Post on 16-Sep-2020
1
Intervista a cura di Martino Diez
Beth Mardutho, Piscataway (NJ), USA
2 luglio 2019
Nell'introduzione al tuo New Syriac Primer
scrivi che «il siriaco può essere una passione
(o una follia!), non solo una lingua» (p. XX).
Da dove ti viene questa passione?
Quando ero bambino a Betlemme, mio padre
mi mandava a studiare siriaco con mia sorella
dal prete locale. Ovvio, ai bambini non piace
fare compiti extra in estate... Mio padre ci da-
va 2,50 qurūsh (piastre) come paghetta settim-
anale in cambio dello studio del siriaco: giusto
il prezzo di un gelato! Poi però mi disse che il
prete aveva chiesto se potevo entrare nel gu-
do, il coro liturgico. Questo richiedeva d’im-
parare meglio il siriaco ed è lì che è iniziata la
passione. Naturalmente, tutti in chiesa mi
dicevano che ero un “bravo ragazzo”, shātir, e
forse anche questo ha avuto il suo peso all’ini-
zio. Poi la passione si è trasformata in follia.
Una follia che si manifesterà pienamente negli
Stati Uniti…
Ho terminato la scuola superiore a Beit Jala
nel 1983. Subito dopo, mi sono trasferito a Los
Angeles con mia madre, raggiungendo mia
sorella che viveva già negli Stati Uniti. Lì ho
frequentato l’università: ingegneria elettrica,
proprio lo schema dei ragazzi mediorientali!
Nel 1984 ho seguito il mio primo corso di pro-
grammazione informatica. Al mio professore
dissi che volevo creare un programma per
scrivere in siriaco. «È difficile», mi rispose, ma
alla fine, due anni dopo sono riuscito a svi-
luppare un font con Multi-lingual scholar, un
programma DOS. Andavamo alla Società di
Letteratura Biblica a mostrare il software per
venderlo agli studiosi, perché funzionava con
siriaco, arabo ed ebraico, e in una di queste
occasioni sono stato invitato a presentare il
programma al Symposium Syriacum di Lova-
nio, in Belgio. Era il 1988. Alla conferenza ho
fatto un intervento, ma soprattutto, ho in-
contrato Sebastian Brock: ricordo di avergli
parlato, spiegandogli che mi ero messo a fare
siriaco per la Chiesa e per la conservazione
della tradizione, ma che ora volevo occu-
parmene a livello accademico. Mi ha invitato
a fare domanda per un programma a Oxford e
sono stato accettato. In realtà ci fu un malin-
teso sulla tempistica, perché io volevo prima
terminare la laurea triennale, ma alla fine mi
sono trasferito a Oxford nel 1990 e ho iniziato
il master. Il piano era fare solo un anno di
pausa, prendere il master, tornare negli Stati
Uniti e trovare lavoro come ingegnere. Ma
dopo una settimana mi sono reso conto che
sarei rimasto, mi piaceva. Quello è stato il mo-
mento in cui tutto è cambiato.
Il profondo interesse per la conservazione del
patrimonio non è nuovo alla tua famiglia. Se
non mi sbaglio, i manoscritti del Mar Morto
Dai manoscritti del Mar Morto alla bolla del Dot-com, George Kiraz
ha fatto della promozione della cultura siriaca la missione della vita.
Con implicazioni ecumeniche
2
sono stati nella casa di tuo padre per alcune
settimane subito dopo la loro scoperta…
Sì, mio padre era amico del Vescovo Samuel
[1] di Gerusalemme e nel 1947, quando i ma-
noscritti erano appena stati scoperti, Samuel li
acquistò. A un certo punto, ebbe bisogno di
fondi e chiamò mio padre dicendogli che c’era
un antiquario ebreo pronto a comprare i ma-
noscritti. Secondo mio padre – ma la versione
è disputata, come qualsiasi cosa che riguardi i
manoscritti del Mar Morto – lui consigliò al
Vescovo di non venderli e di capire quanto
valessero. Alla fine mio padre fornì a Samuel i
fondi che gli servivano, divennero soci e lui si
portò i manoscritti a casa nostra.
Poco tempo prima, ancora durante il mandato
britannico, mio padre aveva conosciuto Elea-
zar Sukenik, il
famoso archeo-
logo israeliano:
mentre costru-
iva una casa a
Gerusalemme,
aveva trovato
una grotta con
alcuni resti,
aveva chiamato il Dipartimento Palestinese
delle Antichità per fare delle ricerche, loro
avevano mandato Sukenik e in questo modo si
erano conosciuti. Mio padre decise allora di
portare i Manoscritti da Sukenik. I disordini
erano già iniziati e i due s’incontrarono nella
no man’s land, alla sede della YMCA. I mano-
scritti restarono a casa nostra per alcuni mesi,
fino a quando il Vescovo Samuel decise di
mostrarli a John Trever, dell’American School
of Oriental Researches (ASOR). Il resto della
storia è nelle memorie di mio padre, di cui ho
curato l’edizione.
Sembra che fossi predestinato a lavorare sui
manoscritti... La tua famiglia era originaria di
Betlemme?
No, la mia famiglia viene da Harput, nel sud
dell’Anatolia, una città tra Diyarbakir e Ma-
latya. In seguito al genocidio del 1915, molti
sopravvissuti siriaci ripararono ad Adana, che
dopo la capitolazione dell’Impero Ottomano si
trovava sotto il controllo francese. I francesi
aprirono orfanotrofi e scuole per i sopra-
vvissuti, ma vennero sconfitti dalle truppe ke-
maliste e nel 1922 furono costretti ad andarse-
ne. I siriaci e gli armeni, che avevano appena
subito il genocidio, non avevano alcuna inten-
zione di rimanere sotto il dominio turco e an-
darono al sud, in Libano. E nel nostro caso, a
Betlemme.
Tornando a te: tra le molte cose che hai reali-
zzato, hai fondato una casa editrice, Gorgias
Press, che si è fatta un nome per la qualità
delle sue pubblicazioni. Era un progetto pre-
visto fin dall’inizio?
No, è stato uno sviluppo tardivo e casuale. Do-
po aver terminato il dottorato, iniziai a lavora-
re per i Bell Labs: appartenevano alla AT&T e
all’epoca erano il luogo della ricerca tecnolo-
gica in America; per dire, ai Bell Labs hanno
scoperto il laser, hanno creato il sistema ope-
rativo UNIX, il linguaggio di programmazione
C:… In media rilasciavano 1,5 nuovi brevetti
al giorno! Erano una potenza scientifica che
controllava tutte le telecomunicazioni negli
Stati Uniti, prima che il governo smembrasse
I MANOSCRITTI RESTARONO A CASA NOSTRA PER ALCUNI MESI, FINO A QUANDO IL VESCOVO SAMUEL DECISE DI MOSTRARLI A JOHN TREVER
3
la società perché era diventata troppo grande.
In ogni caso, io stavo all’interno del diparti-
mento di ricerca, il che era molto positivo
perché facevo ricerca non orientata. Ero auto-
rizzato a fare qualsiasi cosa volessi, proprio
come avviene all’Istituto di Studi Avanzati [di
Princeton]. E avevo uno stipendio di livello
manageriale, anche questo era molto positivo.
Il siriaco era sempre presente, ma come un
aspetto secondario. Verso la fine degli anni ’90
però mi resi conto che volevo diventasse la
cosa principale. In quel momento si era in pie-
na bolla Dot-com [2], non so se ne hai sentito
parlare. Mi confrontai con Christine, mia
moglie, e le dissi che volevo lasciare i Bell
Labs, unirmi a una delle nuove start-up, lavo-
rare duramente per tre-quattro anni, fare
qualche milione e usarlo per finanziare Beth
Mardutho (“La casa della conoscenza”), l’Isti-
tuto di Studi Siriaci che mia moglie e io
avevamo fondato. All’epoca infatti Beth
Mardutho esisteva già, ma solo sulla carta: noi
invece volevamo farne un posto reale.
Così lasciai i Bell Labs e nel giro di un mese
ricevetti cinque offerte di lavoro, una migliore
dell’altra. Da ultimo, andai a finire in un’azi-
enda di tecnologie vocali della Silicon Valley.
Volevano qualcuno per aprire una sede a New
York, trovai un ufficio a Wall Street e la cosa
li impressionò molto. Assumemmo del perso-
nale e tutto sembrava molto promettente. Ci
pagavano in stock options e le azioni salivano
sempre di più. Almeno sulla carta iniziavamo
a vedere le sei cifre... Mi immaginavo che in
quattro anni avrei messo da parte il milione di
dollari per finanziare Beth Mardutho.
Nove mesi dopo, nel marzo del 2000, ci fu il
Dot-com crash. La maggior parte delle azien-
de non aveva alcun prodotto in mano, si
trattava solo di idee e a un certo punto il mer-
cato crollò. Le azioni precipitarono da circa
200 dollari l’una a 30 dollari, in un sol giorno.
Delle cinque società che mi avevano offerto
lavoro, quattro fallirono in meno di una setti-
mana. Tutto era perduto, compreso il mio la-
voro. Decisi che non volevo lavorare per
un’altra società.
Fu in quel momento che Christine e io pen-
sammo di
creare la casa
editrice Gorgi-
as Press. Da
allora è venuta
su un pezzo
alla volta. Più
avanti, ab-
biamo approfit-
tato della crisi
immobiliare del 2008 per comprare la
proprietà in cui ci troviamo ora. Inizialmente
era stata progettata come ufficio per Gorgias
Press, ma quando vidi la stanza in cui siamo
seduti adesso, mi resi conto che era perfetta
per Beth Mardutho. Così relegammo la povera
Gorgias nel seminterrato, riservando la zona
migliore a Beth Mardutho. Portammo qui an-
che i miei libri personali, che costituiscono la
stragrande maggioranza di quelli che vedi. E
questo è il punto a cui siamo arrivati.
TUTTO ERA PERDUTO, COMPRESO
IL MIO LAVORO. FU IN QUEL
MOMENTO CHE CHRISTINE E IO
PENSAMMO DI CREA-RE LA CASA EDITRICE
GORGIAS PRESS
4
A proposito, da dove viene il nome Gorgias?
Da Gorgia il sofista? E perché questa scelta?
Beh, eravamo convinti che se avessimo aperto
una casa editrice incentrata solo sul Cristiane-
simo orientale, non avrebbe avuto mercato.
Abbiamo pensato di lavorare anche sui classi-
ci. Ci siamo messi in cerca di nomi e mi sono
imbattuto in Gorgias, che assomigliava al mio
nome...
Esatto!
...e sembrava anche classico. È per questo che
lo abbiamo scelto. Ma per quanto riguarda i
classici, devo dire che abbiamo completamen-
te fallito, perché non è il nostro settore di spe-
cializzazione. Ci siamo fatti conoscere per il
Cristianesimo orientale, per il siriaco, più re-
centemente per gli studi arabi, islamici, ebrai-
ci... tutto fuorché i classici.
Quali sono i risultati di cui sei più orgoglioso,
in termini di libri pubblicati da Gorgias?
Ancora una volta, tutto è iniziato per caso!
Quando abbiamo aperto Gorgias, ho contat-
tato alcuni studiosi durante una conferenza
sulla Peshitta [la traduzione siriaca della Bib-
bia] tenutasi a Leiden nel 2001 e molti di loro
hanno accettato di scrivere dei libri per noi.
Ma mi sono reso conto che prima che i libri
fossero pronti sarebbero passati degli anni e
nel frattempo dovevamo sopravvivere. Allora
ho passato in rassegna la mia biblioteca e ho
selezionato dodici libri antichi non coperti da
copyright, che sapevo le persone avrebbero
voluto avere sui loro scaffali. Bisogna tornare
indietro nel tempo a un’epoca in cui non c’era
archive.org né Google books. Le ristampe so-
no state un successo e abbiamo cominciato a
ricevere gli ordini. E per i primi cinque anni il
business è stato quello.
Questa esperienza mi ha dato l’idea di ristam-
pare i cinque volumi dell’edizione di Bedjan
delle omelie di Giacomo di Sarough. Successi-
vamente, Sebastian Brock ha aggiunto un ses-
to volume. Secondo me, questo è uno dei
nostri più grandi risultati, perché nessuno
aveva la serie completa dei cinque volumi. Io
ne avevo uno, Sebastian Brock due, ma
nessuno li possedeva tutti tranne il Seminario
Teologico di Princeton. Ma la biblioteca del
Seminario aveva fatto una rilegatura così
stretta dei volumi che era impossibile scansio-
narli. In ogni caso, alla fine siamo riusciti ad
avere delle copie di tutti i volumi da diverse
persone: è stato un vero sforzo cooperativo.
In arabo, il progetto che mi è piaciuto di più è
stata la ristampa della storia universale di Ta-
barī, Tārīkh al-rusul wa-l-mulūk, nell’edizio-
ne di De Goeje, con il titolo sul dorso del
libro, come si usa in Medio Oriente. E ora sti-
amo lavorando a un ambizioso progetto ri-
guardante la Masora siriaca, cioè lo studio filo-
logico della Bibbia siriaca.
E Michele il Siro?
Oh sì, anche questa è una storia interessante!
Abbiamo un solo manoscritto siriaco che pre-
serva la cronaca capolavoro di Michele: è un
manoscritto del XVI secolo inizialmente cus-
todito a Edessa e portato ad Aleppo dopo il
genocidio. L’orientalista francese Jean-
Baptiste Chabot, che fu il primo a pubblicare
5
le cronache di Michele tra il 1899 e il 1910,
era riuscito a farsene fare una copia, ma non
fu mai in grado di acquisire l’originale. Io vo-
levo pubblicare in un’unica opera la traduzio-
ne di Chabot, il riassunto armeno e le versioni
in Garshuni [arabo scritto in caratteri siriaci],
ma sfortunatamente il piatto principale, il tes-
to siriaco, avrebbe dovuto essere solo una
riproduzione della copia di Chabot, dal mo-
mento che la comunità siriaca di Aleppo non
permetteva di fotografare il prezioso mano-
scritto. Lo conservavano in una cassaforte con
tre chiavi differenti, una in mano al Vescovo e
le altre due custodite da due laici: la cassaforte
si apriva solamente se i tre si mettevano d’ac-
cordo.
Sapendo che lo avrebbe preso a cuore, presen-
tai il progetto a S.E. Hanna Ibrahim, il
Vescovo siriaco di Aleppo, spiegandogli quan-
to fosse spiacevole doversi basare sulla copia
di Chabot. Il modo in cui glielo presentai e,
forse, la possibilità di diventare un curatore
del volume lo entusiasmarono e disse: «No,
George, vedrai che un modo lo troveremo!».
Parlò con la gente e riuscì a convincerla.
La cosa richiese un’enorme quantità di fondi,
che fui in grado di raccogliere grazie a un be-
nefattore. Inizialmente pensavamo di assume-
re un fotografo locale, ma poi decidemmo di
fare affidamento sul personale dell’HMML,
che stava già lavorando a un progetto di digi-
talizzazione ad Aleppo. Tutti i tasselli andaro-
no al loro posto e alla fine organizzammo una
conferenza ad Aleppo per celebrare la digitali-
zzazione del manoscritto: fu appena due anni
prima che iniziassero i problemi in Siria.
Il nome del Vescovo Hanna Ibrahim riporta
immediatamente a un tragico presente: è uno
dei tre vescovi rapiti dall’ISIS. Dall’esterno
potrebbe sembrare che gli studi siriaci siano
rivolti al passato, ma in realtà dietro c’è una
comunità vivente. Come vedi l’attuale situazi-
one dei cristiani e, in particolare, della comu-
nità siriaca in Medio Oriente? C'è un futuro
per loro lì?
La crisi siriana è stata un duro colpo per la co-
munità siriaca. Sarà il tempo a dirlo, ma potr-
ebbe essere devastante come il genocidio del
1915. Ovviamente, non è possibile fare un pa-
ragone in termini di vittime, ma l’intensità del
colpo potrebbe essere simile. Nel 1915 la co-
munità siriaca in Anatolia fu quasi annientata
e i sopravvissuti si spostarono a sud, stabilen-
dosi in diversi paesi arabi. Dal 1915 ad oggi,
c’è stato il conflitto arabo-israeliano, che ha
svuotato la maggior parte delle aree palestine-
si, seguito dalla guerra civile libanese. Dal
2003 in avanti è stato il turno dell’Iraq e un
gran numero di persone se ne è andato anche
da lì. L’ultimo paese stabile era la Siria. Non
metto in discussione il fatto che fosse un re-
gime e una dittatura, ma la comunità cristiana
lì prosperava. Con la guerra siriana, molti se
ne sono andati e adesso, probabilmente, ci so-
no più siriaci nella diaspora che in Medio Ori-
ente.
Il problema della diaspora è che le persone
non restano culturalmente distinte dalla cor-
rente maggioritaria per più di qualche genera-
zione, questo è un dato di fatto. I migranti
siriaci hanno cominciato ad arrivare negli Sta-
ti Uniti negli anni ’80 dell’Ottocento e poi do-
po il 1915 in numeri molto più grandi. Solo
6
pochi dei loro discendenti sono ancora memb-
ri della nostra comunità, gli altri sono diven-
tati americani come tutti gli altri. Sono sicuro
che siano ancora in giro, ma se non sono attivi
nelle nostre parrocchie, non fanno più parte
della comunità siriaca e potrebbero persino
ignorare di appartenervi.
In Medio Oriente non devi andare in chiesa
per essere suryānī (siriaco). Se non ti sposi,
potresti entrare in chiesa solo due volte nella
vita, per il battesimo e per il funerale! Eppure,
saresti ancora un suryānī, tutti sanno che sei
suryānī, tu sai di essere suryānī. Non è così
negli Stati Uniti e in Europa. Se non pratichi,
soprattutto se non hai una comunità attorno,
scompari. A causa della natura dell’Europa e
per il fatto che lì il melting pot è più lento ris-
petto agli Stati Uniti, le comunità potrebbero
sopravvivere di più, forse per tre o quattro ge-
nerazioni, ma l’esito finale è lo stesso. Negli
Stati Uniti la nostra Chiesa, dagli anni ’80
dell’Ottocento fino ad oggi, è sempre stata una
chiesa di immigrati. Ormai dovrebbe essere
una Chiesa di americani siriaci, ma con l’arri-
vo di nuovi migranti, le vecchie generazioni
sono, per così dire, buttate fuori e scom-
paiono. Ora però la sorgente da cui provengo-
no i migranti sta per prosciugarsi. Che succe-
derà allora? Stiamo parlando della scomparsa
totale della cultura siriaca: potrebbero volerci
cinquanta o cento anni, ma questa è la ten-
denza. Senza dimenticare che nel frattempo i
problemi in Medio Oriente sono lungi dall’es-
sere risolti.
Questa triste constatazione mi porta alla pros-
sima domanda. Al di là della tua attività pro-
fessionale, sei diacono della Chiesa Ortodossa
Siriaca. Come vedi la tua missione negli Stati
Uniti? Si tratta solo di preservare il passato? È
indirizzata a una comunità etnica o linguisti-
ca?
Il mio lavoro ha due aspetti: lo studio del siri-
aco in sé, per cui ho a che fare principalmente
con persone di tradizione non siriaca. È un po’
un peccato, ci piacerebbe avere più persone di
tradizione siriaca negli studi siriaci, ma si sa,
devono diventare tutti ingegneri... Questa
parte del mio lavoro occupa più della metà del
mio tempo. Dall’altro lato, ci sono le attività
all’interno della comunità, nel tentativo di
preservare la lingua e la cultura. Provo a fare
delle cose che funzionino per entrambi gli as-
petti e a volte le attività si sovrappongono, ma
non sempre.
Secondo lo studioso francese Olivier Roy, oggi
molte persone sono alla ricerca di forme per-
sonalizzate di religiosità che sono disconnesse
da un determinato patrimonio culturale.
Questo, secondo lui, potrebbe anche aiutare a
spiegare il successo del salafismo nell’Islam,
perché è un movimento basato sulle Scritture
che non presta attenzione alle tradizioni loca-
li. La Chiesa siriaca è, per così dire, l’opposto:
è indissolubilmente legata alla cultura, che ha
modellato nei minimi dettagli. Questa tradizi-
one, attraverso iniziative appropriate, può re-
sistere alla tendenza alla semplificazione o
semplicemente richiede troppo studio per la
gente comune?
È una grande sfida. Come è stato detto, in Me-
dio Oriente si è suryānī da un punto di vista
culturale. Non bisogna andare in chiesa.
7
Ma l’altra faccia della medaglia è che in Medio
Oriente, se non sei nato suryānī, non puoi di-
ventarlo, soprattutto se non sei cristiano.
Giusto. E anche se cambi, sei suryānī di
riflesso. Ad ogni modo, il problema è la ten-
denza all'individualismo e il grande interroga-
tivo per noi è come far rimanere i giovani nel-
la comunità. La gente pensa che ci sia una for-
mula magica, ma non è così. È una questione
molto complessa, perché se cerchi di offrire
quello che la maggior parte della gente vuole,
non ha senso avere una chiesa siriaca, potreb-
bero benissimo andare nella chiesa evangelica
più vicina.
Il nostro patrimonio è un triangolo con tre
vertici: la Bibbia, i Padri della Chiesa e la Tra-
dizione. La Bibbia da sola non funziona; non
funzionano neppure i Padri della Chiesa o la
Tradizione da soli. Per fare una chiesa siriaca,
servono tutti e tre. Nelle nostre comunità
americane as-
sistiamo già a
una concentra-
zione esclusiva
sulla Bibbia:
ora è diventata
munzal
(“rivelata senza intervento umano”), una nozi-
one estranea alla nostra storia. Notiamo che ci
sono più sermoni e meno liturgia, perché
quest’ultima è troppo lunga ed è in siriaco. Se
questa è la tendenza, allora basta andare nella
chiesa evangelica della porta accanto, fanno
meglio il loro lavoro. In fondo la domanda è
semplice: vuoi il patrimonio siriaco o no?
Molti tra noi non capiscono né apprezzano il
patrimonio. E anche se cerchi di spiegarglielo,
è difficile comprenderlo, se non ci sei cre-
sciuto insieme. Il mio non è un giudizio etico:
il tizio che entra nella Chiesa evangelica della
porta accanto potrebbe essere un cristiano
migliore di me, che pure sono un diacono. Ma
il Cristianesimo siriaco è una religione di cul-
tura. Togli la cultura, non c’è Cristianesimo
siriaco.
Questo mi porta all’ultimo punto. La Chiesa
siriaca, come hai detto, è una chiesa basata
sulla tradizione. Nel mondo esistono altre
Chiese basate sulla tradizione, in particolare
quella cattolica e quella ortodossa bizantina.
La scissione ha notoriamente avuto origine
nel Concilio di Calcedonia del 451 e, 1500 an-
ni dopo, penso sia giusto riconoscere che
quanti erano contrari a Calcedonia non crede-
vano che la divinità di Cristo avesse assorbito
la sua umanità e quanti erano a favore di Cal-
cedonia non stavano smembrando Gesù in du-
e realtà differenti. Questa crescente consape-
volezza ha aperto la strada ad alcune dichiara-
zioni cristologiche comuni e a un lento per-
corso ecumenico. Pensi che, nel prossimo fu-
turo, questo percorso possa portare da qualche
parte? E soprattutto, potrebbe rispondere alla
domanda sul come far rimanere i giovani
all’interno della tradizione siriaca?
Il percorso è molto lento, fastidiosamente len-
to. Ci sono pro e contro in ogni cosa. Il van-
taggio dell’unità è che continueremo ad esiste-
re nel futuro, perché altrimenti c’è troppa
frammentazione. Lo svantaggio delle unioni,
per la minoranza, è che si finisce facilmente
per essere fagocitati. Immaginiamo un’unione
completa tra la Chiesa Cattolica Romana e la
Chiesa Ortodossa Siriaca: le dimensioni sono
IL NOSTRO PATRIMO-NIO È UN TRIANGOLO CON TRE VERTICI: LA BIBBIA, I PADRI DELLA CHIESA E LA TRADIZIONE
8
talmente incomparabili che per noi non ci sar-
ebbe futuro, qualsiasi cosa restasse del patri-
monio siriaco sarebbe consumata e assimilata.
Forse la strada migliore, che è già stata in gran
parte realizzata con la Chiesa Cattolica sebbe-
ne non completamente, è avere degli accordi
che permettano il reciproco accesso ai sacra-
menti, ma mantenendo l’identità, la liturgia e
le pratiche della Chiesa minoritaria.
Nel mio caso, ogni domenica mi tocca fare
un’ora di autostrada per andare in chiesa, nel
nord del New Jersey. Il prossimo anno mia
figlia andrà all’università nel Jersey del sud e
chiederà all’amministrazione se può avere una
macchina, perché qualche volta le piacerebbe
andare in chie-
sa e le chiese
più vicine per
lei saranno a
Philadelphia e
nel Jersey
settentrionale. Se avessimo un’unione totale,
la gente direbbe: «C’è una chiesa cattolica qui
vicino, perché dovrei farmi un’ora di macchi-
na?». Questo ucciderebbe la chiesa minorita-
ria. È tutta questione di come fare un’unione
che preservi la cultura della chiesa minorita-
ria. Ancora una volta, l’intero problema ruota
attorno alla religione come cultura. Quando la
religione diventa una cosa individualista, puoi
andare da qualsiasi parte, non c’è differenza.
Per me, ciò che è estremamente fastidioso è
l’atteggiamento degli ortodossi bizantini. Con
la Chiesa Cattolica ci sono questi accordi, ma
se entro in una chiesa greca, molto pro-
babilmente mi daranno del monofisita.
Tuttavia, un’unione completa sarebbe auspi-
cabile, no?
Se le due chiese avessero le stesse dimensioni
e lo stesso potere, allora l’unione avrebbe
assolutamente senso. Ma voglio raccontarti un
aneddoto interessante su mia figlia e su come
non avere un’unione totale permette di pre-
servare l'identità della minoranza. Mia figlia e
mio figlio sono entrambi andati in scuole cat-
toliche. Quando è arrivato il momento di fare
la Comunione, sono stati esclusi, semplice-
mente perché il prete o la suora non sapevano
che ci fossero degli accordi per l’accesso ai sa-
cramenti. Ho esaminato la questione e ho sco-
perto che la Conferenza dei Vescovi Cattolici
degli Stati Uniti ha dato delle precise istruzio-
ni per le scuole cattoliche su come comportar-
si con le altre denominazioni. Dal momento
che mia figlia era turbata per il fatto di essere
stata esclusa, le ho parlato e le ho detto che
potevamo andare a parlare con il prete e
mostrargli il documento. Ma lei ha replicato:
«No, così non la voglio la Comunione». Era
molto giovane all’epoca, stava frequentando la
scuola elementare, ma l’esperienza di essere
messa da parte le ha dato un senso più profon-
do di Suryoyutho, “siriacità”. Avere una lingu-
a e dei riti differenti ci dà un senso di identità.
Lo dico sempre: le minoranze a volte hanno
bisogno di un po’ di persecuzione per conser-
varsi. Il problema in America è che non c’è
proprio nessuna persecuzione.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabi-
lità degli autori e non riflettono necessariamente la
posizione della Fondazione Internazionale Oasis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ANCORA UNA VOLTA, L’INTERO PROBLEMA RUOTA ATTORNO ALLA RELIGIONE COME CULTURA
9
NOTE
[1] Si tratta del Metropolita siro-ortodosso di
Gerusalemme Athanasius Yeshue Samuel
(1909-1995), una figura centrale nella sco-
perta dei manoscritti del Mar Morto
(NdR).
[2] La bolla speculativa che ebbe luogo tra il
1997 e il 2000 riguardante le aziende in-
formatiche e, in particolare, quelle che
lavoravano nell’ambito di internet (NdR).
[3] HMML sono le iniziali di Hill Museum and
Manuscript Library, un'iniziativa dei mo-
naci benedettini per preservare i mano-
scritti a rischio in tutto il mondo: http://
hmml.org, NdR
Georges Kiraz
George A. Kiraz è fondatore e direttore della
Beth Mardutho (“La casa della conoscenza”).
Fondata nel 1992, la Beth Mardutho si dedica
allo studio del siriaco e della tradizione siriaca
nel mondo. Kiraz ha diretto personalmente
molti progetti attraverso la Beth Mardutho, e
la sua biblioteca personale costituisce una par-
te importante del centro di ricerca. George
Kiraz ha insegnato siriaco a Princeton, a Rut-
gers (New Jersey) e all’Istituto POLIS di Geru-
salemme. Ha conseguito un Master of Philoso-
phy e un dottorato in Linguistica computazio-
nale all’Università di Cambridge con una tesi
sull’elaborazione della morfologia dell’arabo e
del siriaco.