PENTALOGIA DELLE STELLE DI AURO OVACICH...Se ne L’umiliazione delle stelle nella pentalogia...

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UNIVERSITEIT GENT ACADEMIEJAAR: 2013-2014 MASTERPROEF VOORGELEGD TOT HET BEHALEN VAN DE GRAAD VAN MASTER OF ARTS IN DE VERGELIJKENDE MODERNE LETTERKUNDE AAN DE FACULTEIT LETTEREN EN WIJSBEGEERTE, WOUTER VERBEKE (01001328), PROMOTOR: PROF. DR. MARA SANTI, CO-PROMOTOR: PROF. DR. KATHARINA PEWNY. CORRERE IN CERCA DELL’IDENTITÀ AUTENTICA. LA RITUALITÀ DELLA MARATONA E LA QUESTIONE DELL’IO IN EPOCA POSTMODERNA NELLA PENTALOGIA DELLE STELLE DI MAURO COVACICH.

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UNIVERSITEIT GENT

ACADEMIEJAAR: 2013-2014

MASTERPROEF VOORGELEGD TOT HET BEHALEN VAN DE GRAAD VAN

MASTER OF ARTS IN DE VERGELIJKENDE MODERNE LETTERKUNDE

AAN DE FACULTEIT LETTEREN EN WIJSBEGEERTE,

WOUTER VERBEKE (01001328),

PROMOTOR: PROF. DR. MARA SANTI,

CO-PROMOTOR: PROF. DR. KATHARINA PEWNY.

CORRERE IN CERCA DELL’IDENTITÀ AUTENTICA. LA RITUALITÀ DELLA MARATONA E LA QUESTIONE DELL’IO IN EPOCA POSTMODERNA NELLA

PENTALOGIA DELLE STELLE DI MAURO COVACICH.

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«Heureux qui comme Ulysse, a fait un beau voyage»

- Joachim du Bellay -

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare innanzittutto la Professoressa Mara Santi per la sua collaborazione

particolarmente costruttiva alla stesura di questa tesi e per la sua disponibilità e cortesia

dimostratemi. Inoltre la ringrazio per avermi dato l’occasione di esporre le mie ipotesi attinenti

all’argomento davanti ad un pubblico accademico e per avermi messo in contatto con lo scrittore

Mauro Covacich.

Vorrei ringraziare poi la Professoressa Katharina Pewny per aver proposto di seguirmi come

correlatrice di questa tesi. Inoltre, un sentito ringraziamento va al Dottor Mathijs Duyck per la sua

disponibilità e per i suoi suggerimenti.

Infine, ringrazio i miei genitori e i miei amici che fin dall’inizio mi hanno sostenuto durante l’intero

percorso dei miei studi e oltre.

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INDICE

INTRODUZIONE ............................................................................................................................................ 6

1. IL RITO IN EPOCA CONTEMPORANEA ...................................................................................................... 10

1.1. MITO E RITO.............................................................................................................................. 11

1.2. RITUALITÀ ................................................................................................................................. 12

1.2.1. RITO ................................................................................................................................ 12

1.2.2. RITUALISMO ...................................................................................................................... 16

1.3. DEMITIZZAZIONE E REMITIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ POSTMODERNA ................................................... 19

1.4. RITUALITÀ IN EPOCA POSTMODERNA ............................................................................................. 22

1.5. CONCLUSIONE INTERMEDIA ......................................................................................................... 24

2. LA MARATONA................................................................................................................................... 25

2.1. LA MARATONA E ‘CORRENTI’ ........................................................................................................ 26

2.1.1. «EMBODIED MIND» ........................................................................................................... 27

2.1.2. LA FILOSOFIA DELLA CORSA .................................................................................................. 31

2.1.2.1. IL PIACERE DEL DOLORE ............................................................................................... 31

2.1.2.1.1. L’AMOR FATI .......................................................................................................... 31

2.1.2.1.2. L’APATIA ............................................................................................................... 32

2.1.3. LA CORSA: NUOVA RELIGIONE ............................................................................................... 33

2.2. PERFORMANCE L’UMILIAZIONE DELLE STELLE: LA MARATONA SUL TAPIS ROULANT ................................. 36

2.3. CONCLUSIONI SULLA PRATICA DELLA MARATONA ............................................................................. 43

3. L’IDENTITÀ AUTENTICA ........................................................................................................................ 45

3.1. L’IDENTITÀ NELL’EPOCA POSTMODERNA ......................................................................................... 45

3.2. RITUALITÀ E RICERCA DELL’IDENTITÀ .............................................................................................. 50

3.3. L’IDENTITÀ NELLA PENTALOGIA ..................................................................................................... 52

3.3.1. LA MARATONA: NARRAZIONE E PERFORMANCE ....................................................................... 54

3.3.1.1. DA A PERDIFIATO A PRIMA DI SPARIRE ........................................................................... 54

3.3.1.2. IL VIAGGIO ................................................................................................................ 55

3.3.1.3. LA VIDEO-PERFORMANCE: THE HUMILIATION OF THE STARS ............................................... 57

3.3.2. GLI ALTER EGO E LA QUESTIONE DELL’IO: RECLAMARE LA PROPRIA ‘IDENTITÀ’ ............................... 59

3.3.2.1. ANGELA .................................................................................................................... 60

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3.3.2.2. RENSICH ................................................................................................................... 65

3.3.3. LA LETTERA ....................................................................................................................... 69

CONCLUSIONE ........................................................................................................................................... 72

BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................ 76

SITOGRAFIA ............................................................................................................................................... 80

Numero di parole: 26.357

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INTRODUZIONE

Non è facile essere se stessi. Non è nemmeno facile non esserlo. Oggigiorno una delle malattie più

diffuse, ma allo stesso tempo probabilmente quella più invisibile è lo spettro di disturbi o malattie

mentali. In epoca postmoderna, sempre più persone vanno in cerca di aiuto o di supporto da uno

psicologo o da uno psichiatra. Secondo il Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e

Promozione della Salute, la percentuale stimata delle persone con una forma di disturbo mentale

ammonta al 20% in Europa.1

Il nostro sentimento di malessere è spesso legato al fatto che non sappiamo più chi siamo

veramente. La società ci chiede di assumere tanti ruoli diversi, finché si ha l’impressione di giocare

sempre la parte di qualcun altro e si ha il sentimento di mentire di continuo e di non essere più fedeli

alla nostra ‘natura’, tanto che sembra che la nostra identità autentica sia andata completamente

persa, o almeno lo si percepisce in modo tale.

Nel 2009 negli Stati Uniti è stata trasmessa una nuova serie televisiva, da un’idea di Steven Spielberg,

intitolata United States of Tara. La protagonista Tara soffre di un disturbo psicologico assai

particolare, ovvero ‘DID’ (Dissociative Identity Disorder)2; una condizione che causa la perdita di

controllo del corpo o meglio dell’identità poiché in certi momenti particolarmente stressanti, Tara (o

meglio la sua personalità dominante) perde il controllo di sé e lascia ‘il posto’ a una delle varie

personalità che si nascondono dentro di lei.

United States of Tara è un esempio della presa di consapevolezza da parte della società

contemporanea della problematicità del concetto di identità, su cui la letteratura contemporanea a

lungo ha riflettuto e ancora riflette, e appunto questo è il tema centrale dell’opera che intendo

studiare in questa tesina.

Tra il 2003 e il 2011, lo scrittore Mauro Covacich, nato nel 1965 a Trieste ha pubblicato A perdifiato

(2003), Fiona (2005), Prima di sparire (2008), la performance L’umiliazione delle stelle (2010) e A

nome tuo (2011) costruendo così non soltanto una sorta di unico romanzo sulla ricerca d’identità

nella società contemporanea. La serie dei testi, ora nota come Pentalogia delle stelle, comincia con

una trilogia, chiamata la trilogia delle stelle, costituita da A perdifiato, Fiona e Prima di sparire. I primi

tre romanzi girano soprattutto intorno al personaggio di Dario Rensich, ex-maratoneta che dopo il

1 Si veda in merito il sito a cura del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute,

URL: http://www.epicentro.iss.it/temi/mentale/mentale.asp, (ultima verifica: 04/03/2014). 2 Prima anche noto come Multiple Personality Disorder (o M.P.D.).

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fallimento della promettente carriera come allenatore di mezzofondiste, si dedica all’arte

performativa.

Dopo la sua trilogia, lo scrittore afferma di non sentirsi più in grado di scrivere in modo

convenzionale, cambia radicalmente metodo e si dedica, come il suo personaggio e alter ego Rensich,

alla performance ripetendo esattamente la performance che Rensich compie sulla pagina letteraria:

corre 42.195 metri su un tapis roulant con attaccati al corpo dei sensori che devono trasmettere i

dati fisici in continuo mutamento su uno schermo per tutta la durata della corsa. Nasce così la

performance dal titolo The humiliation of the stars (2010). Questa “opera di video-lettura”, nella

quale lo scrittore si mette nei panni di Dario Rensich e imita la sua performance, viene seguita da un

ultimo romanzo, A nome tuo, costituito da tre sezioni, ovvero un primo ‘romanzo’ L’umiliazione delle

stelle, un secondo romanzo Musica per aeroporti che in realtà è una riappropriazione da parte dello

scrittore di un romanzo pubblicato nel 2009, Vi perdono, a nome di Angela del Fabbro, e una lettera a

firma della stessa Angela indirizzata all’autore.

Data la mancanza di fonti critiche e di analisi approfondita dell’intero complesso della pentalogia di

Mauro Covacich, lo scopo di questa tesi sarà la spiegazione di alcuni concetti fondamentali attinenti

alla maratona e al legame di essa con la ricerca identitaria che forma il nodo concettuale dell’opera.

Se ne L’umiliazione delle stelle nella pentalogia multimediale di Mauro Covacich3 mi sono soffermato

soprattutto sul concetto filosofico dell’umiliazione delle stelle e sul ruolo della maratona legato a

questo stesso concetto, in questa sede intendo soffermarmi sulla questione della ricerca d’identità.

Anche se il tema dell’identità è stato rilevato varie volte rispetto ai testi di Covacich, tra l’altro da

parte dell’autore stesso, la scarsa critica già esistente ha messo troppo poco in risalto questa

discussione. Occorre quindi ancora sviluppare l’analisi di come Mauro Covacich compie la propria

ricerca non limitando l’analisi alle vicende narrate, ma anche indagando il complesso intreccio di

elementi narrativi che fanno parte della pentalogia e la concezione stessa dell’opera, nonché

prestando attenzione ad alcuni elementi fondamentali come la maratona e l’uso di alter ego in una

narrazione intrecciata con elementi autobiografici, e per certi aspetti autofinzionali.

Nel primo capitolo di questa tesi, intendo fornire un breve resoconto del concetto di rito e del

concetto di mito, mediante una selezione di alcuni approcci teorici tra le diverse teorie sviluppatesi in

quest ambito. Mi baserò soprattutto sulla teoria della cosiddetta ‘Myth and Ritual school’ mettendo

3 VERBEKE WOUTER, L’Umiliazione delle stelle nella pentalogia multimediale di Mauro Covacich: Analisi di un

concetto filosofico, della sua rappresentazione letteraria e delle sue implicazioni sociologiche [tesi di bachelor], inedito, 2012-2013.

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in rilievo le origini di miti e riti, poiché questa scuola, costituita da vari grandi studiosi come Frazer ha

avuto un’influenza maggiore sullo studio di miti e riti e continua ad essere importante.

Poi, attraverso la definizione dei concetti di rito e ritualismo, cercheró di dimostrare che la

performance, quarto elemento della pentalogia, può essere definita un rito contemporaneo a causa

delle sue qualità ritualistiche e nel contesto della ricerca identitaria.

Contestualmente cercheró di affermare la presenza della dimensione mitica, o addirittura ritualistica,

in epoca postmoderna. In questo contesto farò riferimento alle idee di Weber e Benjamin.

Posto questo quadro teorico, nel secondo capitolo proporrò un’analisi approfondita del concetto

della maratona nella pentalogia, rilevando la ritualità e conseguentemente la sua funzione

fondamentale in vista della ricerca della propria identità.

Prenderò in considerazione sia la maratona come attività sportiva ‘quotidiana’, sia la performance

della maratona e le sue implicazioni sulla ritualità della corsa in sé. In tal senso proverò a illustrare

come la maratona possa essere considerata come un rito o una pratica spirituale contemporanea nel

quadro di una remitizzazione e di una nuova ricerca di una dimensione sacra o magica in epoca

postmoderna.

Il testo di riferimento principale mediante il quale analizzerò la pratica della maratona sarà

l’antologia di saggi sulla fenomenologia e sugli aspetti sociologici e filosofici non solo della maratona

ma anche della corsa in generale, edita da Michael W. Austin: Running and Philosophy: A Marathon

for the Mind (2007).

Infine, nell’ultimo capitolo, mi focalizzerò sulla ricerca dell’identità dentro alla pentalogia di Mauro

Covacich. Innanzitutto fornirò un quadro teorico sintetico per quanto riguarda la concezione

dell’identità in epoca postmoderna che appare, appunto, fondamentalmente frantumata o

addirittura persa. In questo terzo capitolo analizzerò la dicotomia tra il ‘Sé’ e l’ ‘Altro’ già trattati da

Simone de Beauvoir in Le deuxième sexe e da Judith Butler, per poi analizzare come la ritualità può

contribuire alla formazione della propria identità. Per finire, mi soffermerò ampiamente sulla

presenza del tema dell’identità nella pentalogia di Covacich, rilevandone gli elementi formativi, ossia

la maratona e la questione degli alter ego che viene chiarita maggiormente mediante l’ultimo

‘romanzo’ A nome tuo.

Nella sua pentalogia, Mauro Covacich non solo espone una crisi identitaria personale attraverso un

processo di creazione letteraria, ma rispecchia la società postmoderna in cerca, nel suo insieme, di

una propria identità persa. La nostra società infatti richiede da ognuno una personalità o identità

stabile e unitaria, la quale viene costruita dall’individuo mediante una performance continua.

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Recitiamo ogni singolo giorno la parte di chi dovremmo essere ma non di chi siamo. Secondo la mia

propria ipotesi la nostra identità, la Verità, va cercato appunto in quella performance e consiste

quindi non solo di quello che siamo, ma anche di quello che apparentemente non siamo.

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1. IL RITO IN EPOCA CONTEMPORANEA

«For me, performance is a holy ground.

When I perform, I really step into

a different state of consciousness.»

- Marina Abramović -

Se si pensa alla mitologia o ai riti, si fa riferimento a tempi molto remoti, primitivi in cui l’uomo

faceva uso di questi mezzi per attribuire un senso alla vita o per spiegare la genesi, ma anche per

determinare il proprio spazio e la propria funzione nel complesso del cosmo. Non si associa invece la

narratività mitica e rituale alle occupazioni razionali dei nostri tempi, della società postmoderna.

Nondimeno vi è sempre ben presente una dimensione mitica e rituale nel mondo in cui viviamo,

anche se non viene più percepita in quanto tale.

In questo primo capitolo, proverò a fornire alcune informazioni per quanto riguarda riti e ritualismo.

Sarebbe troppo ambizioso e inutile voler esporre un riassunto di tutte le teorie e tesi che sono state

formulate nel corso della storia poiché innanzitutto, l’ampiezza di un tale lavoro non sarebbe adatta

a questa sede. Io invece, proverò ad applicare alcuni concetti che ritengo importanti per questo

lavoro nel contesto dell’epoca postmoderna, contemporanea ed alla mentalità che accompagna essa,

dato che la pentalogia di Mauro Covacich si inscrive ampiamente in questa ‘tradizione’. L’ipotesi che

si proporrà in questo capitolo è che la performance della maratona, sia nel senso convenzionale che

quella corsa da Covacich sul tapis roulant, mostri delle qualità rituali determinate dalle caratteristiche

specifiche nonché dal carattere sacrale o religioso di essa. Proverò quindi a dimostrare che la

maratona va interpretata come un rito nel quadro della ricerca dell’identità dello scrittore. In primo

luogo, con l’intenzione di stabilire un legame tra i romanzi e la performance della pentalogia di

Covacich, parlerò del rapporto tra rito e mito. In secondo luogo, mi focalizzerò sulla dimensione

mitica e rituale, sempre presente in quest’epoca, a partire dalle ipotesi di due grandi studiosi, Weber

e Benjamin. Poi proverò a proporre una definizione del concetto di rito e ritualismo al fine di poter

collegare il concetto di rito alla performance della maratona, e più in generale alla pentalogia delle

stelle, di Mauro Covacich. Infine cercherò di dimostrare l’esistenza di una ritualità in epoca

postmoderna e l’utilità di essa. Là dove necessario, porterò degli esempi tratti dalla pentalogia.

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1.1. MITO E RITO

La questione attinente al rapporto tra miti e riti è una questione ampiamente discussa nell’ambito

dello studio mitografico e ritualistico, in tal senso sono state formulate diverse ipotesi, ma nessuna si

è dimostrata decisiva.

Uno degli approcci più diffusi è quello della cosiddetta Myth and Ritual School, fondata da Robertson

Smith e Frazer, ovvero la sezione che si è occupata dello studio della Bibbia e del “ancient Near

Eastern” e in particolare delle religioni fondate sulla messa in scena o sulla ritualizzazione non solo

della morte del re e della sua resurrezione, ma anche della sua ressurrezione come un essere divino,

responsabile del benessere della società. Altri studiosi, sempre appartenenti alla Myth and Ritual

School, hanno invece fondato i loro studi sui riti concernenti il perpetuo ciclo stagionale, che

includono la morte, simbolica o meno, del re.

Secondo questi ultimi i miti derivavano dall’esistenza dei riti e la recitazione dei primi va

necessariamente assieme all’esecuzione dell’atto rituale. In questo contesto vediamo quindi la

prevalenza del rito e la conseguente creazione di una narrazione al fine di supportare le azioni in

questione. Questa teoria si contrappone a quella di studiosi come J.Z. Smith che sostengono che i riti

non siano dotati di significato ma che si tratta di mere azioni.4

Anche Hooke sostiene la prevalenza dei riti sui miti, nel contesto della drammatizzazione del ciclo

stagionale e della morte simbolica del re.5

Sono poi i classicisti della Cambridge University, la seconda sezione della Myth and Ritual School, a

sostenere che la letteratura derivi dai riti antichi, ovvero quelli che implicano il sacrificio del re.

Murray, Conford e Cook, a propria volta, vedono nei riti del re morto che risorge e diventa un dio,

con riferimento ai riti in onore di Dioniso, la fonte del dramma greco antico.6

Per Harrison, i riti possono essere considerati la fonte da cui derivano i miti che, in effetti, non sono

altro che dei ‘correlati’ verbali inferiori alle performance dei riti in questione. Si nota in questo caso

una tendenza in cui i riti diventano meno frequenti, il che permette ai miti costruiti intorno ad essi di

distanziarsene e di svilupparsi autonomamente. Secondo la Myth and Ritual School, questa è la

ragione per cui tanti miti sono sopravvissuti senza l’appoggio del rito che con il tempo scompare.7

4 BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, Oxford, Oxford University Press, 1997, p. 6; SMITH

JONATHAN Z., The Domestication of Sacrifice, in Violent Origins, edited by Robert G. Hamerton-Kelly, Stanford, Stanford University Press, 1987, p. 198. 5 BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., p. 6.

6 Ivi.

7 Ivi.

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12

Invece per altri studiosi, come ad esempio Eliade e altri studiosi critici verso la Myth and Ritual

School, i riti sono soltanto un’elaborazione di miti e simboli e perciò inferiori.8 Loro sostengono

quindi la prevalenza dei miti sui riti e non vice versa come la Myth and Ritual School

Non mi soffermerò sulla questione riguardante la prevalenza del mito o del rito, per questa ricerca

infatti non interessa la precedenza del rito della maratona sulla creazione della narrazione o vice

versa. Assumeremo semplicemente il fatto che esiste un rapporto stretto tra i romanzi, ovvero la

produzione narrativa della pentalogia di Mauro Covacich intesa come momento mitopoietico, e la

performance L’umiliazione delle stelle inteso come rito, per poi indagare l’importanza del rito della

maratona nel complesso dell’intera opera e particolarmente in vista della ricerca dell’identità dello

scrittore.

1.2. RITUALITÀ

Prima di analizzare l’opera di Mauro Covacich e di indicarne gli elementi che si legano alla ritualità,

bisogna comunque affrontare una definizione e un breve resoconto storico di alcuni concetti di base

al fine di poter capire meglio l’importanza, o la rilevanza di questa ricerca.

Nel presente capitolo comincerò appunto dalla definizione dei concetti di rito e di ritualismo,

menzionerò alcuni dei teorici più importanti della ricerca sulla ritualità in vari ambiti accademici e in

alcuni casi accennerò ai luoghi rilevanti nell’opera di Covacich connessi alla teoria esposta.

1.2.1. RITO

Un rito, secondo il dizionario Treccani, è «[i]l complesso di norme che regola lo svolgimento di

un’azione sacrale, le cerimonie di un culto religioso. Suo connotato essenziale è l’imprescindibilità da

un ordinamento preesistente alle singole azioni sacre»9. Tant’è vero che i riti, anche se sono

caratterizzati da una certa dimensione sacrale, non hanno sempre a che fare con la religione, come

vedremo anche dopo. Inoltre, esistono pure delle manifestazioni o dei culti religiosi che non si

possono definire un rito.10

Dal punto di vista etimologico, il termine rito è legato alla religione dei Veda e ne costituisce un

concetto basilare: i riti rappresentano l’ordine ideale che non dovremmo soltanto ritrovare nel

8 Ibidem, pp. 10-11.

9 Enciclopedia Treccani, s.v., “Rito”, URL: http://www.treccani.it/enciclopedia/rito/ (ultima verifica:

03/04/2014). 10

Ivi.

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cosmo, ma che verrebbe assunto da ogni singolo individuo e più in generale dalla società umana.11

Non sono quindi soltanto un rispecchiamento dell’ordine sociale vigente, ma essi stessi hanno

un’influenza sull’ordine.12 Infatti come sostiene Doty: «Il rito è la performance emanata di valori

macrocosmici in modo mesocosmico che realizza i potenziali microcosmici dell’individuo dentro al

suo gruppo sociale»13. Il non rispetto delle regole che costituiscono l’azione sacra del rito potrebbe

portare al fallimento dell’ordine e conseguentemente dell’intera società. Tuttavia, i riti non si trovano

soltanto nella religione vedica, ma in tutte le religioni o più in generale anche al di fuori di esse,

ovvero nel mondo profano.14

A seconda del tipo di rito o della cultura in questione, varie categorie di individui possono essere

presenti o assistere al rito. Si considerano ad esempio i riti iniziatici di alcune tribù che vengono

organizzati soltanto per i maschi o delle tribù in cui esistono riti diversi per uomini e donne. Esistono

poi anche dei riti che possono soltanto essere compiuti solo da individui specifici come sacerdoti, ecc.

Gli esempi sono innumerevoli.15

Si osservano diversi paralleli tra questa descrizione del concetto di rito e la performance della

maratona, sia con la maratona ‘normale’ che con quella di Covacich, corsa sul tapis roulant. Vediamo

in primo luogo la corsa di Covacich. Come ho già accennato prima, la performance dentro il

complesso della pentalogia, significa, secondo lo scrittore stesso, una pausa narrativa, in cui

nondimeno continua a scrivere, ma con il proprio corpo poiché non si sente più in grado di scrivere in

modo convenzionale. È la performance allora che conduce all’ultimo romanzo del complesso, e che

consente di determinare la funzione della performance stessa. Considerato questo movimento di

ritorno dalla crisi della scrittura alla scrittura, la performance della maratona potrebbe essere

considerata un rito di rinascita o di rinnovamento in quanto Mauro Covacich tenta di ritrovare lo

scrittore dentro di sé e perciò ‘se stesso’ visto che l’autorialità fa interamente parte della sua

identità.16 Fuori dalla scrittura e dalla lettura, gli alter ego non hanno modo di esistere, di essere vivi.

11

DOTY WILLIAM G., Mythography: The Study of Myths and Rituals, Tuscaloosa (Ala.), University of Alabama press, 2001, pp. 16-17, 306. 12

Ibidem, p. 315. 13

DOTY WILLIAM G., Mythography: The Study of Myths and Rituals, cit., pp. 312-313. (Traduzione mia). Sono stati Campbell e poi Zuesse a rilevare il carattere mesocosmico di riti. Si vedano: ZUESSE EVAN M., Meditation on Ritual, in Journal of the American Academy of Religion, Vol. 43, N. 3, p. 522. & CAMPBELL JOSEPH, Primitive Mythology, Masks of God, I, New York, Viking, 1959, p. 150. 14

DOTY WILLIAM G., Mythography: The Study of Myths and Rituals, cit., p. 14; Enciclopedia Treccani, s.v., “Rito”, cit. 15

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., pp. 94-102; Enciclopedia Treccani, s.v., “Rito”, cit. 16

Per quanto riguarda la religiosità della maratona, si veda capitolo 2.

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Per quello che riguarda la maratona in senso generale, invece, si può dire che può essere compiuta

da chiunque sia in grado di resistere di fronte alle difficoltà fisiche dalla maratona stessa e che è uno

‘strumento’ che può aiutare il corridore a raggiungere uno stato di coscienza elevato. La maratona,

infatti, implica un’azione fisica, eseguita al fine di cambiare il proprio stato mentale, tanto è vero che

può essere considerata una tecnica di meditazione, come vedremo ampiamente dopo. In generale, e

anticipando quanto spiegherò nel prossimo capitolo, si potrebbe dire che la corsa è caratterizzata da

una qualità catartica.

Anche altri fattori come il tempo e il luogo in cui si svolge, le persone, gli eventuali oggetti che

vengono adoperati ed i costumi, i singoli gesti e le parole che costituiscono il rito, ecc. possono

variare a seconda del rito in questione. Nel nostro caso, ovvero nel rito della maratona presente nella

pentalogia, possiamo osservare che tali fattori hanno un’influenza sul rito stesso. Non si può infatti

ritenere che correre una maratona in un contesto competitivo, all’aria aperta, e correrla su un tapis

roulant con vari sensori e tubetti attaccati al corpo dell’ ‘atleta’ siano una medesima cosa. Le

differenze tra queste due modalità si spiegheranno più avanti (cf. sezione 2.2).

Alcuni studiosi sottolineano il fatto che durante il corso della storia, l’esecuzione di riti sia diminuita o

addirittura sparita.17 Questa tendenza sarebbe una conseguenza del decadimento delle religioni che

si verifica già molto prima dell’epoca moderna. A mio parere, però, la ritualità non è affatto sparita

dalla nostra società; al contrario si sono sviluppati altri tipi di riti che vengono continuamente

inventati e riprodotti, ma che appunto non vengono ancora considerati come tali. Bisogna quindi

interpretare la definizione del concetto di rito in modo più ampio.18

Occorre poi considerare la tipologia dei riti. In base alle azioni ma anche alle parole che in alcuni casi

vengono pronunciate come parte integrante del rito, si possono distinguere diversi tipi di rito. Emile

Durkheim distingue innanzitutto tra riti positivi e negativi. I primi hanno come scopo quello di

«consolidare la coesione del gruppo»19 conciliando la dimensione umana e quella sacra, mentre i riti

negativi mirano a separare la dimensione profana da quella sacra, impostando delle regole, ovvero

restrizioni o tabù.20 In secondo luogo, egli stabilisce una distinzione tra riti magici e riti religiosi, che,

17

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., pp. 5-8. 18

Ibidem, pp. 264-265; Enciclopedia Treccani, s.v., “Rito”, cit. 19

Enciclopedia Treccani, s.v., “Rito”, cit. 20

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., p. 93; DOTY WILLIAM G., Mythography: The Study of Myths and Rituals, cit., pp. 354-357.

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in opposizione a quelli magici, si indirizzano verso esseri superiori, divinità insomma, con lo scopo di

propiziarli e quindi di ottenere i ‘beni’ desiderati.21

Ad esempio, vi sono dei riti di passaggio: una festa come Capodanno ha il carattere di un rito di

passaggio. Ogni anno appunto, i ‘riti’ che vengono eseguiti in questo periodo ci servono a concludere

l’anno e ci aiutano a passare verso una nuova sequenza di tempo che verrà trascorsa preferibilmente

senza troppi contrattempi. Per questo, ci facciamo gli auguri e stabiliamo con noi stessi dei propositi

per l’anno nuovo. Ci dà appunto l’occasione di lasciar indietro un’‘identità’ vecchia e di assumere uno

stato nuovo, di cominciare una nuova vita. Questo tipo di riti coinvolge, secondo la teoria di Van

Gennep, le tre fasi di separazione, di transizione e di incorporazione, che sarebbero perfettamente

applicabili sullo schema della maratona di Covacich, poiché l’esecuzione di essa ci separa dalla

quotidianità inducendo una trance, fa ‘morire’ a causa degli straordinari sforzi fisici e finalmente fa

pure rinascere per via dell’effetto ristorativo. Nel caso di Capodanno, si può quindi dire che si tratta

senza dubbio di un rito moderno, o almeno un rito sopravvissuto in epoca contemporanea. Anche se

non ce ne rendiamo sempre conto, la ritualità è ben presente nella società laica postmoderna.

Un altro esempio moderno che a mio avviso appartiene interamente alla categoria dei riti di

partecipazione – come le preghiere – sono i concerti di musica pop (collegati a un vero culto degli

artisti più popolari).

Per quel che riguarda la maratona, innanzitutto si può dire che l’esecuzione della maratona si

potrebbe definire un rito positivo, nel senso che gli effetti che il compimento di essa induce in colui

che la compie non servono soltanto al soggetto in sé (che arriva ad una maggiore conoscenza di se

stesso), ma anche (conseguentemente) al suo inserimento nella società o nel gruppo poiché per dirlo

con un cliché: per conoscere gli altri, bisogna prima conoscere se stesso. Infatti, la maratona,

trasponendo un’armonia macrocosmica al livello microcosmico, porta a capire meglio la propria

posizione nella società e nel cosmo e aiuta ad istituire una collaborazione umana nonché alla

lubrificazione del meccanismo sociale.

In un certo senso, correndo la maratona, ci si rivolge ad un ‘essere’ superiore, ad una dimensione di

sé in qualche misura sacrale, perché si prova a superare i limiti della vita umana stessa. Sarebbe però

difficile parlare di un rito religioso, soprattutto in un tempo nel quale la religiosità sta scomparendo,

la difficoltà sta quindi nel termine ‘religioso’ stesso, per cui vorrei proporre il termine rito ‘sacrale’ o

meglio ancora: rito di sacralità.

21

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., pp. 47, 93.

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1.2.2. RITUALISMO

Ritualismo è un termine che si usa nell’antropologia culturale e per il quale si intende la «tendenza

che porta a conformare i comportamenti umani a norme culturali di valore essenzialmente simbolico,

osservandone il significato tradizionale ma anche adeguandole con scrupolo ai più nuovi e diversi

contesti»22. Il ritualismo, quindi, si collega alla ritualizzazione, che «è, infatti, l’adeguamento ripetitivo

e formale di ogni azione umana alle regole definite, mentre il rito ne è lo svolgimento effettivo»23. Si

tratta di un modo di agire che diverge dagli atti comuni, un agire hors du commun.

Non esiste una società che sia priva di ritualismo poiché esso fa inerentemente parte della cultura

umana. I modi in cui si manifesta il ritualismo possono tuttavia divergere tra di loro, a seconda della

cultura, ma presentano nondimeno delle caratteristiche universali e costanti.24

Sostenere che il ritualismo si verifichi soltanto in un contesto religioso o in ambito spirituale, come ha

proposto Emile Durkheim, sarebbe una premessa sbagliata poiché la netta distinzione tra ambito

profano e sacro di Durkheim, ormai, non viene più accettata. Rimane tuttavia interessante la sua

ipotesi (che corrisponde a quella di inter alia Frazer, Freud e Robertson Smith) che il concetto del

sacro sarebbe «derivato dall’esperienza individuale dei totem, oggetto di culto e nello stesso tempo

simbolo dei clan»25.

L’interesse per il ritualismo da parte degli antropologhi ha conosciuto uno slancio dopo la Seconda

guerra mondiale con lo studio delle immense manifestazioni, organizzate dai regimi totalitari e

destinate ad incitare ed entusiasmare le grandi masse popolari. Queste manifestazioni, costruite e

programmate sin nei dettagli e quindi di grande effetto e atti ad incantare le masse, hanno infatti

attirato tante persone ad aderire ai regimi totalitaristi (si pensi al fascismo, al nazismo o al

comunismo sovietico o cinese) e quindi ad aumentare il potere di regimi dittatoriali. Questo fatto

dimostra chiaramente che il ritualismo è sempre presente, anche in epoca recente, e che assume un

carattere laico, ossia non più collegato a un credo religioso ma a un credo politico.

Ho già accennato alla crisi delle religioni nel mondo contemporaneo e al vuoto lasciato rispetto alla

funzione che esse assolvono. Tant’è vero che il bisogno del ritualismo che caratterizza la religiosità

non è scomparso e deve allora essere compensato da altre istanze o da altre pratiche. L’essere

umano ha da sempre bisogno di ‘luoghi e momenti di culto’, per cui il ricorso a pratiche alternative

22

SMITH GREGORY, Ritualismo, in: Enciclopedia Treccani, URL: http://www.treccani.it/enciclopedia/ritualismo _(Enciclopedia_Italiana)/, (ultima verifica: 04/04/2014). 23

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., p. 81; SMITH GREGORY, Ritualismo, cit. (corsivo nel testo originale). 24

SMITH GREGORY, Ritualismo, cit. 25

Ivi.

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sembra una rinascita di un tempo antico e pagano, un mondo organizzato da miti e riti, una vera e

propria remitizzazione o reritualizzazione.26 Come spiegherò nel capitolo secondo anche la maratona

può essere definita una ‘liturgia laica’ proprio perché sopperisce al bisogno contemporaneo di

ritualità e spiritualità.

In tempi moderni, appunto dopo le grandi guerre, tante ricerche sono state compiute sulla

dimensione rituale come fattore caratteristico della politica ma anche sul ritualismo come fenomeno

culturale. L’antropologo americano D. Kertzer, ad esempio, è tra coloro che si sono mossi in questa

direzione27 e ha proposto l’idea che una delle maggiori funzioni, o anzi meriti, del ritualismo è il fatto

che procura o genera un effetto rassicurante (anche questo, lo vedremo, accade anche per la

maratona o la corsa), che aiuta a sopportare l’instabilità della vita umana e a sentirci meglio. Tutto

questo grazie alla ripetitività della ritualità e alla sua atemporalità nonché al suo simbolismo,

interpretabili in vari modi e perciò potenti strumenti per la rappresentazione sintetica della nostra

vita o di passaggi di essa.28

Vi sono varie tipologie di ritualismo, come il ritualismo della morte o del regicidio descritto, come

detto, tra l’altro, da Frazer e dalla Myth & Ritual School.29 Non li possiamo trattare tutti in questa

sede e non tutti sono di particolare interesse per questa ricerca. Un tipo che però merita la nostra

attenzione è il ritualismo iniziatico, perché è interessante nel contesto della maratona di

Rensich/Covacich.

In molte culture – e di fatto anche nella nostra – il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta è

segnato da vari tipi di riti o culti perché questo passaggio è ritenuto fondamentale nella vita umana.

Questi riti devono, per così dire, aiutarci a uccidere il fanciullo dentro di noi per poter far nascere un

individuo adulto. «La vita stessa,» argomenta Arnold van Gennep «significa [...] morire e rinascere»30.

Non è una questione meramente fisica, ma si tratta soprattutto di un tipo di maturazione sul piano

sociale. Si tratta di un cambiamento della propria identità: un passaggio da uno stato di coscienza ad

una nuova condizione, uno statuto più elevato. Il passaggio all’età adulta è accompagnato da nuovi

diritti, ma anche da una responsabilità maggiore e dal distacco dai genitori.31

Come tutti i momenti importanti nella vita umana (pensiamo, a mo’ d’esempio, alla nascita, il

matrimonio, ecc.) il passaggio dalla fanciullezza o dall’adolescenza all’età adulta viene celebrato in

26

Ivi. 27

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., p. 133; DOTY WILLIAM G., Mythography: The Study of Myths and Rituals, cit., p. 372. 28

DOTY WILLIAM G., Mythography: The Study of Myths and Rituals, cit., p. 345; SMITH GREGORY, Ritualismo, cit. 29

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., pp. 5-8; SMITH GREGORY, Ritualismo, cit. 30

VAN GENNEP ARNOLD, The Rites of Passage, Chicago, The University Press of Chicago, 1966, p. 189. 31

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., pp. 94-102; SMITH GREGORY, Ritualismo, cit.

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ogni società umana, il che include, come ogni celebrazione d’altronde, un grado alto di ritualismo. È

stato Arnold van Gennep, antropologo francese, a proporre un modello di analisi dei riti di passaggio.

Van Gennep distingue tre fasi fondamentali che caratterizzano questo tipo di riti32: la prima fase è

l’«abbandono, o morte, dello stato iniziale»33 anche nota come fase di separazione, ovvero quando si

passa al tempo e lo spazio sacri, ad una sorta di trance. Va da sé che la transizione verso un nuovo

stato implica l’abbandono di quello iniziale poiché il contrario implicherebbe una realizzazione

soltanto parziale della definizione del verbo ‘transire’. In secondo luogo, poi, Van Gennep nota una

fase di transizione, una «condizione liminare dei candidati in un periodo in cui apprendono le

tradizioni e le norme della vita sociale»34. Il passaggio da un’età all’altra va abbinato infatti con un

periodo, più o meno lungo, dipendente dalla cultura in questione, in cui si assegna al non-iniziato il

tempo di imparare e di acquisire le conoscenze, tra cui le tradizioni proprie alla cultura in questione,

delle quali avrà bisogno dopo la transizione. In alcune culture i giovani vengono isolati dal resto del

clan, e tale separazione è parte integrante dell’iniziazione, affinché possano ‘crescere’. Dopo queste

fasi, vi è l’«acquisizione del nuovo stato, o resurrezione, dell’uomo nuovo»35, o la fase di

incorporazione che è l’ultima fase dell’iniziazione.36 Smith riassume: «E, in realtà, la paura del dolore

fisico accompagna l’esaltazione che anima i candidati alla vigilia della prova, in una cornice di

isolamento e di segregazione comunitaria, dalla quale usciranno adulti. Il raggiungimento della

maturità non è, quindi, un passaggio agevole, ma una conquista culturale e psicologica che segna una

cesura profonda nella vita di ogni individuo e che ha proprio nel suo complesso ritualistico la cornice

sociale di legittimazione e di promozione sociale.»37

A mio avviso, gli elementi di questa descrizione si possono nuovamente applicare alla maratona, ma

anche ad altri aspetti dei romanzi di Covacich, come proverò a dimostrare più avanti. Questi aspetti,

però, come vedremo, non hanno a che fare con la transizione che porta verso l’età adulta, ma

piuttosto con stati di coscienza o di saggezza, che oggigiorno si devono rinnovare tanto spesso

quanto possibile.

In questo contesto si può ulteriormente stabilire un legame con la maratona. Infatti, la maratona è

un processo ristorativo che, come il rito iniziatico, implica un certo grado di dolore fisico e durante il

quale si muore nel senso figurativo del verbo, proprio a causa degli sforzi che si devono compiere. Il

non-tempo e non-luogo della maratona rappresentano un lasso di tempo in cui il maratoneta

‘impara’ qualcosa (di sé stesso in primo luogo) e rinasce.

32

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., pp. 95, 101; DOTY WILLIAM G., Mythography: The Study of Myths and Rituals, cit., pp. 268, 351-352. 33

SMITH GREGORY, Ritualismo, cit. 34

Ivi. 35

Ivi. 36

DOTY WILLIAM G., Mythography: The Study of Myths and Rituals, cit., pp. 351-352. 37

SMITH GREGORY, Ritualismo, cit.

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Un elemento presente nella pentalogia di Mauro Covacich che, come vedremo, si collega alla

maratona e che fin qua non ho ancora menzionato e che in questo contesto è particolarmente

rilevante per quanto riguarda il concetto di tempo e di spazio, è il viaggio in barca, elemento

fondamentale della narrazione nell’ultimo romanzo della pentalogia, A nome tuo. La barca è

un’immagine o una metafora fondamentale, un topos letterario per indicare una transizione nella

vita; si pensi ad esempio a Ulisse. Viaggiando in barca, ci si allontana dal punto o dallo stato di

partenza. Il tempo del viaggio rispecchia di per sé un tempo di riflessione, il che permette al

‘viaggiatore’ di arrivare e di cambiare al tempo stesso ma anche la maratona stessa può essere

considerata un viaggio, sia in senso proprio, perché implica uno spostamento nel tempo e nello

spazio, sia in senso figurato, perché implica il passaggio attraverso stati di coscienza diversa e quindi

una cambiamento intimo del soggetto che corre.

1.3. DEMITIZZAZIONE E REMITIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ POSTMODERNA

L’inizio della modernità è accompagnato da una tendenza all’affermazione della razionalità come

valore fondamentale e da grandi cambiamenti dal punto di vista personale e privato, il che determina

delle conseguenze rilevanti sul comportamento e prima ancora sull’identità dell’individuo. Si tratta di

una tendenza già presente in epoca moderna ma che si sviluppa nel corso della transizione che

conduce verso la postmodernità. Culla di questo nuovo comportamento è senza’altro la città.

Il primo scrittore a descrivere il concetto di modernità, della società moderna, e a definirla nel saggio

Le Peintre de la vie moderne (1859), è stato Baudelaire che afferma che la «[m]odernità è il

transitorio, il fugace, il contingente; è l’una metà dell’arte, l’altro essendo l’eterno e l’immobile»38. La

modernità, dice Baudelaire, è l’epoca della transitorietà e della fugacità, ovvero l’epoca in cui sono

state distrutte tutte le tradizioni, destinate a dare ordine alla vita umana, ovvero quelle che

sembravano fortemente stabilite e che invece vengono messe in discussione poiché basate su miti e

perciò di per sé false. Su posizioni analoghe si colloca anche Marx nel manifesto del Comunismo.39

Secondo il poeta Whitehead, inoltre, – come sostiene Keunen – la vita nella città moderna, che si

trovava sempre in un flusso di metamorfosi, è caratterizzata da un sentimento doppio e

contraddittorio, ovvero da un lato dal sentimento di ansia e di panico e dall’altro lato da un estremo

fascino, insomma una sorta di mysterium tremendum et fascinans. A causa della razionalizzazione

della vita moderna e della perdita di religiosità, l’uomo moderno è costretto ad inventare i propri

38

BAUDELAIRE CHARLES, Baudelaire: Selected Writings on Art and Artists, trad. P.E. Charvet, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, p. 420. (Traduzione mia). 39

KEUNEN BART, Urban Imagery between Enchantment and Disenchantment. Diagnostics of Modernity in the Urban Novel [paper convegno], Convegno Imagining Places/Spaces, Helsinki, 25 agosto 2011, pp 29, 32-33.

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‘miti’ per poter affrontare il nuovo modo di vivere e il caos della città moderna. Ancora oggi, la

letteratura, così come le altre forme artistiche, come quella della performance della maratona in

Covacich, hanno come scopo quello di fungere da microrappresentazione della vita umana, del caos

di essa, insegnando come si può capire e quindi affrontare il mondo in cui ci troviamo.40

Questo perché le opere letterarie, e in generale le opere artistiche, ci aiutano ad astrarre la

complessità del mondo e della società in cui viviamo, e a renderli meno complessi, più accessibili

proprio perché li spiegano in termini più chiari. Lo scopo della letteratura e dell’arte è di ridurre il

rischio di disorientamento che corriamo (spesso inconsapevolmente), in quanto uomini moderni,

esposti a stimoli costanti e diversificati come mai prima e ad una moltitudine di sollecitazioni.

Come ho già accennato le grandi città si prestano particolarmente alla rappresentazione di

esperienze collettive e di condizioni sociali e sono anche i luoghi nei quali le implicazioni della

modernità si sono sentite per prima e con maggiore intensità. Nella società contemporanea però, la

città non è solo un oggetto di studio ma è un costituente fondamentale della quotidianità stessa.

Questo fatto, ovvero l’uguaglianza tra la vita moderna e il caos della città, con tutte le sue

caratteristiche (iper presenza di stimoli, rapporti umani che si moltiplicano e diventano molto più

superficiali, ecc.), fa emergere sempre di più il rischio di perdere se stessi. Ciò perché si registra

all’inizio dell’età moderna una fuga verso l’esterno, un aprirsi e un esporsi dello spazio privato, per

cui, ad esempio i pittori impressionisti rappresentano scene di massa come specchio dello Zeitgeist e

nel tempo libero la gente non resta più all’interno, nell’anonimità della propria casa ma esce, si

mostra e attraversa la città, dando vita alle figure emblematiche del flâneur o del dandy, che

trasforma la propria vita in un’ opera artistica ed è figlio di una cultura del vedere e dell’essere visto,

del guardare e del farsi notare.

Quando questa tendenza comincia ad estremizzarsi e conseguentemente ad indurre un movimento

inverso alcuni trovano una via d’uscita, o di salvezza, in un atteggiamento cinico, individualista,

riservato, mentre altri ‘perdono’ se stessi nella nuova dimensione collettiva metropolitana.

Max Weber, sulle orme di Georg Simmel, analizza proprio le implicazioni dei cambiamenti registrati

dallo stile di vita nella modernità. Proprio Weber rileva il fatto che l’epoca moderna è caratterizzata

da un processo razionalizzante e di per sé demitizzante. Le centinaia d’impiegati, seduti in una

grande sala eppure tanto solitari nell’anonimato della massa, sono scene paradigmatiche di questo

mondo demitizzato, dominato dalle ragioni dell’economia e dalla burocratizzazione, la cosiddetta

«Entzauberung der Welt» per dirlo con Weber.

40

Ibidem, p. 29.

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21

Qui comincia la pressione sociale, ossia la necessità di dover continuamente affrontare della

‘performance’ ossia di dover superare delle prove, dimostrare le proprie capacità e soprattutto di

superare gli altri.

Secondo Weber, quindi, a causa della razionalizzazione e dell’individualizzazione della società,

l’esperienza collettiva dei riti nonché la dimensione magica della natura e in generale, il vivere in

armonia con la natura stessa, sono andati persi a vantaggio di atteggiamenti iperindividualizzati e

concentrati sulla autorealizzazione e sulla affermazione di sé.

Diversamente da Weber – e altri dopo di lui – per i quali la modernizzazione della società va di pari

passo con la demitizzazione di essa, Walter Benjamin sostiene il contrario analizzando il modo in cui

l’uomo partecipa ad altre e nuove forme di ‘magia’, culto o ritualità dell’epoca moderna.

Benjamin costata che con il passaggio all’età modernista, anche l’oggetto di culto cambia

radicalmente, ovvero, non è più la natura ad essere idolatrata, ma lo stile di vivere moderno in sé.

Per poter sopravvivere in un mondo diventato estremamente complesso, come quello della

modernità, l’uomo doveva cercare delle strategie estetiche di resistenza, che Benjamin individua

nella fantasmagoria, che in qualche misura ricompone i frammenti del mondo percepito. Le strategie

estetiche di ‘reazione’ possono avere volti diversi, nella pentalogia Covacich ne individua una nella

maratona, che viene appunto definita una pratica estetica:

Vorrei dire: La maratona è un’arte marziale. Chi la corre compie una scelta estetica, non

una sportiva. Lo sport non c’entra niente.41

La modernità non è quindi solo caratterizzata dalla sparizione di forme di pensiero mitiche, ma anche

dall’emersione di nuove forme che potrebbero essere chiamate mitiche, come afferma Benjamin,

che sono una ripercussione di questa tendenza razionalizzante.42 Questa tendenza contraddittoria

della modernità, ovvero la nuova presenza di una dimensione mitica, la si trova pure nei romanzi di

Covacich, rappresentata tra l’altro dalla presenza della performance.

In The Philosophy of Symbolic Forms Cassirer dà l’esempio di un rito, effettuato da uno sciamano,

finalizzato a evocare la pioggia (una danza della pioggia): per ottenere l’effetto desiderato lo

sciamano versa dell’acqua e prova in questo modo a creare un equilibrio tra macrocosmo e

microcosmo. Cassirer ritiene che non si tratti di una mera rappresentazione o di uno strumento che

41

COVACICH MAURO, A perdifiato, Torino, Einaudi, 2005, p. 26. 42

KEUNEN BART, Urban Imagery between Enchantment and Disenchantment. Diagnostics of Modernity in the Urban Novel, cit., p. 35.

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22

potrebbe influenzare la natura e indurre una precipitazione, ma di un uso per così dire metonimico

«poiché entrambi sono abitati dalla stessa forza o spirito»43.

A mio parere, la maratona in epoca moderna compie una funzione simile a quella dell’acqua versata

dallo sciamano. Se versare l’acqua doveva indurre la pioggia, la maratona, che consiste in un

movimento spaziale e fisico nonché temporale, ha come funzione quella di indurre un movimento

mentale, ovvero un cambiamento della personalità del corridore, e una sorta di maturazione

accellerata. Quando Covacich dichiara che correndo, sia il corpo che la mente si uniscono e

diventano un embodied mind, il corpo entra in una sorta di stato elevato di cui si ha bisogna al fine di

ottenere una maggiore conoscenza del sé. Alla maratona viene quindi anche attribuita una funzione

spirituale, ovvero il correre, il compiere una maratona eleva colui che la corre verso uno stato

mentale e spirituale elevato.

Il tempo e anche lo spazio trascorsi durante la maratona, o il correre in generale, vengono associati

con la ‘strada’ che percorriamo durante la vita. Per capirsi meglio o per trovare delle soluzioni ai

nostri problemi, bisogna percorrere una certa distanza, figurata, il che richiede un certo lasso di

tempo. Metaforicamente la maratona rappresenta quindi il cammino dell’esistenza.

1.4. RITUALITÀ IN EPOCA POSTMODERNA

Per riassumere alcuni dei concetti che ho affrontato si può dire che la quantità di riti in epoca

postmoderna è ridotta e che questa ‘demitizzazione’ come Weber l’avrebbe chiamata, o

‘deritualizzazione’ della società contemporanea contribuisce a far sorgere sentimenti di ansia, di

turbamento, o un sentimento di disorientamento, poiché l’uomo postmoderno non gode più degli

effetti strutturanti che i riti possono indurre.44 Tuttavia, la nostra società non è sprovvista del tutto di

ritualità, ma i riti di oggi sono di ordine diverso rispetto a quelli antichi, e forse non meno efficaci.

Oggigiorno, l’essere umano dimostra di essere continuamente in cerca di riti per poter attribuire un

senso alla vita perciò anche gli aspetti o le azioni più ‘normali’ della vita quotidiana possono essere

soggetti ad un processo di ritualizzazione, senza però che vengano percepiti in quanto riti.45

Secondo Eliade il fatto che la cultura occidentale attuale è stata soggetta ad un processo di

desacralizzazione può essere la causa del fatto che la nostra esistenza viene percepita come

superficiale e vuota. L’uomo ‘profano’ (senza religione istituzionalizzata) non ha bisogno di una

dimensione rituale, o sacrale se si vuole, tuttavia anche chi non ha una fede vera e propria mostra

43

CASSIRER ERNST, The Philosophy of Symbolic Forms. Vol. 3: The Phenomenology of Knowledge, New Haven (CT), Yale University Press, 1965, p. 49. 44

DOTY WILLIAM G., Mythography: The Study of Myths and Rituals, cit., p. 171. 45

BELL CATHERINE, Ritual: Perspectives and Dimensions, cit., pp. 264-265.

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un’attitudine che non devia di tanto da quella dei devoti. Ogni essere umano, infatti, sperimenta

delle esperienze di vita universali, ad esempio la nascita e la morte che ci fanno rendere conto che

siamo vincolati da limiti assoluti e che non siamo immortali. L’essere umano deve continuamente

collocare sé stesso rispetto al ciclo della vita per capire quale posto occupa nel cosmo. Come l’uomo

religioso, quindi, anche il profano ha bisogno di processi rituali, di «rinnovamento e rinascita»46, al

fine di poter sospendere il flusso della vita quotidiana e vivere esperienze che lo aiutano a dare un

senso alla propria esistenza. Come vedremo nel prossimo capitolo, la maratona, o la corsa in

generale può essere uno di questi riti laici che procurano un sentimento di rinascita. Anche un gesto

‘profano’ come la corsa può infatti generare una dimensione paragonabile a quella sacra.

L’incontrarsi dei runner che corrono insieme per un certo lasso di tempo con lo scopo di ottenere dei

benefici fisici e mentali individuali ma anche per condividere questa esperienza e le loro riflessioni,

assomiglia molto all’incontrarsi dei religiosi in Chiesa per celebrare la propria fede.

Questa riflessione evidenzia due aspetti fondamentali che tutti i riti hanno in comune, quelli sacri e

quelli profani, ovvero il fatto che mediante il gesto rituale, vengono creati un tempo e uno spazio

sacri, che consentono all’individuo di ‘fuggire’ o uscire dal tempo e dallo spazio normali.

Eliade sostiene che i riti sono senza eccezione delle ‘ricostruzioni’, delle rievocazioni di certi atti che

gli dei hanno compiuto in un passato primordiale, l’Eucaristia, ad esempio, rievoca l’Ultima cena di

Cristo con gli apostoli e significa per il fedele un modo di rivivere quel momento sacro. Si tratta di una

memoria ritualizzata che ha il potere di connettere i ‘performer’ del rito all’essere divino e tra di loro.

Nel caso della nostra società si pensa alle celebrazioni del Nuovo Anno, al carnevale, o al giorno dei

morti, ma anche alla celebrazione del giorno di indipendenza di tanti stati, ecc. L’uomo

contemporaneo è forse meno consapevole del fatto che sta eseguendo degli atti rituali e tuttavia lo

sta facendo. Sempre secondo Eliade, il rievocare di questi momenti sacri delle origini – e, possiamo

aggiungere, per estensione, la rievocazione rituale di eventi profani come quelli elencati – traspone

nel presente un certo grado di sacralità e perciò crea un tempo sacro nel hic et nunc del rito

contemporaneo.47

Il lettore della pentalogia covaciana si ricorderà del fatto che Rensich, correndo la maratona, imita o

cerca di imitare le stelle, ossia delle entità che – secondo la cultura classica – dispongono di un grado

maggiore di perfezione rispetto all’uomo e che si avvicinano alla divinità. In questo senso l’atto della

46

MCKAY BRETT & MCKAY KATE, The Power of Ritual: The Creation of Sacred Time and Space in a Profane World, 19 dic. 2013, URL: http://www.artofmanliness.com/2013/12/19/the-power-of-ritual-the-creation-of-sacred-time-and-space-in-a-profane-world/. (ultima verifica: 02/05/2014). 47

ELIADE MIRCEA, The Sacred and the Profane: The Nature of Religion, trad. Willard R. Trask, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1959, pp. 99-100.

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corsa acquisterebbe la medesima valenza dei riti sacri, in quanto imitazione di un atto che ha un

carattere divino.

In secondo luogo vi è lo spazio sacro del rito, che nelle religioni tradizionali è rappresentato dalle

chiese, dai templi, dalle moschee, ecc. e che diminuisce il gap tra il mondo degli esseri umani e quello

trascendentale. Attraversare la soglia verso il sacro significa lasciare alle spalle il profano, il

quotidiano. Se si prende in considerazione il rito della corsa, non si vede soltanto uno spazio sacro

rappresentato dal suolo su cui il corridore mette piede, ma anche dal punto di vista mentale. La

maratona, come vedremo nel prossimo capitolo, offre a colui che la corre la possibilità di trascendere

il proprio spazio mentale, inducendo uno stato di trance o di meditazione.

I riti non sono soltanto un modo per ottenere dei cambiamenti psicologici o spirituali, ma rendono

tali processi anche più percepibili e tangibili. La concretezza e la ‘materialità’ reale dell’atto rituale

forniscono all’uomo uno strumento poiché si collegano a un ‘ricordo’ fisico dell’atto e degli effetti

dell’atto stesso, nonché della situazione e della ragione che hanno provocato l’istituzione del rito in

questione.

Perciò, abbiamo bisogno di certi riti, come appunto la maratona, al fine di poter suscitare e ratificare

i cambiamenti voluti attinenti alla nostra identità. Poi, il continuo rinnovare o ripetere i riti come la

maratona ci aiuta a ricordarci dei nostri scopi, di quello che vorremmo ancora realizzare e di ciò che

vorremmo essere. Questi riti ci aiutano a non perdere di vista sia i nostri ideali sia noi stessi nella

veloce fuga della vita postmoderna o contemporanea.

1.5. CONCLUSIONE INTERMEDIA

In sintesi, sia i miti che i riti non sono scomparsi dalla nostra società, al contrario, anche se è possibile

parlare di demitizzazione in epoca moderna, come sostiene Weber, ciò è vero nel senso religioso

tradizionale del termine, ma bisogna considerare dall’altro lato la remitizzazione della società stessa

in termini non sacri ma profani, ossia il fatto che vi è presente una dimensione mitica, legata ai

fenomeni del tempo.

Nel prossimo capitolo analizzerò la dimensione ritualistica, e perciò la dimensione del pensiero mitico

contemporaneo, applicate sulla pentalogia di Covacich, in quanto espressione dell’epoca

postmoderna e soprattutto mi concentrerò sulla performance e sulla questione degli alter ego

autoriali.

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25

2. LA MARATONA

«I think running is wrong unless professionally or as a child.»

- Miranda Hart, Miranda -

Nel mezzo del terzo romanzo del ciclo delle stelle, Prima di sparire, Mauro Covacich ci fornisce un

indizio del processo di realizzazione della cosiddetta trilogia delle stelle:

Ogni tanto capita che una parola catturi la mia attenzione, allora riprendo il brano

dall’inizio. Come qui, ad esempio: running, always running. “The very etymology of the

word ether (aethere, etere) is derived from ʾαείϑεῖν, always running”. L’etere, il quinto

elemento, l’infinito incorporeo in cui girano le stelle, etimologicamente significa sempre

in corsa. Potrebbe servirmi. Etere, uomo stella, sempre in corsa, annoto sul taccuino. Lo

scriverò mai, questo romanzo?48

Attraverso questo brano metanarrativo lo scrittore distende il filo rosso della sua opera, ovvero il

legame inderogabile tra la corsa, o la maratona, e il concetto filosofico dell’umiliazione delle stelle49 e

insieme porta all’attenzione del lettore un elemento cosmologico, che scopre mediante il proprio

studio delle teorie relative alla cosmologia antica. L’etimologia e il significato del termine aethere o

etere, quinto elemento che disegna, insomma, gli esseri astrali, o semplicemente le stelle, di cui si

parla nei romanzi di Covacich soprattutto attraverso il personaggio di Alberto, amico di Rensich e

professore di filosofia, deriva dal greco e significa appunto ‘sempre in corsa’. La scelta della maratona

come allegoria emblematica del movimento delle stelle trasposto sull’essere sublunare, l’uomo, non

è quindi arbitraria. Le condizioni del maratoneta e quelle delle stelle appaiono essere molto simili. Il

maratoneta, muovendosi a quanto pare perpetuamente verso una meta indistinta, diventa una stella

e parallelamente, affronta la stessa umiliazione. «La maratona pare essere la metafora per eccellenza

48

COVACICH MAURO, Prima di sparire, Torino, Einaudi, 2008, p. 176. 49

Per un’analisi approfondito in merito al concetto dell’umiliazione delle stelle, che è uno dei maggiori fili conduttori nella pentalogia di Covacich, si veda: VERBEKE WOUTER, L’Umiliazione delle stelle nella pentalogia multimediale di Mauro Covacich: Analisi di un concetto filosofico, della sua rappresentazione letteraria e delle sue implicazioni sociologiche, cit. Alla fine del primo romanzo A perdifiato Covacich scrive : «L’umiliazione delle stelle è una teoria più complessa di come appaia nel romanzo. A parlarmene è stato Andrea Falcon in uno dei nostri Lunghi. Il suo saggio sulla cosmologia aristotelica (Corpi e movimenti, Bibliopolis 2001) spiega tutto molto meglio.» (COVACHICH MAURO, A perdifiato, cit., p. 335.). Il concetto dell’umiliazione delle stelle, in verità, appare una sola volta in tutto il libro, in una nota a piè di pagina senza, dunque, che venga eposto nel dettaglio o tematizzato: «Tra le critiche che Plotino muove agli gnostici vi è anche quella di considerare l’anima dell’uomo superiore a quella degli astri. Cfr. soprattutto Plot. II 9. 5. 8-16, e II 9. 8. 30-39. L’esaltazione dell’uomo e la corrispondente “umiliazione degli astri” è per Plotino segno di stoltezza e di ignoranza.» Si veda: FALCON ANDREA, Corpi e movimenti. Il De caelo di Aristotele e la sua fortuna nel mondo antico, Napoli, Bibliopolis, 2001, p. 211 n. 42.

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per rappresentare il concetto dell’umiliazione delle stelle poiché rappresenta l’incessante e

instancabile ricerca o inseguimento di perfezione e perfetta conoscenza di sé, ovvero quella ricerca

perpetua tipica dell’essere umano che termina inevitabilmente nell’umiliazione»50.

Nel contesto della tesi del bachelor, ho già svolto una prima analisi della maratona che mirava

appunto al chiarimento del concetto filosofico dell’umiliazione delle stelle. In questo capitolo fornirò

un analisi più approfondita, tenendo conto di nuovi elementi e focalizzandomi sulla ritualità della

performance, nonché sulle implicazioni di questa ritualità in relazione alla corsa.

Occorre prima differenziare nettamente tra le due tipologie di maratona che sono presenti nella

pentalogia, ossia in primo luogo la maratona ‘tradizionale’ come la conosciamo tutti, corsa da

Rensich e altri personaggi e in secondo luogo, la maratona performativa corsa sul tapis roulant.

Quindi, a differenza della tesi precedente, mi occuperò non solo della sociologia e filosofia della

maratona, ma proporrò anche un’analisi approfondita della maratona, e delle sue tipologie, o della

corsa in generale, come rappresentata da Covacich.

2.1. LA MARATONA E ‘CORRENTI’

Ne L’Umiliazione delle stelle nella pentalogia multimediale di Mauro Covacich, ho accennato al fatto

che, negli ultimi anni, la corsa ha guadagnato un enorme successo e sempre più persone hanno

cominciato a correre al fine di apportare un cambiamento sostanziale nella loro vita.51 L’immensa

quantità di informazioni sulla corsa, come riviste sulla maratona o veri e propri manualetti d’uso su

come correre, dei programmi televisivi lifestyle che presentano la corsa come il modo per eccellenza

per ‘ottenere’ – come se andasse da sé – una vita più sana, dimostrano che non si tratta soltanto di

un capriccio di moda ma di un consistente trend proprio della nostra epoca fuggitiva.52

Il fatto che è la corsa ad essere così in voga e che Covacich ha scelto la maratona come concetto che

funge da pivot per la narrazione, e non un altro sport, ha a che fare con le sue particolari qualità, che

scruterò qui di seguito.

Il correre, e in particolare la corsa a lunga distanza o la maratona, è caratterizzato da una qualità

specifica della quale altri sport non dispongono, almeno non nella stessa misura. La maratona, dice

Mauro Covacich stesso nei suoi libri, non ha niente a che fare con lo sport. Si tratta invece di un atto

puramente estetico. Con questo punto di vista, il personaggio Rensich nel primo romanzo della

pentalogia, A perdifiato, propone una descrizione ‘dell’arte’ della maratona alle sue allieve:

50

VERBEKE WOUTER, L’Umiliazione delle stelle nella pentalogia multimediale di Mauro Covacich, cit., p. 33. 51

Ibidem, p. 23. 52

Ivi.

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27

Vorrei dire: La maratona è un’arte marziale. Chi la corre compie una scelta estetica, non

una sportiva. Lo sport non c’entra niente. Vorrei dire: Resistere alla piú alta velocità

possibile per una strada cosí lunga è la cosa piú bella che una mente umana possa

produrre.53

Secondo questa stessa prospettiva, lo studioso Reed, in Existential Running, sostiene che la

maratona, o appunto la corsa, è probabilmente l’unico sport che si trova in un rapporto indissolubile

con la filosofia poiché l’aspetto fondamentale e prevalente di questa attività, come dimostra anche

Sheenan in Dr. Sheenan on Running, è il dolore.54

Il dolore ci fa appunto comprendere che siamo vivi e che il nostro corpo, o la nostra fisicità,

costituisce una parte preponderante della vita umana. Attraverso il dolore, ci rendiamo conto che – e

questa sarà una riflessione importante per quello che segue – tutta la nostra vita, ovvero la parte più

importante di noi che è la nostra personalità, è racchiusa dentro quel contenitore che chiamiamo

‘corpo’ e che al di fuori di esso, la vita umana non può aver luogo. Che pure lo scrittore stesso è

consapevole di questo fatto lo dimostra una sua affermazione in un’intervista che riguarda la sua

performance:

[H]o fatto un video in cui corro per 42 chilometri sul tapis-roulant replicando la

performance del mio alter ego Rensich, di fatto incarnandomi in lui. Era il tentativo

estremo di stanare l’io autentico: dove cercarlo se non nel dolore?55

2.1.1. «EMBODIED MIND»

Al fine di cogliere bene il significato, anzi il senso, della maratona dal punto di vista letterario, ma

soprattutto dal punto di visto reale, sociologico, bisogna chiarire un concetto della fenomenologia

che è quello del ‘corpo che pensa’.

53

COVACICH MAURO, A perdifiato, cit., pp. 26-27. 54

Per un’analisi specifico sul rapporto tra filosofia e correre, si veda in particolare il saggio di Ross Reed: REED ROSS C., Existential Running, in Running and philosophy: a marathon for the mind, edited by Michael W. Austin and foreword by Amby Burfoot, Malden, Blackwell, 2007, pp. 125-138; SHEENAN GEORGE, Dr. Sheenan on Running, Moutain View, CA, World Publication, 1975. & SHEENAN GEORGE, Running and being: The Total Experience, New York, Simon and Schuster, 1978; VERBEKE WOUTER, L’Umiliazione delle stelle nella pentalogia multimediale di Mauro Covacich, cit., p. 23. 55

BONO MAURO, Mauro Covacich, [intervista], in: La Repubblica, 02/04/2011, URL: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/04/02/mauro-covacich.html. (ultima verifica: 25/02/2014).

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Se si chiedesse ai runner qual è la ragione per la quale corrono, risponderebbero – e questa è una

linea costante attestata nella letteratura relativa, non una mia ipotesi – che si tratta di un modo per

riempire i vuoti della vita e che alla fine di ogni corsa, si sentono soddisfatti e più ‘felici’. Questa

concezione ci riconduce di per sé all’Ethica Nicomachea, nella quale Aristotele tratta la felicità ultima.

Ogni essere umano – almeno quelli non cinici che non mettono in dubbio il concetto di ‘felicità’, ma

questa sarebbe un’altra discussione – mira allo scopo di ottenere la felicità perfetta, compiuta,

incarnata: la Felicità. Perciò, l’agire umano è orientata in funzione di tale perseguimento. Di qui

deriva anche il parallello, presente nei romanzi di Covacich, tra le stelle e gli esseri sublunari. Come

gli esseri stellari, ovvero le stelle, l’essere umano prova durante tutta la vita a dirigersi verso una

fonte di Amore; verso una destinazione che prima ho chiamato ‘Felicità’. Se gli astri girano

incessamente intorno all’Uno per raggiungere un specie di felicità, l’uomo corre.

Questa ricerca della Felicità è ben presente nei romanzi di Covacich. Soprattutto i suoi personaggi

maschili, Rensich e Mauro, cercano questa felicità attraverso le donne, tentativo che ovviamente, è

destinato a fallire, per il semplice fatto che si tratta di una felicità precaria e quindi non edonista

come vedremo dopo. Rensich ad esempio chiama una delle sue allieve la «Felicità Pura»56:

Cosa provo per te? Be’, per me tu sei la Felicità Pura, la Felicità Pura venuta a rovinarmi

l’esistenza.

[...]

Avevo la Felicità Pura appoggiata sul petto, con il pigiama sudato, intenta a

disintegrarmi la testa. Agota sembra assolutamente determinata a mandare in frantumi

anche la piú piccola briciola di ciò che sono, o dovrei dire ciò che sono stato.57

Agota, però, non risulterà essere la ‘Felicità Pura’, ma ben il contrario, dato che la Felicità, come

vedremo dopo, non manda a pezzi la personalità di chi la prova e invece la unisce e fortifica.

Torniamo ora al concetto del corpo che pensa. Se, come abbiamo assunto, l’uomo contemporaneo

corre per poter raggiungere ciò che si chiama ‘felicità’, questo significa che ci deve essere un legame

tra la nostra corporeità e il nostro stato mentale e che la maratona implica ambedue il corpo e la

mente. Per sperimentare in prima persona, e dal vivo, in che consiste questa relazione e i

cambiamenti mentali e fisici che la corsa provoca e quali sono allora le implicazioni di essi sulla

comprensione e percezione del mondo intorno a noi, il filosofo J. Jeremy Wisnewski ha combinato la

teoria e la pratica. Wisnewski sostiene, appunto che nel caso di un esaurimento fisico, ovvero

56

COVACICH MAURO, A perdifiato, cit., p. 66. 57

Ibidem, pp. 66-67.

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quando il corpo è affannato, affamato ecc., insomma quando si trova in uno stato estenuazione,

questo ha un’influenza sostanziale sulla nostra percezione del mondo e su quello che contiene. In

altre parole, il modo in cui percepiamo il mondo che ci circonda dipende in gran parte dalla nostra

propria fisicità; ed è anche quello che sostiene il fenomenologo francese, Maurice Merleau-Ponty.

Secondo lui, il corpo umano non è un mero oggetto fisico, ma è addirittura «la nostra espressione nel

mondo»58. Wisnewski ha messo alla prova la tesi fenomenologica di Merleau-Ponty per via

sperimentale, ovvero correndo egli stesso, il che è un atto che gli fa molto onore e per il quale, sono

sicuro, molti studiosi non sportivi sono disposti a esprimere la loro gratitudine. I primi giorni della sua

esperienza Wisnewski era soltanto capace di focalizzarsi con la mente sulle sensazioni corporali

sgradevoli, sui suoi movimenti, insomma sul dolore, il che rendeva difficoltoso l’andamento della

corsa. Correre, come sappiamo, richiede un processo di allenamento e quindi, dopo un certo lasso di

tempo, anche Wisnewski non si accorgeva più del dolore e era ormai in grado di lasciar volare i suoi

pensieri mentre ‘faceva correre’ il proprio corpo. Dopo questa esperienza, Wisnewski ha potuto

concludere che ciò che Merleau-Ponty aveva affermato non era l’identità tra corpo e mente ma il

fatto che, in quanto esseri umani, non «siamo né mente né corpo; siamo embodied mind»59. Anche

Rensich, nel primo romanzo della pentalogia A perdifiato, espone delle riflessioni molto vicine a

quelle dei due filosofi Wisnewski e Merleau-Ponty:

La mente non è il cervello, la mente è il sistema del corpo che pensa. La mente è la rete

in cui il mio avampiede, il mio cuore, il mio glicogeno, i miei desideri, la mia memoria,

tutto me stesso dialoga con tutto me stesso e con tutto ciò che dall’esterno modifica o

può modificare me stesso.60

Per quanto riguarda lui, la mente non uguaglia il semplice funzionare del cervello umano; si tratta

invece di un’armonia perfetta tra tutto quello che ci costituisce, ovvero tra la nostra ‘sostanza’ sia

fisica che psichica. Per Rensich, o anche per Covacich, la maratona non va definita come un’attività

che affanna il corpo o come un test mentale, ma piuttosto come un complesso processo che intreccia

questi due aspetti. Correndo la maratona, corpo e mente si uniscono e si raggiunge

conseguentemente lo stato esaltante di ‘embodied mind’. In un altro brano, Rensich riflette su due

vantaggi che, secondo lui, sono legati al corpo che pensa, ossia da un lato il fatto che esso conduce

58

WISNEWSKI J. JEREMY, The Phenomenology of Becoming a Runner, in Running and philosophy: a marathon

for the mind, edited by Michael W. Austin and foreword by Amby Burfoot, Malden, Blackwell, 2007, p. 36.

(Traduzione mia). 59

Ibidem, p. 40. (Traduzione mia). 60

COVACICH MAURO, A perdifiato, cit., p. 27.

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ad una specie di autoconsapevolezza elevata e dall’altro lato il fatto di essere capace di raggiungere

uno stato di bellezza estrema61:

Ecco, il corpo che pensa raggiunge il più alto grado di bellezza nella maratona. Credo che

ciò varrebbe anche se sapessimo volare. Vorrei dire: Non ho mai visto niente di più bello

di Paul Tergat che vomita il Gatorade in eccesso dopo il traguardo. Non ho mai visto

niente di più bello dell’allungo di John Kosgey sulla Fifth Avenue. Niente di più bello di

quei bastardi di masai con le ali ai piedi, niente di più bello di me stesso che muoio alle

loro spalle.62

Tuttavia, a mio avviso, questa visione va sfumata poiché leggendo questo brano si potrebbe pensare

che il corpo che pensa, o ancora ‘l’embodied mind’, sia uno stato a priori raggiungibile nel momento

che si mette alla prova il proprio corpo, però niente è meno vero. Nella figura di Covacich63 corpo e

mente non possono essere unificati finché non sia unificata l’identità profondamente spezzata del

soggetto/dell’uomo che corre. Se l’identità ‘vive’ al di fuori dei limiti del corpo, abbiamo a che fare

con l’umiliazione ed è solo quando si sente il dolore e si stabiliscono dei confini fisici, che si crea la

possibilità di unificare l’identità. Però, su questo argomento, tornerò nell’ultimo capitolo.

Inoltre, per quanto riguarda la propria esperienza di corsa, Winewski dichiara: «Non il mio riflettere

mi permetteva di correre; il mio correre mi permetteva di riflettere»64. In altri termini, con questa

affermazione, il filosofo rileva il fatto che la riflessione si attiva mediante la corsa e che la nostra

coscienza sarebbe, sempre assumendo un punto di vista fenomenologico, ineludibilmente

dipendente dai nostri atti fisici e meno dalla capacità intellettuale.65

61

Questa ‘bellezza’, come ho menzionato pure ne L’Umiliazione delle stelle nella pentalogia multimediale di Mauro Covacich può essere considerata come un sinonimo di ‘perfezione’ poiché imitando le stelle attraverso la maratona (sul tapis-roulant), lo scopo è di raggiungere il più alto grado di perfezione, appunto quello degli esseri stellari, prima della loro umiliazione. Come spiego poi nel primo capitolo della tesi sopra citata, le stelle vengono umiliate quando l’essere umano inventa una divinità, il Dio cattolico, che le supera in perfezione, poiché entità onnipotente e perfetta. 62

COVACICH MAURO, A perdifiato, cit., p. 27. 63

Uso il nome di Covacich e non quello del suo alter ego Rensich perché Rensich è appunto una delle entità o identità che devono sparire al fine di raggiungere lo stato di unificazione. 64

WISNEWSKI J. JEREMY, The Phenomenology of Becoming a Runner, cit., p. 40. (Traduzione mia). 65

Ibidem, pp. 36-43.

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2.1.2. LA FILOSOFIA DELLA CORSA

2.1.2.1. IL PIACERE DEL DOLORE

Introdotto e chiarito il concetto, torno di nuovo all’aspetto filosofico della maratona, e il legame

inestricabile con il dolore. Mi concentrerò inoltre sul parallelo tra corsa e religione, o addirittura sulla

religiosità della maratona e sulla ritualità di essa.

Sull’aspetto del dolore, si sofferma in modo esplicito e approfondito Chris Kelly nel saggio A Runner’s

Pain che studia quali possano essere le implicazioni filosofiche del dolore. A suo parere il dolore può

essere considerato uno strumento che si inscrive nella tradizione edonista. La scuola edonistica

dell’antichità afferma come scopo dell’esistenza il perseguimento del piacere. A differenza del

dolore, che la maggior parte di noi considera sgradevole e non particolarmente piacevole, il piacere

viene considerato positivo e buono. Seguendo questa linea, perché l’essere umano dovrebbe voler

correre, o più in generale, fare sport con lo scopo di trarne la felicità ultima? Questa domanda

apparentemente logica si rivela in verità miope e estranea allo spirito di un vero edonista. La filosofia

edonista infatti ci incoraggia sì a cercare un piacere, ma non un piacere fuggitivo ed effimero, bensì

un piacere perpetuo, anche se questo significa che si deve sopportare un certo grado di dolore. In

quello che precede, ho menzionato alcuni dei maggiori effetti benefici che un runner può

sperimentare sia a livello dilettantistico che in quanto professionista, tra cui la felicità. Ogni

maratoneta o corridore, dunque, è per di sé un edonista (anche se non consapevole) che non

considera la corsa come un’attività solo dolorosa e sa che dopo il superamento delle sensazioni

sgradevoli, saprà trarne degli effetti benefici e piacevoli attinenti al corpo e alla mente. Tant’è vero

che, se la corsa non avesse come caratteristica intrinseca il fatto che vi sono degli ostacoli sia legati

alla fisicità che mentali, gli effetti che ho menzionato non verrebbero ottenuti. Un edonista vero e

proprio vedrebbe quindi nella maratona lo strumento per eccellenza per raggiungere il piacere nella

vita.66

2.1.2.1.1. L’AMOR FATI

L’essere umano, e quindi pure colui che corre, è posseduto da un perpetuo conflitto dentro di sé,

come sosteneva anche Nietzsche, che rispecchia il flusso del cosmo eterno. Si tratta di una

condizione umana alla quale – soprattutto il soggetto contemporaneo – non può fuggire: il

sentimento che il mondo è fondamentalmente privo di senso o di valore.

66

KELLY CHRIS, A Runner’s Pain, in Running and philosophy: a marathon for the mind, edited by Michael W. Austin and foreword by Amby Burfoot, Malden, Blackwell, 2007, pp. 89-101.

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Similmente, la maratona rappresenta metaforicamente un percorso inane, quell’«insignificanza

cosmica»67, piena di ostacoli che vanno vinti al fine di aumentare la propria forza di volontà. Correre,

come l’avere una fede religiosa, può essere un modo di superare l’impossibilità di attribuire un senso

a questa vita. La corsa, però, diversamente dalla religione, si avvicina di più al concetto che propone

lo stesso Nietzsche, ovvero il concetto filosofico dell’amor fati, e quindi all’accettazione dell’inanità

della vita umana.

Il runner deve avere come caratteristica innata l’amor fati, legato al concetto dell’edonismo, per

poter esser in grado di superare gli ostacoli della corsa, nonché l’insignificanza della vita. Durante la

corsa, come nel corso della vita umana, il nostro avversario maggiore è la psiche che, correndo, si

riesce a combattere.

Il rapporto tra la maratona e la volontà di forza, come la descrive Nietzsche, è un rapporto dialettico:

si creano a vicenda. La maratona, da un lato, può condurre all’amplificazione della volontà di forza ed

essa, dall’altro lato, contribuisce al buon andamento della maratona stessa. Considerato questo, si

potrebbe sostenere che l’immagine della maratona funge da metafora per questa particolare volontà

che, come dice Nietzsche, caratterizza l’essere umano.68

2.1.2.1.2. L’APATIA

Le difficoltà di cui si è parlato sono allora una condizione assoluta che prepara al piacere che si trae

dal compimento di esse. Perciò, il ‘dolore’ che si percepisce durante la corsa, spesso non viene

considerato come tale. Questo si nota anche in un brano tratto da A perdifiato:

La rabbia di questi venti minuti finali sarà per sempre cibo per la tua indifferenza.

Indifferenza, sì. Quando la gara ti verrà a torturare tu saprai ottenere uno stato di

perfetta apatia.69

Un concetto importante in questo contesto, da legare all’indifferenza del runner nei confronti del

dolore, è quello dell’apatia che mostra un legame con la corsa; rapporto che ha elaborato Richard De

Witt in modo più approfondito nel saggio Hash Runners and Hellenistic Philosophers70.

67

BELLIOTTI RAYMOND ANGELO, Long-Distance Running and the Will to Power, in Running and philosophy: a marathon for the mind, edited by Michael W. Austin and foreword by Amby Burfoot, Malden, Blackwell, 2007, p. 3. 68

Ibidem, pp. 1-9. 69

COVACICH MAURO, Prima di sparire, cit., pp. 165-166. 70

DE WITT RICHARD, Hash Runners and Hellenistic Philosophers, in Running and philosophy: a marathon for the mind, edited by Michael W. Austin & Amby Burfoot, Malden, Blackwell, 2007, pp. 71-80.

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Correndo, superando i propri limiti e percependo il dolore della corsa, colui che corre contribuisce a

sviluppare una precisa attitudine: l’ataraxia, o anche apatia, ovvero una specie di indifferenza

rispetto alle emozioni, una serenità imperturbabile ottenuta attraverso il controllo o il dominio

esercitato sulle passioni.

Non vi è dubbio che vi è un rapporto stretto tra la maratona e il concetto dell’ataraxia e di pathos,

concetto inestricabilmente connesso all’apatia. L’essere umano ha bisogno di questo pathos al fine di

poter cogliere il funzionamento del cosmo e il posto che l’uomo occupa in esso, come sostiene De

Witt, il che contribuisce a produrre un sentimento di tranquillità e di impassibilità. Inoltre, secondo

De Witt, tra tutti gli sport, la maratona è probabilmente quello che richiede l’impiego assoluto della

qualità di pathos e dall’altro lato che genera meglio di altri un atteggiamento apatico.71

2.1.3. LA CORSA: NUOVA RELIGIONE

Un aspetto molto interessante e anche molto importante è la qualità religiosa della corsa e perfino la

corrispondenza tra maratona e pratica religiosa. Vorrei approfondire questo aspetto, focalizzandomi

soprattutto sulla combinazione di ritualità e dolore.

Come punto di partenza, indagherò il saggio di Jeffrey P. Fry, Running Religiously72, che ci offre una

bella analisi sulla religiosità della corsa. In quello che precede, ho accennato al fatto che, oggigiorno,

e specialmente nel ceto alto o medio-alto della nostra società, la corsa e soprattutto la maratona è

diventata un’attività molto popolare, addirittura prestigiosa. In Running Religiously viene posta la

domanda se questa caratteristica possa essere una conseguenza della rinuncia alla religione

istituzionale che caratterizza i nostri tempi. La corsa potrebbe significare una via alternativa che

permette alla nostra società laica di lasciarsi coinvolgere da nuove forme di pratiche spirituali?

Ritorna in questo caso in scena il concetto della ‘fantasmagoria’ di Walter Benjamin, menzionato

prima. In epoca modernista e postmoderna le merci commerciali di massa suscitano o, meglio, re-

suscitano un modo di sfuggire alla realtà. Come ho dimostrato nella prima parte di questa tesi, la

mitizzazione della società è un fenomeno universale e di ogni tempo. Anche oggi, vi è un enorme

quantità di elementi spirituali, o se si vuole mitici, o meglio: aspetti che riescono a tener viva una

dimensione che trascende la realtà quotidiana. Gli sport costituiscono solo una delle attività che

vengono caratterizzate da questi aspetti rituali, presenti in epoca postmoderna. Perciò gli sport,

grazie alla loro qualità rituale, significano una pratica per antonomasia, atta a sostituire la

dimensione religiosa ormai persa, ma di cui nondimeno si ha sempre bisogno nella società.

71

Ivi. 72

FRY JEFFREY P., Running Religiously, in Running and philosophy: a marathon for the mind, edited by Michael W. Austin & Amby Burfoot, Malden, Blackwell, 2007, pp. 57-69.

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34

Michael Novak, teologo cristiano, afferma che «gli sport sono religiosi nel senso che essi sono

istituzioni organizzate, discipline, liturgie; e anche nel senso che insegnano delle qualità religiose del

cuore e dell’anima. In particolare, ricreano dei simboli della lotta cosmica, nella quale la

sopravvivenza umana e il coraggio morale non sono assicurati»73. Prebish, a propria volta, asserisce

esplicitamente che negli Stati Uniti la gente vede nello sport, in particolare nella maratona, una

possibilità di praticare una forma personale di religiosità al di fuori delle istituzioni o dottrine

religiose, che ormai sono diventate troppo severe e oppressive per lo spirito laico della nostra

società.74 In quest’ottica si può interpretare la corsa come un rito, in grado di determinare

trasformazioni interne a chi lo pratica. Non si può negare l’aspetto meditativo e persino rituale che

caratterizza la corsa. La religione, infatti, svolge funzioni come il prescrivere l’ordine del cosmo,

portare alla realizzazione di sé e alla salvazione, e può pure far cadere il devoto in una sorta di trance:

«La religione trasforma quindi sia lo spazio interno che quello esterno in uno spazio sacro e converte

anche il tempo ordinario in un tempo sacro»75. Correre ha degli effetti analoghi. Può produrre un

effetto ristorativo sia fisico che mentale e può, oltre che portare a una realizzazione di sé, anche

indurre uno stato di coscienza elevato o una sorta di trance.

La ritualità e la capacità di ottenere uno stato di trance rendono fondamentale l’esperienza del

dolore dato che è attraverso esso che si creano le condizioni ottimali per entrare in quello stato di

coscienza elevato, ossia uno stato meditativo, simile alla trance ottenuta mediante la preghiera e la

pratica dei riti.

La tesi di Joan Chandler si collega a quanto detto nel senso che, secondo lei, la funzione

preponderante della religione è quella di procurarci un sistema che possa aiutarci a capire la

creazione, ovvero la nostra esistenza, e fatti inspiegabili come la morte e il dolore. La pratica dello

sport conduce a sperimentare e coltivare volontariamente il dolore ed aiuta ad affrontare e

sopportare il dolore che l’uomo involontariamente sperimenta durante la sua vita, nonché l’inanità

della vita umana in generale. In altre parole il dolore e la sofferenza ci consentono di sviluppare

caratteri positivi e contribuiscono alla formazione della nostra anima.

Posto che la maratona presenta degli aspetti religiosi e ritualistici, è possibile anche dimostrare che

anche le religioni utilizzano dei riti che includono attività che ora definiamo sportive, più in

particolare la corsa e la maratona.

73

NOVAK MICHAEL, The Natural Religion, in Sport and Religion, edited by Shirl J. Hoffman, Champaign, IL, Human Kinetics, 1992, p. 36. (Traduzione mia). 74

PREBISH CHARLES, Heavenly Father, Divine Goalie’: Sport and Religion, in Sport and Religion, edited by Shirl J. Hoffman, Champaign, IL, Human Kinetics, 1992, p. 48. (Traduzione mia). 75

FRY JEFFREY P., Running Religiously, cit., p. 61. (Traduzione mia).

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Fry spiega che i giochi olimpici nell’antica Grecia, ma la pratica dello sport in generale, erano

strettamente legati alla religione, perché consacrati agli dei e rileva soprattutto il rapporto tra

religione e corsa.

Un fatto piuttosto sorprendente che Fry riferisce è che in alcune pratiche spirituali o religiose, la

corsa fa inerentemente parte dei riti. Gli Americani Nativi, a mo’ d’esempio, che attribuivano alla vita

una dimensione sacra, esigevano dai loro «running messengers»76 di disporre di capacità atletiche

che superavano l’ordinario. Per gli Americani Nativi, la corsa era di per sé una specie di rito

caratterizzata da un certo grado di sacralità. Un secondo esempio è quello dei «lung-gom-pas

runners»77, una ramificazione dei lama tibetani che pure cercano di entrare in uno stato di trance

mediante il ‘medium’ della corsa.78

Vi è però un caso singolare che Fry indaga e che è particolarmente adatto per la dimostrazione

dell’ipotesi delle corrispondenze tra corsa e religione. In Giappone, esistono dei monaci che si

inscrivono nella tradizione del cosiddetto buddhismo Tendai e che si pongono lo scopo di

raggiungere con la corsa uno stato di illuminazione. Per far questo, si sottopongono ad un regime

molto duro, per non dire inumano, che dura sette anni e che consiste nella cosiddetta «1000-day

marathon»79. Questo significa che la maggior parte dell’anno, i monaci devono correre quasi ogni

giorno delle distanze che variano tra 30 e 60 chilometri. L’ultimo anno del regime consiste in due cicli

di cento giorni. Già solo nei primi cento giorni, devono correre quotidianamente 84 chilometri,

ovvero, e il conto si fa velocemente, ben due maratone. Non a caso si chiamano i «marathon

monks»80. Inoltre, gli sfortunati che sembravano non essere capaci di tale semplice compito, erano

destinati al suicidio obbligatorio.81

Questo esempio non dimostra soltanto la qualità religiosa della maratona, ma anche l’impiego di

essa in un contesto religioso, ossia come rito che fa inerentemente parte del culto, paragonabile al

recitare una preghiera.

Inoltre nei romanzi di Covacich, soprattutto in A perdifiato, la corsa ha incontestabilmente la

funzione di consentire la fuga dai problemi della vita quotidiana, dalle nostre responsabilità e così

via. In tal senso, la religione e la maratona hanno in comune la caratteristica di essere una sorta di

76

Ibidem, p. 64. 77

Ivi. 78

Ivi. 79

Ivi. 80

Ivi. 81

Ivi.

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escapismo. Sulla copertina del primo romanzo si legge, infatti: «A perdifiato è un romanzo sul

fuggire»82.

Tuttavia più che la volontà di fuga, l’escapismo potrebbe indicare anche qualcos’altro. come già

accennato sopra in merito alla riflessione e alla corsa il lasso di tempo che viene trascorso correndo

è, per colui che corre, un’occasione per riflettere, soprattutto sulla vita, la propria o in generale.83 A

mio parere, l’intervallo di tempo della corsa rispecchia però anche il tempo che si attraversa in una

vita. Come il rito della maratona, che funge da rispecchiamento tra il mondo sublunare e quello

trascendentale, ha lo scopo di rappresentare e persino imitare il macrocosmo (si pensa appunto alle

stelle) proiettandolo sul microcosmo, il tempo (rituale) della corsa rispecchia il tempo della vita e ne

è un bozzetto. La maratona, o la corsa, è un viaggio84 attraverso il quale si può prendere una certa

distanza dalla vita per poi tornarne cambiato. È in questo senso che si può parlare allora e più

correttamente di escapismo.

Da tutto quello che precede, risulta quindi che è possibile stabilire forti paralleli tra religione e sport e

considerare quest’ultimo appunto come una forma contemporanea di celebrazione spirituale o

addirittura una nuova religione.85

2.2. PERFORMANCE L’UMILIAZIONE DELLE STELLE: LA MARATONA SUL TAPIS ROULANT

Finora ho analizzato le implicazioni, gli aspetti filosofici e gli effetti psicologici della maratona

‘normale’, anzi del correre in generale, però nell’opera di Covacich la maratona appare sotto un altro

aspetto, ovvero come una performance.

Dopo aver presentato la pratica della maratona in termini generali occorre quindi applicare la

riflessione alla pentalogia di Mauro Covacich. Va da sé che tutte le tesi concernenti le implicazioni

filosofiche, sociologiche ecc. sono anche proiettabili sulla maratona rappresentata dall’autore,

nondimeno, come detto, oltre alla maratona ‘vera e propria’, nell’opera di Covacich vi è presente

un’altra tipologia di maratona, che chiamiamo ‘performativa’. In questo capitoletto fornirò sempre

un’analisi della maratona, ma questa volta indagherò appunto i cambiamenti o le differenze rispetto

alla corsa ‘normale’, che contribuiscono all’aspetto rituale del gesto. Nel capitolo 3.3.1.3. invece, mi

82

COVACICH MAURO, A perdifiato, cit., [p. 348]. 83

REED ROSS C., Existential Running, cit., pp. 125-138. 84

Sul concetto del viaggio, mi soffermerò nella sezione 3.3.1.2. 85

FRY JEFFREY P., Running Religiously, cit., pp. 57-69.

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soffermerò sulle implicazioni di questa maratona performativa per quanto riguarda la ricerca

dell’identità da parte dello scrittore.

In primo luogo occorre stabilire in cosa consistono le differenze tra la maratona vera e propria e la

maratona come performance.

Nella sua pentalogia Covacich rappresenta la maratona in modo assai particolare. Dopo aver

riflettuto nel primo romanzo, A perdifiato, sulla pratica ‘comune’ della maratona, elaborando il

collegamento di essa con il concetto filosofico dell’umiliazione delle stelle, comincia ad usarla come

un vero e proprio strumento artistico. È Rensich, protagonista ex-maratoneta e allenatore fallito del

primo romanzo nonché alter ego dello scrittore, che in Prima di sparire si trasforma in un artista di

performance che corre una maratona su un tapis roulant, attaccato a un groviglio di tubetti e

sensori, davanti a un pubblico. Dopo Prima di sparire, Covacich trasporta o proietta questa

performance nella realtà, prestando il proprio corpo al suo alter ego Rensich e ne fa un video.86

Nel terzo romanzo, Prima di sparire, Covacich ci dà una descrizione della performance e la mette in

relazione con le opere di artisti contemporanei che giocano un ruolo centrale nell’ambito dell’arte

contemporanea:

In questa sala invece, solo due mesi fa c’erano i tranci di mucca in formaldeide di

Damien Hirst poi comprati dalla Tate Modern. Adesso c’è Dario Rensich. Il titolo della

performance è The humiliation of the stars. L’artista, posto di profilo rispetto al

pubblico, corre su un tapis-roulant. Indossa solo le scarpette da corsa, il sospensorio e

una mascherina dalla quale esce un grosso tubo di gomma. Ha disseminate sul torace e

sul collo le ventose dei sensori che trasmettono i dati della sua trasformazione

metabolica. Sulla parete bianca alle sue spalle, accanto alla scritta verticale Saatchi

Gallery, ci sono sette display a cristalli liquidi, collegati ognuno a un rivelatore. Battito

cardiaco, peso, consumo calorico, pressione sanguina, glicemia, temperatura, efficienza

polmonare. Grazie a una minicamera puntata sulla consolle del tapis-roulant, i numeri

rossi del contachilometri e del cronometro sono proiettati direttamente sulla parete

bianca poco sopra i display, in modo che gli spettatori possano sapere in ogni momento

86

Lo scrittore stesso si rifiuta di chiamare l’opera in questione una performance, o anche una videoperformance, poiché, a suo avviso, considerata la riproducibilità mediante la videoproiezione, la ‘performance’ perde la caratteristica di unicità. Egli preferisce chiamarla ‘videoinstallazione’ o ancora: ‘romanzo visivo’. Io però, e non sto da solo in questa lotta, non sono dello stesso avviso e continuerò testardamente a chiamarla ‘performance’ nell’estensione di questa tesi. Si veda pure SANTI MARA, Mauro Covacich and The Humiliation of the Stars, 2012, [tesina inedita]. nella quale Santi definisce la performance come ‘tecnologicamente mediata’.

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quant’è ancora la strada da percorrere. La distanza della performance è esattamente

quella di una maratona, 42 195 metri.87

La scelta della performance e del tapis roulant non sono delle scelte fatte a caso, sono

evidentemente ben pensate e mirano ad uno scopo preciso, ovvero quello di cambiare radicalmente

l’esperienza della corsa e di indurre degli effetti specifici sullo spettatore della performance.

L’integrazione del tapis roulant nel contesto della performance è, e questo è un mio giudizio di

valore, sublime, ma la connessione tra i due non è imprescindibile, nonché necessaria, poiché il tapis

roulant e la performance non sono per di sé interdipendenti. Ciò significa che la modalità della

performance si sarebbe anche potuta ottenere in un ambito naturale, il che non nega affatto il

grande contributo di questa scelta particolare all’artisticità della performance.

Innanzitutto, la scelta del tapis roulant rispecchia a mio parere alcune caratteristiche sociologiche

della società contemporanea e postmoderna, che ho descritto nella prima parte di questa tesi.

Infatti, dopo l’esibizione pubblica anche del campo privato dell’esistenza, si afferma una tendenza

opposta il cosiddetto ‘cocooning’ in cui si ha una riconquista di terreno da parte del privato, in

opposizione alla società informatizzata nella quale la conoscenza si diffonde con estrema velocità e

dove i dati personali sono in pericolo di essere rivelati a chiunque voglia farne uso.

Gli sport in generale hanno inevitabilmente a che fare con la nostra body image e sono perciò legati

alla sfera privata. Li facciamo quindi preferibilmente in contesti specifici, deputati solo a questo, ad

esempio in una palestra dove tutti si concentrano su se stessi e dove si può correre su un tapis

roulant senza correre il rischio di essere visti e giudicati da chi non persegue lo stesso scopo.

Ciò nonostante, va però anche aggiunto – e di questo se ne rende pure conto lo scrittore come

vedremo dopo – che la sensazione sperimentata da chi corre all’aria aperta non corrisponde per

niente alla sensazione che si ha correndo sul tapis roulant. Non cambia soltanto radicalmente la

percezione dell’ambiente legata strettamente a quella del proprio corpo, ma anche la percezione del

tempo. Tutto questo non significa però che il correre sul tapis roulant va di pari passo con un

impoverimento dell’esperienza stessa o degli effetti di essa. Nel saggio Can We Experience

Significance on a Treadmill?88, Hochstetler sostiene che sia più difficile trovare un senso che possa

aiutarci a determinare lo spazio occupato dall’esistenza umana nel cosmo se si corre su un tapis

roulant poiché chi corre su un tapis roulant percepisce il proprio corpo, nonché il tempo e lo spazio in

modo radicalmente diverso il che cambia l’esperienza della corsa e complica l’attribuzione di senso. A

87

COVACICH MAURO, Prima di sparire, cit., p. 8. 88

HOCHSTELLER DOUGLAS R., Can We Experience Significance on a Treadmill?, in Running and philosophy: a marathon for the mind, edited by Michael W. Austin & Amby Burfoot, Malden, Blackwell, 2007, pp. 139-149.

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mio avviso, bisogna leggermente reinterpretare questa presa di posizione dato che l’assenza di senso

che magari si potrebbe attribuire all’atto del correre sul tapis roulant non deve per sé corrispondere

all’impossibilità di attribuire un certo senso alla vita correndo, anzi.

In A nome tuo è Covacich stesso che ci espone le differenze tra la naturalezza e l’attribuzione di senso

della corsa ‘normale’ e quella sul tapis roulant, che implica di per sé una artificiosità. Nel dialogo con

il suo alter ego Angela Covacich riporta la sua esperienza della performance:

In realtà è stato un viaggio pieno di incognite. I giorni delle riprese, ad esempio. Dopo

venti minuti si staccano gli elettrodi, rifare. Dopo trenta minuti si accorgono che le

batterie dei microfoni non dureranno fino alla fine, rifare. Dopo quaranta minuti

capiscono che il microfono dentro il respiratore andrebbe protetto dalla condensa,

rifare. Comunque la tortura vera è stata allenarsi in palestra.

-Perché?

-Perché il tapis roulant ti risucchia immediatamente in un sistema macchinico. Una volta

impostata la velocità, il passo non è piú libero ma deve rispondere all’impulso del

tappeto. Sulla strada rallentare è una decisione che puoi prendere da un passo all’altro,

sul tappeto invece bisogna intervenire sulla macchina, chiederle di andare piú piano

pigiando sul pulsante apposito. Sembra una sciocchezza, ma è una differenza che ti

annienta. Sei soggetto a uno sforzo imposto dall’esterno, capisci? Secondo ritmi non

negoziabili. È una sensazione spaventosa. Ti senti subito in catena di montaggio.89

«Lo sport non c’entra niente»90 con la maratona, sostiene Rensich nel primo romanzo della

pentalogia, si tratta di una scelta estetica e, non a caso, Covacich decide di trasformare la maratona

in una performance togliendole ogni naturalezza, oppure la naturalezza residua o meglio, la

naturalezza relativa perché la maratona appunto è una forma estrema di corsa e più di un gesto

atletico o sportivo ed è un gesto artistico. Per lo scrittore, correre una maratona è appunto una scelta

estetica, pari, per esempio, alla scelta che fa Marina Abramović che decide di pulire ossi di bue

durante la Biennale a Venezia.91 Con Covacich vedi correre un corpo su un tapis roulant, corpo che

però è attaccato a sensori, porta una mascherina collegata ad un tubetto ecc. e corre davanti ad uno

schermo sul quale appaiono i dati fisici della corsa stessa. Si tratta di un espediente tecnico

attraverso il quale lo scrittore vuole mettere di fronte allo spettatore specificamente la fisicità

89

COVACICH M., A nome tuo, Torino, Einaudi, 2011, p. 109. 90

COVACICH MAURO, A perdifiato, cit., p. 26. 91

Si veda: COVACICH MAURO, L’arte contemporanea spiegata a tuo marito, Roma, Laterza, 2011.

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dell’essere umano. La scelta di correre la maratona su un tapis roulant toglie evidenza al fatto che si

tratta di una maratona e solo il testo che appare sullo schermo e la distanza corsa ci communicano

che si tratta di una maratona, o almeno di una corsa con la stessa distanza emblematica. Il format

della performance svela al pubblico il fatto che si allude a un gesto sportivo di cui però cambiano

l’ambiente, la sensazione del tempo, la modalità competitiva e, secondo Hochstetler, la

sperimentazione di senso.

L’aspetto della competizione, delle gare di maratona ‘tradizionali’, non è quindi più presente, il che

però non implica l’assenza del sentimento della competizione. La prima cosa che si nota è il fatto che

il corridore è da solo, quindi colui che sta correndo è un maratoneta tirato fuori dal suo contesto

tipico. È quindi sempre un maratoneta, ma ‘semplicemente’ a livello individuale, ossia con se stesso;

avversario o concorrente più pericoloso di tutti e la vittoria non è affatto assicurata. Il maratoneta

lotta contro se stesso, contro la propria fisicità e contro i ‘demoni’ che lo possiedono. È costretto a

misurarsi con se stesso durante quel percorso verso una meta mentale, il che nel caso di Covacich,

come diventerà ancora più chiaro nel prossimo capitolo, significa una lotta per la vita o la morte.

Secondo me, nessuna scelta artistica sarebbe stato adeguata a mettere in scena l’insignificanza della

vita umana, come questa e proprio grazie alla semplicità apparente che caratterizza la performance.

Ne L’imperativo (stoico) dello scrivere, Santi afferma che lo scrittore nega «qualsiasi possibilità di

mitizzazione al performer [o se si vuole, al maratoneta] e eroismo a un gesto che pure rappresenta il

confronto dell’individuo con il proprio limite, con la propria essenza di uomo»92. Infatti, il runner non

ha niente di mitico in senso eroico, ma è l’esecutore di un rito rafforzato dal mito postmoderno

dell’umiliazione delle stelle, che mira non meno ad un effetto che somiglia a quello dei miti antichi. Il

lottare contro la fisicità umana viene considerato da parte dello scrittore come una sorta di

«autolesionistico ludibrio»93, necessario appunto. Il gesto del correre una maratona, che

nell’antichità e in alcune religioni, come ho menzionato sopra, veniva ritenuto sacro e nobile, viene

qua privato di ogni eroismo e se ne ridicolizza l’hybris, sia stellare che sublunare, che cerca di

affermare un senso di superiorità e di valore del proprio essere in un cosmo inafferrabile. La corsa sul

tapis roulant rappresenta la tensione, fondamentalmente etica, del dirigersi perpetuamente verso

qualcosa, come le stelle che vanno verso un (impossibile) miglioramento del proprio stato, tensione

compromessa però dall’inutilità del correre sul posto.

92

SANTI MARA, «L’imperativo (stoico) dello scrivere»: A colloquio con Mauro Covacich, [intervista inedita], p.6. 93

Ivi, p.7.

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41

Un altro aspetto alienante della performance, attinente allo spazio, è l’assenza di una meta vera e

propria, in senso spaziale. Potremmo parlare solo di una ‘meta digitale’, ovvero quella che si

raggiunge quando lo schermo indica l’ultimo chilometro della maratona. Non vi è però un vero luogo

di arrivo, se non, nel caso migliore, una destinazione mentale che è piuttosto un non-luogo. Durante

la corsa sul tapis roulant, il performer non viene distratto da elementi nel paesaggio che possono

attirare la sua attenzione o addirittura disturbarlo. Le uniche cose che possono distrarlo sono i

tubetti ed i sensori attaccati al corpo. Un altra cosa di cui il maratoneta viene privato nella

performance, come abbiamo letto nel brano sopra citato è la scelta libera di adattare il proprio ritmo

o cambiare rotta. Il runner è completamente dominato, anzi domato, dal tapis roulant ed esso gli

detta come deve correre. Covacich stabilisce un parallelo tra la corsa della sua pentalogia e il mito di

Sisifo, che viene punito dagli dei e perciò destinato al perpetuo sospingere una roccia su per un

monte, senza mai raggiungere la cima e compiere il percorso.94 Il paragone mette chiaramente in

rilievo la mancanza di eroismo sia di Sisifo che di Covacich e il fatto che ambedue gli incarichi portano

alla maturazione mentale, anziché a una meta geografica. In questo senso, secondo me, sono

entrambi esempi per eccellenza dell’impiego del corpo che pensa.

L’ambiente, poi, non è soltanto soggetto a mutamenti radicali per quanto riguarda la meta ma anche

dal punto di vista paesaggistico, se si vuole. Di solito, si corre, se si tratta di una maratona o meno,

all’aria aperta, in mezzo alla natura o in un contesto urbanizzato in ogni caso si respira ‘aria fresca’.

Tanto che si potrebbe persino avere il sentimento di unirsi alla natura o di essere in armonia con

l’ambiente in questione. Anche la rotta è assai imprevedibile e organica. Mentre nella performance,

nessuno di questi elementi è rintracciabile. Vedendo quella messa in scena che tende al ridicolo, la

maratona sembra aver perso la sua sacralità. Il performer respira in una mascherina legata ad un

tubetto di gomma, non può bere e non può che correre sempre dritto verso una non-destinazione. I

sensori e gli elettrodi attaccati al suo corpo sono un mero intervento artistico che serve a porre

domande allo spettatore attraverso una proiezione di dati fisici, quasi matematici, che danno prova

della corporeità e debolezza umana, che ci umiliano.

Sí, correre troppo a lungo sul tapis roulant impalla il cervello. Da un canto le gambe gli

comunicano “movimento”, dall’altro gli occhi gli comunicavano “mondo immobile”. È

una contraddizione che il cervello sa accomodare per un tempo limitato, poi scarica tutto

94

Ivi.

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42

sui sensori dell’equilibrio. Alla fine sono stato un mese sotto antibiotici e

antinfiammatori.95

Il correre la maratona su un tapis roulant toglie ogni ‘naturalezza’ all’atto della corsa, nel senso che

non solo le condizioni esterne cambiano sostanzialmente, ma si costringe il corpo a eseguire un gesto

a cui non è adatto.

Ciò nonostante, tutto questo non implica che la corsa sul tapis roulant sia assolutamente sprovvista

di senso. Di questo fatto si era già convinti nel diciannovesimo secolo quando le carceri in Inghilterra

erano state equipaggiate con dei tapis roulant, al fine di procurare ai prigionieri un luogo e un

momento in cui sfogarsi e riflettere, il che aveva lo scopo di sollecitare la autoconsapevolezza e il

voler ‘rimediare’ i reati.96 Non sarebbe quindi opportuno interpretare la tesi di Hochstetler in senso

troppo letterale. Certo, non è particolarmente facile trasformare la corsa sul tapis roulant in un

tempo di riflessione identico a quello all’aria aperta, però questo non significa che non vi sia la

possibilità di una costruzione di senso.

In un brano tratto da Prima di sparire nel quale si nota l’aspetto rituale della corsa, si legge appunto:

Il ritmo secco delle scarpette, quello più ampio del respiro soffiato nella mascherina, il

lieve ronzio del tapis-roulant, il silenzio compatto della gente, non c’è niente che

assomigli di più a un mantra collettivo. La sala è un organismo monocellulare che prega.

Rensich è allo stremo delle forze, corre più o meno come danza un derviscio, gli occhi

rovesciati, la mente bianca dello stato di trance.97

La combinazione tra la ripetizione monotona della corsa, ovvero il movimento delle gambe, il suono

delle scarpette mescolato al brusio del tapis roulant, e poi il ripetersi continuamente delle frasi che

appaiono sullo schermo dietro il performer, induce uno stato di ipnosi, una specie di trance sia del

maratoneta che del pubblico della performance.98 Tutti questi elementi favoriscono l’ipotesi che si

tratti di un rito, ma di un rito contemporaneo.

Nuovamente si può affermare che lo scrittore rappresenta attraverso la scelta del tapis roulant e

della performance un movimento fine a sé stesso e che conseguentemente imita il perpetuo

muoversi in modo circolare delle stelle. Il ‘tragitto’, piuttosto mentale che fisico, della maratona sul

tapis roulant rispecchia ulteriormente la tensione di colui che cerca di mutare la propria condizione

95

COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., p. 109. 96

HOCHSTETLER DOUGLAS R., Can We Experience Significance on a Treadmill?, cit., p. 143. 97

COVACICH MAURO, Prima di sparire, cit., p. 10. 98

Si veda il frammento riportato nel prossimo capitolo.

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di partenza, il proprio stato esistenziale, per dirla con Covacich di colui che vuole diventare una stella,

ma che arriva, senza possibile alternativa, umiliato.

Correndo la maratona, Rensich e Covacich, cercano quindi di imitare le stelle, entità perfette, non

afflitte dalla durezza e dalle preoccupazioni caratteristiche dell’esistenza umana. Lo dichiara Rensich

stesso nel romanzo Prima di sparire: «Io faccio l’uomo che imita le stelle, l’uomo che vorrebbe

correre per sempre, l’uomo antico, io faccio l’uomo stella.»99. Per ottenere un’identità perfetta,

bisogna quindi ritualmente imitare gli astri apparentemente perfetti.

Quando Alberto comunica a Rensich in un’e-mail riportata in A perdifiato «e comunque, puoi correre

quanto vuoi. non diventerai mai una stella»100, si tratta di una chiara presa di posizione da parte

dell’autore nel senso che egli sostiene quindi che è impossibile e addirittura umiliante voler trovare la

perfezione nonché la Felicità ultima. L’essere umano collega fin troppo spesso la ricerca di felicità al

poter attribuire un senso alla vita visto che chi non lo trova sembra essere destinato al fallimento e

ad una vita non vissuta, inane.

Tuttavia, imitare le stelle non è l’unico scopo della maratona corsa sul tapis roulant, almeno non per

quanto riguarda Covacich. Lo scrittore non mira agli stessi obiettivi del suo alter ego, come vedremo

nel prossimo capitolo. La maratona significa appunto per lo scrittore il luogo in cui può esistere il suo

alter ego. Perciò, al fine di affermare il sé dello scrittore, Rensich dovrà sparire, ma prima di sparire,

bisogna che diventi vivo e che Covacich ammetta la sua esistenza.

2.3. CONCLUSIONI SULLA PRATICA DELLA MARATONA

Si può quindi concludere che la corsa è un rito contemporaneo che mira al raggiungimento di un

certo grado di felicità. Si tratta di una felicità generata dal riunire i frantumi della nostra identità

postmoderna. Questo processo che si pone come obbiettivo il raggiungimento di uno stato di

complettezza permette quindi all’individuo di inserirsi interamente nella società, dalla quale, infatti,

se non sa soddisfare alle esigenze, viene scartato. Inoltre, la felicità non è soltanto legata al

sentimento di complettezza, ma deriva pure dalla soddisfazione di chi sa funzionare nella società e

contribuirci. In questo senso, la corsa significa un imperativo sociale, più o meno stoico, per l’uomo

postmoderno. Ci dà la possibilità di attribuire un senso alla vita. Attraverso il rito della corsa, si

ottiene quindi la mantenuzione dell’ordine sociale nonché dell’ordine mentale personale.

99

COVACICH MAURO, Prima di sparire, cit., p. 109. 100

COVACICH MAURO, A perdifiato, cit., p. 42.

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Le differenze della maratona corsa da Covacich/Rensich sul tapis roulant, e quindi come

performance, mostra delle differenze sostanziali con la maratona ‘vera e propria’ e contiene degli

aspetti che da un lato riescono a rappresentare metaforicamente l’inanità della vita e la ricerca di

senso e di felicità e dall’altro lato contribuiscono conseguentemente e maggiormente

all’accettazione della condizione umana il che conduce ad un grado superiore di ‘felicità’. La

ritualizzazione della maratona, ovvero il correrla su un tapis roulant, toglie ogni naturalezza ad un

gesto ‘naturale’ come la corsa. Perciò non rappresenta soltanto la nostra società postmoderna (o

post-postmoderna), ma testimonia le capacità per eccellenza di ottenere certi effetti e di fungere

come un mito, come una religione.

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3. L’IDENTITÀ AUTENTICA

«Ma guai a chi non sa portare la sua maschera,

sia da Re, sia da Papa.»

- Luigi Pirandello, Enrico IV -

«Performance is about the true reality.»

- Marina Abramović -

“Chi sono io e perché sono quello che sono”? Queste sono delle domande che l’uomo si è sempre

posto e che gli ultimi decenni sono diventate sempre più problematiche e pressanti.

Prima di passare all’analisi della questione dell’identità nella pentalogia, occorre fornire un po’ di

contesto riguardante il tema, soprattutto perché l’identità viene indirettamente definita nella

pentalogia delle stelle. Innanzitutto però, proverò a tratteggiare brevemente il modo in cui viene

definito il concetto di identità in epoca postmoderna, dal punto di vista poststrutturalista e

decostruzionista.

3.1. L’IDENTITÀ NELL’EPOCA POSTMODERNA

La questione riguardante l’identità è una questione assai complessa sulla quale si sono cimentati

numerosi teorici e studiosi. Per trovare una risposta alle domande che si pongono come oggetto il

problema dell’identità e il variare di essa, affronterò il problema adottando un punto di vista

decostruzionista. L’errore maggiore che si può fare è di considerare l’identità umana, e per via di

estensione ogni tipo di identità, come unica, singolare, e omogenea poiché niente è meno vero di

tale asserzione. L’identità, invece, è inerentemente scomposta, frantumata e perciò plurale e

disomogenea. Quindi, per poter definire il concetto dell’identità, non si può fare altro che

considerare quello che l’identità non è.

Dumitrescu, ad esempio, che in Modernism, Postmodernism, and the Question of Identity101 si occupa

specificamente della differenza tra il modo di percepire l’identità in ambedue le epoche, ovvero

moderna e postmoderna, afferma che la definizione della nostra identità assomiglia in grande misura

al modo in cui si è tentato di definire la divinità, o «l’essenza divina»102 poiché anche essa si definisce

101

DUMITRESCU MIHAELA, Modernism, Postmodernism and the Question of Identity, in Dialogos, Anno 2001, n. 3, pp. 11-13. 102

Ibidem, 11.

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per assurdo, ovvero non in base a ciò che è, alle sue caratteristiche, ma in base a ciò che non è, o

ancora: paragonandosi all’Altro. L’Altro sta appunto in opposizione diametrale all’Io o al Sé ed è

quindi per definizione quello che noi non siamo. Così l’Essere divino viene definito in base a quello

che non è; ad un Altro che potremmo chiamare demonico. Sarà chiaro che i termini ‘Io’ e ‘Altro’

vengono qua utilizzati con riferimento a categorie che non sono del tutto afferrabili. Si può ben

compararli con i termini ‘Self’ e ‘Other’ di Simone de Beauvoir che definisce la donna come l’Altro in

base a cui l’uomo, o l’Io, riesce a definirsi.103 Infatti, l’Altro, dice Dumitrescu, serve a ‘consolidare’ la

propria identità.104

Le domande attinenti all’identità costituiscono già una delle maggiori problematiche in epoca

moderna. Tuttavia, dal punto di vista postmodernista il concetto dell’Altro viene definito in modo

vago e superficiale in epoca modernista, per cui la modernità non è riuscita a definire l’Io in modo

soddisfacente. Tale impossibilità di descrivere l’Identità o l’Io è una conseguenza diretta di una

concezione troppo ristretta per quanto riguarda il contenuto del concetto dell’Altro, o se si vuole di

un difetto, caratteristico delle grand narratives moderniste. Attraverso la narrazione, l’uomo

occidentale ha provato a creare o a definire il prototipo dell’essere umano e la sua ‘natura’, questo

però tenendo solo conto del proprio contesto, ossia dal punto di vista dell’essere umano bianco,

maschile, facoltoso, razionale, eurocentrico ecc. e senza tener conto dell’Altro. L’importante è che

l’Altro non venga considerato come equivalente all’Io, e neppure autonomo. Si tratta di un’entità, se

si può chiamarla così, che non ha una voce autorevole e che sta meramente al servizio dell’Io e della

autodefinizione di esso. Ritengo che sia appunto non integrando l’Altro che si è potuto creare l’Io, un

Io superiore e ‘naturale’.105

Tant’è vero che la definizione modernista non tiene conto di tanti altri aspetti che formano l’essere

umano; aspetti che il postmodernismo, invece, ha tentato di includere mettendo in discussione

l’immutabilità e la stabilità dell’identità che i modernisti vedevano come possibilità.106

Non sarebbe esagerato dire che la nostra concezione del concetto di identità cambia regolarmente. Il

modo in cui intendiamo l’identità nella nostra epoca, diciamo postmodernista, differisce già molto

dal punto di vista del modernismo.107

103

Per ulteriori informazioni concernente il concetto del ‘self’ e del ‘other’ in ambito feminista, si veda : DE BEAUVOIR SIMONE, Le deuxième, Paris, Gallimard, 1949. 104

DUMITRESCU MIHAELA, Postmodernism and the Question of Identity, cit., p. 11. 105

Ibidem, pp. 11-12. 106

Ibidem, p. 11. 107

Anche se, in questo momento, vi sono degli studiosi, come Donnarumma e Mazzarella, che sostengono che siamo già arrivati in un tempo che si dovrebbe chiamare post-postmodernismo, io, in questa sede, mi limiterò

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Secondo Dumitrescu, il postmodernismo ha rivalutato il concetto di identità e conseguentemente la

relazione tra l’Io e l’Altro, il che ha provocato lo sviluppo di nuove idee che hanno del rivoluzionario.

La narratif del modernismo ha dovuto far posto a una «pluralità di narratives»108 che devono

dimostrare la stessa pluralità rispetto all’Identità appunto a causa dell’Altro, che non è più stabile, e

dei suoi vari aspetti.109

A causa dei cambiamenti già verificatisi nel periodo del modernismo dal punto di vista personale e

privato, ma anche a causa della globalizzazione e della velocità dello scambio informatico, l’uomo

postmoderno ha avuto il sentimento di essere profondamente diviso. Questa «perdita di stabilità, la

perdita di un’identità stabile»110, dice il teologo Thiselton, ma anche il fatto che non ci rivolgiamo più

verso valori tradizionali, valori che dovrebbero essere presenti in ogni singola persona e che si

potrebbero definire un insieme di linee guida di cui abbiamo bisogno per poter sopravvivere, una

specie di istinto, suscita degli sentimenti come «incertezza, insicurezza, e ansia»111. Oggigiorno,

siamo, per dirlo con le sue parole, «other-directed»112, il che significa che, invece di fidarci dei propri

istinti, ci rivolgiamo agli altri per sapere chi siamo o chi dovremmo113 essere.

Walter Truett Anderson, a propria volta, ci ha fornito quattro termini che si inscrivono nella

tradizione del postmodernismo per quanto riguarda le teorie sull’Io e che mettono bene in rilievo la

molteplicità e la mutevolezza di esso.114

Il primo termine che egli suggerisce è «multiphrenia»115, che indica la multidimensionalità della

nostra identità e della vita postmoderna, non solo a causa di tutte queste voci che vengono da

ovunque a definirci, ma anche a causa del fatto che noi stessi indossiamo sempre una maschera

diversa, a seconda della situazione. Questo significa che, anche se l’uomo postmoderno tende

sempre ad andare disperatamente in cerca della propria identità, come fa d’altronde anche Covacich,

la speranza di trovare l’io autentico ormai non vi è più. In secondo luogo Anderson adotta il termine

«protean»116 (proteiforme), applicato all’Io che è soggetto ad un continuo mutamento. Per alcuni si

al termine di ‘postmodernismo’, visto la rilevanza del concetto e le implicazioni sempre attuali sulla società contemporanea. 108

DUMITRESCU MIHAELA, Postmodernism and the Question of Identity, cit., p. 11. (Traduzione mia). 109

Ibidem, p. 12. 110

THISTELTON ANTHONY, Interpreting God and the Postmodern Self: On Meaning, Manipulation and Promise, Grand Rapids (MI), Eerdmans, 1995, p. 130. (Traduzione mia). 111

WADE RICK, Where Did “I” go? The Loss of the Self in Postmodern Times, URL: http://www.probe.org/site/c.fdKEIMNSE0G/b.4224701/k.E534/Where_Did_I_Go_The_Loss_of_Self_in_Postmodern_Times.htm. (ultima verifica: 04/04/2014) (Traduzione mia). 112

Ivi. 113

Si nota il parallelo con la perenne ricorrenza del verbo modale ‘dovere’ al condizionale nella pentalogia. Si veda in particolare il testo che accompagna la performance (cf. infra). 114

WADE RICK, Where Did “I” go? The Loss of the Self in Postmodern Times, cit. 115

Ivi. 116

Ivi.

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48

tratta di un processo che alla fine porta alla scoperta dell’io autentico. Per altri invece, in particolare

per i teorici postmoderni, questo fattore implica di per sé il non esistere di un’identità autentica. In

terzo luogo, dice Anderson, l’io postmoderno è «de-centered»117, il che in effetti, nuovamente, indica

il trasformarsi e il separarsi dell’identità in vari aspetti non omogenei, e perciò, l’inesistenza del

concetto dell’Io autentico stesso. Infine, poi, vi è il «self-in-relation»118, locuzione che indica il fatto

che non si può disconnettere una persona, un’identità dal suo contesto sociale, storico e culturale da

cui viene profondamente influenzata.119

Riassumendo il contenuto di tutti questi termini, si può concludere che l’uomo postmoderno è

sprovvisto di un centro identitario; invece di avere un nucleo, è frammentato e disseminato. Di più, la

nostra identità mutevole si trova in uno stato di flusso perpetuo e viene definita ed influenzata

dall’esterno e non dall’interno o da una natura innata all’essere umano.120

Da questi approcci teorici si nota quindi, in epoca postmoderna, una concezione assai pessimista

dell’Identità. Non è solo in sé spezzata ma è addirittura impossibile capirla, conoscerla interamente e

coglierne la complessità. Questo si pone in contrasto con il positivismo che caratterizza ancora il

modernismo. L’identità ha ‘perso’ la sua unicità nonché il suo carattere stabile ed è diventata d’un

tratto una pluralità di modi suscettibile al mutamento; aspetto che sembra persino contraddire la

definizione e l’apparente unicità inerente al concetto di identità. Il cambiamento radicale della

definizione nel postmodernismo fa sì che l’individuo perde pure la sua soggettività.121

Non a caso si nota nella letteratura contemporanea una tendenza che va in direzione contraria a

quella di questo fenomeno. La letteratura vuol essere allo stesso tempo lo strumento e il luogo di

svelamento dell’identità.

Concordo con i teorici del poststrutturalismo e del postmodernismo sul fatto che, da un lato,

l’identità è una costruzione sociale, dialettica e linguistica, e dall’altro lato che si definisce in base

all’Altro. Nondimeno, ritengo che l’identità, oserei dire ‘contemporanea’122 (termine che mi pare più

neutro di ‘postmoderna’) devia leggermente da quella che ho riportato qua sopra in due punti.

Innanzitutto differisce per quanto riguarda il concetto dell’Altro: ritengo infatti che l’Altro vada

117

Ivi. 118

Ivi. 119

Ivi. 120

Ivi. 121

DUMITRESCU MIHAELA, Postmodernism and the Question of Identity, cit., p. 12. 122

Il lettore attento concluderà subito che questo tentativo di descrivere e definire una data identità, ovvero quella contemporanea, mi costringerà ad ammettere che un’identità è sempre storicamente e socialmente determinata.

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cercato da un’altra parte. L’Altro è stato sempre considerato come una dimensione inafferrabile o

trascendentale, esteriore o astratta, a mio avviso però l’altro è più vicino di quanto pensiamo, ovvero

è ‘dentro’ di noi. Per me, l’Altro fa, insieme all’Io, inerentemente parte della nostra identità. Si tratta

di un insieme di regole e valori, sociali e personali, che sono state represse e poi interiorizzate. Se

infatti non fosse così l’identità non sarebbe più un’identità, ma solo una delle tante caratteristiche

umane. Per dimostrare o rafforzare il mio punto di vista, mi pare opportuno adoperare uno schema

‘decostruttivo’, ovvero andare in cerca del processo di costruzione dell’identità per cercarvi le aporie.

Innanzitutto occorre analizzare la definizione della parola identità. Nel Treccani, troviamo come

definizione: «Di persona, l’essere appunto quello e non un altro: stabilire, provare l’i. di qualcuno, chi

egli sia veramente»123 o ancora «In filosofia, principio d’i., o, più precisamente, principio d’i. e

contraddizione, principio logico che, nella tradizione scolastica, asserisce l’identità di una cosa con sé

stessa («A è A») ed esclude l’identità con altro («A non è non A»)»124. Se si considera la seconda parte

di questa definizione, che esclude ‘gli altri’, o meglio ‘l’Altro’ dall’identità, si nota che l’identità viene

considerata come unitaria e come formata in base alla dicotomia tra il sé e l’altro. A mio avviso però

bisogna interpretare l’Altro non come un’entità esterna, ma come una parte integrante del carattere

o dell’identità stessa. Se ragioniamo sulla nostra propria identità, soffermandoci sulla definizione del

Sé, siamo propensi ad elencare tutte le caratteristiche, che siano buone o meno, che riteniamo

abbastanza rilevanti da poter formare l’insieme che chiamiamo ‘identità’. Alcune di queste qualità si

possono definire polari, poiché si definiscono sempre in base al loro opposto. Mi pare importante

che vi sono sempre due campi: un campo che possiamo chiamare ‘positivo’ e un campo ‘negativo’,

non nel senso etico ma piuttosto nel senso polare. Il campo positivo – nel nostro caso l’Io – viene

sempre definito in base a quello che non è, ossia il campo negativo – o in questo caso l’Altro.

Per la sua ricerca e la formazione dell’identità attraverso la scrittura della pentalogia, Covacich opera

nello stesso modo. Notiamo appunto l’apparizione dei suoi vari alter ego che possiamo considerare

come l’Altro e mediante i quali lo scrittore costruisce e afferma il Sé.

Per illustrare meglio il mio punto di vista, vorrei riportare alcune riflessioni di Judith Butler che si

muove nella stessa direzione discutendo concetti come gender, sessualità e analizzando la

formazione identitaria legata ad essi.

Nel saggio Imitation and Gender Insubordination125, Butler parla dell’opposizione tra eterosessualità

e omosessualità in relazione alla questione della naturalità, o dell’autenticità di una delle ‘due’

123

Vocabolario Treccani, s.v., “Identità”, URL: http://www.treccani.it/vocabolario/identita/ (ultima verifica: 16/04/2014). 124

Ivi. 125

BUTLER JUDITH, Imitation and Gender Insubordination, in The Lesbian and Gay Studies Reader, edited by H. Abelove et al., New York – London, Routledge, 1993.

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sessualità. L’eterosessualità, sostiene Butler, si appropria dello stato di naturalezza e di autenticità e

accusa l’omosessualità di essere una mera copia dell’originale. Nel corso della storia l’eterosessualità

si è proclamata ‘soggetto’ rispetto all’omosessualità cui viene attribuita la funzione di ‘oggetto’,

quindi di ‘Altro’. L’eterosessualità, dice Butler invece, non è affatto la categoria naturale o autentica,

ma afferma la propria esistenza o identità, su quella dell’omosessualità, poiché senza l’esistenza della

categoria ‘omosessuale’ non potrebbe esistere la categoria ‘eterosessuale’ che si dichiara essere

opposta all’omosessualità. In breve, sempre secondo la tesi di Butler, questo significherebbe che

l’eterosessualità, basandosi sull’esistenza della categoria omosessuale, sia la copia vera e propria e

che quindi l’omosessualità sarebbe anteriore all’eterosessualità e perciò più originale, autentica e

naturale dell’altra categoria. Per dirlo con i termini di Baudrillard e Eco, si tratta quindi di

un’iperrealtà, ovvero l’eterosessualità come entità che si presenta come naturale e originale, ma che

in effetti non ha un’origine.126 Lo stesso ragionamento si può infatti trasporre sull’Identità, ovvero

sulla bipartizione tra il Sé e l’Altro, che però non potrebbero esistere in assenza di una delle due

categorie.

3.2. RITUALITÀ E RICERCA DELL’IDENTITÀ

Se, come ho detto, l’identità contemporanea è un’identità frammentata e inerentemente

incompleta, possiamo immaginarci che l’uomo postmoderno è andato anche in cerca di un modo per

(ri)costruire e unificare la propria identità. Non solo nella letteratura contemporanea si nota una

tendenza che contrasta con l’atteggiamento pessimista relativo alla conoscenza del sé o della propria

identità, ma la si vede pure in altri ambiti della vita quotidiana, come attestato nella pentalogia nel

caso della corsa. L’uomo postmoderno va appunto continuamente in cerca di riti contemporanei di

cui la maratona è senza dubbio un esempio eccellente.

Rick Wade che ha analizzato la perdita dell’identità in epoca postmoderna, appunto, propone una

soluzione religiosa, cristiana. Nondimeno, come ho menzionato nel secondo capitolo di questa tesi, la

religione non è più un’opzione valida per tante persone a causa delle circostanze storiche e sociali

nelle quali viviamo. Le religioni sono state sostituite dalla razionalità. Questo non significa però che la

pista della religiosità sia del tutto inutile o senza valore, anzi. Dimostra che l’essere umano ha

comunque bisogno di una certa dimensione sacrale per dare un senso alla vita. È appunto qua che

entra nuovamente in scena la ritualità, tanto presente nella nostra epoca.

126

In merito al termine di ‘iperrealtà’ (‘hyperreality’) si vedano in particolare: BAUDRILLARD JEAN, Simulacra and simulation, trad. Glaser S.F., Michigan, University of Michigan Press, 1994 e ECO UMBERTO, Travels in Hyperreality, trad. Weaver W., San Diego-New York-London, Harcourt Brace & Company, 1986.

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Nei capitoli precedenti ho rilevato l’ampia presenza di riti in epoca postmoderna e ho sottolineato il

fatto che essi sacralizzano tanto il tempo quanto i luoghi. È appunto attraverso la combinazione di

tempo e spazio sacro, un specifico cronotopo se si vuole, che l’uomo ritaglia per sé il tempo di

riflettere e di indagarsi. Insieme il rito ed i simboli che lo accompagnano possono, secondo Eliade,

offrire nuove conoscenze, non solo per quanto riguarda il mondo, ma anche noi stessi e la Verità

della nostra Identità.

I riti non hanno solo come scopo quello di costituire un’identità sociale, un’identità di gruppo, e di

rendere i legami tra i partecipanti a questa società più solidi. Un obiettivo altrettanto importante è

quello di formare e rinsaldare l’identità individuale. I riti, allora, che usiamo per raggiungere tale

scopo rappresentano esteriormente i cambiamenti che si verificano dentro colui che li compie. In

questo senso, si potrebbe argomentare che il gesto della corsa e il movimento conseguente siano

una metafora del movimento e cambiamento mentale a cui si è sottoposti. La tangibilità dell’atto

rituale, nel nostro caso la maratona ma anche il viaggio, rendono palpabile e concreta la

trasformazione psicologica. Di più, il rito, contenendo le fasi di separazione, transizione e

interiorizzazione, come afferma Van Gennep e cui faccio riferimento nel primo capitolo, è un perfetto

specchio in quanto rappresentazione microscenica della metastoria della nostra vita e mostra perciò

molto bene il processo di trasformazione dell’identità umana.

Un altro aspetto assai importante per quanto riguarda la ricerca dell’identità è quello che in inglese si

chiamerebbe il principio dell’atto del divenire. In determinati momenti della nostra vita la società ci

chiede di trasformarci e di cambiare identità. Un esempio sarebbe la transizione da bambino/giovane

ad adulto quando si raggiungono i diciotto anni. L’essere umano però non è adatto a queste

transizioni brusche. Perciò, i riti che assecondano il principio dell’atto del divenire fanno in modo che

un individuo possa ‘interpretare il ruolo’ di ciò che dovrebbe essere ma che ancora non si sente di

essere, per diventarlo conseguentemente anche in realtà. Se potessimo giocare ad essere adulti

attraverso un rito, quindi, sarebbe più facile adottare tale ruolo dopo il compimento del rito. Così, se

mediante la maratona possiamo convincerci di avere un’identità più completa, alla fine della

maratona, l’apparente self fulfilling prophecy diventerà realtà. Si ha bisogno di questo principio

dell’atto del divenire poiché, come sostiene Tom F. Driver, la nostra vita viene costituita non soltanto

e non per primo motivo dalle nostre idee o quindi dalla mente umana. Invece la nostra identità viene

formata dalle azioni che compiamo, ovvero dalle performance che facciamo impiegando il nostro

corpo.127 Questo concetto ci rinvia alla tesi di Merleau-Ponty e Wisnewski dell’embodied mind o del

‘corpo che pensa’ a cui ho accennato nel secondo capitolo di questa tesi. Non solo il mondo viene

percepito attraverso il corpo, la fisicità, ma anche la nostra propria identità.

127

Per ulteriori informazioni se veda: DRIVER TOM F., Liberating Rites: Understanding the Transformative Power of Ritual, Boulder (Colo), Westview Press, 1998.

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Se ora accettiamo appunto che i riti sono paragonabili, se non equivalenti, alla pratica della

performance. Ora, similmente a quanto sostiene Butler sulla performance dell’identità, ovvero che

sia la nostra appartenenza di genere che la nostra identità si realizzano in modo performativo e che

non si tratta quindi di manifestazioni di aspetti innati o naturali, Driver afferma pure che la

performance della nostra persona o della nostra identità non fa venire a galla quello che siamo, ma

che quello che siamo avviene durante o mediante la performance stessa.128

È appunto la combinazione del riflettere, o del funzionare della mente, con le azioni svolte nei riti,

ovvero è il raggiungimento dello stato di embodied mind che può condurre il performer del rito vero

e proprio ad una verità più profonda; una verità che può essere interiorizzata e quindi, come il

movimento del rito, trasmettersi dalla mente razionale ad uno stato più profondo dell’essere, ossia

l’identità, la personalità, il carattere. Si tratta di una specie di «conoscenza rituale»129 che, e lo dice

Jennings, antropologo, viene assunta non attraverso l’osservazione ma grazie all’esecuzione del rito

mediante il corpo.130

Da tutto questo, risulta nuovamente che il rito è una ‘microrappresentazione’ strutturata della via

che l’uomo attraversa. Anche se l’eseguire un rito richiede da parte di colui che si impegna a portarlo

a buon fine e a raggiungere gli scopi prefissati un comportamento specifico, da cui spesso sono

assolutamente escluse le deviazioni e che spesso richiedono anche la dissoluzione dell’individuo nel

complesso del gruppo per il bene di esso, i riti concedono paradossalmente al performer il tempo e lo

spazio di esprimersi in modo più libero che nella vita quotidiana o almeno di scoprire altri lati della

propria personalità, dell’identità.

3.3. L’IDENTITÀ NELLA PENTALOGIA

A questo punto, che cosa hanno a che fare le teorie sopra citate con la pentalogia di Covacich? Come

l’autore stesso afferma, attraverso la scrittura egli ha l’intenzione di trovare l’Identità autentica e la

Verità e lo fa in un modo assai particolare ovvero, come ho già spiegato, mediante la maratona.

Nell’intervista a Bono Covacich dice:

[H]o fatto un video in cui corro per 42 chilometri sul tapis-roulant replicando la

performance del mio alter ego Rensich, di fatto incarnandomi in lui. Era il tentativo

estremo di stanare l’io autentico: dove cercarlo se non nel dolore? Come arrivarci se

128

Ivi. 129

JENNINGS THEODORE, On Ritual Knowledge, in Journal of Religion, Anno 1982, Vol. 62, N. 2, pp. 111-127. 130

Ivi.

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53

non scrivendo con il corpo? Non a caso il video viene dopo Prima di sparire, che è una

“operazione verità” anche se letto da tutti come un romanzo. Tutto il mio lavoro sta nel

far confliggere il conato all’autenticità di Marina Abramovic con l’intimità pubblica di

Sophie Calle: queste due artiste sono i miei modelli letterari.131

Oltre a parlare della maratona Covacich indica anche apertamente la presenza di alter ego, ovvero di

parti integranti della sua identità scissa. In generale si può dire che andare in cerca della propria

identità è una tendenza che si realizza soprattutto nei cosiddetti romanzi metafinzionali, e

soprattutto autofinzionali,132 ma Mauro Covacich, essendo un maestro per quanto riguarda

l’intrecciare delle vicende, lo svelare e il creare confusione nelle teste dei suoi lettori, aggiunge una

dimensione psicologica e intellettualistica a questa tendenza, rappresentando la propria persona

come scissa.

Fin qua, abbiamo potuto concludere che L’Io, o l’Identità, postmoderno è un Io in crisi. La domanda

da porsi è però anche se si possa dire che si tratta di una crisi vera e propria poiché, secondo i teorici

postmoderni, l’Identità addirittura non esiste; proprio come la Verità. L’unica identità che esiste è

quella costruita, mediante l’uso della lingua, dal nostro contesto storico e sociale e per di più

costruita in base a quello che non siamo, o se si vuole sull’Altro. Wade rileva giustamente, e anche

metaforicamente, che la nostra vita viene di continuo (ri)scritta e afferma inoltre che per poter

esercitare un maggiore controllo sulla propria vita, bisogna definire noi stessi e, visto che la lingua è

lo strumento con un maggiore potere in questo ambito, occorre, metaforicamente o meno,

(de)scrivere la propria vita, invece di lasciarla (de)scrivere.133

A questo punto viene di nuovo in scena la mia ipotesi sul fatto che l’Altro è integrato in ogni Identità

e sul cancellamento di esso. Scrivendo, appunto, si può creare un processo di creazione della propria

Identità, mediante la descrizione dell’Io basata sull’Altro, il quale, poi, viene cancellato al fine di

consolidare il Sé. È appunto quello che fa Covacich. Riassumendo, possiamo quindi concludere che

l’Altro esiste e che come il Sé fa inerentemente parte dell’Identità. L’uomo tende però a reprimere

l’Altro dentro di sé per dare l’impressione di essere stabile e unitario. Perciò, negando una grande

131

BONO MAURIZIO, Mauro Covacich, cit. 132

BAMBERG MICHAEL, Identity and Narration, in: Hühn Peter et al. (eds.), the living handbook of narratology, Hamburg, Hamburg University Press, URL: hup.sub.uni-hamburg.de/lhn/index.php?title=Identity and Narration&oldid=1796 (ultima verifica: 10/05/2014); NEUMANN BIRGIT & NÜNNING ANSGAR, Metanarration and Metafiction, in: Hühn Peter et al. (eds.), the living handbook of narratology, Hamburg, Hamburg University Press, URL: hup.sub.uni-hamburg.de/lhn/index.php?title=Metanarration and Metafiction&oldid=1924 (ultima verifica: 10/05/2014). 133

WADE RICK, Where Did “I” go? The Loss of the Self in Postmodern Times, cit.

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parte della nostra identità, non possiamo mai giungere a una conoscenza profonda di chi siamo.

Possiamo soltanto conoscere la nostra propria identità se accettiamo l’Altro dentro di noi.

In quello che segue, indagherò in quale modo, con quali operazioni narrative, Covacich realizza

questo processo.

3.3.1. LA MARATONA: NARRAZIONE E PERFORMANCE

3.3.1.1. DA A PERDIFIATO A PRIMA DI SPARIRE

Ormai, abbiamo già capito che mediante il rito della performance, ovvero la corsa sulla lunga

distanza o la maratona, Rensich/Covacich imitano le stelle e rappresentano il fatto che vengono

umiliate dalla loro corporeità. Pertanto ora mi soffermerò di più sull’aspetto formativo della

maratona in relazione alla ricerca d’identità.

A questo punto, che cosa ha a che fare il rito della maratona con la ricerca dell’identità autentica

dello scrittore? Nel libro Purity and Danger134, Douglas sostiene che «[i]l corpo è un modello che può

rappresentare qualsiasi sistema delimitato. I suoi limiti possono rappresentare tutti i limiti che sono

minacciati o precari»135. In effetti, il corpo può rappresentare altri sistemi limitati perché il corpo può

essere visto come il confine di ogni persona oltre il quale smette la sua esistenza. Il corpo può essere

considerato un vero e proprio contenitore di ogni singola vita umana. È questo appunto che ci viene

raccontato sia dalla teoria dell’umiliazione delle stelle, sia dalla performance, e persino dalla pratica

quotidiana della corsa. Rappresentando l’organizzazione del macrocosmo con elementi del

microcosmo (in altre parole: rappresentando l’umiliazione delle stelle attraverso il corpo umano) ci si

rende conto che il nostro corpo è limitato e unico, un’entità o un oggetto, uniforme. Esiste solo un

esemplare di ogni persona. Ora, quando correndo ci rendiamo conto di questa unicità del nostro

corpo, veniamo anche posti a confronto con un’opposizione contraddittoria ovvero quella dell’unicità

del corpo e della pluralità dell’identità umana. A questo punto, la corsa è un’attività che ci può

aiutare a ‘raccogliere’ tutti i pezzi della nostra identità postmoderna frantumata e a ‘unificarli’, pur

essendo sempre separati, in un solo corpo. Quando il corpo che pensa è esausto alla fine ma anche

durante la corsa, ci fa sapere che ha dei limiti; dei limiti nel senso di capacità fisiche, ma anche e

soprattutto nel senso spaziale. Il nostro corpo può essere considerato un contenitore somatico che

disegna i propri confini all’interno dei quali è costretta a rimanere la personalità di ogni singolo

134

DOUGLAS MARY, Purity and Danger: An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, New York, Praeger, 1966. 135

Ibidem, p. 115. (Traduzione mia).

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individuo. È l’umiliazione legata alla nostra corporeità che ci fa rendere conto che dobbiamo tenere

la nostra identità all’interno di questi confini e che ci ricorda questo obbligo.

Questo significa concretamente che, nel caso dello scrittore Covacich, né Angela, né Fiona, né

Rensich, né qualsiasi alter ego appartenente ad una sola persona, è in grado o ha il diritto di esistere

al di fuori del corpo al quale appartiene questa identità, poiché questo significherebbe una minaccia

per l’ordine della società. Se ogni pezzo individuale della nostra identità tendesse a stabilire una

propria vita, a trascendere il ‘proprio’ corpo, come Angela scrittrice che pubblica il suo romanzo, o

come Rensich che corre la maratona sul tapis roulant nel corpo dello scrittore, si sarebbe destinati ad

entrare in una profonda crisi d’identità. Ci vogliono delle limitazioni al fine di assicurare il

funzionamento della propria persona nella società, nel microcosmo, e di mantenerne l’ordine

apparente. Non è anormale avere un’identità plurale, anzi sarebbe piuttosto anormale non averla,

ma, nell’epoca postmoderna, la sfida è provare a mantenere i pezzi insieme senza fonderli e di saper

farne uso. Se appunto i frammenti del sé vivono una propria vita, noi finiamo per essere umiliati dalla

malattia di cui parlo nell’introduzione di questa tesi.

3.3.1.2. IL VIAGGIO

Un elemento narrativo che non ricorre nella trilogia, ma solo in A nome tuo (almeno in modo

esplicito), che comunque, a mio parere, ha molto in comune con la maratona per quanto riguarda la

ritualità e il processo di formazione dell’identità umana, e che perciò vorrei trattare qui, è il concetto

del viaggio o del viaggiare.

Nella prima sezione del romanzo, L’umiliazione delle stelle, il protagonista Mauro, scrittore e

performer, viene invitato per un viaggio per mare su una nave militare nel quadro di un tour lungo il

mare adriatico per arrivare alla fine alla città natale di Mauro, Trieste; città dalle identità molteplici.

Viene in proposito posta la questione dell’identità dei triestini immigrati attraverso vari aspetti come

la cultura, la lingua eccetera. Come lo scrittore stesso, quelle persone non sanno più veramente chi

sono. Hanno perso la loro identità, oppure il sentimento di unità che si è solito chiamare identità,

quando sono espatriate. Il viaggio per mare allora funge da simbolo rituale della ricerca di

quest’identità ‘persa’ o disseminata.

È nel terzo romanzo della sua pentalogia, più specificamente nel capitolo trentacinque, che lo

scrittore offre qualche indicazione che può aiutare a capire non solo la scelta della maratona e della

sua performance, nonché della ritualità del gesto, ma dà anche una risposta al perché del viaggio in

barca rappresentato poi in A nome tuo. Nel capitolo in questione Sandro, uno dei protagonisti, spiega

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a Maura una delle performance dei performer più noti dei nostri tempi, ovvero Marina Abramović e

Ulay, intitolato Lovers136:

Ad esempio Ulay e Marina Abramovic, [...], decidono dopo quattordici anni di

convivenza di sposarsi, però decidono di farlo in modo ‘artistico’, scegliendo di

percorrere la muraglia cinese ognuno da un capo opposto per incontrarsi al centro e

quindi sposarsi. Si tratta di un percorso mentale, un percorso di vita totalizzante che

dura circa novanta giorni; Ulay e Marina stanno novanta giorni da soli sulla muraglia

cinese, tra mille difficoltà, percorrendo 1600 km a testa da una parte e dall’altra, ed

intanto pensano, rielaborano la loro vita e capiscono che in realtà non si stanno

sposando, si stanno lasciando, e che quel matrimonio è il suggello a una relazione che

perdeva senso.137

Insomma, nel marzo dell’88, non mi ricordo il giorno preciso, Ulay da ovest e la

Abramovic da est muovono finalmente i primi passi uno verso l’altro sulla Grande

Muraglia. Li separano duemilacinquecento chilometri, il tratto che hanno ottenuto di

poter percorrere. L’obiettivo è incontrarsi circa novanta giorni dopo, in un punto x della

provincia di Shaanxi, e sposarsi. Lungo il cammino terranno un diario e saranno seguiti

da un operatore. L’opera sarà insieme quest’esperienza e il suo racconto, sarà ancora

una volta la loro vita.138

La performance della Abramović e del suo partner Ulay gioca infatti un ruolo fondamentale nel capire

la ricerca di verità o di un’identità autentica dello scrittore. Covacich dichiara che più si era avvicinato

a se stesso durante la sua ricerca mediante la scrittura, più aveva l’impressione di stare del tutto

dall’altro lato, ovvero che contemplava se stesso da un punto di vista esterno. Si potrebbe quindi dire

che la performance in questione funge, nel romanzo di Covacich, come una meta-rappresentazione

di questo sentimento. Più i due performer camminano sulla Muraglia e più si avvicinano, più si

rendono conto del fatto che, invece di essersi avvicinati l’uno verso l’altra, in realtà si sono sempre

più allontanati. Il tempo che gli è stato concesso ha permesso loro di riflettere sulla propria vita e di

mettere in dubbio la loro relazione. Il risultato a quel punto era quindi che invece di sposarsi, si erano

separati.

136

Si badi al fatto che Covacich conosce bene le opere d’arte contemporanee. Non solo cita spesso opere di grandi performer nei suoi romanzi come appunto Marina Abramović e Sophie Calle, ma ha anche scritto il libro L’arte contemporanea spiegata al tuo marito, Roma, Laterza, 2011. 137

ITALIA MARIAGIOVANNA, Intervista a Mauro Covacich, a cura di Mariagiovanna Italia in “Arabeschi – Rivista internazionale di studi su letteratura e visualità”, n.1, gennaio-giugno 2013, Anno I, p. 8. 138

COVACICH MAURO, Prima di sparire, cit., p. 212.

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57

Come il rito della maratona, sia la performance o il viaggio di Abramović e Ulay, sia il viaggio in barca

descritto in A nome tuo concedono a colui che ne è soggetto il tempo e lo spazio necessari ad

‘avvicinarsi’ a se stessi, appunto perché la ritualità della maratona e del viaggio trasformano il tempo

e lo spazio profani in cui si svolgono questi ‘riti’ in un tempo e spazio di meditazione durante la quale

si può indagare se stessi e andare in cerca dei propri frammenti al fine di giungere ad un sentimento

di completezza della propria identità. In tutti i casi descritti la meta non è quindi mai una meta vera e

propria o fisica, ma una meta mentale.

3.3.1.3. LA VIDEO-PERFORMANCE: THE HUMILIATION OF THE STARS

Come ho provato a dimostrare nel capitolo precedente, la maratona può contribuire alla ricerca

dell’identità dello scrittore, o in generale dell’uomo postmoderno che corre. In Covacich, la maratona

appare in varie modalità; oltre la maratona normale si pensa appunto alla performance. In quale

modo allora la performance potrebbe offrire alla ricerca d’identità una nuova dimensione? Che cosa

succede nella transizione da Prima di sparire alla videoperformance L’umiliazione delle stelle e perché

Covacich smette (apparentemente) di scrivere scegliendo la modalità della performance?

Da A perdifiato a Prima di sparire leggiamo come Rensich, personaggio e alter ego di Covacich, si è

trasformato da maratoneta ad allenatore di un gruppo di mezzofondiste, e poi, dopo il fallimento

della carriera come allenatore, è diventato un performance artist, che corre i 42.195 metri su un tapis

roulant, si paragona ai più grandi performer della storia (come Marina Abramović, Joseph Beuys,

Sophie Calle, ecc). In questo processo evolutivo si nota una sorta di inettitudine esistenziale, nel

senso che Rensich, come gran parte degli altri personaggi (e come del resto Covacich stesso), in

quanto prodotti dell’epoca postmodernista, non riesce ad attribuire un senso alla vita, all’esistenza

umana. «Sono dei personaggi pieni di contraddizioni interiori in un mondo caratterizzato da

contraddizioni»139. Covacich mette in scena le loro bugie, i tradimenti, il loro non sapere più in quale

direzione muoversi, insomma la loro capacità di imbrogliare se stessi. In questo modo i suoi romanzi

diventano uno specchio della società contemporanea, nella quale tutti portano delle maschere e in

cui ci si sente obbligati a trasformare la propria vita in una performance al fine di poter obbedire alle

esigenze della società stessa.

139

MURATORE TARCISIO, Intervista allo scrittore Mauro Covacich, in “ODISSEA – Bimestrale di cultura, dibattito e riflessione”, Milano, Anno I, n. 4, Marzo-Aprile 2004, p. 6.

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58

Dopo Prima di sparire, Covacich stesso effettua la performance e ne fa il video L’umiliazione delle

stelle, che viene spesso descritto come un’opera nella quale l’autore si mette nei panni del suo

personaggio, Dario Rensich, e quindi come la trasposizione della ‘performance letteraria’ nella realtà.

Lo scrittore stesso afferma infatti che si tratta di una pausa nella narrazione che ha come scopo

quello di concretizzare e allo stesso tempo di sfocare il divario tra finzione narrativa e realtà140, però

la questione non è semplice quanto pare.

Come ho accennato, in Corro ergo sum141, Mara Santi sviluppa delle riflessioni relative alla

performance in Covacich: per capire meglio la posizione di Covacich come scrittore, Santi confronta

la scelta della ‘scrittura con il corpo’ all’esempio portato durante i rispettivi pontificati da papa

Giovanni Paolo II e papa Benedetto XVI, e stabilisce infatti un parallelo tra l’incarico di papa e quello

di scrittore (si tratta di un’ipotesi motivata dal fatto che Covacich parla della figura di Paolo II sia nella

pentalogia sia in diverse interviste e scritti giornalistici142).

Entrambi i papi, per ragioni opposte, non erano più completamente in grado di compiere il loro

ufficio di papa, l’uno perché gravemente malato, l’altro perché non in grado di affermare la propria

autorità. I due papi reagiscono in modo radicalmente diverso alla situazione: mentre papa Benedetto

XVI rinuncia a fare il papa perché ritiene che ‘se non è in grado’ di fare il papa allora ‘non è papa’,

papa Giovanni Paolo II decide di continuare a ‘fare’ il papa benché non ne sia più in grado, perché ‘è’

papa, e quindi finché la morte non glielo impedisce continua a fare il papa con l’unico strumento che

gli è rimasto: il corpo.

Lo stesso processo si nota nel caso di Covacich il quale, quando non si sente più atto a ‘fare’ lo

scrittore, ovvero a scrivere i romanzi che aveva in mente, poiché non raggiunge il suo scopo, trovare

la Verità, continua tuttavia a scrivere, non più però usando la lingua come mezzo di comunicazione,

bensì il corpo.143 In merito a questo argomento, Santi scrive:

Così facendo Covacich porta in primo piano il ruolo, l’essere scrittore, e mette in scena

la propria sofferenza ma in senso simbolico, così come il papa mostrava il proprio

parkinson non in quanto specifica malattia ma in quanto immagine della decadenza

della natura umana, così Covacich mostra i dati biologici, i numeri, della corsa del suo

corpo, non in quanto tali, ma in quanto ostensione del dato fisico di una sofferenza

140

In merito alle affermazioni dello scrittore per quanto riguarda la sua cosiddetta ‘pausa narrativa’, si veda: SAVETTIERI CRISTINA et al., Incontro con Mauro Covacich, Profilo, in “Arabeschi – Rivista internazionale di studi su letteratura e visualità”, Anno I, gennaio-giugno 2013, n.1, p. 4. 141

SANTI MARA, Corro ergo sum, parte seconda [paper convegno], Convegno Performativity / Narrativity, Gent, 3 maggio 2013. 142

Ibidem, p. 16. 143

Ivi.

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esemplare per tutti e di tutti, collettiva e spirituale, quella che ci spinge a stabilire dei

limiti nel tentativo di definire noi stessi.144

Si potrebbe allora dire che lo scrittore esce sì dalla scrittura, ma non dalla narrativa. ‘Presta’ per così

dire il proprio corpo al suo alter ego Rensich e corre la maratona in quanto performance. In questo

modo, lo scrittore sa comunque continuare e obbedire all’imperativo della scrittura. Rinuncia quindi

alla scrittura vera e propria e scrivendo con il corpo genera la sua videoperformance; almeno

apparentemente, perché uno si potrebbe chiedere: “Chi è in effetti che sta correndo? Covacich o

Rensich?”.

Questa è una domanda complessa, dato che è estremamente difficile fare una distinzione tra i due, e

più in generale tra Covacich e i suoi vari alter ego, ma proverò a fornirne una descrizione

attraversando la cronologia interna ed esterna dell’opera di Covacich.

Per approfondire il rapporto tra Rensich e Covacich, comincerò la mia analisi della questione degli

alter ego partendo dall’ultimo romanzo della pentalogia A nome tuo, e in particolare dalla prima

sezione intitolata L’umiliazione delle stelle, per poi tornare indietro al caso di Rensich, nonché di

Angela.

3.3.2. GLI ALTER EGO E LA QUESTIONE DELL’IO: RECLAMARE LA PROPRIA ‘IDENTITÀ’

Nei suoi romanzi Covacich parla di sé, mentre non parla di sé ossia fonde o adatta delle vicende

vissute nella propria vita con l’immaginazione letteraria. Degli elementi narrativi come l’adozione di

Fiona, il viaggio in barca, il diario di sua zia riportato in A nome tuo, sono tutti basati su delle vicende

che si sono svolte in realtà e che sono, in una misura minore o maggiore, adattate alla finzione.

Spesso lo scrittore parla di se stesso attraverso i suoi alter ego, o in generale attraverso i suoi

personaggi. È un funzionamento, o un processo, che si comincia a capire meglio a partire dall’ultimo

romanzo della pentalogia. Non si tratta in questo caso di un semplice uso finzionale di elementi

autoreferenziali ma di vera e propria autofiction.

Ne L’umiliazione delle stelle, prima sezione di A nome tuo, in un brano metanarrativo, Angela – la

clandestina che Mauro si immagina si sia nascosta nella sua cabina – parla del fatto che egli usa delle

vicende autobiografiche nei suoi romanzi. È quindi lo scrittore stesso, utilizzando lo stato di coscienza

144

Ibidem, pp. 17-18.

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di Angela, a riflettere sul suo modo di generare un’opera letteraria. Il brano riprende dei fatti,

autobiografici o meno, che Covacich scrive nei primi tre romanzi, riportando le parole di Angela:

Con che coraggio ti metti a fare la predica, tu? Vogliamo parlare del vomito

autoindotto? Di come ti ha mandato i denti a puttane? «Gli acidi non perdonano, il

primo ad accorgersi dei miei disturbi è stato il dentista», chi l’ha scritto questo?

Vogliamo parlare delle cure tipo: masticare chewing gum dodici ore al giorno, non

mangiare mai insieme agli altri, assumere gastroprotettori, correre novanta minuti al

giorno con un’insalata senza condimento e tre ovuli omega-3? Chi le ha scritte queste

cose? Non è colpa mia se nei libri parli dei cazzi tuoi.145

Di questa ricerca dell’io è lo scrittore stesso che ci fornisce degli indizi a più riprese, ad esempio

nell’intervista con Mauro Bono, dove Covacich espone il percorso di questa lunga ricerca della

propria identità che fa pensare molto alla vicenda di Habitat che viene rappresentata in Fiona:

Da dieci anni lavoro sulla questione dell' io. In questo ciclo, che comincia nel 2003 con A

perdifiato, ho affrontato sempre le stesse domande. Chi sono io? Quando sono me

stesso e quando invece recito la parte di me stesso? E c'è davvero differenza? Se la

realtà è diventata una forma di intrattenimento tv, se quando affetto un pomodoro in

cucina ho la sensazione di essere sul set di una trasmissione il cui protagonista si sta

preparando la cena, se sono disposto a confessare le cose più intime davanti a milioni di

telespettatori, posso ancora credere all'idea di interiorità? È stato un ciclo lungo, nel

quale l'io si è moltiplicato in un' entità plurale.146

Mauro Covacich, come detto, ha vari alter ego, però i due personaggi che gli sono maggiormente

vicini sono senza dubbio Dario Rensich e Angela del Fabbro. Vediamo dunque come questi

personaggi si pongono in rapporto col processo identitario dello scrittore.

3.3.2.1. ANGELA

Angela del Fabbro è un ‘personaggio’ a dir poco particolare. Quando Mauro arriva nella cabina della

barca su cui è stato invitato a fare un viaggio in occasione della settimana della cultura italiana,

scopre che vi si è nascosta una clandestina: una donna di colore, vestita solo con un asciugamano

145

COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., p. 36. 146

BONO MAURIZIO, Mauro Covacich, cit.

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trovato nel bagno. Ella rifiuta di svelargli il suo nome vero, ma dichiara di essere salita a bordo solo

con ‘buone intenzioni’ ma soprattutto nel proprio interesse, ossia Mauro la deve aiutare a scrivere un

romanzo e in cambio lei è disposta a lasciarsi ‘possedere’, a offrirgli il suo corpo:

Vorrei cominciare a lavorare su un progetto completamente nuovo insieme a te.

[...]

- Angela, io non scrivo piú, non voglio piú pubblicare.

- Ma tu non devi pubblicare, tu mi devi solo aiutare, - e si inginocchia in mezzo alle mie

gambe. – A pubblicare ci penserò io.

- Stai cercando un ghost-writer? – dico con un filo di voce. – Un negro?

- Sí. Un negro per questa negra.147

Lo scrittore, come leggiamo nel libro, non si fida troppo di lei, ma, come nei romanzi precedenti,

soccomberà e sarà umiliato dalla propria debolezza: «Maria Maddalena nera, penso. La classica

puttana santa, piombata a incastrarmi in un viaggio già di per sé piuttosto complicato. [...] è difficile

sottrarsi alla sua presenza angelica.»148. Di lì anche il nome che egli le dà.

Ella dichiara di essere una scrittrice ma non ce la fa a scrivere quello che vuole o ad ottenere un

risultato soddisfacente. Vediamo in questo un evidente parallelo tra questa vicenda e la vita di

Mauro Covacich: anche lui, dopo Prima di sparire e prima di iniziare il progetto della

videoperformance, sostiene di non essere più in grado di scrivere.

Angela non funge soltanto da alter ego, ma è per così dire una rappresentazione allegorica del

writersblock successivo a Prima di sparire che impedisce Covacich di scrivere, o almeno di scrivere

quello che vuole. Lo scrittore è in dialogo con il suo personaggio-alter ego Angela e quindi allo stesso

tempo con l’impossibilità di scrivere la propria storia.

Quindi è Covacich stesso che parla e riporta al lettore un dialogo con se stesso. Ci sta raccontando del

fatto che ad un certo punto non riesce a scrivere ( o non riusciva, se si vuole, perché appunto la

dichiarazione la leggiamo nel libro). Questa messa in scena del problema della scrittura e il

conseguente dialogo con se stesso durante il viaggio in barca porterà infine l’autore al materiale per

un nuovo romanzo; non il romanzo che dovrebbe, ma quello che vorrebbe scrivere. L’unica soluzione

sembra allora scrivere a nome di qualcun altro, di quella che gli ha dato l’ispirazione e il coraggio di

scrivere la storia che voleva scrivere: Angela del Fabbro.

147

COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., pp. 29-30. 148

Ibidem, p. 15.

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62

È un passaggio assai alienante se si sa che due anni prima, nel 2009, è apparso effettivamente un

romanzo a nome di Angela del Fabbro, dal titolo Vi perdono; «storia di una giovane donna che

somministra con pietosa freddezza la dolce morte ai malati senza speranza, portando il peso di

un’azione giusta ma lo stesso insopportabile»149. Nessuno, editore a parte, sapeva che il romanzo

pubblicato sotto pseudonimo fosse di Mauro Covacich, autore ormai famoso e noto in Italia. «Il caso

era stato molto discusso, si era speculato che l’autore potesse essere un alto prelato, un moralista,

un angelo dei terminali che proteggeva se stessa dalla legge»150 e invece faceva tutto parte di una

ricerca molto personale.

A questo punto, da dove viene l’idea di voler scrivere a nome di qualcun altro? Come già menzionato,

durante la sua ricerca, ponendosi delle domande sull’autenticità del proprio ‘io’, Covacich si era reso

conto del fatto che la sua era un’identità plurale, spezzata. Non riuscendo più a scrivere essendo se

stesso, voleva provare a scrivere in quanto qualcun altro:

Era naturale che a un certo punto provassi a forzare nella direzione opposta: se non

posso mai essere davvero me stesso, forse posso essere un altro, o un’altra. E magari

scrivere per lei.151

Riassumendo il tutto, otteniamo uno schema che chiarisce il processo del perdere, del ricercare e

infine del ‘trovare’ la propria identità, nonché l’identità di autore.

Ovvero: con Prima di sparire possiamo parlare di una vera e propria crisi d’identità, soprattutto

d’identità autoriale, poiché Covacich non si sente più in grado di scrivere e decide di provare un’altra

strada: quella della performance. Nel 2009, all’insaputa di tutti, Angela del Fabbro, altro alter ego

dello scrittore, o, se si vuole, addirittura un’altra personalità dello scrittore Mauro Covacich, pubblica

il romanzo Vi perdono. Questa fase della ricerca viene soltanto a galla dopo il 2011, quando viene

pubblicato A nome tuo. Nel frattempo, Covacich si prepara per il suo altro progetto: la performance

L’umiliazione delle stelle (2010). In questa ‘performance’, lo scrittore presta il suo corpo al

personaggio di Rensich. Avendo perso l’identità di scrittore, scrive con il corpo in quanto atleta-

performer, sempre in cerca della Verità e della propria Identità.

Se poi ne L’umiliazione delle stelle nella pentalogia di Mauro Covacich ho dichiarato che alla fine della

performance, Covacich sembra aver ritrovato la propria identità di scrittore, poiché appunto segue

149

BONO MAURIZIO, Mauro Covacich, cit. 150

Ivi. 151

Ivi.

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un nuovo romanzo, A nome tuo (2011), che chiude il ciclo, desidererei ora attenuare questa presa di

posizione. È infatti la tripartizione dell’ultimo romanzo che complica la questione.

Nella prima parte del romanzo, intitolato L’umiliazione delle stelle, l’autore presenta il suo

personaggio Angela, Angela del Fabbro. Questa vicenda racconta appunto dell’impossibilità dello

scrivere in quanto Covacich e della ricerca di una soluzione: pubblicare un libro a nome di qualcun

altro. Dico “l’impossibilità dello scrivere”, ma allo stesso tempo si tratta dell’impossibilità del non

scrivere, poiché come lo scrittore dichiara nel suo libro, «[p]er uno scrittore scrivere è una condizione

essenziale»152, un «imperativo stoico»153.

E infatti non vi è un momento in cui Covacich non scrive. Scrive sempre, ma non sempre assumendo

la parte ‘Covacich’ della sua identità, ossia quando pubblica Vi perdono e crea la sua

videoperformance. Presta il proprio corpo, la propria persona, a due dei suoi alter ego, Rensich e

Angela, e perciò non sparisce mai fisicamente. Per usare un ossimoro, si potrebbe quindi dire che,

non scrivendo, riesce a scrivere di continuo, lasciando governare la sua identità da altre entità solo

mentalmente e non fisicamente esistenti, dall’Altro represso dentro di sé.

Dopo la performance, e quindi dopo aver provato a scrivere con il corpo e avendo ‘scritto’ due nuove

opere, non essendo ‘se stesso’, sembra aver trovato l’ispirazione per una nuova storia, o piuttosto un

nuovo libro:

Non so, non credo che uno scrittore sia un produttore di pagine scritte. Credo che

qualche volta uno possa esserlo proprio per il modo in cui sta zitto, per la qualità del suo

silenzio.

- Tu con questo video ti sei semplicemente sottratto alla sfida.

- E qual è la sfida, rispondere in tempo alla commesse? Accettare di fare i fornitori di

storie? Centinaia di fabbricanti di narrazioni, stoccatori di componentistica modulare

sollecitati a rispettare il contratto. Editor assemblatori, progettisti di casi editoriali, scout

sguinzagliati nelle scuole di scrittura creativa, gente che escogita libri in riunione. E tu

chino sul banco a martellare, a forgiare il pezzo?

- È il tuo destino, nomen omen, - dice lei sgranando gli occhi. – Sai cosa significa kovač,

no?

- Fabbro, - rispondo, pronto come uno scolaro.

[...]

152

COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., p. 67. 153

SANTI MARA, «L’imperativo (stoico) dello scrivere»: A colloquio con Mauro Covacich, [intervista inedita].

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- Kovačić è il figlio del fabbro, - dice Teresa, cercando i miei occhi dentro la luce

danzante delle candele. – io ti ho capito, sai. Tu ti sei messo a scrivere con il corpo. Quel

tapis roulant è la tua incudine. Ma scrivere con il corpo è una roba da giapponesi, e tu,

Kovačić, non sei giapponese. Tu sei slavo. Ben tornato a casa.154

Mauro vorrebbe scrivere una storia sulla morte di sua nonna, sul fatto che una donna così vecchia

vive per anni come una pianta, su come la tengono in vita e sulla propria incapacità di aiutarla a porvi

fine. Si tratta di una vicenda basata sulla biografia dello scrittore stesso: l’impossibilità di aiutare il

padre malato, nella fase di agonia. Quella storia mostra molti paralleli con il romanzo già esistente: Vi

perdono di Angela del Fabbro.155

Se, come ho già menzionato, la performance della maratona è il rito per eccellenza di ritrovare o di

riassemblare le varie parti di questa identità, possiamo concludere che alle fine della

videoperformance, Rensich, in quanto entità incarnata nei panni del suo creatore, muore e viene

nuovamente assunto da Covacich stesso come parte integrante della propria identità e non più come

una personalità in sé. L’unica che rimane viva è appunto Angela del Fabbro. Perché Covacich possa

rivendicare la propria autorialità, e quindi prima di poter scrivere un libro sulla morte, deve ‘morire’

anche lei; deve ucciderla. Un primo passo in questa direzione ha luogo quando lo scrittore si rende

conto del fatto che Angela non è che una sua invenzione, un personaggio, frutto della propria

identità, basata sulla figura di Fiona. Tutto questo, lo si legge pure alla fine de L’umiliazione delle

stelle:

A te non interessa la morte semplicemente perché non sei viva, ecco perché, - dico

senza il coraggio di alzare gli occhi dal mare. - Se fossi viva avresti raccontato la tua, di

storia.

- E quale sarebbe la mia?

- Una bambina haitiana adottata due volte.

Lei mi guarda senza dire niente. Un’occhiata nella quale non capisco se c’è piú dolore o

biasimo. [...]

- Fossi stata viva, avresti raccontato di quando stavi ad Haiti, di quando ti hanno

restituita all’orfanotrofio, di quando sei arrivata a Roma e mangiavi limatura di ferro, o

le unghie dei piedi di tua madre; Invece non hai raccontato niente, semplicemente

perché tu non sei niente.

[...]

154

COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., p. 67. 155

Ibidem, p. 54.

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- Tu non esisti, non sei mai esistita.

[...]

Ma non sei reale, - dico, osservando i suoi occhi riempirsi di lacrime. – Hai approfittato

di un momento di debolezza per uscire dalla mia testa, tutto qui. Ma sei una cosa mia, ti

ho fatta io.

Tu sei Fiona, - dico, guardandola sorridere.156

Se, a questo punto, lo scrittore vuole recuperare il proprio Io, occorre non soltanto uccidere gli alter

ego incarnati, ma anche riappropriarsi delle vicende di Angela, scritte in Vi perdono.157

In un brano di nuovo metanarrativo, le chiede esplicitamente, ammettendo pure il fatto che Angela e

Fiona sono una stessa cosa, di sparire:

Se te ne andrai scriverò io per te. Ricomincerò a nome tuo. Affronterò di nuovo il mare

aperto anche se mi terrorizza e regalerò ad Angela del Fabbro l’esordio che si merita. Un

libro che ha già ficcato le sue piccole radici rosa dentro il mio cervello, e sta crescendo,

sta crescendo ogni giorno. Scriverò per te, ti darò una voce, però tu devi sparire.158

Solo quando è sparita e Covacich ha scritto il romanzo a nome di Angela, lo scrittore sente di nuovo

l’imperativo di far emergere l’Io, riproponendo il romanzo sotto il nuovo titolo Musica per aeroporti e

inserendolo nel complesso A nome tuo dopo il racconto della ‘morte’ simbolica di Angela stessa.

Come ho accennato prima la sezione L’umiliazione delle stelle è un brano ‘postumo’, nel momento in

cui Covacich riesce a raccontarci della sparizione di Angela, ella è già sparita. Questo significa che

Angela può di nuovo essere un personaggio del libro, poiché, morta, è stata assunta nuovamente

dalla mente dell’autore. Angela del Fabbro, ormai, non esiste più come scrittrice, ma solo come

personaggio.

3.3.2.2. RENSICH

156

Ibidem, pp. 162-163 e p. 164. 157

BONO MAURIZIO, Mauro Covacich, cit.; SENZA AUTORE, Mauro Covacich: «A nome tuo», URL: http://www.einaudi.it/speciali/Mauro-Covacich-A-nome-tuo. (ultima verifica: 16/10/2013). 158

COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., p. 164.

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Torniamo ora a Rensich e alla performance, sempre tenendo in mente la vicenda di Angela e facendo

riferimento alla lettera che compare alla fine del romanzo A nome tuo, e che può aiutarci a capire

meglio la questione dell’alter ego Rensich e il suo rapporto con lo scrittore nella performance

L’umiliazione delle stelle.

Innanzitutto, nella lettera indirizzata a Mauro Covacich, scrittore e personaggio, Angela muove delle

accuse molto forti per quanto riguarda la performance, che a quanto pare non appartiene a

Covacich, almeno secondo Angela:

Quel video è falso, caro Mauro. A un primo sguardo può sembrare perfetto: lei ha fatto

bene i suoi calcoli, ha messo in conto tempi di attenzione limitati, basta vedere la

scansione delle frasi in sovrimpressione il cui intervallo, inclusa la traduzione inglese,

non supera mai i due minuti. Solo che non ha considerato la visione di un fanatico. E ha

sbagliato, perché come vede i fanatici esistono.

[...]

Ricordo il suo imbarazzo quando si sono riaccese le luci e la gente si è voltata a cercarla

in sala per applaudire ancora piú forte. Non era l’imbarazzo di un uomo timido, era

l’imbarazzo di un impostore. È davvero imbarazzante, vi ho fregati anche stavolta,

sembrava dire lei.159

Angela sostiene che il video sia falso e composto da processi di montaggio, il che secondo lei, e a

quanto pare anche per lo scrittore visto che Angela e Covacich sono una medesima persona, è un

imbroglio per lo spettatore. Questa denuncia si ricollega all’affermazione di Covacich stesso per il

quale scrivere, e in questo caso scrivere con il corpo, è uguale a imbrogliare. Inoltre, Angela dice delle

cose ancora più sconvolgenti:

[...] ma soprattutto si vede che l’uomo che corre in quel video non è lei.

La somiglianza è notevole, lo ammetto. La mascherina aiuta non poco la confusione. Ma

solo un cieco non può accorgersi che quei movimenti sono lontani parenti dei suoi.160

Detto tutto questo, si capiscono ancora meglio le frasi che accompagnano la videoperformance e che

vengono proiettate sullo schermo. In questo testo, Covacich prova a mostrarsi come autentico, ma

159

Ibidem, pp. 332-333. 160

Ibidem, pp. 333-334.

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allo stesso tempo fa sorgere dei dubbi per quanto riguarda la relazione tra lui e il suo alter ego. Si

legge:

Questo video dura tre ore, venti minuti e trentasette secondi. Per tre ore, venti minuti e

trentasette secondi farò sempre la stessa cosa, la farò sempre allo stesso modo, eppure

mi vedrai cambiare.

Questo è il mio corpo, questo sono io. Ecco la mia frequenza cardiaca, ecco la mia

capacità polmonare, ecco il mio consumo calorico, ecco quello che sono.

Non ho segreti per te. Durante questa corsa non ti nasconderò nulla, penserò solo a te

che mi guardi.

Alla fine avrò percorso quarantaduamilacentonovantacinque metri, la distanza esatta

della maratona.

La maratona è una corda tesa tra l’essere e il dover essere.

Correndo mi muovo il piú velocemente possibile da ciò che sono a ciò che dovrei essere.

Dovrei essere giusto e non lo sono.

Dovrei essere corretto e baro.

Dovrei essere puro e scendo a compromessi.

Dovrei occuparmi degli altri e penso solo a me stesso.

Dovrei accettare la morte e la temo.

Anche tu sei cosí?

Se ci pensi è umiliante – essere soggetto alle affezioni è sempre umiliante – però non c’è

verso di sottrarsi a questa umiliazione.

Secondo gli antichi, anche entità perfette come le stelle corrono eternamente attorno

all’Uno solo per amore della sua luce.

Ogni essere è segnato da un grado diverso di imperfezione. Alla fine di questa corsa non

sarò meno imperfetto, sarò solo piú stanco e piú magro.161

Il testo mette in rilievo la fisicità e i cambiamenti di essa che la maratona comporta. Tuttavia, la

corporeità ha anche un ruolo maggiore nella questione dell’identità poiché, come ho già detto, è il

corpo di Covacich che gli permette di portare a termine il lavoro di scrittore. Questa corporeità, o più

specificamente il fatto che lo spettatore vede davvero cambiare il corpo dello scrittore sia perché si

nota alla fine della corsa che la figura che corre è dimagrita, sia grazie ai dati fisici che appaiono sullo

161

Questo brano è una trasposizione delle frasi che appaiono sullo schermo durante la video-performance. Traggo queste frasi da COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., p. 19. Esse, però, si possono anche trovare nel booklet che accompagna il DVD The Humiliation of the Stars (2010).

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schermo, ci mostra pure i cosiddetti ‘confini’ del corpo, i quali dovrebbero quindi dimostrare che si

tratta veramente di Covacich e non di un altro. Lo scrittore sottolinea ancora una volta che si tratta

realmente del suo corpo e che non ha segreti per noi.

Con queste parole, Covacich riesce benissimo a celare il fatto che, come afferma Angela, non è lui

che corre. Infatti, si tratta del suo corpo, ma come abbiamo visto, il nostro corpo non è sinonimo

della nostra persona o identità. Come ho sostenuto, è Rensich che, avendo preso in prestito il corpo

del suo autore corre e non Covacich. L’autore ‘si sveglia’ solo dopo la performance.

Cambia poi il tono nel romanzo A nome tuo, quando Mauro dichiara che «[l]a maratona è una corda

tesa tra l’essere e il dover essere»162. Questa frase, riporta il testo che accompagna la performance

che è fondamentale perché la maratona, afferma Covacich, è un modo per avvicinarsi a quello che si

è, a quello che non si è ma che si dovrebbe essere. Seguono poi cinque frasi esemplari di ciò che

dovrebbe essere lo scrittore. Il condizionale enfatizza il fatto che ognuno, nella società postmoderna

non è se stesso (o non è fedele alla propria identità) e che attraverso le regole, le esigenze e i valori

interiorizzati, diventiamo quello che dovremmo essere.

Se, però, uno vuole trovare la propria identità, come Covacich, si deve rendere conto di ciò che è

veramente. A questo punto, per essere quello che non sei in realtà163 (o meglio quello che non

dovresti essere), bisogna disfare il processo di esclusione e cancellazione dell’Altro, o detto in modo

più diretto, nel caso di Covacich: occorre lasciare che gli alter ego diventino vivi.

Pare quindi che la maratona funzioni come un rito che permette all’individuo di avvicinarsi alla

propria identità, come detto nella prima parte di questa tesi, anche se questo significa un

«arrischiamento totale della figura stessa di artista nell’atto della sua autodeterminazione»164. Per

evitare questo, Covacich si riappropria della performance, pubblicando il video a nome suo, così

come si riappropria pure del romanzo di Angela del Fabbro. Allo stesso tempo, quando parla

dell’arrischiamento fa una forte dichiarazione poetica perché in effetti sostiene che certe operazioni

artistiche, come lo scrivere a nome di qualcun altro, o insomma il lasciarsi governare dagli alter ego,

possono determinare la perdita di ‘se stesso’, almeno agli occhi della società. Ed è quello che dice

pure Angela:

162

COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., p. 19. (corsivi miei). 163

A questo punto diventa complicato il concetto di ‘quello che si è’, poiché ciò che io ho chiamato ‘quello che si è’ in quello che precede, corrisponde all’Io e quindi a quello che si è in apparenza, ma non di per sé quello che si è veramente poiché si è molto più di quello che si è in apparenza. Nel senso di questa frase, intendo quindi semplicemente che si deve dimenticare per un istante l’Io per poter raggiungere l’Altro e quindi trovare l’Identità o almeno renderla più completa. 164

COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., p. 335.

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Ma lei non ci ha fregati [...] No, lei non ha fregato nessuno. E sa perché? Perché non c’è

un Mauro Covacich piú autentico nascosto in chissà quale anfratto della sua massa

cerebrale, cosí come non esiste esortazione piú insensata di Sii te stesso. Lei, come ogni

altro essere umano, è già se stesso, è sempre se stesso. Semplicemente, lei è quello che

fa. E cosa fa quel tizio smilzo che a quanto pare ha smesso di scrivere e ora gira video di

tre ore nei quali corre in mutande? Fa proprio quello che ha sempre fatto: mente.

Quindi lei non ci ha fregati, mentendo ha rilasciato una deposizione autentica,

mentendo ha detto la verità: lei non ha segreti per noi. E questa, se permette, è la sua

colpa peggiore.165

Quindi, anche se era Rensich nel corpo di Covacich ad aver corso la maratona sul tapis roulant a

Venezia, lo scrittore è sempre rimasto se stesso, visto che Rensich fa inerentemente parte della sua

identità. Pertanto, Angela dice che mentendo, ovvero sostenendo che è lui che sta correndo, dice

comunque la ‘verità’ quando dichiara: “questo sono io”.

3.3.3. LA LETTERA

Il romanzo A nome tuo si chiude con un testo intitolato La lettera accompagnato da una nota:

«Traduzione dal croato di Angela del Fabbro»166. La lettera non è firmata, ma sappiamo che si tratta

di una lettera di Angela del Fabbro diretta allo scrittore Mauro Covacich. Più precisamente, si tratta

della lettera in croato che il personaggio Mauro riceve durante il viaggio e che rifiuta di leggere.

Questo fatto fa parte della prima sezione del libro ma il testo della lettera appare solo alla fine, dopo

Musica per aeroporti. Ciò ha delle implicazioni sul resto della narrazione perché mediante la lettera

del suo alter ego Angela, Covacich fa delle dichiarazioni importanti di poetica che ora analizzerò.

Cominciamo innanzitutto con la tipologia e la collazione della lettera in questione. Per fare un’ipotesi

azzardata si potrebbe affermare che si tratta di una lettera postuma: una lettera con la quale lo

scrittore osa fare i conti solo dopo la morte del suo alter ego, Angela.

Nella lettera, Angela dichiara di aver incontrato Covacich durante la proiezione della

videoperformance a Venezia:

165

Ibidem, pp. 336-337. 166

Ibidem, p. 331.

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Chissà, forse ricorderà il nostro incontro. L’ho avvicinata prima che cominciasse la

presentazione del video, quella sera a Venezia.167

Angela parla di un incontro tra lei e Mauro Covacich il giorno della proiezione del video. A questo

punto delle vicende lo scrittore permette quindi ancora al suo alter ego di esistere. Narra l’incontro

tra scrittore e alter ego che opera come un occhio esterno,capace di analizzare il suo comportamento

e funge allo stesso tempo da maschera prottettiva dietro la quale lo scrittore si può nascondere. Al

momento della proiezione della performance, sia Angela che Covacich sembrano quindi essere

mentalmente presenti, in un unico corpo Si tratta di una specie di co-coscienza, il fatto che due o più

personalità fanno uso del corpo allo stesso tempo e che sono coscienti a vicenda degli atti che

compiono. Uno stesso fenomeno si nota in persone che soffrono di D.I.D., la condizione psicologica

della quale parlo nell’introduzione di questa sede. Covacich, di fronte ad ngela, essendosi avvicinato

a se stesso, sta veramente di fronte al suo lato opposto, così come Marina Abramović e Ulay stanno

l’uno di fronte all’altra. Considerata la cronologia delle opere di Covacich, la lettera deve essere

scritta dopo il momento della proiezione della performance a Venezia e prima del momento in cui

Covacich comincia a scrivere la sezione L’umiliazione delle stelle in A nome tuo, poiché come abbiamo

visto, da quel momento in poi, Angela non è più ‘viva’.

Se ci si pensa, la lettera stessa mostra nuovamente lo stesso fenomeno prima analizzato nel caso del

dialogo tra Mauro e Angela, poiché, se Angela è un alter ego di Covacich, e quindi fa parte dell’Altro

costituente dell’identità, Covacich sta in effetti scrivendo una lettera a se stesso, ma con la voce di

un’altra sua personalità.

Nella lettera, lei non solo critica lo scrittore, dicendo che è un mentitore, che imbroglia i suoi lettori-

spettatori e che non è lui che corre, ma lo interroga anche sulla questione degli alter ego dicendo che

ha visto che è Rensich che stava correndo sul tapis roulant e non Covacich. In questa lettera

potremmo quindi individuare una accusa rivolta allo scrittore per il fatto che si è (ri)appropriato della

performance che in effetti non è sua. Angela quindi accusa Mauro di aver ‘ucciso’ Rensich e lo

definisce un bugiardo, perché, pur facendo parte della sua identità, Rensich non è Covacich e l’autore

in realtà non ha veramente il diritto di appropriarsi della performance. Indirettamente, quindi,

Angela afferma che Covacich non può esistere senza i suoi alter, o se si vuole, che la sua identità non

è completa se esclude questi alter ego.

Criticando Mauro Angela si pone come personalità antagonista nei confronti di Covacich: un alter ego

che gli rimprovera le sue debolezze (come fa d’altronde Fiona)168 e che lo denigra. Per far tacere la

167

Ibidem, pp. 331-332.

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sua voce, e dunque per potersi riappropriare non solo di Vi perdono, ma più in generale della propria

persona, bisogna quindi ‘far morire’ anche lei. Quando lei afferma che lo scrittore, attribuendo il

proprio nome a colui che corre la maratona della performance, fa ciò che ha sempre fatto, ossia

mentire, che non ha segreti e che questa è la sua colpa peggiore, di fatto Angela esprime una

valutazione sullo scopo della scrittura di Covacich. Covacich ha sì cercato la propria Identità

autentica, ma dopo averla trovata, ovvero dopo aver lasciato che gli altri pezzi della sua identità

spezzata prendessero il sopravvento, li uccide, per il fatto che un’identità frantumata viene respinta

dalla società che invece richiede stabilità e ordine delle persone che la costituiscono. Se lo scrittore

personaggio decide allora di far tacere le voci dei suoi alter ego finisce nuovamente per avere

un’identità stabile ma incompleta.

Nondimeno, si deve concludere che Covacich è giunto ad una conoscenza profonda della propria

identità e ha persino raggiunto un’identità completa ammettendo l’esistenza dei suoi alter ego

poiché alla fine di A nome tuo: «Io sono un gruppuscolo»169. Si tratta però di un’affermazione

paratestuale che non fa parte della finzione della pentalogia stessa, un’affermazione dell’autore

stesso nel quadro della sua ricerca identitaria. È quindi Covacich scrittore che ha trovato la propria

identità alla fine del complesso e non di per sé Covacich personaggio.

Tutto sommato, si vede quindi che non solo la maratona, soprattutto in quanto performance, o il

viaggio in barca sono sono mezzi per trovare o definire la propria identità. Lo è pure la scrittura

stessa. Essa, appunto, ha tante caratteristiche ritualistiche in comune sia con la maratona che con il

viaggio, particolarmente se si prende in considerazione il tempo e lo spazio ‘sacri’ di cui si è parlato

nel primo capitolo di questa tesi. Essi concedono la possibilità agli alter ego di manifestarsi e di

prendere mano il timone e di svilupparsi al fine di rendere più completa l’intera identità. In breve, la

scrittura, sia tradizionale che con il corpo, crea per l’autore, nonché per il lettore, il cronotopo per

eccellenza per completare se stesso.

168

Nella tesi del bachelor, ho accennato al fatto che il personaggio di Fiona nella trilogia delle stelle funge da specchio. Mette in difficoltà gli altri personaggi, confrontandoli tra l’altro con i loro difetti e le loro debolezze. Fiona è tutto quello che gli altri non sono. Testimonia una naturalezza che agli altri è ignota. Non a caso Angela e Fiona appaiono come un solo e medesimo personaggio. Per un’analisi più approfondita del personaggio di Fiona, si veda: VERBEKE WOUTER, L’Umiliazione delle stelle nella pentalogia multimediale di Mauro Covacich, cit., pp 34-35. 169

COVACICH MAURO, A nome tuo, cit., p. 339.

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CONCLUSIONE

Se ne L’umiliazione delle stelle nella pentalogia multimediale di Mauro Covacich, ho detto che l’opera

in questione concerneva una rappresentazione fedele del sentimento caratteristico della società e

dell’uomo contemporanei mediante il concetto filosofico dell’umiliazione delle stelle, ovvero la

consapevolezza che si è profondamente umiliati, non solo dalla nostra propria corporeità, ma dalla

nostra semplice esistenza, in questa sede ho approfondito e quindi attenuato questa visione. La

pentalogia di Covacich è molto più di una semplice rappresentazione o un rispecchiamento della

società postmoderna, si tratta infatti di un resoconto, sia scritto che performato, della ricerca

identitaria dello scrittore stesso, nonché di uno strumento per ogni singolo individuo in cerca della

propria identità.

L’ampia ricerca che è stata effettuata nell’ambito dello studio concernente miti e riti dimostra

l’importanza di riti (e di miti) come elemento costante e strumento strutturante della società umana,

ma anche della vita dell’individuo, non solo in epoca preistorica o antica, ma anche in epoca

contemporanea, appunto perché i riti originari sono basati sui fondamenti dell’esistenza umana o di

ogni essere vivente, ovvero la nascita e la morte.

Anche se alcuni studiosi, come Weber, hanno criticato l’avvenire della modernità a causa della

sparizione di una dimensione mitica o anche religiosa, altri invece hanno sostenuto che la società

moderna e quella contemporanea sono caratterizzate sempre in modo maggiore da una tale

dimensione, ma che questa è latente poiché nascosto dietro lo schermo della razionalità

onnipresente. L’uomo postmoderno ha sempre bisogno di strategie estetiche che lo aiutano a

trovare il suo posto nel complesso cosmico, il che si nota chiaramente considerando vari riti

contemporanei come la celebrazione del nuovo anno, o persino atti sportivi ritualizzati come la

maratona.

La maratona ha molte qualità ritualistiche, in particolare la sua capacità di creare un tempo e uno

spazio che superano il quotidiano, ovvero sacri. Di più, a causa della sue particolari caratteristiche, la

maratona ha degli effetti non solo sul corpo ma anche sulla mente. Non a caso il corridore può essere

chiamato un ‘embodied mind’. Allo stesso tempo la maratona è un rito che imita l’ordine cosmico e

che serve non solo a sviluppare la propria identità, ma anche l’identità di gruppo che mantiene

l’ordine dentro la società in cui vive l’individuo e alle cui regole deve obbedire. Inoltre, nel tempo e

nello spazio sacri creati appunto dal correre stesso, uno può riflettere e indagare se stesso e

incontrare altri aspetti della propria identità al fine di renderla più completa.

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Come Covacich stesso ci insegna attraverso i suoi romanzi la maratona rispecchia il movimento dal

quale vengono umiliate le stelle e rappresenta perciò una condizione umana caratterizzata da

un’inettitudine dal punto di vista esistenziale. L’uomo non sa chi è e sperimenta la vita come

profondamente inane.

Tuttavia, la maratona dentro la pentalogia non è soltanto un’illustrazione paradigmatica di questa

condizione esistenziale. Si tratta infatti anche di un rito atto a trovare quello che si pensa di aver

perso, ovvero se stessi. La maratona, o la corsa in generale, mostra in effetti di disporre di alcune

caratteristiche o qualità che sono strettamente legate a questioni filosofiche e religiose. Si nota

appunto che la corsa è sempre stata usata, soprattutto a causa della sofferenza che implica, come un

modo per ottenere virtù filosofiche come l’ataraxia e l’apatia, e persino anche come pratica religiosa.

La corsa può infatti essere considerata una religione contemporanea che procura gli stessi effetti di

una religione tradizionale a chi la compie. La scelta da parte dello scrittore di correrla su un tapis

roulant in quanto performance ne intensifica ancora il carattere ritualistico.

Da sempre l’essere umano si è posto delle domande attinenti alla natura della sua identità, ma la

questione si è complicata ed è diventata più pressante in epoca postmoderna, epoca in cui è diffuso

un sentimento di perdita, non solo per quanto riguarda le tradizioni, ma anche per quel che riguarda

la propria personalità, ormai incontestabilmente dispersa.

Mediante vari espedienti l’uomo ha tentato di darsi un’identità stabile e unitaria, basando appunto il

Sé sull’Altro, ma in epoca postmoderna ci si è resi conto che la formazione di quel sé ben delineato e

impermeabile non è altro che un intervento innaturale in quanto richiesto dalla società. L’identità

umana non è affatto unitaria, bensì frantumata e plurale. Il Sé si può creare infatti solo basandolo su

un Altro non esterno, ma interno o meglio ancora interiorizzato. Esprimendosi diversamente,

significa quindi che l’opposizione binaria tra il Sé e l’Altro è una dicotomia che si verifica dentro

l’identità umana stessa, ovvero tra dei gruppi di caratteristiche che ne fanno inerentemente parte.

L’Altro è quindi altrettanto un costituente imprescindibile dell’identità quanto lo è il Sé al quale

l’identità non può essere ridotta, ed è appunto questo che Covacich rivela con la sua pentalogia

multimediale.

La questione che Covacich tratta attraverso la sua pentalogia, ossia la questione sulla natura

dell’identità e la ricerca di essa, non è una questione straordinaria, bensì un topos letterario che da

sempre ha intrigato gli scrittori. Tanti autori hanno provato a cercare una risposta a questa domanda

e a raggiungere la propria identità vera. Covacich però opera in modo particolare, ovvero integrando

un rito moderno per andare in cerca della propria identità, vale a dire la maratona. Lo scrittore non la

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integra solamente come elemento narrativo, ovvero non la narra soltanto, ma la eleva verso una

dimensione nuova e superiore, ovvero in quanto arte performativa contemporanea, sia dentro la

narrazione che come performance vera e propria e quarto elemento della pentalogia. Usa quindi

un’attività quotidiana, dottata di ritualismo come la corsa, in un mondo artistico che è la letteratura,

non soltanto narrativizzandola, ma rendendola un’arte in sé. La maratona non è quindi affatto una

fuga. È una missione.

Ovvero, performando i propri alter ego, ovvero quello che non è, o ancora ‘l’Altro’, in effetti si

confronta con la propria identità e giunge ad una forma più autentica di questa identità poiché

incorporando l’Altro, che ne fa ineluttabilmente parte, la rende persino più completa anziché

perdere se stesso.

Noi, come Mauro Covacich, abbiamo tanti alter ego che fanno tutti parte della nostra identità e che

vanno quindi accettati se si vuole ottenere una conoscenza profonda di noi stessi. Abbiamo delle

identità o personalità molteplici attraverso le quali ci definiamo.

Tuttavia, anche se alla fine gli alter ego sono nuovamente repressi, Covacich è comunque cambiato

avendo affrontato aspetti della sua identità che gli erano oscuri, il che significa un’esperienza

arricchente che lo rende più completo. È emblematico in tal senso il fatto che Covacich rappresenta

la morte simbolica di Angela e quindi il ritrovare sé stesso mediante la vicenda di un viaggio in barca;

la barca che nella storia della letteratura è già servita ennesime volte a questo scopo viene di nuovo

messa in scena in un contesto postmoderno. Come Ulisse, Covacich, alla fine, torna alla propria

compagna, torna a casa: torna verso se stesso. Covacich non ha ritrovato la propria identità là dove

l’aveva persa, invece l’ha ritrovata modificata dal viaggio.

Mediante la sua pentalogia molto complessa sia dal punto di vista strutturale che contenutistico,

Mauro Covacich non ci ha soltanto mostrato l’umiliazione dell’essere umano. Ci ha mostrato che la

nostra identità è inerentemente frantumata e disseminata ma che questo fatto implica la

completezza di essa. Se uno vuole raggiungere la meta mentale della conoscenza profonda della

propria Identità, dell’Io, sia attraverso l’atto performativo della maratona che mediante la scrittura o

la lettura, bisogna accogliere l’Altro.

Alla fine della pentalogia Covacich ha solo fatto venire a galla, sia mediante la scrittura che mediante

la performance della maratona, quell’Altro che già faceva parte della sua identità ma che era

oppresso. Si può però dire che il processo della pentalogia lo ha arricchito e lo ha reso più completo.

Mediante la sua ingegnosa pentalogia, Mauro Covacich ha insegnato al suo lettore che ognuno di noi

è un gruppuscolo ed è appunto questo che ci rende unici.

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«Céline diceva che il romanziere deve tenere il lettore sul ponte della nave

a godersi il viaggio e mai farlo scendere nella sala macchine.

Io invece amo proprio mostrare la sala macchine.

Mi piace che si veda al tempo stesso la storia e la vita di chi la scrive.»

- M. Covacich -