera della chiave del negozio».

«Ma come sapete dell'esistenza dei libri d'incantesimi?» insistetteRaistlin.

«Questo deve rimanere un nostro segreto», ribadì Liam, con una nota pericolosa nella voce.

Intuendo che questo Dracart, chiunque fosse, doveva sapere

dell'esistenza dei libri, Raistlin tentò allora con un'altra domanda,formulandola nel modo più innocente possibile.

«E cosa pensate di fare con quei volumi preziosi?» domandò.«Venderli, naturalmente... a noi di che utilità potrebbero mai essere?»

sorrise Liam, imitato dai cugini. Il suo tono era persuasivo, lo sguardodegli occhi obliqui del tutto sincero.

Raistlin rifletté per un momento, perché pur essendo irritato per il fattoche Lemuel non gli avesse parlato dell'esistenza di quei preziosi tomi,

d'altro canto non voleva che al mago succedesse qualcosa di male.«Non intendo lasciarmi coinvolgere in un assassinio», disse.«Neppure noi!» annuì con enfasi Liam. «Questo Lemuel ha molti amici

nelle terre elfiche, amici legati da vincolo di ospitalità che si sentirebberoobbligati a vendicarne la morte, e poi in questo momento non è in casa perché è andato a Qualinost a trovare i suoi amici. La casa è quindi vuota eun'ora di lavoro ci permetterà di essere ricchi! Quanto a te, potrai prenderela tua parte in oggetti magici oppure in acciaio sonante».

Raistlin però non stava pensando al denaro e neppure al fatto che gli elfigli stavano senza dubbio mentendo e che avevano di certo intenzione diusarlo per poi eliminarlo non appena fosse stato possibile. No, lui stava pensando a quei libri d'incantesimi... libri antichi, forse gli stessi che eranostati rubati dall'assediata Torre della Grande Stregoneria di Deltigoth orecuperati dall'affondata Torre di Istar. Quale patrimonio magico si celavadentro quei volumi? E perché Lemuel li stava tenendo così nascosti?

La risposta gli apparve subito evidente: la sola spiegazione logica era

che quelli fossero libri di magia nera. Essendo stato un mago guerrierodell'Ordine delle Vesti Bianche, il padre di Lemuel non aveva potuto

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distruggere quei volumi perché in base ad una legge inflessibile nessunmembro di uno dei tre ordini poteva volontariamente distruggere manufattimagici o tomi d'incantesimi appartenenti ad un altro ordine. Il saperemagico, non importava da dove giungesse, chi lo avesse prodotto o a chi potesse giovare, era prezioso e meritava di essere protetto. Era peraltro possibile che il padre di Lemuel si fosse sentito indotto a nascondere queilibri che a suo parere erano malvagi, perché in questo modo avrebbe potuto al tempo stesso preservarli e impedire che cadessero nelle mani deisuoi nemici. Sulla scia di quelle riflessioni, Raistlin si convinse che era suodovere indagare sulla cosa, senza contare che se non fosse andato con loroquegli elfi avrebbero di certo trovato qualcun altro che avrebbe potutodanneggiare i libri.

Quella fu la spiegazione razionale che lui diede a se stesso, ma nel suocuore era adesso insorto l'innegabile desiderio di vedere quei libri, ditoccarli e di avvertirne il potere, magari perfino di svelarne i segreti...

«Quando vi proponete di agire?» domandò.«Lemuel ha lasciato la città due giorni fa, quindi non ci resta più molto

tempo. Che ne dici di stanotte? Sei dei nostri?».«Sono dei vostri», annunciò Raistlin.

CAPITOLO QUARTO

La luna rossa e quella argentea splendevano luminose, e quella notte leloro sfere apparivano vicine, quasi che i due dèi avessero accostato la testal'uno all'altro per sussurrare e ridere delle follie che contemplavanodall'alto. La loro luce rossa e argento scendeva a illuminare il gruppo diladri, e Raistlin si trovò così a proiettare davanti a sé due ombre nelcamminare lungo la strada: una di esse, sfumata d'argento, tendeva verso

destra, mentre quella dall'alone rossastro andava verso sinistra, e nelguardarle lui si sentì quasi indotto a immaginare che esse indicasserosentieri divergenti se non fosse stato per il fatto che in essenza entrambeerano nere.

Raggiunsero la casa di Lemuel seguendo un percorso indiretto cheevitava di attraversare il centro della città e che Raistlin non riconobbe; poiché stavano arrivando da una direzione diversa da quella abitualerimase stupito, stupito e a disagio, nel vedere la casa del mago incombergli

davanti all'improvviso quando ancora non si aspettava di giungervi.Dall'esterno, la costruzione aveva lo stesso aspetto abbandonato che

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Raistlin ricordava dalla prima volta che era andato a trovare Lemuel, nonc'erano luci che brillassero alle finestre e dall'interno non giungeva ilminimo suono proprio come allora, quando Lemuel si era trovato in casa.E se fosse stato a casa anche adesso?

Quegli elfi scuri non avrebbero avuto la minima esitazione ad ucciderlo.Tirata fuori la chiave ricavata dal calco Micah la inserì nella serratura

mentre gli altri due elfi stavano di guardia, con il mantello spinto indietro per permettere di impugnare in fretta le armi in caso di necessità... cosache ora permetteva di vedere come fossero ben equipaggiati di daghe ecoltelli, le armi proprie dei ladri e degli assassini.

Raistlin provava un profondo disgusto nei confronti di questi elfi scuri,disgusto che cominciava ad estendersi anche a se stesso per il fatto di

trovarsi lì sotto la luna nel cuore della notte insieme con quei ladri, preparandosi ad entrare in casa di un uomo senza che lui lo sapesse oavesse dato il permesso.

 Dovrei girarmi e andarmene in questo preciso momento, si disse.Quando però la porta si aprì senza un suono, rivelando l'interno buio e

silenzioso, Raistlin esitò soltanto un istante prima di sgusciare dentro. Naturalmente avrebbe potuto continuare a razionalizzare, dicendosi che siera spinto troppo oltre e che adesso gli elfi scuri non gli avrebbero

 permesso di fuggire vivo, oppure fingendo con se stesso che stava facendoquesto nell'interesse di Lemuel, per liberarlo di libri che dovevanocostituire un peso per la sua anima, ma adesso che era qui, che si eraimpegnato fino in fondo, lui rifiutò di fare entrambe le cose, perché già sidetestava per il crimine che era sul punto di commettere e non intendevadetestarsi anche per aver mentito a se stesso in merito alle propriemotivazioni: non era venuto fin lì spinto dalla paura o sotto costrizione, enon era lì neppure nel nome della lealtà e dell'amicizia.

Era lì per la magia.Sostando nell'oscurità della bottega accanto agli elfi, Raistlin sentì il

cuore che gli martellava nel petto per l'eccitazione e l'anticipazione.«L'umano non può vedere al buio, e noi non vogliamo che inciampi in

qualcosa e cada, rompendosi il collo», osservò Liam in elfico.«Almeno non prima che abbiamo finito con lui», convenne Micah, con

una trillante e musicale risata che si accordava stranamente alle sue paroleminacciose.

«Accendete una luce».Uno degli elfi tirò fuori un fiammifero, lo accese e lo accostò ad una

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candela posata sul bancone, porgendola poi con cortesia a Raistlin chel'accettò con altrettanta grazia.

«Da questa parte», disse quindi Micah, precedendoli fuori della bottega.Raistlin evitò di far notare agli elfi che avrebbe potuto creare da solo una

luce magica perché preferiva risparmiare energie di cui avrebbe di certoavuto bisogno prima della fine di quella nottata.

Lasciata la bottega, i quattro si addentrarono nella cucina, che Raistlinrammentava dalla sua prima visita, poi proseguirono attraverso ladispensa, oltrepassarono una porta ed entrarono in un piccolo magazzinodove c'era un vero e proprio boschetto di scope e di spazzoloni per i pavimenti che gli elfi spostarono in fretta da un lato lavorando conefficienza e senza far rumore.

«Non vedo libri di sorta», commentò intanto Raistlin.«È ovvio che tu non ne veda», grugnì Liam, trattenendosi a stento dal

dargli dello stolto. «Come ti ho detto sono nascosto in cantina. La botola sitrova sotto quel tavolo».

Il tavolo in questione era un ceppo per la macellazione, usato per tagliare la carne: fatto di quercia, era chiazzato dal sangue di innumerevolianimali, e Raistlin provò un certo divertimento nel vedere come questodisgustasse gli elfi scuri, che erano pronti ad assassinare degli umani senza

la minima esitazione ma che si mostravano nauseati all'idea di una bisteccao di una costoletta d'agnello. Trattenendo il respiro per difendersi da quelloche a loro doveva apparire un fetore intollerabile, Micah e Renetspostarono il tavolo da un lato e dopo si pulirono entrambi in fretta le manicon uno straccio.

«Quando ce ne andremo rimetteremo ogni cosa come l'abbiamotrovata», affermò intanto Liam. «Questo Lemuel è un ometto stupido e poco osservatore, quindi è probabile che passino anni prima che lui si

accorga che i libri sono stati scoperti e rimossi».Raistlin dovette ammettere che era vero: a Lemuel non importava di

nulla tranne che del suo giardino e lui s'interessava ben poco ai testi dimagia a meno che riguardassero le erbe, quindi era probabile che nonavesse mai guardato quei libri e stesse soltanto obbedendo all'ingiunzionedi suo padre di tenerli nascosti.

Quando Raistlin avesse portato i volumi alla Torre di Wayreth, cosa chelui era intenzionato a fare confessando al tempo stesso il suo peccato, il

Conclave avrebbe informato Lemuel che erano stati rimossi, e per quantolo concerneva Raistlin riteneva probabile che si sarebbero limitati ad un

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semplice rimprovero perché il Conclave non avrebbe accolto con piacere ilfatto che quei preziosi volumi fossero rimasti nascosti per tutti quegli annie dei due crimini questo sarebbe di certo apparso il più grave secondo ilsuo modo di vedere.

La sola speranza di Raistlin era che la condanna ricadesse sulla testa del padre, se era ancora vivo, e non su quella del figlio.

Quando Micah tirò la maniglia della botola essa rifiutò di aprirsi, e in un primo tempo l'elfo credette che fosse bloccata con un chiavistello o con lamagia; di conseguenza gli elfi controllarono se c'erano dei chiavistelli eRaistlin ricorse ad un semplice incantesimo destinato a individuare la presenza della magia, ma alla fine risultò che non si trattava di nessunadelle due cose ma semplicemente del fatto che il legno si era gonfiato per 

l'umidità e di conseguenza il battente si era incastrato. A forza di strattoni,gli elfi riuscirono infine ad aprirla e una folata di aria fredda e umida comel'alito presente in una tomba scaturì dall'oscurità sottostante, portando consé un odore così immondo che gli elfi si ritrassero arricciando il naso eRaistlin si protesse la bocca con la manica della veste. Micah e Renetscoccarono poi occhiate furtive in direzione di Liam, timorosi che luiordinasse loro di addentrarsi in quella pericolosa oscurità, ma Liam parve asua volta decisamente a disagio.

«Cos'è questo fetore?» chiese, quasi parlando fra sé. «Sembrerebbe chelì sotto sia morto qualcosa perché di certo dei libri di magia, anche se dimagia umana, non possono esalare un odore del genere».

«Io non ho paura di un cattivo odore», ribatté Raistlin, in tonosprezzante, «quindi andrò a vedere cosa c'è che non va».

La cosa non piacque a Micah, che trovò offensiva l'insinuazione da partedi Raistlin che loro avessero paura, anche se la sua indignazione non fusufficiente a stimolarlo a entrare nella cantina. Mentre gli elfi discutevano

della cosa nella loro lingua, Raistlin rimase in disparte ad ascoltarli,divertito della loro arroganza che li portava a non prendere neppure inconsiderazione la possibilità che un umano potesse comprendere la lorolingua.

Renet suggerì che Raistlin scendesse da solo, in quanto era possibile chei libri avessero un custode e in quanto umano il mago era sacrificabile.Micah obiettò però che Raistlin era un mago ed avrebbe quindi potutoimpadronirsi di parecchi di quei libri e scomparire con essi, percorrendo i

corridoi della magia sui quali loro non lo avrebbero potuto seguire.Alla fine fu Liam a trovare la soluzione al problema, in quanto concesse

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graziosamente a Raistlin di scendere per primo nella cantina ma al tempostesso si piazzò sulla sommità delle scale armato di arco e con una frecciaincoccata.

«Cosa significa questo?» domandò Raistlin, fingendosi all'oscuro ditutto.

«E per proteggerti», mentì con disinvoltura Liam. «Ho una miraeccellente, e anche se non parlo la lingua della magia la comprendo un poco. Per esempio, sarei in grado di capire se in quella cantina una personacercasse di usare un incantesimo per scomparire, e dubito che avrebbe iltempo di ultimarlo prima di avere il cuore trapassato da una freccia. Sedovessi trovarti in pericolo, non esitare a chiedere aiuto».

«Nelle tue mani mi sento al sicuro», ribatté Raistlin, inchinandosi per 

nascondere un sorriso sardonico.Sollevando la veste che, lo notava soltanto adesso, aveva un indefinito

colore grigio e tenendo alta la candela, Raistlin scese con cautela i gradini,addentrandosi nell'oscurità.

La scala risultò lunga, più lunga di quanto lui si sarebbe aspettato, congradini intagliati nella pietra e un muro dello stesso materiale che siestendeva sulla destra, mentre sulla sinistra la scala era aperta sul vuoto.Spostando di continuo la candela mentre scendeva, Raistlin cercò di

illuminare quante più porzioni di soffitto gli era possibile nel tentativo discorgere qualcosa, qualsiasi cosa, senza però riuscire a vedere niente.

Continuando a scendere raggiunse infine un pavimento di terra battuta, enel guardarsi alle spalle vide che adesso gli elfi apparivano piccoli edistanti, come se fossero su un altro piano dell'esistenza. Da dove sitrovava poteva sentire in modo flebile le loro voci: preoccupati perché nonriuscivano più a scorgerlo, stavano decidendo di scendere a cercarlo.

Spostando di qua e di là la candela, Raistlin cercò di vedere quanto più

gli era possibile prima che essi lo raggiungessero, ma la luce fievole nonarrivava molto lontano, e in quel momento al posto dei passi sommessidegli elfi lui rimase sorpreso di sentir echeggiare invece un tonfo sordoseguito da una violenta corrente d'aria che gli spense la candela e lo lasciòintrappolato in un'oscurità così profonda che avrebbe potuto essere quelladel Caos da cui il mondo si era formato.

«Liam! Micah!» chiamò, e fu assalito da un senso di allarme quandoottenne come sola risposta l'eco della sua voce.

Soltanto gli echi: nessuna risposta da parte degli elfi.Cercando di fare del suo meglio per sentire qualcosa al di sopra del

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rombo del sangue che gli pervadeva gli orecchi, Raistlin avvertì infine ilfievole picchiare di qualcuno che stava martellando di colpi una porta e daquesto, unitamente al fatto che gli elfi non gli avessero risposto, dedusseche la botola si era inesplicabilmente chiusa, lasciando lui da un lato e glielfi dall'altro.

Il suo primo impulso dettato dal panico fu quello di usare la magia per fare luce, ma si trattenne prima di ricorrere all'incantesimo perché nondoveva agire d'impulso, doveva prima riflettere sulla situazione con lamassima calma possibile. Dopo un momento, decise che sarebbe statomeglio rimanere al buio, perché se da un lato una luce gli avrebbe permesso di vedere ciò che c'era là sotto, d'altro canto avrebbe ancherivelato lui a chissà chi o che cosa.

Fermo nel buio, continuò a riflettere e la prima idea che gli affiorò nellamente fu che gli elfi lo avessero indotto a scendere laggiù per lasciarlomorire, una supposizione che però accantonò in fretta perché i tre nonavevano avuto motivo di volerlo uccidere e avevano invece avuto ognimotivo per voler penetrare nella cantina, dato che ascoltando le loroconversazioni private aveva appreso che non gli avevano mentito in meritoall'esistenza dei libri. Inoltre il persistere dei colpi battuti sulla botola erauna garanzia che essi desiderassero riaprirla tanto quanto lui.

Giunto a questa conclusione prese quindi la precauzione di muoversi il più silenziosamente possibile per addossarsi con la schiena ad una parete:non essendo più in grado di vedere, si affidò quindi agli altri sensi e adessoche era più calmo riuscì a sentire quasi subito il rumore prodotto dalrespiro di qualcun altro, segno che non era solo laggiù.

Quello non era però il respiro di uno spaventoso guardiano o quelloaspro e sbuffante di un orco o ancora il respiro cupo e sibilante di unorchetto. No, si trattava invece di un suono sottile, rauco e un po'

rantolante, del genere che lui aveva già udito in precedenza quando si eratrovato in presenza di qualche malato o di qualche anziano.

Per quanto in certa misura rassicurante, quel suono ebbe l'effetto didemolire le sue previsioni in merito a ciò che avrebbe potuto trovare nellacantina. Il suo primo, assurdo pensiero fu di essere in procinto diincontrare il proprietario dei libri, il padre di Lemuel. Forse il vecchiomago aveva scelto di ritirarsi in quella cantina per trascorrere il resto dellavita in mezzo ai suoi preziosi libri, oppure Lemuel lo aveva rinchiuso

laggiù, cosa peraltro del tutto improbabile se si considerava che suo padreera un rispettato arcimago.

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Fermo nel buio, Raistlin sentì il proprio timore diminuire progressivamente ad ogni momento che passava senza che gli accadessenulla di male, e al tempo stesso la sua curiosità andò aumentando nelsentire il protrarsi di quel respiro irregolare e affaticato, infranto di tanto intanto da un sussulto; a parte quel suono, nella cantina non si sentivano altrirumori, né un tintinnare di cotta di maglia né lo scricchiolare di unacorazza di cuoio o il più sordo rumore metallico prodotto da una spada. Inalto, intanto, a quanto pareva gli elfi si erano messi a lavorare d'impegno per aprire la botola, e dai suoni pareva che la stessero aggredendo con unascure.

D'un tratto echeggiò una voce, molto vicina a lui.«Sei astuto, vero?» commentò, e dopo una pausa aggiunse: «E anche

intelligente e audace, considerato che non sono molti gli uomini cheoserebbero scendere soli nel buio. Avanti, lascia che ti dia un'occhiata!».

La luce improvvisa di una candela rivelò un semplice tavolo di legno, piccolo e rotondo, e due sedie l'una di fronte all'altra una delle quali eraoccupata da un vecchio. Una sola occhiata fu sufficiente a Raistlin per accertarsi che quello non poteva essere il padre di Lemuel, l'arcimago cheaveva combattuto al fianco degli elfi, perché il vecchio indossava unaveste nera sul cui sfondo la barba e i capelli bianchi spiccavano pervasi di

uno strano alone.Ciò che più colpì Raistlin fu il volto del vecchio, perché come una sorta

di aspro panorama esso era segnato da solchi e crepacci che fornivanoindizi sulla sua storia passata. Le linee sottili che si diramavano dal nasoalla fronte avrebbero potuto in un altro uomo denotare saggezza, mentre inlui denunciavano astuzia; le linee d'intelligenza che circondavano gli occhineri come quelli di un falco erano intrise della tensione portata da uncinico divertimento, il disprezzo per gli altri esseri umani era facilmente

decifrabile nelle labbra sottili e l'ambizione trapelava dalla mascella protesa. Gli occhi enigmatici erano freddi, calcolatori e luminosi.

Immobile, Raistlin si rese conto che il volto di quell'uomo era un desertodi desolazione, aspro, letale e crudele, e si sentì infine assalire da unaviolenta ondata di paura, pensando che per lui sarebbe stato molto megliodover combattere contro un orco o un orchetto. Le parole di un sempliceincantesimo difensivo che gli erano salite alle labbra si dissolsero in unsospiro e lui s'immaginò nell'atto di pronunciare l'incantesimo, ebbe quasi

l'impressione di sentire la risata beffarda del vecchio. Adesso quelle manigrandi, nodose e avide erano vuote, ma un tempo avevano posseduto un

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enorme potere.Il vecchio parve comprendere i suoi pensieri come se lui avesse parlato

ad alta voce e fissò lo sguardo sulla sua persona, anche se essa era ancoraammantata nell'oscurità.

«Vieni, Astuto. Vieni, tu che hai abboccato alla mia esca, e siediti a parlare con un vecchio».

Scosso da quelle parole relative all'esca, Raistlin continuò a rimanereimmobile.

«Tanto vale che tu venga a sederti», insistette il vecchio, con un sorrisoche distorse le linee che gli segnavano il volto trasformando la derisione incrudeltà, «tanto non andrai da nessuna parte fino a quando io non decideròche potrai farlo. Sei stato tu a venire da me, ricordalo», aggiunse,

sollevando un dito nodoso e puntandolo dritto verso il cuore di Raistlin.Questi considerò le alternative che aveva a disposizione: poteva

rimanere in piedi nel buio, che evidentemente non gli offriva molta protezione dato che il vecchio pareva riuscire a vederlo con estremachiarezza, oppure poteva fare un disperato tentativo di fuggire su per igradini, che sarebbe probabilmente risultato inutile e lo avrebbe fattoapparire sciocco, o ancora poteva afferrare il coraggio a due mani e fareappello alla dignità che gli rimaneva, affrontando quel vecchio e

scoprendo cosa avesse inteso con quello strano riferimento ad un'esca.Un momento più tardi venne avanti, emergendo dall'oscurità per 

addentrarsi nel cerchio di luce della candela e sedersi di fronte al vecchio,che indugiò ad osservarlo e non si mostrò particolarmente compiaciuto diquello che stava vedendo.

«Sei un debole! Un debole moccioso! Ho più forza io nel mio corpo, cheè soltanto cenere e polvere, di quanta ne possa vedere nel tuo! A cosa mi puoi servire tu? La mia solita sfortuna! Mi aspettavo un'aquila ed è

arrivato un passero. Tuttavia,» continuò il vecchio, con un borbottio cheera appena udibile, «vedo della fame in quegli occhi, e se il corpo è fragilequesto forse dipende dal fatto che esso alimenta la mente che, lo vedo conchiarezza, ha un disperato bisogno di nutrimento. Forse sono statofrettoloso nel giudicare, ma questo lo vedremo presto. Come ti chiami?».

Raistlin era stato scaltro e arrogante con gli elfi scuri, ma messo aconfronto di quel vecchio fu pronto a rispondere con sottomissione.

«Raistlin Majere, arcimago».

«Arcimago...» ripeté il vecchio, assaporando quella parola. «Sai, untempo lo ero, ero il più grande di tutti, al punto che ancora adesso mi

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temono, anche se non abbastanza. Quanti anni hai?».«Ne ho appena compiuti ventuno».«Giovane, troppo giovane per sottometterti alla Prova. Mi sorprende che

Par-Salian te lo abbia permesso, ma è evidente che è disperato. Come credidi essertela cavata finora, Raistlin Majere?» chiese il vecchio, con ilsorriso più orribile che Raistlin avesse mai visto.

«Mi dispiace, signore, ma non so di cosa stai parlando. Cosa significa,come me la sono cavata? Io...».

D'un tratto Raistlin trattenne il respiro ed ebbe la sensazione di svegliarsida uno di quei sogni che sono più concreti della realtà... solo che non si eratrattato di un sogno.

Si stava sottoponendo alla Prova, questa era la Prova. Gli elfi, la

locanda, gli eventi, le situazioni erano tutti inventati. Fissando la fiammadella candela ripensò freneticamente alle proprie azioni chiedendosi, proprio come aveva fatto il vecchio, come se la fosse cavata.

Il suo interlocutore scoppiò intanto in una risata simile al gorgogliaredell'acqua sotto il ghiaccio.

«Non mi stanco mai di questa reazione, che si verifica ogni volta! È unodei pochi piaceri che mi rimangono. Sì, giovane mago, ti stai sottoponendoalla Prova e sei proprio nel bel mezzo di essa. No, io non ne faccio parte...

o forse sarebbe più esatto dire che non ne faccio parte ufficialmente».«Hai accennato ad un'esca, e hai detto che sono venuto da te», osservò

Raistlin, facendo appello al proprio coraggio e serrando le mani in modoche il loro tremito non tradisse la sua paura.

«Sì, sei venuto da me in virtù delle tue scelte e delle tue decisioni»,annuì il vecchio.

«Non capisco», protestò Raistlin.«Alcuni maghi», fu pronto a spiegare il vecchio, «avrebbero dato ascolto

all'avvertimento dell'arrotino e non sarebbero mai entrati in una locandamalfamata. Altri, se ci fossero entrati, avrebbero rifiutato di avere a chefare in qualsiasi modo con degli elfi scuri. Tu invece sei andato allalocanda, hai parlato con gli elfi e ti sei associato prontamente al loro pianodisonesto... pur tenendo presente che l'uomo che stavi per derubare era unamico», precisò, sollevando un dito nodoso.

«Quello che dici è vero», ammise Raistlin, perché riteneva inutile negaree perché non si vergognava particolarmente delle proprie azioni. Secondo

il suo modo di vedere, qualsiasi mago, tranne forse la più candida fra leVesti Bianche, al suo posto avrebbe agito nello stesso modo. «Volevo

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salvare i libri d'incantesimi, e avevo intenzione di consegnarli alConclave». Per un momento rimase in silenzio, poi aggiunse: «Quei librinon esistono, vero?».

«No, ci sono soltanto io», confermò il vecchio.«E tu chi sei?» volle sapere Raistlin.«Il mio nome non ha importanza, non ancora».«Allora dimmi cosa vuoi da me».«Un piccolo favore, nulla di più», rispose il vecchio, abbozzando un

gesto di deprecazione con le dita nodose.Questa volta fu Raistlin a sorridere, con amarezza.«Chiedo scusa, signore, ma di certo devi essere consapevole che poiché

mi sto sottoponendo alla Prova il mio rango è di livello minimo, mentre tu

sembri essere, o essere stato, un mago dotato di un'abilità e di un potereimmensi. Di conseguenza io non ho nulla che tu possa volere».

«Ah, invece sì», ribatté il vecchio, con un bagliore avido nello sguardo,così intenso da far apparire per contrasto fievole la fiamma della candela.«Tu sei vivo».

«Per il momento», ribatté Raistlin, in tono asciutto, «ma forse non per molto ancora. Gli elfi scuri non mi crederanno quando dirò loro chequaggiù non ci sono antichi libri d'incantesimi, penseranno che io li abbia

sottratti con la magia per il mio uso personale, e non penso che ci sianoaltre vie d'uscita da questa cantina», aggiunse, guardandosi intorno.

«C'è una via, la mia», rispose il vecchio. «Hai ragione, gli elfi scuri tiuccideranno perché non sono i ladri che fingono di essere ma maghi di altorango, dotati di una magia estremamente potente».

Raistlin si rese conto che avrebbe dovuto capirlo all'istante.«Non starai rinunciando, vero?» domandò il vecchio, con un sogghigno.«Certamente no», ribatté Raistlin, sollevando lo sguardo a incontrare

con fermezza il suo. «Stavo riflettendo».«Rifletti quanto vuoi, giovane mago. Dovrai pensare molto intensamente

 per riuscire ad avere la meglio essendo tre contro uno... o per meglio diredodici contro uno, dato che ciascuno di quegli elfi scuri è quattro volte più potente di te».

«Questa è la Prova, è un'illusione», affermò Raistlin. «Certo, alcunimaghi muoiono durante la prova, ma per un loro fallimento o errore. Ionon ho sbagliato nulla, quindi perché il Conclave dovrebbe volermi

uccidere?».«Hai parlato con me», gli fece notare in tono sommesso il vecchio.

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«Loro ne sono consapevoli e questo potrebbe segnare la tua fine».«Chi sei dunque, perché ti temano tanto?» chiese ancora Raistlin, questa

volta con impazienza.«Il mio nome è Fistandantilus. Forse hai sentito parlare di me».«Sì», annuì Raistlin.Molto tempo prima, negli anni turbolenti e disperati che erano seguiti al

Cataclisma, un esercito di nani delle colline e di umani aveva assediatoThorbardin, la grande città sotterranea dei nani delle montagne. A capo diquest'esercito c'era l'uomo che lo aveva radunato con l'intento di usarlo per realizzare le proprie sfrenate ambizioni, un mago dell'Ordine delle Vesti Nere dotato di immenso potere, un rinnegato che stava sfidandoapertamente il Conclave. Il suo nome era Fistandantilus.

Quel mago aveva costruito una fortezza magica nota come Zhaman e daessa aveva sferrato i propri attacchi contro la fortezza dei nani,combattendo contro di essi con la magia mentre il suo esercito licombatteva con l'ascia e con la spada. Molte migliaia di vite erano statespente sulle pianure o nei passi montani, ma alla fine l'esercito del magoaveva ceduto e la vittoria era andata ai nani di Thorbardin.

Secondo i menestrelli, Fistandantilus aveva elaborato un ultimoincantesimo dal potere catastrofico che avrebbe spaccato la montagna e

aperto Thorbardin alla conquista. Purtroppo, l'incantesimo si era rivelatotroppo potente, Fistandantilus non era riuscito a controllarlo ed esso avevadevastato invece la fortezza di Zhaman che era crollata su se stessa ed eranota adesso come «il Teschio». Migliaia di uomini erano mortinell'esplosione, compreso il mago che aveva pronunciato l'incantesimo.

Questo era ciò che cantavano i menestrelli e che la maggior parte dellagente credeva, ma Raistlin aveva sempre supposto che la storia non silimitasse soltanto a questo. Fistandantilus aveva acquisito il suo potere

nell'arco di centinaia di anni: correva infatti voce che pur essendo unumano e non un elfo, lui avesse trovato il modo di ingannare la Morte e di prolungare la propria vita assassinando i suoi giovani apprendisti e prosciugando la loro forza vitale per mezzo di una magica pietrainsanguinata. Il mago non aveva però potuto salvarsi dagli effettidevastanti della propria magia, o almeno questo era ciò che il mondocredeva, mentre a quanto pareva Fistandantilus era riuscito ancora unavolta a ingannare la Morte, anche se non sembrava che avrebbe continuato

a farlo ancora a lungo.«Fistandantilus, il più grande dei maghi», affermò Raistlin. «Il mago più

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 potente che sia mai vissuto».«Infatti», annuì il vecchio.«E adesso stai morendo», osservò Raistlin.Quell'osservazione non piacque a Fistandantilus, che contrasse le

sopracciglia ed espresse ira e indignazione in ogni linea del volto. Ognirespiro era però per lui una lotta e stava consumando una quantità enormedi energia magica semplicemente per mantenere unita quella forma, quindidi lì a poco la sua furia smise di ribollire come una pentola sotto la qualefosse stato spento il fuoco.

«Quello che dici è vero: io sto morendo e sono prossimo alla fine», borbottò, frustrato e impotente. «Loro affermano che il mio intento eraquello di conquistare Thorbardin», aggiunse, con un sorriso sprezzante.

«Che idiozia! Io ho giocato per conquistare una posta molto più elevata diuna puzzolente e sotterranea tana di nani: il mio piano consistevanell'entrare nell'Abisso per spodestare la Regina delle Tenebre e sottrarle ilsuo trono. Volevo diventare un dio!».

Raistlin ascoltò quelle parole con meraviglia, stupore... e comprensione.«Sotto il Teschio c'è, o forse dovrei dire c'era, dato che adesso esso è

distrutto, un modo per penetrare nell'Abisso, quel crudele mondoultraterreno», proseguì intanto Fistandantilus, con un'espressione

estremamente astuta. «Takhisis sapeva di me, mi temeva ed ha complottato per la mia fine. Certo, il mio corpo è morto nell'esplosione, ma io avevogià programmato tutto perché la mia anima si ritirasse su un altro pianodell'esistenza e lei non ha potuto uccidermi perché non è stata in grado diraggiungermi. Tuttavia, non cessa di provarci e da secoli sono sotto unassalto costante. Adesso mi resta poca energia, perché la forza vitale di cuidisponevo è quasi svanita».

«E così hai trovato il modo di inserirti nella Prova e di attirare nella tua

rete giovani maghi come me», concluse Raistlin. «Immagino di non essereil primo... che ne è stato di quanti mi hanno preceduto?».

«Sono morti», rispose Fistandantilus, scrollando le spalle. «Te l'ho detto,hanno parlato con me, e il Conclave teme che io possa entrare nel corpo diun giovane mago, assumerne il controllo e tornare nel mondo per completare ciò che ho cominciato. Loro non possono permetterlo, quindiogni volta provvedono ad eliminare la possibile minaccia».

«Non ti credo», dichiarò Raistlin, fissando con fermezza quel vecchio

morente. «I maghi sono morti, ma non è stato il Conclave ad ucciderli, seistato tu. È stato così che sei riuscito a vivere tanto a lungo... sempre che

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questa la si possa chiamare vita».«Comunque la si chiami, è preferibile al grande nulla che vedo

 protendersi verso di me», ribatté Fistandantilus, con un orribile sorriso.«Lo stesso nulla che si protende verso di te, giovane mago».

«A quanto pare non ho molte alternative», commentò in tono amaroRaistlin. «Posso morire per mano di quei tre maghi oppure essere prosciugato da un morto vivente».

«Sei stato tu a decidere di venire qui», gli ricordò Fistandantilus.Raistlin distolse gli occhi, rifiutando di permettere allo sguardo

 penetrante di quel vecchio di sondargli l'anima, e mentre fissava il legnodel tavolo ricordò d'un tratto il tavolo che c'era nel laboratorio del suomaestro, quello sul quale da bambino lui aveva scritto con un così grande

senso di trionfo le parole Io, Mago. Rifletté quindi sulle alternative a cui sitrovava di fronte, pensò agli elfi scuri, chiedendosi quanto fosse potente laloro magia e se ciò che il vecchio aveva detto sul loro conto fosse vero ofosse soltanto una menzogna intesa a intrappolarlo, poi si interrogò sulla propria capacità di sopravvivere e si domandò se davvero il Conclave loavrebbe ucciso soltanto perché aveva parlato con Fistandantilus.

«Accetto la tua offerta», disse infine, sollevando lo sguardo a incontrarequello penetrante del vecchio.

«Pensavo che lo avresti fatto», replicò Fistandantilus, schiudendo lelabbra sottili in un sorriso che pareva quello di un teschio. «Mostrami iltuo libro d'incantesimi».

CAPITOLO QUINTO

Fermo in fondo alle scale, Raistlin stava aspettando che il vecchioliberasse la botola dall'incantesimo che la teneva chiusa e al tempo stesso

si stava chiedendo perché non provasse paura ma soltanto un tagliente edoloroso senso di ansia.

Gli elfi avevano intanto cessato i loro assalti contro la botola perchédovevano ormai aver capito che essa era bloccata con la magia, e per unmomento Raistlin si concesse di sperare che se ne fossero andati, mal'istante successivo scoppiò a ridere della propria stupidità: questa era lasua Prova, e di certo gli sarebbe stato richiesto di dimostrare la propriaabilità magica in un combattimento.

 Adesso! avvertì una voce nella sua mente.Fistandantilus era scomparso, abbandonando la forma fisica illusoria che

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aveva evocato esclusivamente a beneficio di Raistlin e che adesso non era più necessaria. D'un tratto la botola della cantina si spalancò con violenzae ricadde con un tonfo fragoroso sul pavimento ricoperto di lastre di pietra.

Confidando che gli elfi venissero colti alla sprovvista dall'improvvisoaprirsi della porta, Raistlin aveva avuto intenzione di sfruttare quei loro primi istanti di sconcerto con lo sferrare il proprio attacco, ma con suosgomento scoprì che essi stavano aspettando proprio un evento del genereed erano pronti ad accoglierlo.

Una voce elfica pronunciò una parola magica e un globo di luce apparvea illuminare il volto di Liam per poi saettare attraverso l'aria con una sciadi scintille simile alla coda di una cometa nel momento stesso in cui la botola si aprì.

Raistlin non era preparato a quell'attacco perché non aveva immaginatoche gli elfi scuri sarebbero stati tanto rapidi nel reagire e adesso non avevavia di fuga perché la sfera di fuoco avrebbe pervaso la stanza di fiammeletali. Istintivamente, sollevò di scatto il braccio sinistro per proteggersi ilvolto, pur sapendo che non esisteva modo di difendersi da quell'assalto.

Poi la sfera di fuoco esplose sopra e intorno a lui, ma non fece danno e isuoi effetti si dissiparono in fretta, riversandogli addosso una pioggia discintille e di gocce di fuoco che gli toccarono le mani e il volto stupefatto

 per poi svanire in uno sfrigolio, come se stessero cadendo nell'acqua.«Il tuo incantesimo! Presto!» ordinò la voce.Intanto Raistlin si era già ripreso dallo stupore e dalla paura, quindi

l'incantesimo gli salì immediato alle labbra mentre la mano eseguiva imovimenti richiesti, tracciando nell'aria il simbolo del sole senza più badare alle scintille della sfera di fuoco che ancora sfrigolavano ai suoi piedi sul pavimento della cantina. Mentre muoveva la mano notò che lasua pelle aveva una sorta di riflesso dorato ma non si concesse di riflettere

sulla cosa perché non osava perdere la concentrazione.Tracciato il simbolo pronunciò le parole magiche che lo

accompagnavano ed esso emise un intenso bagliore, segno che le paroleerano state pronunciate nel modo giusto; allargando le dita della manodestra ancora protese, Raistlin tracciò quindi cinque minuscoli proiettili difuoco, una risposta insignificante rispetto alle armi letali di cuidisponevano i tre potenti arcimaghi, la cui risata non lo sorpreseminimamente perché di certo agli elfi doveva sembrare che lui stesse

cercando di combatterli scagliando loro contro fuochi d'artificio deglignomi.

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Trattenendo il respiro, pregando che il vecchio mantenesse la sua promessa e pregando gli dèi della magia perché lo costringessero a farlo,Raistlin attese pieno di tensione... e un momento più tardi ebbe la profonda, immensa soddisfazione di sentire la risata degli elfi spegnersi inun coro di sussulti d'allarme e di stupore.

Le cinque scie di fuoco erano infatti diventate dapprima dieci, poi ventie non erano più minuscole fiammelle ma crepitanti stelle incandescenti chestavano saettando su per le scale, dirette con assoluta precisione verso isuoi nemici.

Adesso erano gli elfi scuri a non avere via di fuga o incantesimiabbastanza potenti per proteggersi: le stelle letali si abbatterono su di lorocon una violenza esplosiva che fece perdere l'equilibrio a Raistlin che pure

si trovava ad una certa distanza dal centro dello scoppio, poi l'ondata dicalore prodotto dalle fiamme si estese fino alla cantina e portò con sé unodore di carne che bruciava. Non ci furono urla, perché nessuno dei treaveva avuto il tempo di emetterne.

Rialzandosi, Raistlin si ripulì le mani dalla terra, notando ancora unavolta lo strano colore dorato della pelle, e d'un tratto si rese conto chequella patina dorata era ciò che lo aveva protetto dalla sfera di fuoco: essaera come l'armatura di un cavaliere ma era molto più efficace, perché un

cavaliere avvolto in cotta di maglia e armatura di piastre metallichesarebbe fritto dentro di essa e sarebbe morto se la sfera di fuoco lo avessecolpito, mentre lui non aveva riportato danni.

«Se è vero», si disse, «se questa è un'armatura o uno scudo magico diqualche tipo, si tratta di una difesa che in futuro potrebbe essermi diconsiderevole aiuto».

Poiché il magazzino in cima alle scale era in fiamme, attese chel'incendio si fosse spento, usando quel tempo per ritrovare le forze e per far 

affiorare nella mente l'incantesimo successivo. Premendosi la manica dellaveste contro il naso per non sentire il fetore della carne bruciata degli elfi,cominciò quindi a salire le scale, pronto ad affrontare il nemicosuccessivo.

Due corpi giacevano alla sommità delle scale, ridotti a due ammassi nericosì bruciati da essere irriconoscibili, mentre il terzo non era visibile e pareva essersi vaporizzato. Nel formulare quei pensieri, Raistlin ricordò ase stesso che quella era tutta un'illusione e che forse il Conclave aveva solo

commesso un errore di calcolo.Emergendo dalla cantina sollevò la veste per scavalcare uno dei due

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corpi e si guardò rapidamente intorno nel magazzino: adesso il tavolo eraun mucchio di cenere, gli spazzoloni e le scope erano volute di fumo, el'immagine di Fistandantilus si librava in mezzo a quella devastazione. Orala sua forma illusoria era sottile e trasparente, quasi impossibile adistinguersi dal fumo, e pareva che un soffio deciso potesse spazzarlo via...constatazione, questa, che portò un sorriso sulle labbra di Raistlin mentre ilvecchio protendeva il braccio coperto dalla manica della veste nera da cuiemergevano dita ora avvizzite e scheletriche, poco più che un mucchiettodi ossa.

«È il momento che io prenda il mio compenso», disse, stendendo lamano verso il cuore di Raistlin.

Questi però indietreggiò di un passo e sollevò a sua volta la mano in un

gesto protettivo, con il palmo in fuori.«Ti ringrazio per la tua assistenza, arcimago, ma a partire da ora devi

considerare annullata la mia parte dell'accordo», replicò.«Che cosa hai detto?».Quelle parole, sibilanti e letali, si avvilupparono intorno al cervello di

Raistlin come una vipera in un cesto, poi il serpente sollevò gli occhicrudeli, maligni e spietati, fissandolo.

La determinazione di Raistlin vacillò, il suo coraggio venne meno

quando lui sentì l'ira del vecchio crepitargli intorno con fiamme più intensedi quelle della sfera di fuoco.

 Ho ucciso gli elfi, ricordò però a se stesso il giovane mago,aggrappandosi al poco coraggio che gli rimaneva.  L'incantesimoapparteneva a Fistandantilus, ma il potere che permeava l'incantesimoera il mio. Lui è debole e svuotato, non è una minaccia.

«Ho detto che il nostro accordo è annullato», ripeté quindi. «Torna al piano da cui sei venuto e aspetta la prossima vittima».

«Infrangi la tua promessa!» ringhiò Fistandantilus. «Non hai dunqueonore?».

«Sono forse un Cavaliere di Solamnia per dovermi preoccuparedell'onore?» ribatte Raistlin, e poi aggiunse. «E a questo proposito, cheonore c'è nell'attirare mosche ignare nella tua ragnatela per poi catturarle edivorarle? Se non mi sbaglio, il tuo stesso incantesimo mi protegge daqualsiasi magia che tu possa cercare di usare, quindi questa volta la moscati sfuggirà».

Inchinatosi all'immagine quasi indistinta del vecchio, Raistlin le volsedeliberatamente le spalle e si avviò verso la porta, consapevole che se

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fosse riuscito a varcarla e a lasciare quella stanza di morte sarebbe stato alsicuro. La strada non era molta, e anche se una parte di lui continuava adaspettarsi di sentire il tocco di quella mano spaventosa, la sua sicurezzaandò crescendo ad ogni passo che lo portava verso l'uscita.

Infine raggiunse la porta, e alle sue spalle risuonò ancora la voce delvecchio, che pareva venire da così lontano da essere a stento udibile.

«Sei forte e sei astuto, l'armatura che ti protegge è una tua creazione enon opera mia. La tua Prova non è però ancora conclusa, altre lotte tiattendono: se la tua armatura è fatta di vero acciaio sopravviverai, ma se èfatta di scarti si creperà al primo colpo e quando questo succederà iosguscerò al di là di essa per prendere quello che è mio».

Poiché una semplice voce non poteva fargli del male, Raistlin non le

 prestò attenzione e continuò a camminare fino ad oltrepassare la porta,mentre la voce si dissolveva nell'aria fumosa.

CAPITOLO SESTO

Raistlin oltrepassò la porta del magazzino di Lemuel e si venne a trovarein un buio corridoio fatto di pietra, cosa che inizialmente lo lasciò sorpresoe sconcertato perché avrebbe dovuto invece sbucare nella cucina del mago;

dopo un momento, ricordò però che la casa di Lemuel non era mai esistitadavvero se non nella sua mente e in quella di coloro che ne avevanoevocato l'immagine.

Una luce brillava sulla vicina parete, dove un sostegno che aveva laforma di una mano d'argento reggeva un globo di luce bianca simile allaluce di Solinari; poco più avanti una mano d'ottone reggeva una sfera diluce rossa e più oltre una mano intagliata nell'ebano pareva non contenerenulla... almeno per quello che gli occhi di Raistlin erano in grado di

vedere, dato che i maghi votati a Nuitari ne avrebbero scorto con chiarezzail contenuto.

Dalla vista di quelle luci Raistlin dedusse di essere di nuovo nella Torredi Wayreth, intento a camminare in uno dei molti corridoi di quel magicoedificio: evidentemente Fistandantilus gli aveva mentito, la sua Prova erafinita e adesso doveva soltanto trovare la via per tornare nella Sala deiMaghi e ricevere le loro congratulazioni.

Poi un alito d'aria gli sfiorò il collo, e nel momento stesso in cui lui

accennava a girarsi una fitta bruciante e la sensazione agghiacciante delmetallo che strisciava contro l'osso, un suo osso, gli strapparono un

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sussulto d'agonia.«Questo è per Micah e per Renet!» sibilò la voce di Liam, poi il suo

 braccio sottile ma pieno di forza cercò di circondare il collo di Raistlin euna lama scintillò sotto la luce.

L'elfo aveva avuto intenzione di sferrare un solo colpo letale cherecidesse la spina dorsale di Raistlin, ma il lieve alito di vento sul colloaveva messo in guardia il ragazzo che, nel voltarsi aveva fatto sì che lalama mancasse il bersaglio e gli scivolasse lungo le costole; adesso Liamera deciso a ripetere il tentativo, puntando questa volta alla gola.

In preda al panico, Raistlin non riuscì a trovare le parole di nessunincantesimo, e poiché non aveva con sé armi di sorta tranne la propriamagia si trovò ridotto a lottare come un animale, con le unghie e con i

denti, consapevole che la paura era adesso la sua arma più potente, se nonavesse lasciato che essa lo debilitasse. Ricordando vagamente le cose cheaveva visto fare a suo fratello e a Sturm quando si esercitavano nelcombattimento corpo a corpo, serrò le mani l'una nell'altra e conficcò ilgomito destro nello sterno di Liam con tutta la forza che il suo corpo pervaso di adrenalina riuscì a chiamare a raccolta. L'elfo scuro emise ungrugnito e indietreggiò, non ferito ma a corto di fiato, poi tornò a scagliarsiin avanti con il coltello che gli scintillava in pugno. Frenetico e

terrorizzato, Raistlin gli afferrò la mano che stringeva l'arma e i due presero a lottare, con Liam che cercava di trafiggere il giovane mago equest'ultimo che lottava per strappare il coltello alla presa dell'elfo.

Lottando si spostarono barcollando lungo lo stretto corridoio e intantoRaistlin sentì che le forze cominciavano a venirgli meno. Consapevole chenon avrebbe potuto portate avanti a lungo questa lotta letale, concentròtutte le proprie speranze su una singola mossa e usò le energie che glirestavano per sbattere contro la pietra la mano in cui l'elfo stringeva il

coltello.Ci fu un crepitare di ossa che si rompevano accompagnato da un

sussulto di dolore, ma Liam continuò a stringere tenacemente l'arma in pugno. Sentendosi assalire nuovamente dal panico, Raistlin fece sbattere dinuovo la mano di Liam contro la pietra e questa volta il sangue cherendeva scivolosa l'impugnatura del coltello impedì all'elfo di mantenere la presa, con il risultato che l'arma gli sfuggì dalla mano e scivolò al suolo.

Immediatamente l'elfo scuro scattò in avanti per cercare di recuperarla,

ma parve che la penombra gli impedisse di individuarla perché si gettòcarponi e cominciò a cercare sul pavimento. Intanto Raistlin vide la lama

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del coltello emettere un bagliore rossastro sotto la luce rossa dedicata aLunitari e scattò verso di essa contemporaneamente a Liam che nelfrattempo aveva scorto a sua volta il bagliore: sfilando il coltello da sottole dita protese dell'avversario, Raistlin lo piantò fino all'elsa nello stomacodell'elfo, che lanciò un urlo e si piegò su se stesso.

Raistlin liberò poi la lama con uno strattone e Liam cadde in ginocchiocon la mano che premeva sullo stomaco e il sangue che gli colava dalla bocca, crollando infine morto ai piedi di Raistlin.

Ansimando, con ogni respiro che gli causava una sofferenzaintollerabile, Raistlin si volse per fuggire ma non riuscì a indurre le gambea muoversi e di lì a poco crollò sul pavimento di pietra, avvertendo altempo stesso una sensazione bruciante che partiva dalla ferita e gli correva

lungo tutte le terminazioni nervose, causandogli un'ondata di nausea:rendendosi conto con un senso di amara disperazione che la lama delcoltello dell'elfo doveva essere stata avvelenata, pensò che in fin dei contiLiam avrebbe avuto comunque la sua vendetta.

Poi la luce di Solinari e quella di Lunitari oscillarono davanti ai suoiocchi e si congiunsero sfocate prima che l'oscurità lo avviluppasse.

Al risveglio, Raistlin si trovò nello stesso corridoio, dove il corpo di

Liam giaceva ancora accanto a lui con la mano protesa a sfiorarlo:constatando che il cadavere era ancora caldo, Raistlin si rese conto di nonessere rimasto a lungo privo di sensi.

Ferito e debole, si trascinò lontano dall'elfo morto e si addentrò in uncorridoio in ombra, accasciandosi contro una parete. Assalito da una fittadi dolore che gli trafisse il ventre si serrò quindi lo stomaco con le bracciae vomitò a lungo, giacendo poi abbandonato sul pavimento di pietra inattesa di morire.

«Perché mi state facendo questo?», domandò, assalito da un nuovo sensodi malessere.

Conosceva la risposta: era perché aveva osato trattare con un mago tanto potente che aveva pensato un tempo di spodestare Takhisis, così potenteche ancora adesso il Conclave lo temeva sebbene fosse ormai morto.

Se la tua armatura è fatta di scarti si creperà al primo colpo e quandoquesto succederà io sguscerò al di là di essa per prendere quello che èmio.

«Se vuoi prenderti il poco che mi rimane sei il benvenuto, arcimago!»mormorò Raistlin, quasi ridendo, poi giacque sul pavimento con la guancia

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 premuta contro la pietra. Voleva sopravvivere? La Prova aveva esatto dalui un prezzo terribile e forse non si sarebbe mai più ripreso perché la suasalute era sempre stata precaria e se pure fosse sopravvissuto adesso il suocorpo sarebbe stato come un cristallo infranto e tenuto insieme soltantodalla sua forza di volontà. Come sarebbe vissuto? Chi si sarebbe presocura di lui?

Caramon. Caramon avrebbe avuto cura del suo debole gemello.Raistlin fissò la luce rossa di Lunitari e si rese conto di non riuscire a

immaginare una vita del genere, in cui avesse dovuto dipendere in tutto dalfratello: di certo la morte era preferibile a questo. Mentre formulava quel pensiero, nell'oscurità del corridoio si materializzò d'un tratto una figurailluminata dalla luce argentea di Solinari.

«Ci siamo,» si disse Raistlin. «È il confronto finale, quello a cui nonsopravviverò».

Sentendosi quasi grato che i maghi avessero deciso di porre fine alle suesofferenze giacque immobile e impotente, osservando l'ombra scura farsisempre più vicina. Infine essa gli si arrestò accanto e quando si chinò su dilui, ne percepì la presenza viva, ne sentì il respiro, e involontariamentechiuse gli occhi.

«Raist?» chiamò una voce, e dita gentili toccarono il suo corpo

febbricitante. «Raist! Cosa ti hanno fatto?» singhiozzò poi la voce.«Caramon», disse Raistlin, sentendo la gola che gli doleva per il fumo e

l'attacco di vomito.«Ti porterò via di qui», dichiarò intanto suo fratello.Braccia forti scivolarono sotto il corpo di Raistlin, che avvertì il

familiare odore di sudore e di cuoio, sentì lo scricchiolare dell'armatura, iltintinnare della spada contro la pietra.

«No!» protestò, cercando di liberarsi e premendo con la mano fragile

contro il petto massiccio del fratello. «Lasciami, Caramon! La mia Provanon è finita! Lasciami!» insistette, con voce rauca e quasi inintelligibile, poi fu assalito da una tosse devastante.

«Nulla vale tutto questo, Raist», replicò Caramon, sollevandolo etenendolo stretto fra le braccia. «Riposa».

Quando si avviarono, passando sotto la mano d'argento che reggeva laluce bianca, Raistlin vide che Caramon aveva le guance bagnate dilacrime.

«Non mi permetteranno di andarmene, Caramon!» tentò ancora, lottando per respirare. «Cercheranno di fermarci. Ti stai soltanto mettendo in

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 pericolo anche tu!».«Che vengano!», ribatté Caramon, cupo, procedendo con passo calmo e

deciso lungo il corridoio.Impotente, Raistlin si accasciò con la testa contro la sua spalla e per un

istante si concesse di trarre conforto dalla forza del fratello; il momentosuccessivo, però, imprecò contro di lui e contro la propria debolezza.

«Stolto», disse in silenzio fra sé, perché non aveva la forza di parlare adalta voce. «Grande stolto cocciuto! Adesso moriremo entrambi, enaturalmente tu morirai proteggendomi. Anche nella morte ti sonodebitore...».

«Ah!».Raistlin udì e percepì il brusco sussulto che percorse il corpo del fratello

e mentre questi rallentava il passo sollevò la testa, vedendo fluttuare infondo al corridoio la testa priva di corpo di un vecchio, e sentendo unavoce sussurrante.

Se la tua armatura è fatta di scorie...Un rombo profondo echeggiò nel petto di Caramon... il suo grido di

 battaglia.«La mia magia può distruggerlo!» protestò Raistlin, quando Caramon lo

adagiò con delicatezza sul pavimento di pietra. Era una menzogna, perché

lui non aveva più neppure le forze necessarie a tirare fuori un coniglio daun cappello, ma non voleva che Caramon combattesse le sue battaglie,soprattutto contro quel vecchio: era stato lui a fare un patto ed era lui chedoveva pagare. «Togliti di mezzo, Caramon!».

Invece di rispondere Caramon avanzò verso Fistandantilus, bloccando lavisuale al fratello.

Puntellando le mani contro la parete Raistlin si appoggiò alla pietra eriuscì a issarsi a sedere: stava per usare le forze che gli restavano in un

ultimo grido, nella speranza di indurre suo fratello ad allontanarsi quandola voce gli si spense in gola e il grido si trasformò in un rantolod'incredulità.

Caramon aveva lasciato cadere le armi e adesso al posto della spadaimpugnava un'asta d'ambra, al posto dello scudo un pezzo di pelliccia.Sfregando insieme i due oggetti, lui pronunciò alcune parole magiche edall'ambra scaturì un lampo che sfrigolò lungo il corridoio e colpì la testadi Fistandantilus.

Ridendo, la testa si scagliò contro Caramon, che non sussultò neppure etenne le mani sollevate, pronunciando di nuovo le parole magiche e

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ottenendo un altro fulmine.Questa volta la testa del vecchio esplose in una vampata di fuoco

azzurro e un flebile grido d'ira e di frustrazione echeggiò da un altro pianoesistenziale per poi spegnersi nel silenzio.

Adesso il corridoio era vuoto.«Ora andiamo via di qui», affermò con soddisfazione Caramon,

riponendo l'asta e la pelliccia in una sacca che portava alla cintura. «La porta è poco più avanti».

«Come... come hai fatto?» annaspò Raistlin, accasciandosi contro la parete.

«Fatto cosa, Raist?» domandò Caramon, immobilizzandosi, allarmatodall'espressione sconvolta e frenetica del fratello.

«La magia!» gridò con rabbia Raistlin. «La magia!».«Oh, quello», replicò Caramon, con un sorriso timido. «Sono sempre

stato capace di farlo. In genere», proseguì in tono d'un tratto solenne esevero, «non ho bisogno della magia perché ho la spada e tutto il resto, maadesso sei ferito in modo veramente grave e non volevo perdere tempocombattendo contro quel cadavere vivente. Non ti preoccupare, Raist, lamagia continuerà ad essere la tua specialità. Come ho detto, in genere nonne ho bisogno».

«Questo non è possibile», si disse Raistlin, lottando per pensare conchiarezza. «Caramon non può aver acquisito in pochi momenti ciò che ame ha richiesto anni di studio. Non ha senso. C'è qualcosa che non è comesembra... devo riflettere, dannazione! Devo riflettere!».

Ad annebbiargli la mente non era il dolore fisico ma l'antica sofferenzainteriore che aveva ripreso ad artigliarlo con unghie avvelenate: Caramonil forte, l'allegro, il buono, il gentile; Caramon, l'amico di tutti.

Lui non era come Raistlin... il malaticcio, l'Astuto.

«La mia magia è sempre stata la sola cosa che avessi», disse, parlandocon chiarezza e pensando con chiarezza per la prima volta nella sua vita.«E adesso ce l'hai anche tu».

Appoggiandosi alla parete Raistlin sollevò entrambe le mani, congiunsei pollici e cominciò a pronunciare le parole che avrebbero evocato lamagia.

«Raist!» esclamò Caramon, indietreggiando. «Raist, cosa stai facendo?Suvvia, hai bisogno di me! Mi prenderò cura di te come ho sempre fatto.

Raist, io sono tuo fratello!».«Non ho fratelli!».

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Sotto lo strato di roccia dura e fredda la gelosia prese a gorgogliare e aribollire, poi un tremito spaccò la roccia e la lava fusa della gelosia siriversò nel corpo di Raistlin, scaturendo come fiamma dalle sue mani...un'ondata di fuoco che avviluppò Caramon.

Urlando, lui cercò di spegnere le fiamme con le mani ma sfuggire allamagia era impossibile e ben presto il suo corpo si consumò nel fuoco,rimpicciolendo fino a diventare quello di un vecchio avvizzito, cheindossava una veste nera e aveva capelli e barba da cui pendevanofilamenti di fiamma.

Con la mano protesa, Fistandantilus si diresse verso Raistlin.«Se la tua armatura è fatta di scorie, troverò una fessura», sussurrò il

vecchio.

Avendo esaurito le forze residue con quell'ultima magia, Raistlin nonriuscì a muoversi o a difendersi, e un momento più tardi Fistandantilus sierse davanti a lui. La veste del vecchio era fatta di laceri brandelli dioscurità, la sua carne era marcia e putrescente, le ossa erano visibiliattraverso la pelle, le unghie erano lunghe e appuntite come quelle di uncadavere, gli occhi scintillavano di quel calore devastante che in precedenza era racchiuso nell'anima di Raistlin, e una pietra insanguinata pendeva da una catena che cingeva il collo scarno.

La mano del vecchio toccò il petto di Raistlin, gli accarezzò la carne confare provocatorio, tormentandolo, poi Fistandantilus gli affondò le dita neltorace e le chiuse intorno al suo cuore.

Come il soldato morente serra le mani intorno all'asta della lancia che loha trafitto, così Raistlin afferrò il polso del vecchio con una stretta cheneppure la morte avrebbe potuto allentare.

Intrappolato, Fistandantilus cercò di liberarsi, ma scoprì che non potevafarlo e al tempo stesso mantenere la presa intorno al cuore.

La luce argentea di Solinari, quella rossa di Lunitari e quella nera evuota di Nuitari... che adesso Raistlin era in grado di vedere... si fuserodavanti al suo sguardo sempre più opaco, formando un occhio fisso puntato verso di lui.

«Puoi prendere la mia vita», scandì Raistlin, mantenendo la presaintorno al polso del vecchio come questi la manteneva intorno al suocuore, «ma in cambio mi servirai».

L'occhio ammiccò e scomparve.

CAPITOLO SETTIMO

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«Ha ucciso suo fratello?» domandò Antimodes, ripetendo conincredulità l'informazione che Par-Salian gli aveva appena fornito.

Antimodes non aveva preso parte alla Prova di Raistlin perchéall'insegnante o al mentore di un iniziato non era permesso di parteciparvi.La maggior parte degli iniziati se l'era cavata molto bene e tutti ne eranousciti, anche se nessuna Prova era stata drammatica quanto quella diRaistlin. Ad Antimodes era dispiaciuto di non potervi assistere, o almenogli era dispiaciuto fino a quando non aveva sentito questo particolare chelo lasciò sconvolto e profondamente turbato.

«E avete affidato quel giovane alle Vesti Rosse? Amico mio, sei forseimpazzito? Non riesco a immaginare un atto più malvagio di questo!».

«Ha ucciso un'immagine illusoria di suo fratello» precisò con enfasi Par-Salian. «A quanto mi risulta anche tu hai dei fratelli, giusto?» aggiunse conun sorriso significativo.

«So cosa vuoi dire, e in effetti ci sono stati momenti in cui sarei statolieto che mio fratello venisse divorato dalle fiamme, ma un pensiero èmolto diverso dall'azione effettiva. Raistlin sapeva che si trattava diun'illusione?».

«Quando gli ho posto questa domanda mi ha guardato negli occhi e ha

ribattuto in un tono che non dimenticherò mai: "Ha importanza?"» replicòPar-Salian.

«Povero giovane», sospirò Antimodes. «O forse dovrei dire  poveri giovani, dato che l'altro gemello ha assistito alla propria morte per manodel fratello. Era davvero necessario lasciare che vedesse?».

«Ho ritenuto di sì. Per quanto possa sembrare strano, pur essendofisicamente il più forte dei due Caramon dipende da suo fratello molto piùdi quanto Raistlin dipenda da lui, e con questa dimostrazione speravo di

troncare il loro rapporto malsano, di convincere Caramon che ha bisognodi costruirsi una vita tutta sua. Temo però che il mio piano non abbia avutosuccesso perché Caramon ha completamente giustificato il fratellosostenendo che Raistlin stava male, non era in sé e non poteva essereritenuto responsabile delle sue azioni. E adesso, a complicare le cose,Raistlin dipende più che mai da suo fratello».

«Come sono le sue condizioni di salute?».«Non sono buone. Vivrà, ma soltanto perché il suo spirito è forte, molto

 più forte del corpo».«Allora c'è stato un incontro fra Raistlin e Fistandantilus, e Raistlin ha

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accettato il patto: ha ceduto la sua energia vitale per nutrire quell'immondocadavere vivente!».

«Ci sono stati sia l'incontro sia un patto», ammise in tono cauto Par-Salian. «Credo però che questa volta Fistandantilus possa aver trovato pane per i suoi denti».

«Raistlin non ricorda nulla?».«Assolutamente nulla... ci ha pensato Fistandantilus. Non credo che lui

voglia che Raistlin ricordi: pur avendo accettato il patto Raistlin non èmorto com'è invece successo agli altri, qualcosa lo ha mantenuto vivo e pieno di sfida, e credo che se lui dovesse ricordare sarebbe Fistandantilus avenirsi a trovare in notevole pericolo».

«Raistlin cosa pensa che gli sia successo?».

«È convinto che sia stata la Prova a debilitarlo, lasciandogli unadebolezza di cuore e di polmoni che lo perseguiterà per tutta la vita e chelui attribuisce alla battaglia con gli elfi scuri. Personalmente non horitenuto che fosse il caso di togliergli questa convinzione perché se gliavessi detto la verità non mi avrebbe creduto».

«E supponi che avrà mai modo di scoprirla?».«Succederà soltanto se e quando scoprirà la verità su se stesso», rispose

Par-Salian. «Dovrà prima affrontare e ammettere la sua oscurità interiore,

ed io gli ho dato occhi che gli permetteranno di vederla se lo vorrà fare: gliocchi a clessidra della maga Raelana. In questo modo potrà scorgere il passare del tempo in tutte le cose che guarderà, vedrà la giovinezzaappassire sotto i suoi occhi, la bellezza svanire, le montagne ridursi in polvere».

«E cosa speri di ottenere con questa tortura?» domandò in tono rabbiosoAntimodes, ormai effettivamente convinto che il capo del Conclave sifosse spinto troppo oltre.

«Perforare la sua arroganza, insegnargli la pazienza e, come ho detto,dargli la capacità di vedere dentro di sé, qualora dovesse rivolgere losguardo nel proprio animo. Nella sua vita ci sarà ben poca gioia» ammisePar-Salian, «ma del resto prevedo ben poca gioia per chiunque, inAnsalon. Inoltre, ho provveduto a compensare quella che tu ritieni unacrudeltà».

«Non ho mai detto...».«Non ce n'era bisogno, amico mio, so cosa stai provando. Ho dato a

Raistlin il Bastone di Magius, uno dei nostri manufatti più potenti, anchese passerà molto tempo prima che lui ne apprenda il vero potere».

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«E adesso tu hai la tua spada», osservò Antimodes, rifiutando di farsiammansire.

«Il metallo ha resistito al fuoco», ammise in tono grave Par-Salian, «e neè emerso temprato e forte, con una lama affilata. Ora il giovane si deveaddestrare, deve affinare i talenti di cui avrà bisogno in futuro eapprenderne di nuovi».

«Nessuno in seno al Conclave, neppure le Vesti Nere, lo vorrà comeapprendista se si penserà che sia in qualche modo legato a Fistandantilus.Come farà ad imparare?».

«Credo che troverà un maestro. Una dama ha sviluppato un notevoleinteresse nei suoi confronti».

«Ladonna?» domandò Antimodes, accigliandosi.

«No, no, un'altra dama, molto più grande e potente», precisò Par-Salian,guardando fuori della finestra in direzione della luna rossa che splendevacon l'intensità di un rubino.

«Davvero?» esclamò Antimodes, impressionato. «Bene, in tal casosuppongo di non dovermi preoccupare per lui. Tuttavia è ancora moltogiovane ed è molto fragile, e noi non abbiamo molto tempo».

«Come hai detto tu stesso, passeranno alcuni anni prima che la Reginadelle Tenebre possa schierare in campo le sue forze, prima che sia pronta a

sferrare il suo attacco».«Ma le nubi di guerra già si addensano», osservò Antimodes, in tono

cupo. «Ci troviamo sotto gli ultimi raggi del sole al tramonto e io continuoa domandarmi dove siano i veri dèi, adesso che abbiamo bisogno di loro».

«Dove sono sempre stati», rispose Par-Salian in tono compiacente.

CAPITOLO OTTAVO

Raistlin sedeva ad una scrivania nella Torre della Grande Stregoneria,dove Par-Salian gli aveva dato il permesso di rimanere per tutto il temponecessario a riprendersi dagli effetti della Prova.

In realtà Raistlin non si sarebbe mai ripreso del tutto. In passato non eramai stato particolarmente forte o sano di fisico, ma al confronto delle suecondizioni attuali gli capitava ora di guardare con invidia al suo io di untempo. Per un momento indugiò a ricordare i giorni della sua adolescenza,rendendosi conto con rimpianto che non li aveva mai apprezzati a fondo,

che non aveva mai apprezzato l'energia e il vigore che comunque possedeva, e si chiese se sarebbe stato disposto a tornare indietro, a

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 barattare questo corpo devastato con uno sano.La sua mano si protese a sfiorare il Bastone di Magius, che era sempre al

suo fianco: il legno era liscio e caldo, la magia racchiusa nel bastone glifaceva formicolare le dita e quella era una sensazione esaltante; per ilmomento lui aveva soltanto una vaghissima idea delle magie che si potevano realizzare con quel manufatto perché la regola prevedeva chequalsiasi mago che entrava in possesso di un oggetto magico ne dovessericercare da solo l'uso e i poteri. D'altro canto era anche consapevoledell'immenso potere magico racchiuso nel bastone e vi si crogiolava.

 Nella Torre non esistevano soverchie informazioni sul Bastone diMagius anche perché molti degli antichi manoscritti relativi a quel magoerano stati custoditi nella Torre di Palanthas ed erano andati perduti

quando i maghi si erano trasferiti nella Torre di Wayreth; il bastone stessoera stato conservato perché era di estremo valore, anche se pareva chefosse rimasto inutilizzato per tutti quei secoli, almeno secondo leaffermazioni di Par-Salian.

In risposta alle domande di Raistlin, il capo del Conclave avevaammesso in modo evasivo che fino a quel momento non era mai giunto ilmomento giusto perché il bastone tornasse nel mondo in quanto finora nonera stato necessario. Di conseguenza, Raistlin si stava ora chiedendo cosa

facesse del momento attuale quello giusto per un bastone che si supponevafosse stato usato per combattere contro i draghi, ma sapeva che eraimprobabile che riuscisse a scoprirlo: Par-Salian infatti era molto reticentee non era disposto a dirgli nulla in merito al bastone a parte dove trovaredei libri che avrebbero potuto fornirgli delle informazioni al riguardo.

Adesso Raistlin aveva davanti a sé uno di quei libri, una piccola operascritta da uno scriba che faceva parte del seguito di Huma, e il volumestava risultando più frustrante che utile, in quanto nel leggerlo lui aveva

appreso una quantità di cose su come si difendevano dei bastioni e sidislocavano delle guardie, nozioni che erano comunque utili per un magoguerriero, ma ben poco riguardo al bastone e quel poco in manieraindiretta. Parlando di Magius, lo scriba aveva descritto il mago nell'atto dibalzare dalla torre più alta del castello assediato per atterrare illeso inmezzo a noi con nostro estremo stupore e meraviglia. Lui ha sostenuto diaver usato la magia del suo bastone...

Interrompendo la lettura, Raistlin scrisse un'annotazione su un suo

libretto personale:  Pare che il bastone abbia la capacità di permettere al  suo possessore di volare attraverso l'aria con la leggerezza di una piuma.

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Questo incantesimo è inerente al bastone stesso? Devono essere recitatedelle parole magiche per attivarlo? Esiste un limite al suo impiego? L'incantesimo può operare anche per chiunque altro, a parte il mago in possesso del bastone?

Questi erano tutti interrogativi che avevano bisogno di una risposta, e sitrattava soltanto di uno degli incantesimi racchiusi nel bastone, che luiintuiva dover essere numerosi. Da un certo punto di vista, essere all'oscurodi tutto era frustrante perché gli sarebbe piaciuto che gli incantesimi glivenissero spiegati, e tuttavia se pure gli fosse stata esposta nel dettagli lanatura del potere del bastone lui avrebbe comunque portato avanti i suoistudi, perché era possibile che gli antichi manoscritti mentissero o che di proposito non fornissero tutte le informazioni. In realtà, Raistlin si fidava

soltanto di se stesso.Certo, i suoi studi avrebbero potuto richiedere anni, ma...Un attacco di tosse interruppe il suo lavoro, spasmi dolorosi e debilitanti

che lo spaventavano perché la trachea gli si bloccava, non riusciva arespirare e quando le crisi erano veramente violente veniva assalito dallaterribile sensazione che non sarebbe mai più riuscito a respirare di nuovo eche sarebbe morto soffocato.

Questa era una crisi violenta, e mentre lottava per immettere aria nei

 polmoni lui si sentì sempre più debole e stordito per la carenza d'ossigeno;quando finalmente riuscì a trarre un respiro, anche se poco profondo, eracosì esausto per lo sforzo che fu costretto ad abbandonare la testa sulle braccia appoggiate sul tavolo, quasi singhiozzando, con le costole offeseche gli dolevano terribilmente e il diaframma che bruciava per la tosse.

Una mano gentile gli toccò la spalla.«Raist? Stai... stai bene?».Sollevandosi, Raistlin allontanò da se la mano del fratello.

«Che domanda stupida perfino per te! È ovvio che non sto bene,Caramon!» ribatté, tamponandosi le labbra con un fazzoletto; quando loallontanò vide che era sporco di sangue e si affrettò a riporlo in una tascasegreta della sua nuova veste rossa.

«C'è qualcosa che posso fare per aiutarti?» insistette Caramon,ignorando con pazienza il cattivo umore del fratello.

«Puoi lasciarmi solo e smettere di interrompere il mio lavoro!» scattòRaistlin. «Hai fatto i bagagli? Sai che partiremo fra un'ora».

«Se sei certo di sentirti abbastanza bene...» cominciò Caramon, poi notòlo sguardo irritato e rovente del fratello e s'interruppe. «Vado... a fare i

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 bagagli», disse, anche se erano già pronti da almeno tre ore.Si avviò quindi per lasciare la stanza in punta di piedi, credendo di

essere molto silenzioso mentre in realtà con l'assortimento di scricchiolii,tintinnii e suoni assortiti che stava producendo era rumoroso quanto unalegione di nani delle montagne che eseguissero una parata.

Infilando la mano nella tasca, Raistlin intanto tirò fuori il fazzoletto,umido del suo stesso sangue, e lo contemplò per un momento con ariacupa e riflessiva.

«Caramon», chiamò.«Sì, Raist?» rispose Caramon, girandosi subito con aria pateticamente

ansiosa. «C'è qualcosa che posso fare per te?».Avrebbero dovuto trascorrere molti anni lavorando insieme, vivendo

insieme, mangiando insieme, combattendo insieme. E questo dopo cheCaramon aveva visto il suo gemello ucciderlo, dopo che Raistlin si eravisto nell'atto di togliergli la vita.

Colpi violenti come martellate, l'uno dopo l'altro.«Sì, fratello mio», rispose Raistlin, con un profondo sospiro. «C'è una

cosa che puoi fare per me. Par-Salian mi ha dato la ricetta di una tisana cheritiene possa darmi sollievo dalla tosse. Troverai la ricetta e gli ingredientiin quella sacca, sulla sedia, e se potessi prepararmela...».

«Certamente, Raist!» esclamò Caramon, in tono eccitato, mostrandosi più felice di quanto lo sarebbe stato se Raistlin gli avesse elargito un tesoroin gemme e monete d'acciaio. «Non ho visto teiere, ma sono certo che cene deve essere una qui in giro... oh, eccola qui, strano che prima nonl'avessi vista. Tu continua a lavorare, io intanto doserò le foglie...accidenti, che odore orribile! Sei certo... non importa», si affrettò ainterrompersi, «vado a preparare il tè. Forse il sapore sarà miglioredell'odore».

Messa la teiera sul fuoco procedette quindi a dosare e a misurare iquantitativi di foglie con la stessa attenzione che uno gnomo avrebbededicato ad un'Impresa.

Raistlin intanto tornò a dedicarsi alla lettura. Magius colpì un orco sulla testa con il suo bastone ed io mi affrettai a

correre in suo soccorso perché è risaputo che gli orchi hanno il craniorobusto e non ritenevo che il bastone del mago avesse potuto infliggeremolto danno. Con mia sorpresa, però, l'orco crollò morto al suolo come se

 fosse stato abbattuto da un fulmine.Di nuovo Raistlin annotò con cura l'episodio, scrivendo:  Pare che il 

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bastone incrementi la violenza di un colpo inferto con esso.«Raist», disse in quel momento Caramon, volgendo le spalle alla teiera

che era prossima a bollire. «Voglio che tu sappia una cosa: riguardo aquanto è successo... io capisco...».

Smettendo di scrivere, Raistlin sollevò la testa ma non guardò verso ilfratello e diresse invece lo sguardo fuori della finestra. All'esterno, laForesta di Wayreth circondava la Torre, e nel guardarla lui vide soltantofoglie che avvizzivano, rami spogli, tronchi che marcivano.

«Fratello mio, finché vivrai non dovrai più parlare di quell'incidente nécon me né con chiunque altro. Hai capito?».

«Certo, Raist, capisco», replicò Caramon, in tono sommesso, poi tornò adedicarsi al suo compito e aggiunse: «Il tè è quasi pronto».

Raistlin chiuse il libro che stava leggendo. Gli occhi gli bruciavano per la fatica di cercare di decifrare la calligrafia antiquata dello scriba e lamente era stanca per lo sforzo di tradurre quella miscela di lingua comunearcaica e di gergo militare in uso fra i soldati e i mercenari.

Flettendo la mano, che doleva per aver stretto troppo a lungo la penna,Raistlin si infilò il volume relativo a Magius nella cintura per continuaread esaminarlo nel corso del lungo viaggio verso nord. Non sarebberoinfatti tornati a Solace perché Antimodes aveva dato loro il nome di un

nobile che stava assoldando guerrieri e che secondo lui sarebbe stato lietodi assumere anche un mago guerriero.

Poiché era a sua volta diretto al nord, Antimodes aveva aggiunto chesarebbe stato lieto se i due giovani avessero viaggiato con lui e Raistlin erastato pronto ad acconsentire perché aveva intenzione di otteneredall'arcimago il massimo di informazioni possibile prima che le loro stradesi separassero. Era stata sua speranza che Antimodes lo scegliesse comeapprendista ed era stato tanto audace da chiederglielo apertamente, ma

Antimodes aveva rifiutato sostenendo che non prendeva mai apprendisti perché non aveva la pazienza necessaria per istruirli. Aveva poi aggiuntoche ultimamente c'era poca richiesta di apprendisti e che Raistlin sisarebbe trovato molto meglio se avesse studiato per conto suo.

Questa era senza dubbio un'imposizione (non si poteva dire che unaVeste Bianca mentisse) in quanto gli altri maghi che si erano sottopostialla Prova erano stati tutti accettati come apprendisti. Raistlin si era quindichiesto perché lui costituisse un'eccezione, e dopo lunghe riflessioni era

giunto alla conclusione che si trattasse di qualcosa che aveva a che vederecon Caramon.

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Intanto suo fratello stava spostando la teiera con un fracassointollerabile, versando acqua bollente su tutto il pavimento e rovesciandole erbe.

Tornerei ai giorni della mia giovinezza? si chiese Raistlin. Allora il miocorpo sembrava fragile ma era forte rispetto a questo insieme di ossa e dicarne in cui sono adesso racchiuso, tenuto unito soltanto dalla miavolontà. Tornerei indietro?

 Allora quando guardavo qualcosa di bello esso mi appariva tale, mentreadesso nel contemplare la bellezza la vedo annegata, gonfia e sfigurata,trascinata verso valle dal fiume del tempo. Tornerei indietro?

 Allora noi eravamo gemelli, insieme nel grembo materno e dopo lanascita, anche se fisicamente separati. Adesso i cordoni di seta della

 fratellanza pendono tagliati in mezzo a noi e non si rinsalderanno più.Tornerei indietro?

Chiudendo il volume su cui aveva stilato le sue preziose annotazioni,Raistlin prese la penna e scrisse sulla copertina:

 Io, Magus.E con un rapido, deciso tratto sottolineò quelle due parole.

CONCLUSIONE

Una sera, mentre ero assorto nel mio consueto compito di stilare lacronaca della storia del mondo, il mio fedele ma a volte inetto assistenteBertram entrò di soppiatto nel mio studio e chiese il permesso diinterrompere il mio lavoro.

«Cosa succede, Bertram?» domandai, notando che lui appariva pallidocome se avesse appena incontrato uno gnomo che stava portando uncongegno incendiario dentro la Grande Biblioteca.

«Si tratta di questa, Maestro», rispose con voce tremante, protendendocon mano altrettanto tremante una piccola pergamena arrotolata e legatacon un nastro nero sigillato con inchiostro dello stesso colore su cui erastampato il disegno di un occhio.

«Da dove viene?», chiesi, anche se avevo immediatamente capito chidoveva averla mandata.

«È proprio questo il problema, Maestro», spiegò Bertram, tenendo la pergamena con la punta delle dita. «Non lo so! Un minuto prima non c'era

e quello successivo era lì!».Sapendo che da lui non avrei ricavato una spiegazione più intelligente

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gli dissi di posare la pergamena sulla scrivania e di andarsene, perchél'avrei vagliata quando ne avessi avuto il tempo. Lui si mostrò palesementeriluttante a lasciare lì la missiva (pensando senza dubbio che avrebbe presofuoco o qualche altra assurdità del genere), ma fece come avevo chiesto ese ne andò scoccandosi molte occhiate alle spalle. Come appresi inseguito, una volta uscito attese poi dietro la porta munito di un secchiod'acqua, che di certo aveva intenzione di svuotarmi addosso al primosbuffo di fumo.

Io infransi il sigillo, sciolsi il nastro nero e mi trovai davanti a questalettera, di cui trascrivo qui una parte.

 Ad Astinus, È possibile che io stia per intraprendere un'impresa audace2 , e qualora

dovessi decidere di farlo può darsi che non ritorni da essa o che ritorni inuno stato alterato. Se dovessi incontrare la morte nel corso della miaimpresa, ti accordo il permesso di pubblicare un resoconto vero della mia giovinezza, includendo ciò che è sempre stato tenuto segreto in ogni modo,la mia Prova nella Torre della Grande Stregoneria. È una scelta checompio in reazione alle molte assurde storie e falsità che hanno circolato sul mio conto e su quello della mia famiglia. Naturalmente, il mio permesso è condizionato dal fatto che Caramon si mostri d'accordo con

questa decisione...Contrariamente a quanto alcuni hanno insinuato, non ho dimenticato

l'incarico affidatomi da Raistlin, ma finora né Caramon né io abbiamoritenuto che fosse giunto il momento di una simile pubblicazione. Adessoche il nipote di Raistlin, Palin, è diventato adulto e si è sottoposto a suavolta alla Prova nella Torre, Caramon mi ha infine concesso il permesso di pubblicare il libro.

Questo è il vero resoconto degli anni giovanili di Raistlin, e i lettori più