René Descartes (Cartesio) · 2020-01-14 · quell’istituto (di cui il Discours de la méthode...

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René Descartes(Cartesio)

Discorso sul metodoIntroduzione e commento di

Adolfo Levi

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Discorso sul metodoAUTORE: Descartes, RenéTRADUTTORE: Levi, AdolfoCURATORE: Levi, AdolfoNOTE:CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D’AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:www. liberliber. it/online/opere/libri/licenze

COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Discorso sul metodo / Cartesio; introdu-zione e commento di Adolfo Levi. - Napoli: LuigiLoffredo Editore, stampa 1937. - LIII, 108 p. ; 20cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 14 gennaio 2020

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1

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TRATTO DA: Discorso sul metodo / Cartesio; introdu-zione e commento di Adolfo Levi. - Napoli: LuigiLoffredo Editore, stampa 1937. - LIII, 108 p. ; 20cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 14 gennaio 2020

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0: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:PHI000000 FILOSOFIA / Generale

DIGITALIZZAZIONE:Alyssa Violle, [email protected] Volpes, [email protected]

REVISIONE:Gabriella Dodero

IMPAGINAZIONE:Alyssa Violle, [email protected] Volpes, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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SOGGETTO:PHI000000 FILOSOFIA / Generale

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Prefazione.......................................................................7Introduzione..................................................................10

Cenni biografici........................................................10Formazione, sviluppi e posizione storica del pensierodel Descartes. Significato e valore di esso...............17

Cenni bibliografici........................................................71Opere del Descartes..................................................72Studi sul Descartes....................................................76Opere italiane sul Descartes.....................................79

Discorso del metodo.....................................................81Parte Prima...............................................................81

Considerazioni intorno alle scienze......................82Parte Seconda Principali regole del metodo..........104Parte Terza Alcune regole di morale derivate da que-sto metodo...............................................................130Parte Quarta Ragioni che provano l’esistenza di Dio edell’anima umana e fondamento della metafisica. .145Parte Quinta Ordine delle quistioni di fisica..........165Parte Sesta Quali cose sono richieste per progredirenella ricerca della natura.......................................194

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Prefazione.......................................................................7Introduzione..................................................................10

Cenni biografici........................................................10Formazione, sviluppi e posizione storica del pensierodel Descartes. Significato e valore di esso...............17

Cenni bibliografici........................................................71Opere del Descartes..................................................72Studi sul Descartes....................................................76Opere italiane sul Descartes.....................................79

Discorso del metodo.....................................................81Parte Prima...............................................................81

Considerazioni intorno alle scienze......................82Parte Seconda Principali regole del metodo..........104Parte Terza Alcune regole di morale derivate da que-sto metodo...............................................................130Parte Quarta Ragioni che provano l’esistenza di Dio edell’anima umana e fondamento della metafisica. .145Parte Quinta Ordine delle quistioni di fisica..........165Parte Sesta Quali cose sono richieste per progredirenella ricerca della natura.......................................194

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CARTESIO

DISCORSOSUL

METODO

INTRODUZIONE E COMMENTO DI

ADOLFO LEVIPROFESSORE NELLA R. UNIVERSITÀ DI PAVIA

LUIGI LOFFREDOEDITORE IN NAPOLI

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CARTESIO

DISCORSOSUL

METODO

INTRODUZIONE E COMMENTO DI

ADOLFO LEVIPROFESSORE NELLA R. UNIVERSITÀ DI PAVIA

LUIGI LOFFREDOEDITORE IN NAPOLI

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PREFAZIONE

In generale, i filosofi che sembrano facili e chiarisono difficili a intendersi e talvolta molto difficili, se chili legge non cerca soltanto di comprendere il significatodelle loro affermazioni, prese una per una, e di seguirelo svolgimento che esse trovano nelle opere dei loro au-tori, ma si sforza di penetrare nell’intimo del pensierodi questi e di svilupparlo seguendo i motivi direttori cheli hanno ispirati e diretti. Una conferma di questa tesi(che può sorprendere soltanto chi non ha riconosciutola necessità di tale sforzo mentale, dal quale riceve tut-to il suo valore formativo lo studio dei classici della fi-losofia, che così conduce il lettore a rendersi conto delsignificato e della complessità dei problemi che essihanno discusso) è arrecata dal Descartes. Pochi filosofiappaiono più limpidi e più piani di lui; pochi, invece,suscitano altrettante difficoltà di interpretazione. Esse,in larga misura, sono determinate dal fatto che il De-scartes, pure seguendo sempre alcuni pensieri che costi-tuiscono il nucleo essenziale della sua dottrina, vennesviluppando le proprie teorie man mano che doveva af-frontare nuovi problemi o era costretto dalle critiche deicontemporanei a respingere obbiezioni, a determinaremeglio le proprie affermazioni, a derivarne conseguen-ze. È quindi necessario, quando si studia un’opera sua,di avere presenti non soltanto tutte le altre, ma anche la

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PREFAZIONE

In generale, i filosofi che sembrano facili e chiarisono difficili a intendersi e talvolta molto difficili, se chili legge non cerca soltanto di comprendere il significatodelle loro affermazioni, prese una per una, e di seguirelo svolgimento che esse trovano nelle opere dei loro au-tori, ma si sforza di penetrare nell’intimo del pensierodi questi e di svilupparlo seguendo i motivi direttori cheli hanno ispirati e diretti. Una conferma di questa tesi(che può sorprendere soltanto chi non ha riconosciutola necessità di tale sforzo mentale, dal quale riceve tut-to il suo valore formativo lo studio dei classici della fi-losofia, che così conduce il lettore a rendersi conto delsignificato e della complessità dei problemi che essihanno discusso) è arrecata dal Descartes. Pochi filosofiappaiono più limpidi e più piani di lui; pochi, invece,suscitano altrettante difficoltà di interpretazione. Esse,in larga misura, sono determinate dal fatto che il De-scartes, pure seguendo sempre alcuni pensieri che costi-tuiscono il nucleo essenziale della sua dottrina, vennesviluppando le proprie teorie man mano che doveva af-frontare nuovi problemi o era costretto dalle critiche deicontemporanei a respingere obbiezioni, a determinaremeglio le proprie affermazioni, a derivarne conseguen-ze. È quindi necessario, quando si studia un’opera sua,di avere presenti non soltanto tutte le altre, ma anche la

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sua corrispondenza. Difficoltà particolari presenta ilDiscours de la Méthode, sia per la densità formidabiledel contenuto (velata da una esposizione che spesso ac-cenna rapidamente a problemi che in altri scritti sonoesaminati con ampiezza assai maggiore), sia perchèquell’opera (Discours) costituisce l’inizio della produ-zione filosoficamente più importante dell’autore, il qua-le non vi determina sempre con precisione gli sviluppiche spesso, per le cause ricordate sopra, dovevano ave-re in seguito certe sue proposizioni. Per tali motivi, ap-punto, riesce in alcuni casi difficile ricostruire in modoorganico e coerente le concezioni esposte dal Descartese qualche volta, anzi, non si trova modo di raggiungerequello scopo. A ciò si aggiunga un’altra causa di diffi-coltà di interpretazione (e di valutazione). Di solito sivede il Descartes in relazione quasi esclusiva coi filoso-fi a lui posteriori e non si considerano (o si consideranotroppo poco) i problemi che affaticavano la mente deglistudiosi dell’età sua e di quella immediatamente prece-dente, talchè non si riconoscono nè le finalità che egli siproponeva, nè il posto che egli occupa effettivamentenello sviluppo del pensiero moderno dal Rinascimentosino a lui. Perciò nella Introduzione ho cercato di rico-struire nel suo complesso il pensiero filosofico del De-scartes e di mettere in luce le difficoltà che presenta e leincoerenze che include (almeno rispetto a problemi diimportanza fondamentale) e ho insistito sulle relazioniche collegano il pensatore francese ai suoi predecessorie contemporanei, per mostrare quale funzione abbia

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sua corrispondenza. Difficoltà particolari presenta ilDiscours de la Méthode, sia per la densità formidabiledel contenuto (velata da una esposizione che spesso ac-cenna rapidamente a problemi che in altri scritti sonoesaminati con ampiezza assai maggiore), sia perchèquell’opera (Discours) costituisce l’inizio della produ-zione filosoficamente più importante dell’autore, il qua-le non vi determina sempre con precisione gli sviluppiche spesso, per le cause ricordate sopra, dovevano ave-re in seguito certe sue proposizioni. Per tali motivi, ap-punto, riesce in alcuni casi difficile ricostruire in modoorganico e coerente le concezioni esposte dal Descartese qualche volta, anzi, non si trova modo di raggiungerequello scopo. A ciò si aggiunga un’altra causa di diffi-coltà di interpretazione (e di valutazione). Di solito sivede il Descartes in relazione quasi esclusiva coi filoso-fi a lui posteriori e non si considerano (o si consideranotroppo poco) i problemi che affaticavano la mente deglistudiosi dell’età sua e di quella immediatamente prece-dente, talchè non si riconoscono nè le finalità che egli siproponeva, nè il posto che egli occupa effettivamentenello sviluppo del pensiero moderno dal Rinascimentosino a lui. Perciò nella Introduzione ho cercato di rico-struire nel suo complesso il pensiero filosofico del De-scartes e di mettere in luce le difficoltà che presenta e leincoerenze che include (almeno rispetto a problemi diimportanza fondamentale) e ho insistito sulle relazioniche collegano il pensatore francese ai suoi predecessorie contemporanei, per mostrare quale funzione abbia

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compiuto nell’età che ha assistito ai primi sviluppi, in-dissolubilmente congiunti, della nuova scienza matema-tica dei fenomeni fisici e della nuova filosofia. Ho inve-ce appena accennato alle fasi posteriori di questa, per-chè, in complesso, sono abbastanza noti i vincoli che lecollegano all’opera del Descartes. Non mi sono preoc-cupato dell’ampiezza assunta in tal modo dall’Introdu-zione, convinto che questa dovesse permettere non sol-tanto di rendere più breve il commento, ma anche diagevolare la comprensione del testo. Nelle note (nellequali ho cercato di eliminare, per quanto ho potuto, ledifficoltà che il Discorso presenta) mi sono largamenteservito, per chiarire molte questioni filologiche e stori-che particolari, di quella ricchissima miniera di notizieche è il commento di É. Gilson, al quale tutti gli studiosidell’opera cartesiana debbono la più viva gratitudine.Però, chi conosce le sue soluzioni dei problemi generalidel pensiero del Descartes, può facilmente rendersi con-to delle notevoli differenze che esistono fra esse e quelleche io preferisco.

ADOLFO LEVI

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compiuto nell’età che ha assistito ai primi sviluppi, in-dissolubilmente congiunti, della nuova scienza matema-tica dei fenomeni fisici e della nuova filosofia. Ho inve-ce appena accennato alle fasi posteriori di questa, per-chè, in complesso, sono abbastanza noti i vincoli che lecollegano all’opera del Descartes. Non mi sono preoc-cupato dell’ampiezza assunta in tal modo dall’Introdu-zione, convinto che questa dovesse permettere non sol-tanto di rendere più breve il commento, ma anche diagevolare la comprensione del testo. Nelle note (nellequali ho cercato di eliminare, per quanto ho potuto, ledifficoltà che il Discorso presenta) mi sono largamenteservito, per chiarire molte questioni filologiche e stori-che particolari, di quella ricchissima miniera di notizieche è il commento di É. Gilson, al quale tutti gli studiosidell’opera cartesiana debbono la più viva gratitudine.Però, chi conosce le sue soluzioni dei problemi generalidel pensiero del Descartes, può facilmente rendersi con-to delle notevoli differenze che esistono fra esse e quelleche io preferisco.

ADOLFO LEVI

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INTRODUZIONE

CENNI BIOGRAFICI1

Renato Descartes (latinamente Cartesius) nacque il 31marzo 1596 a La Haye nella Turenna da Gioacchino eda Giovanna Brochard; però ambedue i genitori prove-nivano da famiglie del Poitou. La famiglia Descartes di-chiarava di far parte della nobiltà, ma effettivamente ap-parteneva al grado più modesto di questa e si era invecesegnalata per gli uffici pubblici elevati che i suoi mem-bri avevano coperto, soprattutto all’inizio del 1600. Re-nato, rimasto presto orfano della madre, dopo essere vis-suto alcuni anni presso una nonna, fu inviato nel nuovocollegio che i Gesuiti avevano fondato a La Flèche,nell’Angiò e vi stette da otto a nove anni. Stando alle af-fermazioni del Baillet (un antico biografo del D.) si è ri-tenuto sinora che egli sia entrato nel collegio nel 1604 ene sia uscito nel 1612; nuove ricerche fanno crederepreferibile il periodo 1606-1614 o anche 1607-1615. Inquell’istituto (di cui il Discours de la méthode affermache poteva considerarsi una delle più celebri scuoled’Europa) il Descartes, che ben presto manifestò le sue

1 In questi cenni mi servo principalmente di C. ADAM, Vie etoeuvres de Descartes (Vol. XIII dell’edizione nazionale delleopere, curata da ADAM -TANNERY. V. bibliografia).

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INTRODUZIONE

CENNI BIOGRAFICI1

Renato Descartes (latinamente Cartesius) nacque il 31marzo 1596 a La Haye nella Turenna da Gioacchino eda Giovanna Brochard; però ambedue i genitori prove-nivano da famiglie del Poitou. La famiglia Descartes di-chiarava di far parte della nobiltà, ma effettivamente ap-parteneva al grado più modesto di questa e si era invecesegnalata per gli uffici pubblici elevati che i suoi mem-bri avevano coperto, soprattutto all’inizio del 1600. Re-nato, rimasto presto orfano della madre, dopo essere vis-suto alcuni anni presso una nonna, fu inviato nel nuovocollegio che i Gesuiti avevano fondato a La Flèche,nell’Angiò e vi stette da otto a nove anni. Stando alle af-fermazioni del Baillet (un antico biografo del D.) si è ri-tenuto sinora che egli sia entrato nel collegio nel 1604 ene sia uscito nel 1612; nuove ricerche fanno crederepreferibile il periodo 1606-1614 o anche 1607-1615. Inquell’istituto (di cui il Discours de la méthode affermache poteva considerarsi una delle più celebri scuoled’Europa) il Descartes, che ben presto manifestò le sue

1 In questi cenni mi servo principalmente di C. ADAM, Vie etoeuvres de Descartes (Vol. XIII dell’edizione nazionale delleopere, curata da ADAM -TANNERY. V. bibliografia).

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tendenze per le matematiche, dovette ricevere l’educa-zione che era riservata agli allievi della classe nobile eche includeva, con gli studi tradizionali (letterari, filoso-fici e scientifici) anche svariati esercizi fisici. Come èstato osservato particolarmente dal Cantecor2, l’insegna-mento e l’educazione del collegio di La Flèche mirava-no a finalità essenzialmente pratiche; i Gesuiti diquell’istituto cercavano, per mezzo delle diverse disci-pline insegnate, di esercitare l’intelligenza degli alunni(che appartenevano alle classi superiori della società eperciò dovevano coprire uffici pubblici, civili e militari)e per raggiungere questo scopo insistevano, più che suiprincipî, sulle applicazioni pratiche: in misura anchemaggiore si sforzavano di formare la volontà dei disce-poli. Non volevano riempire le menti di dottrina o vol-gerle alla libera ricerca, ma preparare uomini capaci diesercitare le funzioni che sarebbero state a loro affidate.Mancano quasi completamente notizie sicure sulla vitadel Descartes negli anni che vanno dall’uscita dal colle-gio al 1618. È molto dubbia l’affermazione del Bailletdi un soggiorno a Parigi nel quadriennio 1613-1617; ri-sulta invece che nel 1616 otteneva a Poitiers il baccalau-reato e la licenza in diritto. Nel 1618, esortato dal padrealla carriera delle armi, si impegnò come gentiluomovolontario al servizio dell’Olanda, che allora lottava per

2 G. CANTECOR, Études cartésiennes. L’oisive adolescence deDescartes, in «Revue d’Histoire de la Philosophie», IV(1930), pp. 355-356. (Questo studio, più volte ricordato in se-guito, comprende le pp. 1-38 e 354-396 dell’annata indicata).

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tendenze per le matematiche, dovette ricevere l’educa-zione che era riservata agli allievi della classe nobile eche includeva, con gli studi tradizionali (letterari, filoso-fici e scientifici) anche svariati esercizi fisici. Come èstato osservato particolarmente dal Cantecor2, l’insegna-mento e l’educazione del collegio di La Flèche mirava-no a finalità essenzialmente pratiche; i Gesuiti diquell’istituto cercavano, per mezzo delle diverse disci-pline insegnate, di esercitare l’intelligenza degli alunni(che appartenevano alle classi superiori della società eperciò dovevano coprire uffici pubblici, civili e militari)e per raggiungere questo scopo insistevano, più che suiprincipî, sulle applicazioni pratiche: in misura anchemaggiore si sforzavano di formare la volontà dei disce-poli. Non volevano riempire le menti di dottrina o vol-gerle alla libera ricerca, ma preparare uomini capaci diesercitare le funzioni che sarebbero state a loro affidate.Mancano quasi completamente notizie sicure sulla vitadel Descartes negli anni che vanno dall’uscita dal colle-gio al 1618. È molto dubbia l’affermazione del Bailletdi un soggiorno a Parigi nel quadriennio 1613-1617; ri-sulta invece che nel 1616 otteneva a Poitiers il baccalau-reato e la licenza in diritto. Nel 1618, esortato dal padrealla carriera delle armi, si impegnò come gentiluomovolontario al servizio dell’Olanda, che allora lottava per

2 G. CANTECOR, Études cartésiennes. L’oisive adolescence deDescartes, in «Revue d’Histoire de la Philosophie», IV(1930), pp. 355-356. (Questo studio, più volte ricordato in se-guito, comprende le pp. 1-38 e 354-396 dell’annata indicata).

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sottrarsi al dominio della Spagna, l’avversaria tradizio-nale della Francia. Mentre dimorava in Olanda, il De-scartes conobbe Isaac Beeckmann, uomo di curiositàscientifiche universali, ma appassionato soprattutto perle ricerche matematiche e naturalistiche, e fu spinto dalui a occuparsi di questi argomenti. È probabile che cosìabbandonasse gli studi prevalentemente pratici di cui sioccupava, perchè si collegavano con la sua carriera mi-litare per dedicarsi ad altri di carattere scientifico puro.Nel 1619, lasciata l’Olanda, pensava di compiere unlungo viaggio attraverso vari paesi d’Europa; ma sem-bra che abbia modificato quel progetto, perchè nell’esta-te dello stesso anno assisteva a Francoforte alle festedell’incoronazione dell’imperatore Ferdinando. In se-guito, come dice nel Discours, si trattenne l’inverno inGermania, in un luogo lontano da ogni distrazione (for-se vicino a Ulm), e là decise di ricostruire tutto l’edifi-cio della scienza con le proprie forze: se, come si vedrà,la cosa è dubbia, si può ammettere che allora abbia ri-solto di impiegare le proprie attività nelle ricerche scien-tifiche. Il 10 novembre egli dichiarava di avere scopertoi fondamenti di una scienza meravigliosa: gli storicihanno lungamente discusso per determinare la natura diquesta scoperta, senza giungere ad una soluzione sicura.È probabile che l’eccitazione in cui doveva allora tro-varsi la sua mente abbia provocato i tre sogni successiviche nella notte dello stesso 10 novembre gli si presenta-rono e nei quali egli ritenne di essere incitato dallo Spi-rito di Verità a consacrare la sua vita alla scienza. Per

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sottrarsi al dominio della Spagna, l’avversaria tradizio-nale della Francia. Mentre dimorava in Olanda, il De-scartes conobbe Isaac Beeckmann, uomo di curiositàscientifiche universali, ma appassionato soprattutto perle ricerche matematiche e naturalistiche, e fu spinto dalui a occuparsi di questi argomenti. È probabile che cosìabbandonasse gli studi prevalentemente pratici di cui sioccupava, perchè si collegavano con la sua carriera mi-litare per dedicarsi ad altri di carattere scientifico puro.Nel 1619, lasciata l’Olanda, pensava di compiere unlungo viaggio attraverso vari paesi d’Europa; ma sem-bra che abbia modificato quel progetto, perchè nell’esta-te dello stesso anno assisteva a Francoforte alle festedell’incoronazione dell’imperatore Ferdinando. In se-guito, come dice nel Discours, si trattenne l’inverno inGermania, in un luogo lontano da ogni distrazione (for-se vicino a Ulm), e là decise di ricostruire tutto l’edifi-cio della scienza con le proprie forze: se, come si vedrà,la cosa è dubbia, si può ammettere che allora abbia ri-solto di impiegare le proprie attività nelle ricerche scien-tifiche. Il 10 novembre egli dichiarava di avere scopertoi fondamenti di una scienza meravigliosa: gli storicihanno lungamente discusso per determinare la natura diquesta scoperta, senza giungere ad una soluzione sicura.È probabile che l’eccitazione in cui doveva allora tro-varsi la sua mente abbia provocato i tre sogni successiviche nella notte dello stesso 10 novembre gli si presenta-rono e nei quali egli ritenne di essere incitato dallo Spi-rito di Verità a consacrare la sua vita alla scienza. Per

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manifestare la sua gratitudine a Dio per il sogno che gliaveva inviato egli fece il voto di compiere un pellegri-naggio al santuario della Madonna di Loreto. Nel 1620il Descartes si trovava dì nuovo a Rennes. Si può am-mettere (ma la cosa non è certa) che abbia servito comevolontario nell’esercito del Duca di Baviera, uno deicapi dell’esercito cattolico nella guerra dei trent’anni,che era scoppiata da poco tempo. È dubbia l’affermazio-ne fatta più volte, che il Descartes abbia partecipato allabattaglia della Montagna Bianca (18 novembre 1620) incui fu sconfitto l’elettore palatino Federico, che era statoeletto re di Boemia dai protestanti. Ritornato in Francianel 1622, dopo un lungo viaggio di cui non si può parla-re con precisione, il Descartes, per interessi di famiglia,dovette recarsi in Italia verso il marzo dell’anno seguen-te; è certo che si trattenne due anni nei nostro paese, manon si può dire con sicurezza in quali luoghi si sia fer-mato e nemmeno se abbia compiuto il voto del pellegri-naggio a Loreto sebbene la cosa sia molto probabile.Nel maggio 1625, il Descartes è di nuovo nel suo paeseove dimora per tre anni, trattenendosi specialmente aParigi; si può ritenere che si sia occupato con cura parti-colare del movimento del pensiero filosofico e scientifi-co contemporaneo, che attirava anche l’attenzione dimolte anime religiose, che vi scorgevano un’arma atta adifendere le loro credenze minacciate dall’ateismo, checontava numerosi fautori. Si narra che nel 1628 il cardi-nale de Bérulle (il fondatore degli Oratoriani), vivamen-te impressionato dalle idee che il D. aveva esposto da-

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manifestare la sua gratitudine a Dio per il sogno che gliaveva inviato egli fece il voto di compiere un pellegri-naggio al santuario della Madonna di Loreto. Nel 1620il Descartes si trovava dì nuovo a Rennes. Si può am-mettere (ma la cosa non è certa) che abbia servito comevolontario nell’esercito del Duca di Baviera, uno deicapi dell’esercito cattolico nella guerra dei trent’anni,che era scoppiata da poco tempo. È dubbia l’affermazio-ne fatta più volte, che il Descartes abbia partecipato allabattaglia della Montagna Bianca (18 novembre 1620) incui fu sconfitto l’elettore palatino Federico, che era statoeletto re di Boemia dai protestanti. Ritornato in Francianel 1622, dopo un lungo viaggio di cui non si può parla-re con precisione, il Descartes, per interessi di famiglia,dovette recarsi in Italia verso il marzo dell’anno seguen-te; è certo che si trattenne due anni nei nostro paese, manon si può dire con sicurezza in quali luoghi si sia fer-mato e nemmeno se abbia compiuto il voto del pellegri-naggio a Loreto sebbene la cosa sia molto probabile.Nel maggio 1625, il Descartes è di nuovo nel suo paeseove dimora per tre anni, trattenendosi specialmente aParigi; si può ritenere che si sia occupato con cura parti-colare del movimento del pensiero filosofico e scientifi-co contemporaneo, che attirava anche l’attenzione dimolte anime religiose, che vi scorgevano un’arma atta adifendere le loro credenze minacciate dall’ateismo, checontava numerosi fautori. Si narra che nel 1628 il cardi-nale de Bérulle (il fondatore degli Oratoriani), vivamen-te impressionato dalle idee che il D. aveva esposto da-

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vanti a lui, gli abbia fatto obbligo di coscienza di impie-gare la sua vita nei riformare la filosofia per il bene del-la religione; ma questa narrazione è molto dubbia, ancheperchè quei due uomini rimasero in relazione soltantoper un mese.

Nell’autunno del 1628 il D. si recava in Olanda perstabilirvi la sua residenza; in quel paese si trattenne perun periodo lungo di anni, mutando però abbastanzaspesso il luogo della sua dimora. Nelle Provincie Uniteegli trovava non soltanto importanti centri di studio(perchè in esse la cultura superiore si era svolta conmolta intensità), ma anche la possibilità di vivere secon-do le proprie preferenze, libero dagli obblighi e dalle di-strazioni della vita sociale che gli avrebbero fatto perde-re tempo ed energie in Francia. Nel proprio paese eglilasciava un corrispondente nel Padre Mersenne, studio-so e amico di studiosi ed eccitatore instancabile di nuo-ve ricerche in quanti si interessavano delle matematichee della scienza della natura. Per tre volte il D. ritornò inpatria, nel 1644, nel 1647 e nell’anno successivo, masempre, appena giunto a Parigi, provava il rimpiantodell’Olanda, sebbene vi fosse stato attaccato da più partied anche assai vivamente. Mentre soggiornava in quelpaese il D. sostenne numerose polemiche con teologi, fi-losofi e scienziati francesi ed olandesi. Apprendendo lanotizia della condanna pronunciata a Roma contro Gali-leo per aver sostenuto la dottrina del movimento dellaterra (1633), egli, che attendeva a uno scritto (Il Mondoo Trattato della Luce) in cui era esposta la stessa tesi,

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vanti a lui, gli abbia fatto obbligo di coscienza di impie-gare la sua vita nei riformare la filosofia per il bene del-la religione; ma questa narrazione è molto dubbia, ancheperchè quei due uomini rimasero in relazione soltantoper un mese.

Nell’autunno del 1628 il D. si recava in Olanda perstabilirvi la sua residenza; in quel paese si trattenne perun periodo lungo di anni, mutando però abbastanzaspesso il luogo della sua dimora. Nelle Provincie Uniteegli trovava non soltanto importanti centri di studio(perchè in esse la cultura superiore si era svolta conmolta intensità), ma anche la possibilità di vivere secon-do le proprie preferenze, libero dagli obblighi e dalle di-strazioni della vita sociale che gli avrebbero fatto perde-re tempo ed energie in Francia. Nel proprio paese eglilasciava un corrispondente nel Padre Mersenne, studio-so e amico di studiosi ed eccitatore instancabile di nuo-ve ricerche in quanti si interessavano delle matematichee della scienza della natura. Per tre volte il D. ritornò inpatria, nel 1644, nel 1647 e nell’anno successivo, masempre, appena giunto a Parigi, provava il rimpiantodell’Olanda, sebbene vi fosse stato attaccato da più partied anche assai vivamente. Mentre soggiornava in quelpaese il D. sostenne numerose polemiche con teologi, fi-losofi e scienziati francesi ed olandesi. Apprendendo lanotizia della condanna pronunciata a Roma contro Gali-leo per aver sostenuto la dottrina del movimento dellaterra (1633), egli, che attendeva a uno scritto (Il Mondoo Trattato della Luce) in cui era esposta la stessa tesi,

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pensò da prima a distruggere quell’opera e poi si decisea differirne la pubblicazione e a dare invece alle stampealtri lavori, che suscitarono un gran numero di critiche.

Nel 1637 pubblicava il Discours de la méthode, cuiseguivano, come saggi d’applicazione di quel metodo,tre scritti (La Dioptrique, Les Météores, La Géometrie)che determinarono varie polemiche, soprattutto con ma-tematici. Fra essi, meritano di essere ricordati due scien-ziati insigni, il Roberval e il Ferrnat. Nel 1640, il D.,prima di far stampare in Francia le sue Meditationes, de-siderò di raccogliere le osservazioni dei teologi e dei fi-losofi. Così furono scritte numerose obbiezioni3 (raccol-te in sette gruppi) alle quali l’autore rispose, qualchevolta in modo molto vivace: particolarmente aspro funel ribattere le obbiezioni dell’Hobbes (trasmessegli dalP. Mersenne senza il nome dell’autore) e del P. Bourdin.Attacchi più gravi e più pericolosi subì in Olanda daparte di teologi protestanti che lo accusarono di ateismoe riuscirono a muovere contro di lui i pubblici poteri: lesue dottrine filosofiche furono condannate dal Senatoaccademico dell’Università di Utrecht e il consiglio diquesta città emise un decreto col quale minacciò diespellere il Descartes e di fare bruciare i suoi scritti permezzo del carnefice; però, grazie all’interessamento delprincipe di Orange e dell’ambasciatore di Francia, ciònon avvenne (1639-1645). Accusato di eresia e di be-3 Si possono ricordare in particolare, per il nome degli autori, le

terze dell’Hobbes, le quarte dell’Arnauld e le quinte del Gas-sendi.

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pensò da prima a distruggere quell’opera e poi si decisea differirne la pubblicazione e a dare invece alle stampealtri lavori, che suscitarono un gran numero di critiche.

Nel 1637 pubblicava il Discours de la méthode, cuiseguivano, come saggi d’applicazione di quel metodo,tre scritti (La Dioptrique, Les Météores, La Géometrie)che determinarono varie polemiche, soprattutto con ma-tematici. Fra essi, meritano di essere ricordati due scien-ziati insigni, il Roberval e il Ferrnat. Nel 1640, il D.,prima di far stampare in Francia le sue Meditationes, de-siderò di raccogliere le osservazioni dei teologi e dei fi-losofi. Così furono scritte numerose obbiezioni3 (raccol-te in sette gruppi) alle quali l’autore rispose, qualchevolta in modo molto vivace: particolarmente aspro funel ribattere le obbiezioni dell’Hobbes (trasmessegli dalP. Mersenne senza il nome dell’autore) e del P. Bourdin.Attacchi più gravi e più pericolosi subì in Olanda daparte di teologi protestanti che lo accusarono di ateismoe riuscirono a muovere contro di lui i pubblici poteri: lesue dottrine filosofiche furono condannate dal Senatoaccademico dell’Università di Utrecht e il consiglio diquesta città emise un decreto col quale minacciò diespellere il Descartes e di fare bruciare i suoi scritti permezzo del carnefice; però, grazie all’interessamento delprincipe di Orange e dell’ambasciatore di Francia, ciònon avvenne (1639-1645). Accusato di eresia e di be-3 Si possono ricordare in particolare, per il nome degli autori, le

terze dell’Hobbes, le quarte dell’Arnauld e le quinte del Gas-sendi.

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stemmia da due teologi di Leida, il D. si rivolse ai con-soli di quella città e ai curatori della sua Università perottenere soddisfazione; ma le sue lagnanze non ottenne-ro il risultato che desiderava.

Stanco di queste lotte, il D. (che nel 1644 aveva pub-blicato i Principia philosophiae, in cui aveva esposto informa sistematica le proprie dottrine gnoseologiche, me-tafisiche e fisiche, e che aveva già inviato all’editore lePassions de l’âme) si decise (1649) ad accogliere l’invi-to che gli rivolgeva la regina Cristina di Svezia, di re-carsi alla sua corte a Stoccolma; ma, non avvezzo allarigidezza di quel clima, fu preso da una malattia che loportò alla tomba e l’11 febbraio 1650 morì da buon cat-tolico. Nel 1667 amici e ammiratori ottennero il traspor-to della sua spoglia a Parigi, nella chiesa di Sainte-Geneviève; però per ordine del re fu vietata la lettura diuna orazione funebre che era stata preparata in suo ono-re.

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stemmia da due teologi di Leida, il D. si rivolse ai con-soli di quella città e ai curatori della sua Università perottenere soddisfazione; ma le sue lagnanze non ottenne-ro il risultato che desiderava.

Stanco di queste lotte, il D. (che nel 1644 aveva pub-blicato i Principia philosophiae, in cui aveva esposto informa sistematica le proprie dottrine gnoseologiche, me-tafisiche e fisiche, e che aveva già inviato all’editore lePassions de l’âme) si decise (1649) ad accogliere l’invi-to che gli rivolgeva la regina Cristina di Svezia, di re-carsi alla sua corte a Stoccolma; ma, non avvezzo allarigidezza di quel clima, fu preso da una malattia che loportò alla tomba e l’11 febbraio 1650 morì da buon cat-tolico. Nel 1667 amici e ammiratori ottennero il traspor-to della sua spoglia a Parigi, nella chiesa di Sainte-Geneviève; però per ordine del re fu vietata la lettura diuna orazione funebre che era stata preparata in suo ono-re.

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FORMAZIONE, SVILUPPI E POSIZIONE STORICA DEL

PENSIERO DEL DESCARTES. SIGNIFICATO E VALORE

DI ESSO.

Chi vuole rendersi conto del significato e dei finidell’opera del Descartes deve chiedersi da prima comesi sia formato e svolto il suo pensiero. Su questo argo-mento gli storici, sino ad ora, hanno accolto come testi-monianza definitiva l’autobiografia intellettuale che eglici offre nel Discorso. In essa narra che uscito dal colle-gio desideroso di conoscenze certe e sicure, e perciòmalcontento della filosofia e della scienza tradizionali,nelle quali ogni cosa era oggetto di discussione e perciòappariva dubbia, si decise di ricercare soltanto quel sa-pere che avrebbe potuto trovare in sè stesso o nel granlibro del mondo; e da prima si pose a viaggiare per co-noscere uomini e avvenimenti e per riflettere sulle coseche gli si sarebbero presentate. Poi, decise di studiareanche sè stesso e nella sua dimora in un quartiered’inverno della Germania, prese la decisione di rico-struire tutto l’edificio della scienza con le sue forze per-sonali, convinto che sono più perfette le opere prodotteda un uomo solo di quelle che risultano dalla collabora-zione di molti maestri che si sono avvicendati attraversoi secoli. Volendo procedere in modo sicuro, stabilì daprima le regole del suo metodo e poi fissò le norme diuna morale provvisoria che doveva dirigere la sua con-

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FORMAZIONE, SVILUPPI E POSIZIONE STORICA DEL

PENSIERO DEL DESCARTES. SIGNIFICATO E VALORE

DI ESSO.

Chi vuole rendersi conto del significato e dei finidell’opera del Descartes deve chiedersi da prima comesi sia formato e svolto il suo pensiero. Su questo argo-mento gli storici, sino ad ora, hanno accolto come testi-monianza definitiva l’autobiografia intellettuale che eglici offre nel Discorso. In essa narra che uscito dal colle-gio desideroso di conoscenze certe e sicure, e perciòmalcontento della filosofia e della scienza tradizionali,nelle quali ogni cosa era oggetto di discussione e perciòappariva dubbia, si decise di ricercare soltanto quel sa-pere che avrebbe potuto trovare in sè stesso o nel granlibro del mondo; e da prima si pose a viaggiare per co-noscere uomini e avvenimenti e per riflettere sulle coseche gli si sarebbero presentate. Poi, decise di studiareanche sè stesso e nella sua dimora in un quartiered’inverno della Germania, prese la decisione di rico-struire tutto l’edificio della scienza con le sue forze per-sonali, convinto che sono più perfette le opere prodotteda un uomo solo di quelle che risultano dalla collabora-zione di molti maestri che si sono avvicendati attraversoi secoli. Volendo procedere in modo sicuro, stabilì daprima le regole del suo metodo e poi fissò le norme diuna morale provvisoria che doveva dirigere la sua con-

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dotta.In seguito si rimise a viaggiare, per nove anni, e in

questo tempo si sforza di liberarsi dagli errori che anco-ra potevano dominarlo, ma non si occupò affatto di ri-cercare le basi di una filosofia più sicura della volgare:ma siccome si era sparsa la voce che fosse riuscito a ri-solvere tale problema, pensò che doveva rendersi degnodella fama che possedeva.

Storici e commentatori hanno accettato e accettanocome esatta e fedele questa narrazione, e quasi soltantoil Cantecor, recentemente, in uno studio che è stato con-siderato troppo poco, si è opposto con validi motiviall’opinione comune. A suo parere, il D., narrando lapropria storia intellettuale a 41 anni, quando aveva or-mai fissato le proprie idee sulla natura e sul metodo del-la scienza, ha proiettato su un passato ormai lontano lesue convinzioni presenti e omesso tutto ciò che non erain armonia con la sua mentalità attuale: così il Discorsotace del sogno del 1619 e dei rapporti col Beeckmann.Secondo il Cantecor, il D., ben lungi dal reagire subitoalle direttive dei suoi maestri, ha seguito i loro consigliquando si è recato in Olanda. Allora egli si proponevanon un problema intellettuale, ma uno puramente prati-co, quello di decidere del proprio avvenire. Ben lungidal respingere il sapere che aveva appreso, perchè lo ri-teneva privo di certezza, non se ne interessò, giudican-dolo inutile per la carriera militare che aveva scelto; ciòrisulta dallo stesso modo in cui parla nel Discorso dellediscipline tradizionali; i motivi che porta contro di esse,

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dotta.In seguito si rimise a viaggiare, per nove anni, e in

questo tempo si sforza di liberarsi dagli errori che anco-ra potevano dominarlo, ma non si occupò affatto di ri-cercare le basi di una filosofia più sicura della volgare:ma siccome si era sparsa la voce che fosse riuscito a ri-solvere tale problema, pensò che doveva rendersi degnodella fama che possedeva.

Storici e commentatori hanno accettato e accettanocome esatta e fedele questa narrazione, e quasi soltantoil Cantecor, recentemente, in uno studio che è stato con-siderato troppo poco, si è opposto con validi motiviall’opinione comune. A suo parere, il D., narrando lapropria storia intellettuale a 41 anni, quando aveva or-mai fissato le proprie idee sulla natura e sul metodo del-la scienza, ha proiettato su un passato ormai lontano lesue convinzioni presenti e omesso tutto ciò che non erain armonia con la sua mentalità attuale: così il Discorsotace del sogno del 1619 e dei rapporti col Beeckmann.Secondo il Cantecor, il D., ben lungi dal reagire subitoalle direttive dei suoi maestri, ha seguito i loro consigliquando si è recato in Olanda. Allora egli si proponevanon un problema intellettuale, ma uno puramente prati-co, quello di decidere del proprio avvenire. Ben lungidal respingere il sapere che aveva appreso, perchè lo ri-teneva privo di certezza, non se ne interessò, giudican-dolo inutile per la carriera militare che aveva scelto; ciòrisulta dallo stesso modo in cui parla nel Discorso dellediscipline tradizionali; i motivi che porta contro di esse,

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in generale, hanno carattere pratico. Soltanto in seguito,per l’influsso del Beeckmann, si rese conto della suavera vocazione. La grande rinuncia al sapere tradiziona-le è avvenuta molto più tardi. È inesatto che il D. si siadeciso a ricostruire con le sue forze la scienza che nonaveva potuto scoprire nel mondo umano: lo studio diquesto durò pochi mesi soltanto, perchè i rapporti colBeeckmann lo indussero a riprendere o a intraprenderericerche di matematica, di cui precedentemente si era in-teressato per gli scopi della sua carriera, con fini ormaipropriamente speculativi: in ambo i casi, però, le sue ri-cerche seguono le vie della tradizione.

Se gli effetti che sarebbero stati determinati dal biso-gno consapevole di una conoscenza certa e sicura, nonsono reali, non vi è ragione di ammettere che quel biso-gno sia mai stato provato effettivamente. Ciò posto, ilCantecor conclude così le sue osservazioni: «Sembrache il giovane D., uscendo dal collegio o dalla scuola didiritto, un po’ sazio di studi, felice di sentirsi libero, pri-vo però di ogni ambizione e cli ogni preoccupazione.abbia da prima pensato soltanto a godere di sè stesso edella libertà riacquistata. L’unico problema che gli si po-neva era quello della sua vocazione, della carriera capa-ce di soddisfare le sue aspirazioni, in condizioni corri-spondenti a quella condizione sociale che credeva fossela sua. Un impegno militare all’estero, che lo liberasseda un ambiente politicamente assai agitato, e gli facesseconoscere paesi nuovi e curiosi, gli parve corrisponderemeglio di ogni altra cosa ai bisogni complessivi della

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in generale, hanno carattere pratico. Soltanto in seguito,per l’influsso del Beeckmann, si rese conto della suavera vocazione. La grande rinuncia al sapere tradiziona-le è avvenuta molto più tardi. È inesatto che il D. si siadeciso a ricostruire con le sue forze la scienza che nonaveva potuto scoprire nel mondo umano: lo studio diquesto durò pochi mesi soltanto, perchè i rapporti colBeeckmann lo indussero a riprendere o a intraprenderericerche di matematica, di cui precedentemente si era in-teressato per gli scopi della sua carriera, con fini ormaipropriamente speculativi: in ambo i casi, però, le sue ri-cerche seguono le vie della tradizione.

Se gli effetti che sarebbero stati determinati dal biso-gno consapevole di una conoscenza certa e sicura, nonsono reali, non vi è ragione di ammettere che quel biso-gno sia mai stato provato effettivamente. Ciò posto, ilCantecor conclude così le sue osservazioni: «Sembrache il giovane D., uscendo dal collegio o dalla scuola didiritto, un po’ sazio di studi, felice di sentirsi libero, pri-vo però di ogni ambizione e cli ogni preoccupazione.abbia da prima pensato soltanto a godere di sè stesso edella libertà riacquistata. L’unico problema che gli si po-neva era quello della sua vocazione, della carriera capa-ce di soddisfare le sue aspirazioni, in condizioni corri-spondenti a quella condizione sociale che credeva fossela sua. Un impegno militare all’estero, che lo liberasseda un ambiente politicamente assai agitato, e gli facesseconoscere paesi nuovi e curiosi, gli parve corrisponderemeglio di ogni altra cosa ai bisogni complessivi della

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sua natura. È indiscutibile che così si ingannava sul fon-do del suo carattere e sull’oggetto vero delle attitudini;che la sua ingenua vanità di bourgeois gentilhomme e lastanchezza e il disgusto per tanti libri studiati che loavevano tolto a sè stesso ed erano stati un ostacolo perl’attività spontanea della sua intelligenza, lo hanno in-dotto a disconoscere la tendenza profonda e costante deisuoi istinti. E il problema consiste precisamente nel sa-pere come ha riconosciuto il suo errore, in quali circo-stanze ha acquistato consapevolezza della sua vera natu-ra e come si è rivolto verso la sua vera meta. Non è statacosa immediata. Per la prima volta nelle relazioni colBeeckmann il D. ha acquistato consapevolezza delle suedoti essenziali e dei bisogni originari della sua natura:un po’ più tardi, nella famosa notte dell’11 dicembre1619,4 egli ha deciso definitivamente sul modo di impie-gare la sua vita, che doveva essere consacrata alle scien-ze, ciò che non significa che in quel momento abbiaconcepito il progetto di ricostruire tutta la scienza con leproprie forze. Il progetto e il piano di ciò che doveva es-sere definitivamente la sua opera, furono fissati moltodopo, fra il 1628 e il 16355».

Queste osservazioni non hanno un semplice interessepsicologico-biografico perchè si accordano completa-mente con l’interpretazione del pensiero filosofico car-tesiano presentata già da tempo da varî studiosi (che non

4 Propriamente, 10 novembre 1619.5 Studio citato, pp. 395-396.

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sua natura. È indiscutibile che così si ingannava sul fon-do del suo carattere e sull’oggetto vero delle attitudini;che la sua ingenua vanità di bourgeois gentilhomme e lastanchezza e il disgusto per tanti libri studiati che loavevano tolto a sè stesso ed erano stati un ostacolo perl’attività spontanea della sua intelligenza, lo hanno in-dotto a disconoscere la tendenza profonda e costante deisuoi istinti. E il problema consiste precisamente nel sa-pere come ha riconosciuto il suo errore, in quali circo-stanze ha acquistato consapevolezza della sua vera natu-ra e come si è rivolto verso la sua vera meta. Non è statacosa immediata. Per la prima volta nelle relazioni colBeeckmann il D. ha acquistato consapevolezza delle suedoti essenziali e dei bisogni originari della sua natura:un po’ più tardi, nella famosa notte dell’11 dicembre1619,4 egli ha deciso definitivamente sul modo di impie-gare la sua vita, che doveva essere consacrata alle scien-ze, ciò che non significa che in quel momento abbiaconcepito il progetto di ricostruire tutta la scienza con leproprie forze. Il progetto e il piano di ciò che doveva es-sere definitivamente la sua opera, furono fissati moltodopo, fra il 1628 e il 16355».

Queste osservazioni non hanno un semplice interessepsicologico-biografico perchè si accordano completa-mente con l’interpretazione del pensiero filosofico car-tesiano presentata già da tempo da varî studiosi (che non

4 Propriamente, 10 novembre 1619.5 Studio citato, pp. 395-396.

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si sono occupati di discutere la autobiografia del Di-scorso) che pongono come punto di partenza di esso losforzo di costruire una teoria della conoscenza scientifi-ca mirante a legittimare i procedimenti usati nella ricer-ca concreta: tale sforzo determina poi l’esigenza di unagnoseologia generale e di una metafisica, fondata suquesta, che permetta al pensiero di penetrare nell’intimodella realtà. Questa tesi appare decisamente convalidataquando è stato mostrato che il D., dopo avere affrontatosvariati problemi matematici e fisici più che per altro,per dar prova delle proprie abilità intellettuali, si consa-crò completamente alla scienza. Invece, se si accettanole dichiarazioni del Discorso, la teoria generale del me-todo avrebbe preceduto la costruzione della scienza: ora,ciò contrasta col fatto che il D. si interessò di problemiscientifici prima di occuparsi di quelli filosofici. Comeavviene abitualmente, anche nel caso del D. la determi-nazione del metodo risultò dal lavoro del pensiero rifles-so, desideroso di chiarire e di fissare i procedimenti ef-fettivamente usati nella ricerca scientifica concreta.

Comunque, un punto di importanza fondamentaledeve essere stabilito sin dal principio: il pensiero filoso-fico del D. si forma e si svolge in connessione intimacon lo sviluppo della ricerca scientifica esatta e propria-mente della nuova scienza della natura, mirante a inter-petrare matematicamente i fenomeni del mondo fisico;questa connessione, del resto, è indicata in modo chia-rissimo dal fatto stesso che al Discours de la méthode,nella sua prima presentazione al pubblico, seguivano tre

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si sono occupati di discutere la autobiografia del Di-scorso) che pongono come punto di partenza di esso losforzo di costruire una teoria della conoscenza scientifi-ca mirante a legittimare i procedimenti usati nella ricer-ca concreta: tale sforzo determina poi l’esigenza di unagnoseologia generale e di una metafisica, fondata suquesta, che permetta al pensiero di penetrare nell’intimodella realtà. Questa tesi appare decisamente convalidataquando è stato mostrato che il D., dopo avere affrontatosvariati problemi matematici e fisici più che per altro,per dar prova delle proprie abilità intellettuali, si consa-crò completamente alla scienza. Invece, se si accettanole dichiarazioni del Discorso, la teoria generale del me-todo avrebbe preceduto la costruzione della scienza: ora,ciò contrasta col fatto che il D. si interessò di problemiscientifici prima di occuparsi di quelli filosofici. Comeavviene abitualmente, anche nel caso del D. la determi-nazione del metodo risultò dal lavoro del pensiero rifles-so, desideroso di chiarire e di fissare i procedimenti ef-fettivamente usati nella ricerca scientifica concreta.

Comunque, un punto di importanza fondamentaledeve essere stabilito sin dal principio: il pensiero filoso-fico del D. si forma e si svolge in connessione intimacon lo sviluppo della ricerca scientifica esatta e propria-mente della nuova scienza della natura, mirante a inter-petrare matematicamente i fenomeni del mondo fisico;questa connessione, del resto, è indicata in modo chia-rissimo dal fatto stesso che al Discours de la méthode,nella sua prima presentazione al pubblico, seguivano tre

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trattati matematici e fisici che venivano offerti comesaggi del metodo stesso. Posta così la cosa, il pensierodel D., nei suoi inizi e nelle sue finalità immediate, sicolloca nello stesso piano cui appartengono le concezio-ni dei fondatori della nuova filosofia, che mirano tutti agiustificare razionalmente la scienza della natura che in-tanto si viene fondando o che si appena costituita. Aloro volta, queste posizioni di pensiero si collegano in-dissolubilmente con lo sviluppo della filosofia della na-tura del Rinascimento, la quale forma l’aspetto filosofi-camente più significativo del pensiero di quell’età, ri-volta tutta ad appagare il desiderio di conoscere il mon-do della natura, di rappresentarlo con l’arte, di rivivernela vita nella sfera dell’attività pratica. Da questo natura-lismo poi dipende l’individualismo del Rinascimento,che nell’individuo vede essenzialmente una forza natu-rale che si deve esplicare con libertà nei limiti che il suostesso essere le pone; e la tendenza individualistica, asua volta, determina l’altra che porta gli spiriti a ribel-larsi alla tradizione, alle autorità del passato, soprattuttoa quella aristotelica (che, in complesso, aveva dominatoil pensiero medioevale), a costruire con le proprie forzetutto l’edificio della cultura.

Appunto contro la tradizione aristotelico-scolasticasorsero e si formarono le filosofie della natura, che con-tarono fra i loro maggiori rappresentanti B. Telesio, F.Patrizi, T. Campanella, G. Bruno, Teofrasto Paracelso:ma queste costruzioni erano troppo mescolate di ele-menti eterogenei, empirici, fantastici, speculativi, troppo

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trattati matematici e fisici che venivano offerti comesaggi del metodo stesso. Posta così la cosa, il pensierodel D., nei suoi inizi e nelle sue finalità immediate, sicolloca nello stesso piano cui appartengono le concezio-ni dei fondatori della nuova filosofia, che mirano tutti agiustificare razionalmente la scienza della natura che in-tanto si viene fondando o che si appena costituita. Aloro volta, queste posizioni di pensiero si collegano in-dissolubilmente con lo sviluppo della filosofia della na-tura del Rinascimento, la quale forma l’aspetto filosofi-camente più significativo del pensiero di quell’età, ri-volta tutta ad appagare il desiderio di conoscere il mon-do della natura, di rappresentarlo con l’arte, di rivivernela vita nella sfera dell’attività pratica. Da questo natura-lismo poi dipende l’individualismo del Rinascimento,che nell’individuo vede essenzialmente una forza natu-rale che si deve esplicare con libertà nei limiti che il suostesso essere le pone; e la tendenza individualistica, asua volta, determina l’altra che porta gli spiriti a ribel-larsi alla tradizione, alle autorità del passato, soprattuttoa quella aristotelica (che, in complesso, aveva dominatoil pensiero medioevale), a costruire con le proprie forzetutto l’edificio della cultura.

Appunto contro la tradizione aristotelico-scolasticasorsero e si formarono le filosofie della natura, che con-tarono fra i loro maggiori rappresentanti B. Telesio, F.Patrizi, T. Campanella, G. Bruno, Teofrasto Paracelso:ma queste costruzioni erano troppo mescolate di ele-menti eterogenei, empirici, fantastici, speculativi, troppo

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prive di esattezza e di rigore, troppo poco preoccupatedei problemi metodologici e gnoseologici connessi conle loro ricerche per potere soddisfare effettivamentel’esigenza, sentita in modo sempre più vivo dagli stu-diosi, di una interpretazione sicura dei fenomeni delmondo fisico. Pronte sempre ad esaltare l’esperienza,quelle dottrine vedevano in essa, al più, l’osservazione(che spesso veniva sacrificata a credenze attinte allescienze occulte), non mai l’esperimento: ancor meno te-nevano conto dell’ufficio che nello studio dei fenomenifisici doveva essere affidato alle matematiche. Perciòdoveva svolgersi, seguendo vie ben diverse da quelladella filosofia della natura, la nuova scienza esatta delmondo fisico, della quale la visione prodigiosa di quelgrande spirito divinatore, di quel sublime solitario chefu Leonardo da Vinci, ricercatore appassionato e instan-cabile delle più varie forme della realtà, aveva stabilitole condizioni, le direttive, le finalità. Infatti egli conce-piva da una parte il mondo fisico come un sistema chiu-so in sè di processi meccanici, governato da una leggerazionale e necessaria che collega le cause agli effetti edall’altra la scienza come una ricerca che, facendo astra-zione dalle preoccupazioni teleologiche che avevano do-minato nel Medioevo e ancora dominavano nel Rinasci-mento, parte dai fatti offerti dall’esperienza per risalirealle loro cause, che soltanto il pensiero può riconosceree comprendere, e poi ridiscende al dato empirico con unprocesso di dimostrazione matematica che serve a spie-garlo.

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prive di esattezza e di rigore, troppo poco preoccupatedei problemi metodologici e gnoseologici connessi conle loro ricerche per potere soddisfare effettivamentel’esigenza, sentita in modo sempre più vivo dagli stu-diosi, di una interpretazione sicura dei fenomeni delmondo fisico. Pronte sempre ad esaltare l’esperienza,quelle dottrine vedevano in essa, al più, l’osservazione(che spesso veniva sacrificata a credenze attinte allescienze occulte), non mai l’esperimento: ancor meno te-nevano conto dell’ufficio che nello studio dei fenomenifisici doveva essere affidato alle matematiche. Perciòdoveva svolgersi, seguendo vie ben diverse da quelladella filosofia della natura, la nuova scienza esatta delmondo fisico, della quale la visione prodigiosa di quelgrande spirito divinatore, di quel sublime solitario chefu Leonardo da Vinci, ricercatore appassionato e instan-cabile delle più varie forme della realtà, aveva stabilitole condizioni, le direttive, le finalità. Infatti egli conce-piva da una parte il mondo fisico come un sistema chiu-so in sè di processi meccanici, governato da una leggerazionale e necessaria che collega le cause agli effetti edall’altra la scienza come una ricerca che, facendo astra-zione dalle preoccupazioni teleologiche che avevano do-minato nel Medioevo e ancora dominavano nel Rinasci-mento, parte dai fatti offerti dall’esperienza per risalirealle loro cause, che soltanto il pensiero può riconosceree comprendere, e poi ridiscende al dato empirico con unprocesso di dimostrazione matematica che serve a spie-garlo.

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Le intuizioni divinatrici di Leonardo, rimaste per se-coli nascoste in manoscritti ignorati, non esercitarono uninflusso diretto sullo sviluppo della nuova scienza, chesi venne costituendo. anche più che per l’opera del Co-pernico e del Kepler, essenzialmente rinchiusa nel cam-po dell’astronomia, o di L. Stevin, rivolta allo studio deifenomeni fisici propriamente detti, per quella di GalileoGalilei, che voleva spiegare con le concezioni di unameccanica generale sia i fenomeni del cielo che quellidella terra. Galileo (in cui per troppo tempo non si è vi-sto che il sostenitore dell’eliocentrismo e il propugnato-re dello studio sperimentale dei fenomeni fisici, l’uomoche, proseguendo l’opera dei filosofi del Rinascimento,contrappone alla tradizione e alle autorità del passato lalibera ricerca personale) non ha soltanto contribuito po-derosamente, con l’esempio meraviglioso della sua atti-vità concreta, allo sviluppo della nuova scienza, ma haanche, e soprattutto, fondato in modo definitivo questascienza, concepita nella sua universalità, sulle sue basisperimentali e matematiche e così continuato e integratol’opera di Leonardo al quale assomiglia altresì per averecollegato strettamente la scienza e la tecnica. Non sideve mai dimenticare che la nuova scienza esatta delmondo fisico (della quale anche chi non apprezza moltoil significato filosofico non può onestamente discono-scere l’immensa importanza storica e in cui non può nonvedere una delle creazioni più caratteristiche del pensie-ro moderno) è nel suo spirito e nella sua costruzioneteoretica una creazione di due italiani: Leonardo e Gali-

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Le intuizioni divinatrici di Leonardo, rimaste per se-coli nascoste in manoscritti ignorati, non esercitarono uninflusso diretto sullo sviluppo della nuova scienza, chesi venne costituendo. anche più che per l’opera del Co-pernico e del Kepler, essenzialmente rinchiusa nel cam-po dell’astronomia, o di L. Stevin, rivolta allo studio deifenomeni fisici propriamente detti, per quella di GalileoGalilei, che voleva spiegare con le concezioni di unameccanica generale sia i fenomeni del cielo che quellidella terra. Galileo (in cui per troppo tempo non si è vi-sto che il sostenitore dell’eliocentrismo e il propugnato-re dello studio sperimentale dei fenomeni fisici, l’uomoche, proseguendo l’opera dei filosofi del Rinascimento,contrappone alla tradizione e alle autorità del passato lalibera ricerca personale) non ha soltanto contribuito po-derosamente, con l’esempio meraviglioso della sua atti-vità concreta, allo sviluppo della nuova scienza, ma haanche, e soprattutto, fondato in modo definitivo questascienza, concepita nella sua universalità, sulle sue basisperimentali e matematiche e così continuato e integratol’opera di Leonardo al quale assomiglia altresì per averecollegato strettamente la scienza e la tecnica. Non sideve mai dimenticare che la nuova scienza esatta delmondo fisico (della quale anche chi non apprezza moltoil significato filosofico non può onestamente discono-scere l’immensa importanza storica e in cui non può nonvedere una delle creazioni più caratteristiche del pensie-ro moderno) è nel suo spirito e nella sua costruzioneteoretica una creazione di due italiani: Leonardo e Gali-

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leo. Di essa il mondo civile è debitore a quell’Italia chegli ha dato la nuova poesia di Dante, la nuova architettu-ra del Brunelleschi, del Bramante e di Michelangelo, lanuova scultura di Donatello e dello stesso Michelangelo,la nuova pittura del Masaccio, di Pier della Francesca,di Leonardo e del Tiziano.

Gli scritti di Galileo, che manifestano la piena consa-pevolezza dei principî che lo dirigono nella sua ricerca,rivelano l’esigenza d’una conoscenza esatta dei fenome-ni che determina poi la connessione indissolubile el’intima compenetrazione della concezione della naturae della teoria della scienza. La realtà naturale è pensatain funzione della concezione che Galileo si forma dellascienza e questa è intesa in modo tale da interpretarequella realtà. Nella mente di Galileo, la conoscenza del-la natura deve fondarsi sull’esperienza sensibile e sullaragione: ma la valutazione della prima non ha alcun si-gnificato empiristico. Galileo, che condanna la fisicatradizionale dell’aristotelismo e perchè acriticamenteempiristica e perchè eccessivamente astratta (in quantoda una parte accettava senza discussione le presunte te-stimonianze del senso e dall’altra presumeva di poterederivare sillogisticamente la sua concezione della realtàda premesse, che riteneva giustificate dalla percezione),vede nell’esperienza soltanto il punto di partenza dellaricerca che mira a risolvere razionalmente il problemache essa presenta, o meglio, fa sorgere nel pensiero. Ga-lileo chiede alla conoscenza della natura la stessa certez-za che è offerta dalle matematiche; occorre perciò am-

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leo. Di essa il mondo civile è debitore a quell’Italia chegli ha dato la nuova poesia di Dante, la nuova architettu-ra del Brunelleschi, del Bramante e di Michelangelo, lanuova scultura di Donatello e dello stesso Michelangelo,la nuova pittura del Masaccio, di Pier della Francesca,di Leonardo e del Tiziano.

Gli scritti di Galileo, che manifestano la piena consa-pevolezza dei principî che lo dirigono nella sua ricerca,rivelano l’esigenza d’una conoscenza esatta dei fenome-ni che determina poi la connessione indissolubile el’intima compenetrazione della concezione della naturae della teoria della scienza. La realtà naturale è pensatain funzione della concezione che Galileo si forma dellascienza e questa è intesa in modo tale da interpretarequella realtà. Nella mente di Galileo, la conoscenza del-la natura deve fondarsi sull’esperienza sensibile e sullaragione: ma la valutazione della prima non ha alcun si-gnificato empiristico. Galileo, che condanna la fisicatradizionale dell’aristotelismo e perchè acriticamenteempiristica e perchè eccessivamente astratta (in quantoda una parte accettava senza discussione le presunte te-stimonianze del senso e dall’altra presumeva di poterederivare sillogisticamente la sua concezione della realtàda premesse, che riteneva giustificate dalla percezione),vede nell’esperienza soltanto il punto di partenza dellaricerca che mira a risolvere razionalmente il problemache essa presenta, o meglio, fa sorgere nel pensiero. Ga-lileo chiede alla conoscenza della natura la stessa certez-za che è offerta dalle matematiche; occorre perciò am-

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mettere che il mondo sia scritto in lingua matematica eche i suoi caratteri siano figure geometriche. Ma sicco-me la realtà naturale non presenta enti immutabili fuoridel tempo, ma una continua successione di fenomeni,occorre pensare che questo divenire sia governato daleggi eterne e necessarie che si riducono poi a determi-nazioni di una causalità infrangibile che collega le causeagli effetti. In altri termini, il mondo della natura sotto-stà a leggi causali necessarie di carattere matematico,sicchè i suoi fenomeni sono collegati da rapporti funzio-nali di struttura quantitativa, che costituiscono specifica-zioni della legge fondamentale della causalità. La ricer-ca scientifica deve mirare alla determinazione di questeleggi, eliminando la pretesa di scoprire i fini e le essen-ze astratte delle cose. Ciò non esclude la necessità dipensare la materia, sostrato dei fenomeni, come inaltera-bile, incapace di aumento e di diminuzione, di genera-zione e di corruzione, perchè soltanto ad una realtà di talgenere si possono applicare i procedimenti matematici.Perciò la materia viene concepita come una somma co-stante di corpuscoli in movimento, privi di ogni proprie-tà qualitativa e forniti soltanto di determinazioni geome-trico-meccaniche: infatti il sostrato materiale così intesosi adatta perfettamente alla ricerca di rapporti funzionaliquantitativi. Ogni mutamento apparente viene ridotto amovimenti di elementi corporei persistenti e inalterabili:perciò i rapporti fenomenici presentano i caratteri dellacostanza e della necessità. In tal modo tutta la realtà fisi-ca è ridotta a un sistema meccanico di masse costituite

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mettere che il mondo sia scritto in lingua matematica eche i suoi caratteri siano figure geometriche. Ma sicco-me la realtà naturale non presenta enti immutabili fuoridel tempo, ma una continua successione di fenomeni,occorre pensare che questo divenire sia governato daleggi eterne e necessarie che si riducono poi a determi-nazioni di una causalità infrangibile che collega le causeagli effetti. In altri termini, il mondo della natura sotto-stà a leggi causali necessarie di carattere matematico,sicchè i suoi fenomeni sono collegati da rapporti funzio-nali di struttura quantitativa, che costituiscono specifica-zioni della legge fondamentale della causalità. La ricer-ca scientifica deve mirare alla determinazione di questeleggi, eliminando la pretesa di scoprire i fini e le essen-ze astratte delle cose. Ciò non esclude la necessità dipensare la materia, sostrato dei fenomeni, come inaltera-bile, incapace di aumento e di diminuzione, di genera-zione e di corruzione, perchè soltanto ad una realtà di talgenere si possono applicare i procedimenti matematici.Perciò la materia viene concepita come una somma co-stante di corpuscoli in movimento, privi di ogni proprie-tà qualitativa e forniti soltanto di determinazioni geome-trico-meccaniche: infatti il sostrato materiale così intesosi adatta perfettamente alla ricerca di rapporti funzionaliquantitativi. Ogni mutamento apparente viene ridotto amovimenti di elementi corporei persistenti e inalterabili:perciò i rapporti fenomenici presentano i caratteri dellacostanza e della necessità. In tal modo tutta la realtà fisi-ca è ridotta a un sistema meccanico di masse costituite

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da elementi privi di qualità sensibili, che si muovono se-condo leggi causali necessarie. Una sola è la materia deicieli e della terra (che l’aristotelismo contrapponeva,considerando incorruttibile la prima, corruttibile la se-conda) che si muove sempre, nell’una e nell’altra sfera,secondo le stesse leggi.

Questo sistema meccanico di cause e di effetti richie-de, per essere interpretato, il procedimento metodologi-co galileiano. Da prima il metodo risolutivo riduce ana-liticamente i fenomeni complessi che l’esperienza offrea fattori quantitativi fra i quali un’ipotesi del ricercatorestabilisce un rapporto funzionale quantitativo, cioè unalegge. Da essa, poi, il metodo compositivo, valendosidel calcolo matematico, deduce sinteticamente conse-guenze che debbono essere verificate dall’esperimentocon cui lo scienziato, intervenendo attivamente nel cor-so abituale dei fenomeni, costringe la natura a confer-mare o a respingere le sue ipotesi. L’interpretazionedell’esperienza appare così l’ufficio proprio del pensieromatematico, che, a parere del Galilei (il quale riconoscedi ritornare alla dottrina platonica della reminiscenza),ricava da sè stesso le proprie conoscenze, non le imparada altri. Come si spieghi che una conoscenza che il pen-siero deriva da sè, debba valere in modo necessario nelmondo empirico, che cioè le costruzioni del calcolo ma-tematico abbiano valore oggettivo nella sfera dei feno-meni, è un problema che Galileo non discute. Egli, chein generale non si diffonde in ricerche gnoseologiche(su questi argomenti si limita a pochi accenni), crede di

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da elementi privi di qualità sensibili, che si muovono se-condo leggi causali necessarie. Una sola è la materia deicieli e della terra (che l’aristotelismo contrapponeva,considerando incorruttibile la prima, corruttibile la se-conda) che si muove sempre, nell’una e nell’altra sfera,secondo le stesse leggi.

Questo sistema meccanico di cause e di effetti richie-de, per essere interpretato, il procedimento metodologi-co galileiano. Da prima il metodo risolutivo riduce ana-liticamente i fenomeni complessi che l’esperienza offrea fattori quantitativi fra i quali un’ipotesi del ricercatorestabilisce un rapporto funzionale quantitativo, cioè unalegge. Da essa, poi, il metodo compositivo, valendosidel calcolo matematico, deduce sinteticamente conse-guenze che debbono essere verificate dall’esperimentocon cui lo scienziato, intervenendo attivamente nel cor-so abituale dei fenomeni, costringe la natura a confer-mare o a respingere le sue ipotesi. L’interpretazionedell’esperienza appare così l’ufficio proprio del pensieromatematico, che, a parere del Galilei (il quale riconoscedi ritornare alla dottrina platonica della reminiscenza),ricava da sè stesso le proprie conoscenze, non le imparada altri. Come si spieghi che una conoscenza che il pen-siero deriva da sè, debba valere in modo necessario nelmondo empirico, che cioè le costruzioni del calcolo ma-tematico abbiano valore oggettivo nella sfera dei feno-meni, è un problema che Galileo non discute. Egli, chein generale non si diffonde in ricerche gnoseologiche(su questi argomenti si limita a pochi accenni), crede di

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risolvere quel problema ammettendo che la mente uma-na, appunto perchè creata da Dio al quale assomiglia,possa conoscere le leggi razionali e necessarie chel’intelletto del Creatore ha imposto alla natura.

Queste concezioni, disperse in lavori svariati e spessoanche in lettere private, dovevano trovare soltanto versola fine del secolo 19º un adeguato riconoscimento dellaloro importanza: i contemporanei e per molto tempo iposteri non fissarono l’attenzione su questo aspettodell’opera di Galileo nel quale videro esclusivamente loscienziato e l’inventore, mentre riconobbero il teoristadel metodo scientifico in F. Bacone. Ora è certo che Ba-cone, che pretendeva di essere capace di contribuire ef-fettivamente allo sviluppo della scienza concreta, era deltutto privo delle qualità e delle attitudini che sono ne-cessarie per il conseguimento di tale scopo, e che nonriusciva nemmeno a rendersi conto del significato dellescoperte che si compivano nell’età sua. Egli però nonsoltanto seppe indovinare il valore e l’importanza che lanuova scienza era destinata ad acquistare nella vita mo-derna e la funzione che vi avrebbe compiuto, ma anchetentò di costruire una teoria razionale dei procedimentimetodologici di essa, fondata su una concezione filoso-fica della realtà naturale. Su quest’ultimo punto dovre-mo insistere tra breve, perchè abitualmente non è abba-stanza considerato.

Il motivo direttore della filosofia di Bacone è il desi-derio di rendere la scienza utile alla vita: essa, invece dirinchiudersi in una sterile contemplazione (come, a pa-

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risolvere quel problema ammettendo che la mente uma-na, appunto perchè creata da Dio al quale assomiglia,possa conoscere le leggi razionali e necessarie chel’intelletto del Creatore ha imposto alla natura.

Queste concezioni, disperse in lavori svariati e spessoanche in lettere private, dovevano trovare soltanto versola fine del secolo 19º un adeguato riconoscimento dellaloro importanza: i contemporanei e per molto tempo iposteri non fissarono l’attenzione su questo aspettodell’opera di Galileo nel quale videro esclusivamente loscienziato e l’inventore, mentre riconobbero il teoristadel metodo scientifico in F. Bacone. Ora è certo che Ba-cone, che pretendeva di essere capace di contribuire ef-fettivamente allo sviluppo della scienza concreta, era deltutto privo delle qualità e delle attitudini che sono ne-cessarie per il conseguimento di tale scopo, e che nonriusciva nemmeno a rendersi conto del significato dellescoperte che si compivano nell’età sua. Egli però nonsoltanto seppe indovinare il valore e l’importanza che lanuova scienza era destinata ad acquistare nella vita mo-derna e la funzione che vi avrebbe compiuto, ma anchetentò di costruire una teoria razionale dei procedimentimetodologici di essa, fondata su una concezione filoso-fica della realtà naturale. Su quest’ultimo punto dovre-mo insistere tra breve, perchè abitualmente non è abba-stanza considerato.

Il motivo direttore della filosofia di Bacone è il desi-derio di rendere la scienza utile alla vita: essa, invece dirinchiudersi in una sterile contemplazione (come, a pa-

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rere di B., ha fatto sino al tempo suo), deve guidarel’azione, deve essere feconda di applicazioni pratiche.La natura può essere dominata soltanto da chi, cono-scendola, sa conformarsi alle sue leggi, che sono infran-gibili, e valersi delle sue forze con invenzioni che serva-no al conseguimento dei fini umani. La filosofia baco-niana ha quindi finalità utilitaristiche; ma l’utilità cheessa ricerca non è quella degl’individui, ma dell’umani-tà in generale. La scienza deve rendere all’uomoquell’impero sulla natura che il peccato originale gli hafatto perdere. Siccome il sapere tradizionale, a parere diB., è incapace di raggiungere questo scopo, perchè hacarattere esclusivamente verbale, occorre una trasforma-zione radicale di tutte le discipline scientifiche; ma pergiungere a questo risultato è necessario usare un metododel tutto diverso da quelli tradizionali. Ora, la metodolo-gia presentata nell’opera più nota di B., il Novum Orga-num, ha per presupposto una particolare concezione del-la realtà (che è esposta in altri scritti, particolarmentenel De Dignitate et Augmentis Scientiarum, ma non sol-tanto in questo), la quale a sua volta dipende da alcuneconvinzioni sui fondamenti della conoscenza e sulla na-tura e sull’ufficio della scienza. A parere di B. l’animasensibile, irrazionale e mortale, che l’uomo ha in comu-ne con i bruti, è essenzialmente distinta da quella razio-nale ispirata direttamente da Dio, nella quale sono inna-te le attività superiori del pensiero e della volontà, ed èinnato anche il lumen naturae, la luce naturale, ossia lafacoltà di apprendere il vero e di distinguerlo dal falso.

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rere di B., ha fatto sino al tempo suo), deve guidarel’azione, deve essere feconda di applicazioni pratiche.La natura può essere dominata soltanto da chi, cono-scendola, sa conformarsi alle sue leggi, che sono infran-gibili, e valersi delle sue forze con invenzioni che serva-no al conseguimento dei fini umani. La filosofia baco-niana ha quindi finalità utilitaristiche; ma l’utilità cheessa ricerca non è quella degl’individui, ma dell’umani-tà in generale. La scienza deve rendere all’uomoquell’impero sulla natura che il peccato originale gli hafatto perdere. Siccome il sapere tradizionale, a parere diB., è incapace di raggiungere questo scopo, perchè hacarattere esclusivamente verbale, occorre una trasforma-zione radicale di tutte le discipline scientifiche; ma pergiungere a questo risultato è necessario usare un metododel tutto diverso da quelli tradizionali. Ora, la metodolo-gia presentata nell’opera più nota di B., il Novum Orga-num, ha per presupposto una particolare concezione del-la realtà (che è esposta in altri scritti, particolarmentenel De Dignitate et Augmentis Scientiarum, ma non sol-tanto in questo), la quale a sua volta dipende da alcuneconvinzioni sui fondamenti della conoscenza e sulla na-tura e sull’ufficio della scienza. A parere di B. l’animasensibile, irrazionale e mortale, che l’uomo ha in comu-ne con i bruti, è essenzialmente distinta da quella razio-nale ispirata direttamente da Dio, nella quale sono inna-te le attività superiori del pensiero e della volontà, ed èinnato anche il lumen naturae, la luce naturale, ossia lafacoltà di apprendere il vero e di distinguerlo dal falso.

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Da ciò segue che l’energica affermazione baconiana delvalore dell’esperienza sensibile, posta a fondamentodello studio della realtà naturale, non ha carattere empi-ristico, ma significa, come in Galileo, che essa deve ne-cessariamente costituire il punto di partenza di una ri-cerca che però può essere compiuta soltanto dal pensie-ro che ha l’ufficio di interpretare il dato empirico con-formemente ai criteri che sono stabiliti dalla luce natura-le. Siccome a parere di B. le proposizioni più vere cheesistano sono gli assiomi: «nulla nasce dal nulla», «nul-la si annienta», è chiaro che esse sono afferrate dallaluce naturale, e che debbono costituire il supremo crite-rio di interpretazione dell’esperienza: ciò significa che ilnascere e il perire delle qualità che si presentano al sen-so debbono essere concepiti come una apparenza cuicorrisponde oggettivamente una somma fissa di movi-menti di particelle materiali le quali, nella loro totalità,costituiscono una quantità immutabile.

Infatti, a parere di B., il mondo fisico risulta di corpu-scoli privi di qualità sensibili e forniti soltanto di pro-prietà geometrico-meccaniche, cioè di determinazionispaziali e di movimento. Il loro moto naturale è necessa-rio e perciò l’universo è governato da nessi causali in-frangibili: quel moto è insieme una forza, una legge euno stimolo; questo ha natura psichica, ma è cieco, cioèinconscio. Le forme delle cose, che sono l’oggetto prin-cipale della ricerca naturalistica, consistono per B. indeterminazioni strutturali e in movimenti degli elementidi cui risultano i corpi. Su questa concezione della realtà

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Da ciò segue che l’energica affermazione baconiana delvalore dell’esperienza sensibile, posta a fondamentodello studio della realtà naturale, non ha carattere empi-ristico, ma significa, come in Galileo, che essa deve ne-cessariamente costituire il punto di partenza di una ri-cerca che però può essere compiuta soltanto dal pensie-ro che ha l’ufficio di interpretare il dato empirico con-formemente ai criteri che sono stabiliti dalla luce natura-le. Siccome a parere di B. le proposizioni più vere cheesistano sono gli assiomi: «nulla nasce dal nulla», «nul-la si annienta», è chiaro che esse sono afferrate dallaluce naturale, e che debbono costituire il supremo crite-rio di interpretazione dell’esperienza: ciò significa che ilnascere e il perire delle qualità che si presentano al sen-so debbono essere concepiti come una apparenza cuicorrisponde oggettivamente una somma fissa di movi-menti di particelle materiali le quali, nella loro totalità,costituiscono una quantità immutabile.

Infatti, a parere di B., il mondo fisico risulta di corpu-scoli privi di qualità sensibili e forniti soltanto di pro-prietà geometrico-meccaniche, cioè di determinazionispaziali e di movimento. Il loro moto naturale è necessa-rio e perciò l’universo è governato da nessi causali in-frangibili: quel moto è insieme una forza, una legge euno stimolo; questo ha natura psichica, ma è cieco, cioèinconscio. Le forme delle cose, che sono l’oggetto prin-cipale della ricerca naturalistica, consistono per B. indeterminazioni strutturali e in movimenti degli elementidi cui risultano i corpi. Su questa concezione della realtà

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naturale (che appare a B. imposta dalle supreme esigen-ze del pensiero razionale) si fonda la teoria del metodoesposta nel Novum Organum, cioè la nuova logica dellascienza della natura che, a differenza dell’antica (cheserviva soltanto a trovare argomenti probabili, utiliesclusivamente nelle discussioni dialettiche), mira a farescoperte che permettano all’uomo di dominare la natura;ma questo risultato si potrà conseguire soltanto se nellaricerca verrà seguito un metodo preciso e rigorosamentedeterminato. Alla teoria positiva del metodo, B. fa pre-cedere la critica degl’idoli (o cause degli errori che pos-sono traviare la mente), che in parte sono innati, in parteprovengono dall’esterno. Sono innati gli idola tribus(della specie umana), cioè quelli che si fondano sullanatura dell’uomo, e gli idola specus, che provengonodalle tendenze proprie agli individui particolari. Caratte-re quasi innato hanno gli idola fori, cioè le cause di er-rore determinate dai rapporti della vita sociale che han-no per condizione il linguaggio. Provengono invecedall’esterno gli idola theatri, ossia le cause di errore chederivano dalle dottrine filosofiche e dai procedimenti di-mostrativi imperfetti del passato. B. critica in modo par-ticolare le teorie filosofiche e la metodologia dell’aristo-telismo tradizionale, e a quest’ultima, al pari di Galileo,rimprovera insieme la mancanza di critica con cui accet-ta il dato dei sensi e l’eccessivo valore che accorda alprocedimento sillogistico. La parte positiva della meto-dologia baconiana, che cerca sempre di porre uno strettorapporto fra il senso e il pensiero, mira essenzialmente a

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naturale (che appare a B. imposta dalle supreme esigen-ze del pensiero razionale) si fonda la teoria del metodoesposta nel Novum Organum, cioè la nuova logica dellascienza della natura che, a differenza dell’antica (cheserviva soltanto a trovare argomenti probabili, utiliesclusivamente nelle discussioni dialettiche), mira a farescoperte che permettano all’uomo di dominare la natura;ma questo risultato si potrà conseguire soltanto se nellaricerca verrà seguito un metodo preciso e rigorosamentedeterminato. Alla teoria positiva del metodo, B. fa pre-cedere la critica degl’idoli (o cause degli errori che pos-sono traviare la mente), che in parte sono innati, in parteprovengono dall’esterno. Sono innati gli idola tribus(della specie umana), cioè quelli che si fondano sullanatura dell’uomo, e gli idola specus, che provengonodalle tendenze proprie agli individui particolari. Caratte-re quasi innato hanno gli idola fori, cioè le cause di er-rore determinate dai rapporti della vita sociale che han-no per condizione il linguaggio. Provengono invecedall’esterno gli idola theatri, ossia le cause di errore chederivano dalle dottrine filosofiche e dai procedimenti di-mostrativi imperfetti del passato. B. critica in modo par-ticolare le teorie filosofiche e la metodologia dell’aristo-telismo tradizionale, e a quest’ultima, al pari di Galileo,rimprovera insieme la mancanza di critica con cui accet-ta il dato dei sensi e l’eccessivo valore che accorda alprocedimento sillogistico. La parte positiva della meto-dologia baconiana, che cerca sempre di porre uno strettorapporto fra il senso e il pensiero, mira essenzialmente a

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stabilire una teoria dell’induzione che permetta d’inter-pretare la natura. Il nuovo procedimento induttivo devepassare in modo graduato e continuo dai fatti particolariai principî più universali e offrire risultati che non pos-sano essere contraddetti. Lo scopo ultimo della ricerca,come si è detto, è la scoperta delle forme, cioè delle de-terminazioni geometrico-meccaniche degli ultimi ele-menti della realtà fisica.

L’opera di B. al pari di quella di Galileo mira a inten-dere il mondo fisico come un sistema di corpi costituitida elementi privi di qualità sensibili e moventisi secon-do leggi causali necessarie e a costruire una scienza che,partendo dall’esperienza, interpreti col pensiero il datoempirico in modo conforme alle esigenze proprie diquello. Però egli, a differenza di Galileo, si sforza digiustificare filosoficamente sia la sua concezione dellanatura, che la sua teoria della scienza, e tocca, sebbenerapidamente, questioni gnoseologiche di cui il ricercato-re italiano non si era interessato. Ma nemmeno il teori-sta inglese affronta in pieno i problemi della gnoseolo-gia generale, soprattutto quello del valore oggettivo del-la scienza, e quando costruisce una metafisica non sirende conto delle difficoltà che incontra. Inoltre B. ave-va una mentalità che non gli permetteva di comprenderequale ufficio le scienze matematiche (che a suo parereavevano pregio soltanto come strumento di applicazionipratiche) fossero destinate a compiere nella costruzionedella nuova scienza della natura. Questa mancanza dispirito matematico, particolarmente grave nel momento

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stabilire una teoria dell’induzione che permetta d’inter-pretare la natura. Il nuovo procedimento induttivo devepassare in modo graduato e continuo dai fatti particolariai principî più universali e offrire risultati che non pos-sano essere contraddetti. Lo scopo ultimo della ricerca,come si è detto, è la scoperta delle forme, cioè delle de-terminazioni geometrico-meccaniche degli ultimi ele-menti della realtà fisica.

L’opera di B. al pari di quella di Galileo mira a inten-dere il mondo fisico come un sistema di corpi costituitida elementi privi di qualità sensibili e moventisi secon-do leggi causali necessarie e a costruire una scienza che,partendo dall’esperienza, interpreti col pensiero il datoempirico in modo conforme alle esigenze proprie diquello. Però egli, a differenza di Galileo, si sforza digiustificare filosoficamente sia la sua concezione dellanatura, che la sua teoria della scienza, e tocca, sebbenerapidamente, questioni gnoseologiche di cui il ricercato-re italiano non si era interessato. Ma nemmeno il teori-sta inglese affronta in pieno i problemi della gnoseolo-gia generale, soprattutto quello del valore oggettivo del-la scienza, e quando costruisce una metafisica non sirende conto delle difficoltà che incontra. Inoltre B. ave-va una mentalità che non gli permetteva di comprenderequale ufficio le scienze matematiche (che a suo parereavevano pregio soltanto come strumento di applicazionipratiche) fossero destinate a compiere nella costruzionedella nuova scienza della natura. Questa mancanza dispirito matematico, particolarmente grave nel momento

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in cui sorgeva quella scienza, doveva far sì che i con-temporanei e i successori di B. vedessero in lui l’esalta-tore dello studio empirico della natura, il teorista dellainduzione (che però nel suo pensiero vero doveva mira-re alla scoperta non di rapporti tra i fenomeni, madell’intima struttura della realtà) e giungessero al puntodi ritenerlo un empirista, anzi il fondatore dell’empiri-smo moderno6. Radicalmente diversa è la mentalità delDescartes. Egli è uno scienziato che conosce per espe-rienza diretta i procedimenti di cui s’occupa nella teoriametodologica e che collabora alla costruzione della nuo-va scienza esatta dei fenomeni con i suoi studi fisici; èuno spirito essenzialmente matematico, al quale si devela fondazione della geometria analitica che studia permezzo del calcolo algebrico le proprietà delle figurespaziali7. È, soprattutto, un pensatore, che approfonden-do i problemi suscitati dalla riflessione che viene com-piendo sui procedimenti usati dalla ricerca scientifica,sente la necessità di giustificarli razionalmente e di for-

6 Le pagine precedenti su Leonardo, Galileo e F. Bacone riassu-mono, spesso molto rapidamente, esposizioni più ampie con-tenute nel mio volume Il pensiero di F. Bacone: Torino, 1925.Da questo studio sono tolte alcune delle pagine che seguonosul Descartes, sino alla valutazione complessiva dell’operasua. Più di una volta però le ho modificate, e talvolta sostan-zialmente, con mutamenti, soppressioni e ampie integrazioni.Ho omesso le citazioni dei testi cartesiani.

7 Si deve aggiungere che il D. si occupò di ricerche fisiologichee anatomiche e che studiò in modo particolare i processidell’organismo che si collegano con le attività dell’anima.

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in cui sorgeva quella scienza, doveva far sì che i con-temporanei e i successori di B. vedessero in lui l’esalta-tore dello studio empirico della natura, il teorista dellainduzione (che però nel suo pensiero vero doveva mira-re alla scoperta non di rapporti tra i fenomeni, madell’intima struttura della realtà) e giungessero al puntodi ritenerlo un empirista, anzi il fondatore dell’empiri-smo moderno6. Radicalmente diversa è la mentalità delDescartes. Egli è uno scienziato che conosce per espe-rienza diretta i procedimenti di cui s’occupa nella teoriametodologica e che collabora alla costruzione della nuo-va scienza esatta dei fenomeni con i suoi studi fisici; èuno spirito essenzialmente matematico, al quale si devela fondazione della geometria analitica che studia permezzo del calcolo algebrico le proprietà delle figurespaziali7. È, soprattutto, un pensatore, che approfonden-do i problemi suscitati dalla riflessione che viene com-piendo sui procedimenti usati dalla ricerca scientifica,sente la necessità di giustificarli razionalmente e di for-

6 Le pagine precedenti su Leonardo, Galileo e F. Bacone riassu-mono, spesso molto rapidamente, esposizioni più ampie con-tenute nel mio volume Il pensiero di F. Bacone: Torino, 1925.Da questo studio sono tolte alcune delle pagine che seguonosul Descartes, sino alla valutazione complessiva dell’operasua. Più di una volta però le ho modificate, e talvolta sostan-zialmente, con mutamenti, soppressioni e ampie integrazioni.Ho omesso le citazioni dei testi cartesiani.

7 Si deve aggiungere che il D. si occupò di ricerche fisiologichee anatomiche e che studiò in modo particolare i processidell’organismo che si collegano con le attività dell’anima.

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mularne una teoria precisa, e principalmente di metterein chiaro il valore oggettivo della nuova scienza permezzo di una teoria generale della conoscenza e dellarealtà.

La filosofia del D. appare nelle sue prime forme unosvolgimento e un approfondimento del pensiero scienti-fico contemporaneo; infatti egli comincia col porsi ilproblema della scienza e chiede quali siano le condizio-ni della sua certezza. Ma poi la ricerca si amplia perchèegli, spinto dall’esigenza di dar ragione del valore og-gettivo della concezione meccanica del mondo (presup-posto dal Galilei), pone in tutta la sua estensione il pro-blema della natura e del valore della conoscenza. Il pri-mo dei momenti accennati è rappresentato essenzial-mente dalle Regulae ad directionem ingenii, in cui ilprogramma metodologico di una scienza universale ditipo matematico è connesso con lo studio della naturadella conoscenza scientifica. Tutte le scienze non sonoaltro che l’intelligenza umana che rimane identica perquanto siano varii gli oggetti cui si applica e che perciòcostituisce la scienza universale; ossia, nel pensiero sitrova il fondamento di tutto il sapere scientifico; infattiesso include in sè qualche cosa di divino in cui risiedo-no i primi germi di tutte le conoscenze utili. Ora, sicco-me scienza è conoscenza certa ed evidente, bisogna, perpossederla, respingere tutto ciò che è puramente proba-bile e prestar fede esclusivamente alle cognizioni sicure,indiscutibili, non soggette all’errore: e non vi sono chedue atti dello spirito che ci permettano di conseguirla,

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mularne una teoria precisa, e principalmente di metterein chiaro il valore oggettivo della nuova scienza permezzo di una teoria generale della conoscenza e dellarealtà.

La filosofia del D. appare nelle sue prime forme unosvolgimento e un approfondimento del pensiero scienti-fico contemporaneo; infatti egli comincia col porsi ilproblema della scienza e chiede quali siano le condizio-ni della sua certezza. Ma poi la ricerca si amplia perchèegli, spinto dall’esigenza di dar ragione del valore og-gettivo della concezione meccanica del mondo (presup-posto dal Galilei), pone in tutta la sua estensione il pro-blema della natura e del valore della conoscenza. Il pri-mo dei momenti accennati è rappresentato essenzial-mente dalle Regulae ad directionem ingenii, in cui ilprogramma metodologico di una scienza universale ditipo matematico è connesso con lo studio della naturadella conoscenza scientifica. Tutte le scienze non sonoaltro che l’intelligenza umana che rimane identica perquanto siano varii gli oggetti cui si applica e che perciòcostituisce la scienza universale; ossia, nel pensiero sitrova il fondamento di tutto il sapere scientifico; infattiesso include in sè qualche cosa di divino in cui risiedo-no i primi germi di tutte le conoscenze utili. Ora, sicco-me scienza è conoscenza certa ed evidente, bisogna, perpossederla, respingere tutto ciò che è puramente proba-bile e prestar fede esclusivamente alle cognizioni sicure,indiscutibili, non soggette all’errore: e non vi sono chedue atti dello spirito che ci permettano di conseguirla,

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l’intuizione e la deduzione. L’intuizione è un concettodella mente pura ed attenta, derivato dalla sola luce del-la ragione, che non permette alcun dubbio rispetto a ciòche con esso pensiamo. È più semplice della deduzionedalla quale si distingue perchè non implica un passaggioo discorso di pensiero. I suoi principali oggetti sono lenature semplici, assolute le quali sono conosciute per sèstesse grazie alla loro evidenza e che appunto per la lorosemplicità non contengono alcuna falsità. È bene notareche per il Descartes queste nature non sono concetti,cioè creazioni soggettive del pensiero, ma essenze cheformano l’oggetto di questo, che se ne rende conto e lepensa per mezzo appunto di concetti o nozioni. Per co-modità di esposizione, in seguito talvolta si useràl’espressione nozione per designare l’essenza oggettivacui corrisponde.

La Regula XII distingue le nature semplici in tregruppi: le puramente intellettuali, quelle cioè che l’intel-letto conosce per mezzo di una luce innata, senza l’ausi-lio di immagini corporee, come la conoscenza, il dub-bio, l’ignoranza, la volizione...; le puramente materiali,ossia quelle che sono conosciute solamente nei corpi,come la figura, l’estensione, il movimento e così via; ele comuni, che si applicano tanto alle cose materiali,quanto alle spirituali, come l’esistenza, la durata, l’unitàe simili. A questo terzo gruppo il Descartes collega an-che quelle nozioni comuni che sono come nessi che uni-scono certe nature semplici, e che con la loro evidenzacostituiscono il fondamento di ogni conclusione: come

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l’intuizione e la deduzione. L’intuizione è un concettodella mente pura ed attenta, derivato dalla sola luce del-la ragione, che non permette alcun dubbio rispetto a ciòche con esso pensiamo. È più semplice della deduzionedalla quale si distingue perchè non implica un passaggioo discorso di pensiero. I suoi principali oggetti sono lenature semplici, assolute le quali sono conosciute per sèstesse grazie alla loro evidenza e che appunto per la lorosemplicità non contengono alcuna falsità. È bene notareche per il Descartes queste nature non sono concetti,cioè creazioni soggettive del pensiero, ma essenze cheformano l’oggetto di questo, che se ne rende conto e lepensa per mezzo appunto di concetti o nozioni. Per co-modità di esposizione, in seguito talvolta si useràl’espressione nozione per designare l’essenza oggettivacui corrisponde.

La Regula XII distingue le nature semplici in tregruppi: le puramente intellettuali, quelle cioè che l’intel-letto conosce per mezzo di una luce innata, senza l’ausi-lio di immagini corporee, come la conoscenza, il dub-bio, l’ignoranza, la volizione...; le puramente materiali,ossia quelle che sono conosciute solamente nei corpi,come la figura, l’estensione, il movimento e così via; ele comuni, che si applicano tanto alle cose materiali,quanto alle spirituali, come l’esistenza, la durata, l’unitàe simili. A questo terzo gruppo il Descartes collega an-che quelle nozioni comuni che sono come nessi che uni-scono certe nature semplici, e che con la loro evidenzacostituiscono il fondamento di ogni conclusione: come

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esempio, ricorda la proposizione: «Due cose uguali auna terza sono uguali fra loro ». È chiaro che qui colnome di nozioni comuni egli indica assiomi, cioè, comeegli stesso dichiara, contenuti di giudizi, non di concettiveri e propri. Fra le nature semplici egli enumera anchele privazioni e negazioni delle positive, come il nulla,l’istante, il riposo, in relazione all’esistenza, alla durata,al movimento. Oltre alle nature semplici, l’intuizionepuò avere per oggetto i nessi necessari delle nozioni, sianei giudizi evidenti che nei ragionamenti immediati e inquelli mediati che posseggono certezza ed evidenza (ades.: 2+2=4; 3+1=4; quindi 2+2=3+1): così essa si avvi-cina alla deduzione.

Occupandosi particolarmente di tale argomento a pro-posito delle nature semplici, il Descartes dice che i loronessi sono necessari quando uno dei termini non si puòpensare senza l’altro: così la figura non si può concepireseparata dall’estensione, il movimento separato dalladurata. Del pari nell’affermazione: «Quattro e tre fannosette», il nesso degli elementi che compongono l’ultimonumero è necessario, perchè non si può concepire il set-te distintamente senza includervi in modo confuso i pri-mi due. Queste connessioni sono oggetto di un’intuizio-ne immediata. Per contro, il nesso è contingente quandoi termini non sono uniti in modo inseparabile, come av-viene nelle affermazioni: Il corpo è animato, l’uomo èvestito... Molte proposizioni che contengono un nessonecessario si giudicano abitualmente contingenti perchènon si riconosce la natura indissolubile del rapporto: tali

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esempio, ricorda la proposizione: «Due cose uguali auna terza sono uguali fra loro ». È chiaro che qui colnome di nozioni comuni egli indica assiomi, cioè, comeegli stesso dichiara, contenuti di giudizi, non di concettiveri e propri. Fra le nature semplici egli enumera anchele privazioni e negazioni delle positive, come il nulla,l’istante, il riposo, in relazione all’esistenza, alla durata,al movimento. Oltre alle nature semplici, l’intuizionepuò avere per oggetto i nessi necessari delle nozioni, sianei giudizi evidenti che nei ragionamenti immediati e inquelli mediati che posseggono certezza ed evidenza (ades.: 2+2=4; 3+1=4; quindi 2+2=3+1): così essa si avvi-cina alla deduzione.

Occupandosi particolarmente di tale argomento a pro-posito delle nature semplici, il Descartes dice che i loronessi sono necessari quando uno dei termini non si puòpensare senza l’altro: così la figura non si può concepireseparata dall’estensione, il movimento separato dalladurata. Del pari nell’affermazione: «Quattro e tre fannosette», il nesso degli elementi che compongono l’ultimonumero è necessario, perchè non si può concepire il set-te distintamente senza includervi in modo confuso i pri-mi due. Queste connessioni sono oggetto di un’intuizio-ne immediata. Per contro, il nesso è contingente quandoi termini non sono uniti in modo inseparabile, come av-viene nelle affermazioni: Il corpo è animato, l’uomo èvestito... Molte proposizioni che contengono un nessonecessario si giudicano abitualmente contingenti perchènon si riconosce la natura indissolubile del rapporto: tali

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sono le seguenti: Io sono, dunque Dio è; Io comprendo,dunque ho uno spirito distinto dal corpo. Ciò che dice ilDescartes del nesso necessario delle nature semplicipresenta una certa ambiguità. Talvolta pare che consistanella inclusione di una parte nel tutto o nella equivalen-za di più elementi alla loro somma, ossia in una relazio-ne analitica (così in certi casi l’estensione appare un ele-mento della figura; il 3 e il 4, i costitutori del 7), sebbe-ne ciò non possa avvenire rispetto a nozioni assoluta-mente semplici: talvolta invece sembra che esso risiedain un rapporto di implicazione, per cui b presuppone a:tale è il caso della connessione che, secondo il Descar-tes, esiste fra Io penso e Dio è. La stessa relazione fra lafigura e l’estensione in un passo della stessa Reg. XIInon appare più analitica, ma sembra ridursi al rapportodi implicazione. Se aggiungiamo a questi nessi gli assio-mi, vediamo che il carattere intuitivo delle conoscenzeche presentano non nature semplici, ma relazioni, assu-me aspetti diversi. In ogni modo, le Regulae mettono inchiaro che l’intuizione è un processo puramente intellet-tuale, ben distinto dal senso e dalla immaginazione.

La deduzione necessaria (e propriamente quella me-diata non direttamente evidente) è l’operazione per cuisi comprendono le cose che provengono necessariamen-te da altre conosciute con sicurezza: si distinguedall’intuizione (anche da quella che ha per oggetto infe-renze) perchè implica un movimento del pensiero e deri-va la sua certezza dalla memoria, ossia dal ricordo diavere avuto presenti alla mente certe intuizioni. Essa

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sono le seguenti: Io sono, dunque Dio è; Io comprendo,dunque ho uno spirito distinto dal corpo. Ciò che dice ilDescartes del nesso necessario delle nature semplicipresenta una certa ambiguità. Talvolta pare che consistanella inclusione di una parte nel tutto o nella equivalen-za di più elementi alla loro somma, ossia in una relazio-ne analitica (così in certi casi l’estensione appare un ele-mento della figura; il 3 e il 4, i costitutori del 7), sebbe-ne ciò non possa avvenire rispetto a nozioni assoluta-mente semplici: talvolta invece sembra che esso risiedain un rapporto di implicazione, per cui b presuppone a:tale è il caso della connessione che, secondo il Descar-tes, esiste fra Io penso e Dio è. La stessa relazione fra lafigura e l’estensione in un passo della stessa Reg. XIInon appare più analitica, ma sembra ridursi al rapportodi implicazione. Se aggiungiamo a questi nessi gli assio-mi, vediamo che il carattere intuitivo delle conoscenzeche presentano non nature semplici, ma relazioni, assu-me aspetti diversi. In ogni modo, le Regulae mettono inchiaro che l’intuizione è un processo puramente intellet-tuale, ben distinto dal senso e dalla immaginazione.

La deduzione necessaria (e propriamente quella me-diata non direttamente evidente) è l’operazione per cuisi comprendono le cose che provengono necessariamen-te da altre conosciute con sicurezza: si distinguedall’intuizione (anche da quella che ha per oggetto infe-renze) perchè implica un movimento del pensiero e deri-va la sua certezza dalla memoria, ossia dal ricordo diavere avuto presenti alla mente certe intuizioni. Essa

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consiste nel processo mentale che unisce due terminiestremi passando per una successione di medi. Questoprocedimento, ben diverso dal sillogismo tradizionale,cerca di determinare un elemento ignoto per mezzo del-le relazioni che lo collegano a enti noti, relazioni che ri-chiedono sempre atti di confronto e che debbono esserestate intuite in modo immediato (ad es.; a=b; b=c; c=d;d=e; quindi a=e)..

Intesa in questo modo, la deduzione (mediata) mira adeterminare relazioni sia di ordine, cioè di dipendenzadi una conoscenza da altre, sia di misura (di uguaglian-za, di eccesso e di difetto), fondate sul riferimento deitermini a un’unità base. La prima forma di deduzionepoi può essere analitica o sintetica. L’analisi include ilpassaggio dalla conseguenza al principio, dal tutto aisuoi elementi, dal condizionato alla condizione,dall’effetto alla causa; la sintesi comprende i passaggiopposti. Però il Descartes, pure riconoscendo che la de-duzione analitica e quella sintetica possono presentaretutti questi aspetti, ha assegnato ad esse principalmentel’ufficio di risolvere un tutto complesso nei suoi ele-menti semplici e di ricostruire il primo coi secondi. Eglideve avere preferito tali espressioni dell’analisi e dellasintesi alle altre perchè le riteneva più chiare e più facil-mente comprensibili.

La teoria gnoseologica della intuizione e della dedu-zione determina la concezione metafisica della strutturadella realtà, che quegli atti del pensiero debbono far co-

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consiste nel processo mentale che unisce due terminiestremi passando per una successione di medi. Questoprocedimento, ben diverso dal sillogismo tradizionale,cerca di determinare un elemento ignoto per mezzo del-le relazioni che lo collegano a enti noti, relazioni che ri-chiedono sempre atti di confronto e che debbono esserestate intuite in modo immediato (ad es.; a=b; b=c; c=d;d=e; quindi a=e)..

Intesa in questo modo, la deduzione (mediata) mira adeterminare relazioni sia di ordine, cioè di dipendenzadi una conoscenza da altre, sia di misura (di uguaglian-za, di eccesso e di difetto), fondate sul riferimento deitermini a un’unità base. La prima forma di deduzionepoi può essere analitica o sintetica. L’analisi include ilpassaggio dalla conseguenza al principio, dal tutto aisuoi elementi, dal condizionato alla condizione,dall’effetto alla causa; la sintesi comprende i passaggiopposti. Però il Descartes, pure riconoscendo che la de-duzione analitica e quella sintetica possono presentaretutti questi aspetti, ha assegnato ad esse principalmentel’ufficio di risolvere un tutto complesso nei suoi ele-menti semplici e di ricostruire il primo coi secondi. Eglideve avere preferito tali espressioni dell’analisi e dellasintesi alle altre perchè le riteneva più chiare e più facil-mente comprensibili.

La teoria gnoseologica della intuizione e della dedu-zione determina la concezione metafisica della strutturadella realtà, che quegli atti del pensiero debbono far co-

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noscere8. Siccome l’intuizione, che nasce dalla sola lucedella ragione, procura una certezza suprema, anche su-periore a quella della deduzione, occorre che i suoi og-getti propri siano così semplici da non potere includerealcune falsità. Le cose composte risultano di elementisemplici, che si possono soltanto intuire; perciò la dedu-zione dovrà avere per oggetto le prime e, per farle cono-scere, le ridurrà analiticamente ai loro costitutori e poi liricostruirà sinteticamente con questi. Alla tesi gnoseolo-gica che i due soli atti della mente che permettono di co-noscere la verità sono l’intuizione e la deduzione, corri-sponde la teoria metafisica che i loro oggetti, cioè le na-ture semplici e i composti che ne provengono, formanotutta la realtà. La subordinazione della concezione meta-fisica alla gnoseologica è chiaramente espressa nella af-fermazione che possiamo comprendere soltanto le natu-re semplici e le composte che esse formano e che perciòla scienza umana consiste esclusivamente nel vederecon distinzione come ciò avvenga. Sarà necessario daprima distinguere negli oggetti complessi che sono datidall’esperienza le nature semplici che sono contenute intutte le cose e poi ricercare quali particolari determina-zioni di esse occorra ammettere per dar ragione dei di-

8 Questa metafisica, appunto perchè è determinata dalla gnoseo-logia della scienza, non giustifica l’oggettività di questa, cherichiede una teoria della realtà fondata sull’esame del proble-ma generale della conoscenza, di cui le Regulae non si occu-pano. Tale metafisica ha quindi valore ipotetico non definiti-vo.

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noscere8. Siccome l’intuizione, che nasce dalla sola lucedella ragione, procura una certezza suprema, anche su-periore a quella della deduzione, occorre che i suoi og-getti propri siano così semplici da non potere includerealcune falsità. Le cose composte risultano di elementisemplici, che si possono soltanto intuire; perciò la dedu-zione dovrà avere per oggetto le prime e, per farle cono-scere, le ridurrà analiticamente ai loro costitutori e poi liricostruirà sinteticamente con questi. Alla tesi gnoseolo-gica che i due soli atti della mente che permettono di co-noscere la verità sono l’intuizione e la deduzione, corri-sponde la teoria metafisica che i loro oggetti, cioè le na-ture semplici e i composti che ne provengono, formanotutta la realtà. La subordinazione della concezione meta-fisica alla gnoseologica è chiaramente espressa nella af-fermazione che possiamo comprendere soltanto le natu-re semplici e le composte che esse formano e che perciòla scienza umana consiste esclusivamente nel vederecon distinzione come ciò avvenga. Sarà necessario daprima distinguere negli oggetti complessi che sono datidall’esperienza le nature semplici che sono contenute intutte le cose e poi ricercare quali particolari determina-zioni di esse occorra ammettere per dar ragione dei di-

8 Questa metafisica, appunto perchè è determinata dalla gnoseo-logia della scienza, non giustifica l’oggettività di questa, cherichiede una teoria della realtà fondata sull’esame del proble-ma generale della conoscenza, di cui le Regulae non si occu-pano. Tale metafisica ha quindi valore ipotetico non definiti-vo.

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versi casi che si studiano. Ad esempio, se si vuole sape-re quale sia la natura del magnete, si deve da prima pre-supporre che risulta di certe nature semplici: estensione,figura, movimento. Per scoprire quali specie di esse co-stituiscano tale corpo, occorre riunire tutte le esperienzeche si possono avere su di esso e dedurre da ciò qualemescolanza di nature semplici può averle prodotte.

Ma queste indicazioni generali debbono essere com-pletate da una teoria metodologica (che dipende, oltreche dalla gnoseologia della scienza, dalla interpretazio-ne metafisica della realtà che si deve studiare), la qualeperò non pretende d’insegnare come si formino attivitàintellettuali nuove, ma ha soltanto l’oggetto di indicarein quale modo si deve fare uso dell’intuizione e delladeduzione, le quali appartengono di per sè alla mente ditutti gli uomini. Spontaneamente hanno seguito questometodo i cultori delle scienze più facili, l’aritmetica e lageometria, che, sebbene presentate dagli antichi in for-ma sintetica, debbono essere state da prima costruiteanaliticamente. Quelle scienze hanno potuto così svol-gersi più felicemente delle altre; ma è possibile costruireuna matematica o scienza universale che applichi a tuttigli oggetti i procedimenti di cui si valgono l’aritmetica ela geometria studiando i numeri e le figure.

Esse sono le uniche scienze certe che si posseggano;le altre, essendo piene di discussioni su ogni argomento,non offrono che opinioni probabili. La sillogistica dellalogica tradizionale, che considera soltanto la forma delladeduzione, non può costruire alcun ragionamento che

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versi casi che si studiano. Ad esempio, se si vuole sape-re quale sia la natura del magnete, si deve da prima pre-supporre che risulta di certe nature semplici: estensione,figura, movimento. Per scoprire quali specie di esse co-stituiscano tale corpo, occorre riunire tutte le esperienzeche si possono avere su di esso e dedurre da ciò qualemescolanza di nature semplici può averle prodotte.

Ma queste indicazioni generali debbono essere com-pletate da una teoria metodologica (che dipende, oltreche dalla gnoseologia della scienza, dalla interpretazio-ne metafisica della realtà che si deve studiare), la qualeperò non pretende d’insegnare come si formino attivitàintellettuali nuove, ma ha soltanto l’oggetto di indicarein quale modo si deve fare uso dell’intuizione e delladeduzione, le quali appartengono di per sè alla mente ditutti gli uomini. Spontaneamente hanno seguito questometodo i cultori delle scienze più facili, l’aritmetica e lageometria, che, sebbene presentate dagli antichi in for-ma sintetica, debbono essere state da prima costruiteanaliticamente. Quelle scienze hanno potuto così svol-gersi più felicemente delle altre; ma è possibile costruireuna matematica o scienza universale che applichi a tuttigli oggetti i procedimenti di cui si valgono l’aritmetica ela geometria studiando i numeri e le figure.

Esse sono le uniche scienze certe che si posseggano;le altre, essendo piene di discussioni su ogni argomento,non offrono che opinioni probabili. La sillogistica dellalogica tradizionale, che considera soltanto la forma delladeduzione, non può costruire alcun ragionamento che

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dia per conclusione il vero, se non ne possiede già lamateria, cioè se non conosce la verità che si deve dedur-re. Tale arte può servire non a scoprire il vero, ma aesporre meglio ad altri ciò che si conosceva, e quandomanchi questa cognizione sicura può combinare esclusi-vamente ragionamenti probabili. La certezza propriadell’aritmetica e della geometria deriva dal fatto che illoro oggetto è così chiaro e semplice che esse non deb-bono supporre cosa alcuna che l’esperienza possa mette-re in dubbio e che consistono soltanto nelle conseguenzeche il ragionamento deduce: ciò equivale a dire che sivalgono esclusivamente dell’intuizione e della deduzio-ne. Le scienze matematiche sono caratterizzate da ciò,che ricercano l’ordine e la misura: estendendo questoprocedimento a oggetti diversi dai numeri e dalle figure,per esempio agli astri, ai suoni, si può ottenere una ma-tematica universale, che adoperi il procedimento indica-to, che è appunto quello usato dalle due scienze specialile quali gli debbono la loro certezza.

Fondamento di questa metodologia è la prescrizionedi ricercare ciò che si può vedere chiaramente, con evi-denza, o dedurre con certezza, cioè di usare l’intuizionee la deduzione. Fra le norme che la seguono (che indica-no come si deve adoperare la deduzione per risolverequestioni, ossia problemi), ha importanza soprattuttoquella che fa consistere tutto il metodo nell’ordine e af-ferma che per seguirlo occorre ridurre gradatamente leproposizioni involute e oscure ad altre più semplici epoi procedere sempre per gradi, dall’intuizione delle più

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dia per conclusione il vero, se non ne possiede già lamateria, cioè se non conosce la verità che si deve dedur-re. Tale arte può servire non a scoprire il vero, ma aesporre meglio ad altri ciò che si conosceva, e quandomanchi questa cognizione sicura può combinare esclusi-vamente ragionamenti probabili. La certezza propriadell’aritmetica e della geometria deriva dal fatto che illoro oggetto è così chiaro e semplice che esse non deb-bono supporre cosa alcuna che l’esperienza possa mette-re in dubbio e che consistono soltanto nelle conseguenzeche il ragionamento deduce: ciò equivale a dire che sivalgono esclusivamente dell’intuizione e della deduzio-ne. Le scienze matematiche sono caratterizzate da ciò,che ricercano l’ordine e la misura: estendendo questoprocedimento a oggetti diversi dai numeri e dalle figure,per esempio agli astri, ai suoni, si può ottenere una ma-tematica universale, che adoperi il procedimento indica-to, che è appunto quello usato dalle due scienze specialile quali gli debbono la loro certezza.

Fondamento di questa metodologia è la prescrizionedi ricercare ciò che si può vedere chiaramente, con evi-denza, o dedurre con certezza, cioè di usare l’intuizionee la deduzione. Fra le norme che la seguono (che indica-no come si deve adoperare la deduzione per risolverequestioni, ossia problemi), ha importanza soprattuttoquella che fa consistere tutto il metodo nell’ordine e af-ferma che per seguirlo occorre ridurre gradatamente leproposizioni involute e oscure ad altre più semplici epoi procedere sempre per gradi, dall’intuizione delle più

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semplici alla conoscenza di tutte le altre cose. Così siprescrive che l’uso dell’analisi e della sintesi sia domi-nato dal criterio dell’ordine.

Si è visto che il metodo della matematica (o scienza)universale si può applicare a tutti gli oggetti e quindi an-che a quelli del mondo fisico: in questo caso però (chele Regulae, lasciate incompiute dal Descartes, non con-siderano particolarmente), occorre partire dall’esperien-za, come più volte il Descartes afferma energicamente.Così egli condanna, perchè non rispettano il criteriodell’ordine, quei filosofi, che, trascurando l’esperienza,credono che la verità debba balzare dal loro cervello,come Minerva da quello di Giove, e scrive che chi vuoleconoscere la natura del magnete deve raccogliere concura tutte le esperienze che può possedere su di esso epoi dedurne quale sia l’unione di nature semplici e noteper sè, che è necessaria per produrre tutti gli effetti rico-nosciuti in quella pietra. Però queste parole mettono inchiaro che se l’esperienza è necessaria perchè presenta ilproblema, la sua soluzione è data dal pensiero, che lo ri-duce ai suoi termini concettuali semplici. La scienzadella natura rientra nella matematica universale non sol-tanto perchè ne applica il metodo, ma anche per la ra-gione che riduce i fenomeni fisici a concetti geometrici:infatti, tra le nature semplici che si trovano soltanto neicorpi si ricordano la figura, l’estensione, il movimento:con esse perciò si dovrà spiegare il mondo fisico. Perdar ragione dei fenomeni di questo, bisogna supporre,facendo una pura ipotesi esplicativa, che le proprietà

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semplici alla conoscenza di tutte le altre cose. Così siprescrive che l’uso dell’analisi e della sintesi sia domi-nato dal criterio dell’ordine.

Si è visto che il metodo della matematica (o scienza)universale si può applicare a tutti gli oggetti e quindi an-che a quelli del mondo fisico: in questo caso però (chele Regulae, lasciate incompiute dal Descartes, non con-siderano particolarmente), occorre partire dall’esperien-za, come più volte il Descartes afferma energicamente.Così egli condanna, perchè non rispettano il criteriodell’ordine, quei filosofi, che, trascurando l’esperienza,credono che la verità debba balzare dal loro cervello,come Minerva da quello di Giove, e scrive che chi vuoleconoscere la natura del magnete deve raccogliere concura tutte le esperienze che può possedere su di esso epoi dedurne quale sia l’unione di nature semplici e noteper sè, che è necessaria per produrre tutti gli effetti rico-nosciuti in quella pietra. Però queste parole mettono inchiaro che se l’esperienza è necessaria perchè presenta ilproblema, la sua soluzione è data dal pensiero, che lo ri-duce ai suoi termini concettuali semplici. La scienzadella natura rientra nella matematica universale non sol-tanto perchè ne applica il metodo, ma anche per la ra-gione che riduce i fenomeni fisici a concetti geometrici:infatti, tra le nature semplici che si trovano soltanto neicorpi si ricordano la figura, l’estensione, il movimento:con esse perciò si dovrà spiegare il mondo fisico. Perdar ragione dei fenomeni di questo, bisogna supporre,facendo una pura ipotesi esplicativa, che le proprietà

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sensibili dei corpi consistano in differenze di figure,cioè in modificazioni dell’estensione. Così si riduconogli oggetti ai loro costitutori semplici; inoltre, ciò per-mette uno studio esatto del mondo corporeo; infatti, perconoscere una cosa bisogna confrontarla con altre giànote, ma tale comparazione è semplice e chiara quandoriguarda grandezze spaziali perchè in questo caso si pos-sono definire esattamente le differenze di proporzione.In ciò consiste il procedimento delle matematiche. Cosìil Descartes determina il metodo dello studio della natu-ra e giustifica gnoseologicamente la razionalità dellaconcezione matematico-meccanica dei fenomeni fisicimostrando che offre il massimo di chiarezza e di intelli-gibilità; ma essa ha ancora carattere ipotetico, perchènon è stato provato che penetri nella realtà e la rappre-senti esattamente.

Le Regulae contengono però teorie gnoseologiche emetafisiche che includono gravi incoerenze e suscitanoserie difficoltà.

L’intuizione è infallibile perchè ha per oggetto pro-prio nature semplici che, appunto in quanto sono tali,non includono nulla di falso; però la semplicità che mol-te di esse presentano è soltanto relativa. La deduzionetalvolta ha per oggetto essenzialmente relazioni di ordi-ne, talvolta viene riferita necessariamente a quelle dimisura. Ma se nel primo caso è possibile un metodo ap-plicabile a qualsiasi oggetto e perciò una scienza vera-mente universale, nel secondo si può determinare sola-mente il metodo delle scienze che studiano le relazioni

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sensibili dei corpi consistano in differenze di figure,cioè in modificazioni dell’estensione. Così si riduconogli oggetti ai loro costitutori semplici; inoltre, ciò per-mette uno studio esatto del mondo corporeo; infatti, perconoscere una cosa bisogna confrontarla con altre giànote, ma tale comparazione è semplice e chiara quandoriguarda grandezze spaziali perchè in questo caso si pos-sono definire esattamente le differenze di proporzione.In ciò consiste il procedimento delle matematiche. Cosìil Descartes determina il metodo dello studio della natu-ra e giustifica gnoseologicamente la razionalità dellaconcezione matematico-meccanica dei fenomeni fisicimostrando che offre il massimo di chiarezza e di intelli-gibilità; ma essa ha ancora carattere ipotetico, perchènon è stato provato che penetri nella realtà e la rappre-senti esattamente.

Le Regulae contengono però teorie gnoseologiche emetafisiche che includono gravi incoerenze e suscitanoserie difficoltà.

L’intuizione è infallibile perchè ha per oggetto pro-prio nature semplici che, appunto in quanto sono tali,non includono nulla di falso; però la semplicità che mol-te di esse presentano è soltanto relativa. La deduzionetalvolta ha per oggetto essenzialmente relazioni di ordi-ne, talvolta viene riferita necessariamente a quelle dimisura. Ma se nel primo caso è possibile un metodo ap-plicabile a qualsiasi oggetto e perciò una scienza vera-mente universale, nel secondo si può determinare sola-mente il metodo delle scienze che studiano le relazioni

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quantitative di grandezza, cioè delle discipline matema-tiche e fisico-matematiche. Anche se si considera fonda-mentale soltanto la ricerca dell’ordine, si incontrano dif-ficoltà gravi, perchè le Regulae, sebbene riconoscanoforme svariate di deduzione analitica e sintetica, (pas-saggio da una cosa a un’altra da cui dipende o da questaa quella), appaiono dominate dalla convinzione chesono fondamentali i procedimenti che riducono un tuttoai suoi elementi o lo ricostruiscono per mezzo di questi,sicchè perdono importanza, ad esempio, quelli che pas-sano dal condizionato alla sua condizione necessaria oviceversa, o dallo effetto alla causa o da questa a quello.A queste concezioni gnoseologiche corrisponde la tesimetafisica che nella realtà esistono soltanto le naturesemplici insieme coi loro nessi necessari e le cose com-poste che ne risultano, che consistono nella pura e sem-plice somma dei loro elementi.

In tal modo, anche l’io pensante apparirebbe un com-posto di certe nature semplici (l’unità, la esistenza, ilpensiero) prive di determinazioni personali concrete.Ora le difficoltà indicate sono, almeno in gran parte,evitate dal Discorso, appunto perchè esso non formulale teorie della intuizione e della deduzione nei terminidelle Regulae, non parla delle nature semplici e non so-stiene che esistono solamente esse e i loro composti.

Il Discorso, come le opere che lo seguono (Medita-tiones, Principia Philosophiae e scritti minori) ammettesempre l’esistenza dell’intuizione e della deduzione evede in esse le operazioni fondamentali della conoscen-

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quantitative di grandezza, cioè delle discipline matema-tiche e fisico-matematiche. Anche se si considera fonda-mentale soltanto la ricerca dell’ordine, si incontrano dif-ficoltà gravi, perchè le Regulae, sebbene riconoscanoforme svariate di deduzione analitica e sintetica, (pas-saggio da una cosa a un’altra da cui dipende o da questaa quella), appaiono dominate dalla convinzione chesono fondamentali i procedimenti che riducono un tuttoai suoi elementi o lo ricostruiscono per mezzo di questi,sicchè perdono importanza, ad esempio, quelli che pas-sano dal condizionato alla sua condizione necessaria oviceversa, o dallo effetto alla causa o da questa a quello.A queste concezioni gnoseologiche corrisponde la tesimetafisica che nella realtà esistono soltanto le naturesemplici insieme coi loro nessi necessari e le cose com-poste che ne risultano, che consistono nella pura e sem-plice somma dei loro elementi.

In tal modo, anche l’io pensante apparirebbe un com-posto di certe nature semplici (l’unità, la esistenza, ilpensiero) prive di determinazioni personali concrete.Ora le difficoltà indicate sono, almeno in gran parte,evitate dal Discorso, appunto perchè esso non formulale teorie della intuizione e della deduzione nei terminidelle Regulae, non parla delle nature semplici e non so-stiene che esistono solamente esse e i loro composti.

Il Discorso, come le opere che lo seguono (Medita-tiones, Principia Philosophiae e scritti minori) ammettesempre l’esistenza dell’intuizione e della deduzione evede in esse le operazioni fondamentali della conoscen-

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za, ma, non determinandone le funzioni come fa l’operaprecedente, conserva ad esse il loro significato più gene-rale. Appaiono intuite tutte le idee (o conoscenze) inna-te, cioè «tutte quelle in generale che rappresentano es-senze vere, eterne, immutabili»; in tal modo, l’atto intui-tivo non riceve la sua certezza dalla semplicità del con-tenuto pensato, perchè la chiarezza e la distinzione dicerte idee diventa il criterio decisivo della loro verità.Rispetto alla deduzione, il Discorso presenta come fon-damentale soltanto la ricerca dell’ordine, sicchè il meto-do che la prescrive è valido per tutte le scienze; inveceparla dello studio delle proporzioni (o rapporti) quandosi occupa delle discipline matematiche. Quanto ai proce-dimenti analitici e sintetici il Discorso non accorda pre-ferenze ad alcune delle loro forme rispetto ad altre, e daciò segue che tutte possono considerarsi legittime. Anzi,sia nel Discorso che nelle opere successive il D. adoperada prima una ricerca che, invece di risolvere realtà com-plesse nei loro elementi, si sforza di ridurre la conoscen-za alle condizioni che essa implica in modo necessario;e poi, nel momento sintetico successivo, non ricostrui-sce i composti coi loro costituenti, ma procede dallacondizione al condizionato.

In correlazione con le teorie dell’intuizione e delladeduzione, il D. modifica quella della realtà; infatti, nel-le opere che hanno inizio nel Discorso, egli afferma chela natura o essenza della sostanza risiede nel suo attribu-to, cioè in quella proprietà permanente di essa dalla qua-le dipendono le altre che la presuppongono e cambiano,

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za, ma, non determinandone le funzioni come fa l’operaprecedente, conserva ad esse il loro significato più gene-rale. Appaiono intuite tutte le idee (o conoscenze) inna-te, cioè «tutte quelle in generale che rappresentano es-senze vere, eterne, immutabili»; in tal modo, l’atto intui-tivo non riceve la sua certezza dalla semplicità del con-tenuto pensato, perchè la chiarezza e la distinzione dicerte idee diventa il criterio decisivo della loro verità.Rispetto alla deduzione, il Discorso presenta come fon-damentale soltanto la ricerca dell’ordine, sicchè il meto-do che la prescrive è valido per tutte le scienze; inveceparla dello studio delle proporzioni (o rapporti) quandosi occupa delle discipline matematiche. Quanto ai proce-dimenti analitici e sintetici il Discorso non accorda pre-ferenze ad alcune delle loro forme rispetto ad altre, e daciò segue che tutte possono considerarsi legittime. Anzi,sia nel Discorso che nelle opere successive il D. adoperada prima una ricerca che, invece di risolvere realtà com-plesse nei loro elementi, si sforza di ridurre la conoscen-za alle condizioni che essa implica in modo necessario;e poi, nel momento sintetico successivo, non ricostrui-sce i composti coi loro costituenti, ma procede dallacondizione al condizionato.

In correlazione con le teorie dell’intuizione e delladeduzione, il D. modifica quella della realtà; infatti, nel-le opere che hanno inizio nel Discorso, egli afferma chela natura o essenza della sostanza risiede nel suo attribu-to, cioè in quella proprietà permanente di essa dalla qua-le dipendono le altre che la presuppongono e cambiano,

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ossia i modi, che sono così pensati come le determina-zioni mutevoli di quello, che rimane sempre identico. Inparticolare, poi, il soggetto pensante è presentato comeuna realtà individuale, concreta, non come un fascio dinature semplici universali. Queste divergenze fra le Re-gulae e le opere successive inducono a pensare che il D.abbia in alcuni punti essenziali modificato le proprieconcezioni per liberarsi dalle difficoltà che lo scritto piùantico suscitava. Altre differenze dipendono dai nuoviproblemi che egli affronta. Infatti, in quelle opere eglivuole dimostrare il valore oggettivo della interpretazio-ne matematico-meccanica dei fenomeni naturali e que-sto rimane sempre lo scopo principale delle sue ricer-che; ma esse si allargano tanto da mettere in questione ilvalore della conoscenza in generale: la soluzione delproblema gnoseologico inteso in tutto il suo significatoconduce poi a una costruzione metafisica (di cui la con-cezione della natura è soltanto un aspetto) che, collegan-dosi con motivi agostiniani di pensiero, riceveun’impronta sempre più profondamente religiosa9.

Il metodo è dal Discorso ridotto essenzialmente allenorme: di accogliere per vere soltanto le cose che si co-noscono in modo evidente come tali, ammettendo neigiudizi esclusivamente ciò che si presenta con tale chia-rezza ed evidenza allo spirito da non lasciare occasionea dubbi, di dividere le difficoltà nel maggior numero

9 V. p. XXXIX [pag. 58 in questa edizione Manuzio] ove è deter-minato l’ufficio di alcune di queste concezioni religiose.

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ossia i modi, che sono così pensati come le determina-zioni mutevoli di quello, che rimane sempre identico. Inparticolare, poi, il soggetto pensante è presentato comeuna realtà individuale, concreta, non come un fascio dinature semplici universali. Queste divergenze fra le Re-gulae e le opere successive inducono a pensare che il D.abbia in alcuni punti essenziali modificato le proprieconcezioni per liberarsi dalle difficoltà che lo scritto piùantico suscitava. Altre differenze dipendono dai nuoviproblemi che egli affronta. Infatti, in quelle opere eglivuole dimostrare il valore oggettivo della interpretazio-ne matematico-meccanica dei fenomeni naturali e que-sto rimane sempre lo scopo principale delle sue ricer-che; ma esse si allargano tanto da mettere in questione ilvalore della conoscenza in generale: la soluzione delproblema gnoseologico inteso in tutto il suo significatoconduce poi a una costruzione metafisica (di cui la con-cezione della natura è soltanto un aspetto) che, collegan-dosi con motivi agostiniani di pensiero, riceveun’impronta sempre più profondamente religiosa9.

Il metodo è dal Discorso ridotto essenzialmente allenorme: di accogliere per vere soltanto le cose che si co-noscono in modo evidente come tali, ammettendo neigiudizi esclusivamente ciò che si presenta con tale chia-rezza ed evidenza allo spirito da non lasciare occasionea dubbi, di dividere le difficoltà nel maggior numero

9 V. p. XXXIX [pag. 58 in questa edizione Manuzio] ove è deter-minato l’ufficio di alcune di queste concezioni religiose.

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possibile di parti, di procedere con ordine dagli oggettipiù semplici e facili ai più complessi10. La normadell’evidenza già formulata nelle Regulae riceve ora unrilievo incomparabilmente maggiore; inoltre non è piùcollegata con la risoluzione delle nozioni in elementisemplici: le altre due corrispondono ai metodi dell’ana-lisi e della sintesi della prima opera. Ma un passo decisi-vo al di là di essa è fatto quando, per esser certo di noningannarsi, il Descartes decide di respingere tutto ciòche possa dar luogo a dubbi: non soltanto le testimo-nianze dei sensi, la credenza nella realtà del mondoesterno, ma anche i ragionamenti matematici ora sonoper lui oggetto di incertezza, perchè vi sono uomini cheoccupandosi di tali argomenti cadono in errore. Ciò nonpuò accadere sempre? Dio o un genio maligno non puòaverci fatti tali da ingannarci in ogni occasione? Così èapplicata sino alle ultime conseguenze la normadell’evidenza.

Dallo stesso dubbio, spinto alla sua esasperazione, sipuò trovare una sicura via di uscita. Infatti io non possodubitare senza pensare, nè pensare senza essere: cogito,ergo sum, sicchè il dubbio implica necessariamente,come atto del pensiero di un soggetto, la realtà di que-sto, in quanto pensante, realtà che il Descartes identificaa quella della sostanza pensante11, che per esistere non

10 La enumerazione, prescritta dalla quarta norma, ha una fun-zione subordinata. Cf. il commento.

11 Come tutti sanno, il Kant criticò a fondo il passaggio dal cogi-to all’affermazione di una sostanza pensante. Effettivamente,

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possibile di parti, di procedere con ordine dagli oggettipiù semplici e facili ai più complessi10. La normadell’evidenza già formulata nelle Regulae riceve ora unrilievo incomparabilmente maggiore; inoltre non è piùcollegata con la risoluzione delle nozioni in elementisemplici: le altre due corrispondono ai metodi dell’ana-lisi e della sintesi della prima opera. Ma un passo decisi-vo al di là di essa è fatto quando, per esser certo di noningannarsi, il Descartes decide di respingere tutto ciòche possa dar luogo a dubbi: non soltanto le testimo-nianze dei sensi, la credenza nella realtà del mondoesterno, ma anche i ragionamenti matematici ora sonoper lui oggetto di incertezza, perchè vi sono uomini cheoccupandosi di tali argomenti cadono in errore. Ciò nonpuò accadere sempre? Dio o un genio maligno non puòaverci fatti tali da ingannarci in ogni occasione? Così èapplicata sino alle ultime conseguenze la normadell’evidenza.

Dallo stesso dubbio, spinto alla sua esasperazione, sipuò trovare una sicura via di uscita. Infatti io non possodubitare senza pensare, nè pensare senza essere: cogito,ergo sum, sicchè il dubbio implica necessariamente,come atto del pensiero di un soggetto, la realtà di que-sto, in quanto pensante, realtà che il Descartes identificaa quella della sostanza pensante11, che per esistere non

10 La enumerazione, prescritta dalla quarta norma, ha una fun-zione subordinata. Cf. il commento.

11 Come tutti sanno, il Kant criticò a fondo il passaggio dal cogi-to all’affermazione di una sostanza pensante. Effettivamente,

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dipende dall’esistenza dei corpi, se pur ve ne sono. Percomprendere la complessità dei significati inclusinell’apparente semplicità del cogito e le funzioni checompie nella filosofia cartesiana, occorre considerareche esso permette di uscire dal dubbio rispetto al valoredell’attività conoscitiva considerata sia nel suo riferi-mento a una realtà che ne costituisce l’oggetto, sia nelsuo intimo funzionamento, in quanto mostra che il sog-getto può cogliere col pensiero un reale indiscutibile eapprendere una verità che è superiore a ogni sospetto. IlDescartes designa con la parola pensiero tutto ciò di cuiabbiamo coscienza immediatamente; perciò il cogito haper fondamento l’esperienza diretta e vissuta che l’ioautocosciente ha di sè stesso, in quanto si riconosce esi-stente nei contenuti molteplici che esperimenta: non sitratta soltanto della certezza del fenomeno, che lo stessoscetticismo non ha mai discusso, ma della intuizione che

esso garantisce soltanto la realtà del soggetto cosciente. Pergiungere al pensiero, concepito come attributo di quella so-stanza, occorre provare che esiste un Dio che non può trarci inerrore. Infatti, per affermare che il pensiero costituisce l’attri-buto, cioè la determinazione essenziale e permanente della so-stanza spirituale, dalla quale dipendono le altre, che mutano,occorre riconoscere in esso qualche cosa che rimane immuta-bile nelle sue molteplici modalità, e ciò richiede una deduzio-ne che (come si vedrà) può essere garantita soltanto dalla veri-dicità di Dio. Del resto nemmeno così si può dal pensiero at-tributo derivare la sostanzialità dell’io. La tesi che ogni attri-buto appartiene a una sostanza, che il D. dichiara rivelata dallaluce naturale, è tutt’altro che indiscutibile.

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dipende dall’esistenza dei corpi, se pur ve ne sono. Percomprendere la complessità dei significati inclusinell’apparente semplicità del cogito e le funzioni checompie nella filosofia cartesiana, occorre considerareche esso permette di uscire dal dubbio rispetto al valoredell’attività conoscitiva considerata sia nel suo riferi-mento a una realtà che ne costituisce l’oggetto, sia nelsuo intimo funzionamento, in quanto mostra che il sog-getto può cogliere col pensiero un reale indiscutibile eapprendere una verità che è superiore a ogni sospetto. IlDescartes designa con la parola pensiero tutto ciò di cuiabbiamo coscienza immediatamente; perciò il cogito haper fondamento l’esperienza diretta e vissuta che l’ioautocosciente ha di sè stesso, in quanto si riconosce esi-stente nei contenuti molteplici che esperimenta: non sitratta soltanto della certezza del fenomeno, che lo stessoscetticismo non ha mai discusso, ma della intuizione che

esso garantisce soltanto la realtà del soggetto cosciente. Pergiungere al pensiero, concepito come attributo di quella so-stanza, occorre provare che esiste un Dio che non può trarci inerrore. Infatti, per affermare che il pensiero costituisce l’attri-buto, cioè la determinazione essenziale e permanente della so-stanza spirituale, dalla quale dipendono le altre, che mutano,occorre riconoscere in esso qualche cosa che rimane immuta-bile nelle sue molteplici modalità, e ciò richiede una deduzio-ne che (come si vedrà) può essere garantita soltanto dalla veri-dicità di Dio. Del resto nemmeno così si può dal pensiero at-tributo derivare la sostanzialità dell’io. La tesi che ogni attri-buto appartiene a una sostanza, che il D. dichiara rivelata dallaluce naturale, è tutt’altro che indiscutibile.

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un soggetto consapevole ha di sè stesso. Il pensiero, in-teso nel senso più ristretto di attività conoscitiva, riflet-tendo su quell’intuizione, non può non riconoscere, permezzo di un’inferenza necessaria, che un rapporto indis-solubile collega la coscienza che il soggetto ha di sèstesso e la esistenza di questo. Hanno ragione quindi siacoloro che, stando a dichiarazioni dello stesso D., vedo-no nel cogito un’intuizione immediata, cioè un’espe-rienza primitiva della coscienza, sia quelli che, metten-do in rilievo ergo, l’interpretano come un’inferenza.Esso però ha un altro significato anche più profondo, inquanto pone nel soggetto pensante il presupposto primo,fondamentale e ineliminabile di ogni atto di conoscenzae quindi anche di ogni affermazione di esistenza, chenon si può respingere senza negare la stessa capacità dipensare. Il cogito, così interpretato, è un’inferenza ne-cessaria che risale dal fatto della conoscenza, anzi dallostesso dubbio sul valore di essa, al soggetto pensanteche lo rende possibile. Di questo ufficio del cogito peròil D. non si rende conto con piena chiarezza e si limitaad accennare ad esso, mostrando di non riconoscere leconseguenze fondamentali che implica; invece concen-tra l’attenzione sulla funzione che compie facendo co-gliere una realtà di cui non si può dubitare perchè è nonesteriore, ma interiore al soggetto che l’apprende e chela esperimenta direttamente.

Si deve notare che il dubbio del D. è assai meno radi-cale di quel che sembri, perchè egli dichiara esplicita-mente che non può dubitare di quanto la luce naturale

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un soggetto consapevole ha di sè stesso. Il pensiero, in-teso nel senso più ristretto di attività conoscitiva, riflet-tendo su quell’intuizione, non può non riconoscere, permezzo di un’inferenza necessaria, che un rapporto indis-solubile collega la coscienza che il soggetto ha di sèstesso e la esistenza di questo. Hanno ragione quindi siacoloro che, stando a dichiarazioni dello stesso D., vedo-no nel cogito un’intuizione immediata, cioè un’espe-rienza primitiva della coscienza, sia quelli che, metten-do in rilievo ergo, l’interpretano come un’inferenza.Esso però ha un altro significato anche più profondo, inquanto pone nel soggetto pensante il presupposto primo,fondamentale e ineliminabile di ogni atto di conoscenzae quindi anche di ogni affermazione di esistenza, chenon si può respingere senza negare la stessa capacità dipensare. Il cogito, così interpretato, è un’inferenza ne-cessaria che risale dal fatto della conoscenza, anzi dallostesso dubbio sul valore di essa, al soggetto pensanteche lo rende possibile. Di questo ufficio del cogito peròil D. non si rende conto con piena chiarezza e si limitaad accennare ad esso, mostrando di non riconoscere leconseguenze fondamentali che implica; invece concen-tra l’attenzione sulla funzione che compie facendo co-gliere una realtà di cui non si può dubitare perchè è nonesteriore, ma interiore al soggetto che l’apprende e chela esperimenta direttamente.

Si deve notare che il dubbio del D. è assai meno radi-cale di quel che sembri, perchè egli dichiara esplicita-mente che non può dubitare di quanto la luce naturale

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gli mostra esser vero. Il pensatore francese riprende cosìil concetto tradizionale del lumen naturale o lumen na-turae, cioè della capacità di apprendere il vero e di di-stinguerlo dal falso, e lo adopera per liberarsi dal dub-bio. Egli afferma che quella luce gli mostra che dall’attodi dubitare può inferire la propria esistenza, sicchè essacostituisce un primo presupposto, non discusso, sottrattoal dubbio universale; su di esso si fonda ogni certezza,anche quella, che sembra iniziale, del cogito. La lucenaturale ha due aspetti, contemplativo e giudicativo; nelprimo coincide con l’intuizione intellettuale e con la fa-coltà di avere idee = (conoscenze) chiare e distinte, cioèevidentemente vere. Nel suo aspetto giudicativo, costi-tuisce il potere di affermare ciò che è appreso dalla in-tuizione. Questa funzione del giudizio spiega perchè ilD. da una parte affermi, come si è detto, di non poteredubitare della luce naturale e dall’altra sostenga chequasi nessuno se ne serve rettamente e così le accordiuna infallibilità potenziale, non effettiva. Infatti il giudi-zio, come si dirà in seguito, è un atto della volontà, laquale è libera, anzi si identifica con la libertà dell’arbi-trio; perciò noi possiamo non ammettere una verità evi-dente, se non altro allontanandone l’attenzione, poichèallora essa cessa dall’apparirci tale.

Sulla luce naturale, sui suoi rapporti col cogito e sullacertezza delle sue manifestazioni il D. si esprime conpoca coerenza12 sicchè, per presentare in modo organico

12 Ad es. in certi casi egli ammette che si possa dubitare delle

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gli mostra esser vero. Il pensatore francese riprende cosìil concetto tradizionale del lumen naturale o lumen na-turae, cioè della capacità di apprendere il vero e di di-stinguerlo dal falso, e lo adopera per liberarsi dal dub-bio. Egli afferma che quella luce gli mostra che dall’attodi dubitare può inferire la propria esistenza, sicchè essacostituisce un primo presupposto, non discusso, sottrattoal dubbio universale; su di esso si fonda ogni certezza,anche quella, che sembra iniziale, del cogito. La lucenaturale ha due aspetti, contemplativo e giudicativo; nelprimo coincide con l’intuizione intellettuale e con la fa-coltà di avere idee = (conoscenze) chiare e distinte, cioèevidentemente vere. Nel suo aspetto giudicativo, costi-tuisce il potere di affermare ciò che è appreso dalla in-tuizione. Questa funzione del giudizio spiega perchè ilD. da una parte affermi, come si è detto, di non poteredubitare della luce naturale e dall’altra sostenga chequasi nessuno se ne serve rettamente e così le accordiuna infallibilità potenziale, non effettiva. Infatti il giudi-zio, come si dirà in seguito, è un atto della volontà, laquale è libera, anzi si identifica con la libertà dell’arbi-trio; perciò noi possiamo non ammettere una verità evi-dente, se non altro allontanandone l’attenzione, poichèallora essa cessa dall’apparirci tale.

Sulla luce naturale, sui suoi rapporti col cogito e sullacertezza delle sue manifestazioni il D. si esprime conpoca coerenza12 sicchè, per presentare in modo organico

12 Ad es. in certi casi egli ammette che si possa dubitare delle

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il suo pensiero, occorre tener conto soltanto di alcunesue affermazioni, di quelle cioè che sembrano, megliodelle altre, corrispondere ai motivi direttori della sua fi-losofia, e per mezzo di questi collegarle e integrarle inqualche punto. La luce naturale determina il cogito, ve-rità prima e fondamentale, che non può essere negata odubitata perchè ogni negazione e ogni dubbio, in quantoatto del pensiero, ne riconferma la validità. Poi, se siconsidera che il cogito ha per caratteri essenziali la chia-rezza e la distinzione, cioè l’evidenza, si accorda certez-za sicura alle intuizioni intellettuali in generale, in quan-to sono presenti al pensiero (gli assiomi, le idee innate, igiudizi particolari evidenti, le deduzioni immediate e imomenti singoli di quelle mediate, nel momento in cui

conoscenze chiare e distinte, persino degli assiomi delle mate-matiche e ricorre al cogito per uscire dal dubbio; in altre di-chiara che quelle conoscenze, quando sono intuite attualmen-te, si impongono al pensiero con la loro evidenza e che si puòsospettare soltanto del ricordo che abbiamo di averle intuiteprecedentemente. Corrisponde alla seconda tesi la equipara-zione del cogito ad altre proposizioni (assiomi o anche giudiziparticolari), considerati ugualmente evidenti e quindi certinello stesso modo: in tal caso, però, non si capisce più perchèil cogito debba costituire la certezza razionale prima e fonda-mentale. Per conseguenza, ora si dubita di manifestazioni del-la luce naturale, ora si dice che essa ci insegna a inferire daldubbio la nostra esistenza e si afferma che la certezza del co-gito ha per garanzia soltanto la sua chiarezza e la sua distin-zione e così si presuppone la validità assoluta delle conoscen-ze chiare e distinte.

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il suo pensiero, occorre tener conto soltanto di alcunesue affermazioni, di quelle cioè che sembrano, megliodelle altre, corrispondere ai motivi direttori della sua fi-losofia, e per mezzo di questi collegarle e integrarle inqualche punto. La luce naturale determina il cogito, ve-rità prima e fondamentale, che non può essere negata odubitata perchè ogni negazione e ogni dubbio, in quantoatto del pensiero, ne riconferma la validità. Poi, se siconsidera che il cogito ha per caratteri essenziali la chia-rezza e la distinzione, cioè l’evidenza, si accorda certez-za sicura alle intuizioni intellettuali in generale, in quan-to sono presenti al pensiero (gli assiomi, le idee innate, igiudizi particolari evidenti, le deduzioni immediate e imomenti singoli di quelle mediate, nel momento in cui

conoscenze chiare e distinte, persino degli assiomi delle mate-matiche e ricorre al cogito per uscire dal dubbio; in altre di-chiara che quelle conoscenze, quando sono intuite attualmen-te, si impongono al pensiero con la loro evidenza e che si puòsospettare soltanto del ricordo che abbiamo di averle intuiteprecedentemente. Corrisponde alla seconda tesi la equipara-zione del cogito ad altre proposizioni (assiomi o anche giudiziparticolari), considerati ugualmente evidenti e quindi certinello stesso modo: in tal caso, però, non si capisce più perchèil cogito debba costituire la certezza razionale prima e fonda-mentale. Per conseguenza, ora si dubita di manifestazioni del-la luce naturale, ora si dice che essa ci insegna a inferire daldubbio la nostra esistenza e si afferma che la certezza del co-gito ha per garanzia soltanto la sua chiarezza e la sua distin-zione e così si presuppone la validità assoluta delle conoscen-ze chiare e distinte.

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sono intuiti), perchè si apprendono nello stesso modochiaro e distinto. Così, movendo dal cogito, si legittima-no le altre manifestazioni della luce naturale13.

Perciò, quando il D. dichiara che sarebbe inclinato aricavare dal cogito la norma generale che si debbonoconsiderare vere tutte le conoscenze che posseggono lasua chiarezza e la sua distinzione, se non ricordasse cheha ritenuta sicura l’esistenza delle cose sensibili, che poigli è sembrata sospetta, e, più ancora, che ha rilevatoche alcuni uomini errano anche rispetto ad argomentimatematici semplicissimi, che appaiono quanto mai evi-denti, sicchè ha potuto sospettare che l’onnipotenza diDio fosse capace di trarlo sempre in inganno, occorreinterpretare queste sue affermazioni per mezzo deglischiarimenti dati da lui sull’argomento: egli non inten-deva di mettere in dubbio la certezza dell’intuizione im-mediata14, ma quella del ricordo posteriore di essa. Noipossiamo errare quando riteniamo di avere precedente-mente intuito una verità: e siccome la deduzione, se nonè direttamente intuibile, deriva la sua certezza dagli attisuccessivi di intuizione di cui risulta, è chiaro che su diessa appunto si rivolgono i sospetti del D. Il cogito, persè preso, garantisce quindi, oltre alla validità del presup-posto fondamentale della conoscenza e del nesso neces-

13 Così si presenta la cosa nel modo più semplice: però occorre-rebbe fare alcune distinzioni tra i diversi casi.

14 Effettivamente, però, più volte il D. si esprime in modo tale daincludere nel dubbio anche le evidenze presenti, cioè le intui-zioni immediate.

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sono intuiti), perchè si apprendono nello stesso modochiaro e distinto. Così, movendo dal cogito, si legittima-no le altre manifestazioni della luce naturale13.

Perciò, quando il D. dichiara che sarebbe inclinato aricavare dal cogito la norma generale che si debbonoconsiderare vere tutte le conoscenze che posseggono lasua chiarezza e la sua distinzione, se non ricordasse cheha ritenuta sicura l’esistenza delle cose sensibili, che poigli è sembrata sospetta, e, più ancora, che ha rilevatoche alcuni uomini errano anche rispetto ad argomentimatematici semplicissimi, che appaiono quanto mai evi-denti, sicchè ha potuto sospettare che l’onnipotenza diDio fosse capace di trarlo sempre in inganno, occorreinterpretare queste sue affermazioni per mezzo deglischiarimenti dati da lui sull’argomento: egli non inten-deva di mettere in dubbio la certezza dell’intuizione im-mediata14, ma quella del ricordo posteriore di essa. Noipossiamo errare quando riteniamo di avere precedente-mente intuito una verità: e siccome la deduzione, se nonè direttamente intuibile, deriva la sua certezza dagli attisuccessivi di intuizione di cui risulta, è chiaro che su diessa appunto si rivolgono i sospetti del D. Il cogito, persè preso, garantisce quindi, oltre alla validità del presup-posto fondamentale della conoscenza e del nesso neces-

13 Così si presenta la cosa nel modo più semplice: però occorre-rebbe fare alcune distinzioni tra i diversi casi.

14 Effettivamente, però, più volte il D. si esprime in modo tale daincludere nel dubbio anche le evidenze presenti, cioè le intui-zioni immediate.

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sario che collega la coscienza che il soggetto ha di sècon la sua esistenza, la certezza di verità singole, intuitecon atti istantanei di pensiero, ma non permette di oltre-passare l’istante in cui il soggetto le apprende in modoevidente. Ciò significa che questo soggetto non può spe-rare di costruire una scienza vera e propria, cioè unaconnessione organica di conoscenze, e meno che mai diuscire da sè stesso per afferrare una realtà esteriore. Intal modo, anche se si riuscisse a formare (e si è vistoperchè ciò non è possibile) una vera scienza del mondodella natura, non si avrebbe modo di garantirne l’ogget-tività. Per eliminare queste difficoltà, il D. crede neces-sario di risolvere due problemi: se esista un Dio e se siacapace di ingannare, perchè soltanto la soluzione di essipotrà garantire la possibilità della scienza e di una cono-scenza oggettiva della natura. Riprendendo una tesi tra-dizionale, egli afferma che le idee, per sè prese, e non ri-ferite ad altra cosa (cioè a un oggetto esterno), non sipossono propriamente chiamare false, e che soltanto neigiudizi può risiedere l’errore, che consiste principal-mente nel ritenere le idee stesse simili a realtà esistentifuori del soggetto. (Anche in ciò appare che la principa-le preoccupazione del D. è la conquista di una cono-scenza oggettiva). Può sorprendere che egli passi imme-diatamente a distinguere le sue idee in vari gruppi; ma sicomprende, se si tiene conto dello sviluppo dei suoipensieri, che egli ricerca se ne esista una che immediata-mente e in modo necessario permetta di afferrare l’esi-stenza reale dell’essere che con essa è pensato. Il D. di-

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sario che collega la coscienza che il soggetto ha di sècon la sua esistenza, la certezza di verità singole, intuitecon atti istantanei di pensiero, ma non permette di oltre-passare l’istante in cui il soggetto le apprende in modoevidente. Ciò significa che questo soggetto non può spe-rare di costruire una scienza vera e propria, cioè unaconnessione organica di conoscenze, e meno che mai diuscire da sè stesso per afferrare una realtà esteriore. Intal modo, anche se si riuscisse a formare (e si è vistoperchè ciò non è possibile) una vera scienza del mondodella natura, non si avrebbe modo di garantirne l’ogget-tività. Per eliminare queste difficoltà, il D. crede neces-sario di risolvere due problemi: se esista un Dio e se siacapace di ingannare, perchè soltanto la soluzione di essipotrà garantire la possibilità della scienza e di una cono-scenza oggettiva della natura. Riprendendo una tesi tra-dizionale, egli afferma che le idee, per sè prese, e non ri-ferite ad altra cosa (cioè a un oggetto esterno), non sipossono propriamente chiamare false, e che soltanto neigiudizi può risiedere l’errore, che consiste principal-mente nel ritenere le idee stesse simili a realtà esistentifuori del soggetto. (Anche in ciò appare che la principa-le preoccupazione del D. è la conquista di una cono-scenza oggettiva). Può sorprendere che egli passi imme-diatamente a distinguere le sue idee in vari gruppi; ma sicomprende, se si tiene conto dello sviluppo dei suoipensieri, che egli ricerca se ne esista una che immediata-mente e in modo necessario permetta di afferrare l’esi-stenza reale dell’essere che con essa è pensato. Il D. di-

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stingue provvisoriamente le sue idee in tre classi: le in-nate (cioè tutte quelle che rappresentano essenze vere,immutabili ed eterne), le avventizie (che sembrano pro-venire dall’esterno) e le fittizie (prodotte dall’attivitàvolontaria della fantasia). Può alcuna di esse garantircil’esistenza dell’oggetto che rappresenta, ossia determi-nare necessariamente il giudizio che ne afferma la real-tà? L’esame dell’argomento mostra che soltanto l’ideadi Dio, che appartiene alle innate, gode di questo privi-legio; essa poi serve a togliere i dubbi che restano anco-ra sulla verità delle conoscenze e sulla oggettività dellascienza. Il D. (che identifica realtà e perfezione) affermache lo stato di dubbio, che è un’imperfezione, implical’idea di un modello di perfezione, di un essere perfettis-simo, ossia includente in sè tutta la realtà, cioè di Diosostanza infinita. Questa idea non può trovare la sua ra-gione in me, essere imperfetto e finito, vale a dire difet-toso di realtà: deve dunque provenire dall’oggetto pen-sato. Per chiarire meglio la prova precedente, il D. muo-ve dalla esistenza di sè stesso, in quanto egli possiedel’idea dell’essere perfettissimo. (Egli ritiene di presenta-re lo stesso argomento sotto un aspetto diverso, ma ef-fettivamente le due prove, sebbene abbiano in comunel’idea di Dio, differiscono tra loro, poichè l’una conside-ra quella idea in sè stessa e l’altra si riferisce all’esisten-za di un essere, l’uomo, che la pensa). Il D. afferma chenon è possibile che egli si sia dato l’esistenza da sè stes-so: infatti, per una sostanza pensante, l’uscire dal nulla èmolto più difficile del procurarsi tutte le perfezioni di

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stingue provvisoriamente le sue idee in tre classi: le in-nate (cioè tutte quelle che rappresentano essenze vere,immutabili ed eterne), le avventizie (che sembrano pro-venire dall’esterno) e le fittizie (prodotte dall’attivitàvolontaria della fantasia). Può alcuna di esse garantircil’esistenza dell’oggetto che rappresenta, ossia determi-nare necessariamente il giudizio che ne afferma la real-tà? L’esame dell’argomento mostra che soltanto l’ideadi Dio, che appartiene alle innate, gode di questo privi-legio; essa poi serve a togliere i dubbi che restano anco-ra sulla verità delle conoscenze e sulla oggettività dellascienza. Il D. (che identifica realtà e perfezione) affermache lo stato di dubbio, che è un’imperfezione, implical’idea di un modello di perfezione, di un essere perfettis-simo, ossia includente in sè tutta la realtà, cioè di Diosostanza infinita. Questa idea non può trovare la sua ra-gione in me, essere imperfetto e finito, vale a dire difet-toso di realtà: deve dunque provenire dall’oggetto pen-sato. Per chiarire meglio la prova precedente, il D. muo-ve dalla esistenza di sè stesso, in quanto egli possiedel’idea dell’essere perfettissimo. (Egli ritiene di presenta-re lo stesso argomento sotto un aspetto diverso, ma ef-fettivamente le due prove, sebbene abbiano in comunel’idea di Dio, differiscono tra loro, poichè l’una conside-ra quella idea in sè stessa e l’altra si riferisce all’esisten-za di un essere, l’uomo, che la pensa). Il D. afferma chenon è possibile che egli si sia dato l’esistenza da sè stes-so: infatti, per una sostanza pensante, l’uscire dal nulla èmolto più difficile del procurarsi tutte le perfezioni di

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cui ha qualche idea. In tal caso, egli continua, io possie-derei anche quelle di cui invece so di esser privo: in altritermini sarei un Dio. Ma anche se esistessi per me stes-so (siccome è evidente che gli istanti del tempo sono di-scontinui e indipendenti gli uni dagli altri) io dovrei perconservarmi in questa successione avere la capacità dicreare sempre di nuovo la mia esistenza, perchè la con-servazione di un essere non differisce da una creazionecontinua. Siccome non sono consapevole di avere talepotenza di autocreazione continua, è chiaro che debbo ilmio essere a Dio. Inoltre (e così è ripreso nella sua es-senza l’argomento ontologico di S. Anselmo) l’ideadell’essere perfettissimo include la sua esistenza, perchèquesta è una perfezione e ciò significa che rispetto alconcetto di Dio non si può distinguere l’essenzadall’esistenza: perciò Egli esiste necessariamente. Masiccome è perfettissimo, non può ingannarmi; quinditutte le nostre idee chiare e distinte non possono non es-ser vere (non come stati soggettivi, al pari di tutte leidee, ma in quanto possono essere affermate con giudiziveri), perchè, al pari di tutto ciò che in noi è di reale,provengono da Lui: così la veracità divina garantisce ilvalore della conoscenza.

Se Dio non ci può ingannare, la responsabilità deglierrori in cui cadiamo è nostra, non sua. Come si è detto,essi possono trovarsi soltanto nei giudizi, cioè in atti diaffermazione e di negazione, che a parere del D. (il qua-le riprende una tesi tradizionale, formulata esplicitamen-te dagli Stoici, ma già indicata da Aristotele) apparten-

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cui ha qualche idea. In tal caso, egli continua, io possie-derei anche quelle di cui invece so di esser privo: in altritermini sarei un Dio. Ma anche se esistessi per me stes-so (siccome è evidente che gli istanti del tempo sono di-scontinui e indipendenti gli uni dagli altri) io dovrei perconservarmi in questa successione avere la capacità dicreare sempre di nuovo la mia esistenza, perchè la con-servazione di un essere non differisce da una creazionecontinua. Siccome non sono consapevole di avere talepotenza di autocreazione continua, è chiaro che debbo ilmio essere a Dio. Inoltre (e così è ripreso nella sua es-senza l’argomento ontologico di S. Anselmo) l’ideadell’essere perfettissimo include la sua esistenza, perchèquesta è una perfezione e ciò significa che rispetto alconcetto di Dio non si può distinguere l’essenzadall’esistenza: perciò Egli esiste necessariamente. Masiccome è perfettissimo, non può ingannarmi; quinditutte le nostre idee chiare e distinte non possono non es-ser vere (non come stati soggettivi, al pari di tutte leidee, ma in quanto possono essere affermate con giudiziveri), perchè, al pari di tutto ciò che in noi è di reale,provengono da Lui: così la veracità divina garantisce ilvalore della conoscenza.

Se Dio non ci può ingannare, la responsabilità deglierrori in cui cadiamo è nostra, non sua. Come si è detto,essi possono trovarsi soltanto nei giudizi, cioè in atti diaffermazione e di negazione, che a parere del D. (il qua-le riprende una tesi tradizionale, formulata esplicitamen-te dagli Stoici, ma già indicata da Aristotele) apparten-

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gono non all’intelletto propriamente detto, ma alla vo-lontà, la quale, invece di essere limitata come il primo,che include soltanto pochi oggetti, cioè possiede esclusi-vamente un numero ristretto di idee chiare e distinte, èinfinita perchè può estendersi a qualunque oggetto. Seconcedessimo l’assenso soltanto alle nostre conoscenzechiare e distinte, eviteremmo l’errore, che è prodottodall’abuso del libero arbitrio, per cui la nostra volontàoltrepassa i limiti di tali conoscenze. La teoria volontari-stica del giudizio, la convinzione che l’errore procededa un atto volontario dello spirito che concede a ideeoscure e confuse quell’assenso che dovrebbe essere ri-servato esclusivamente all’evidenza indiscutibile dellaverità, getta nuova luce sul procedimento seguito dal D.per dare un fondamento incrollabile alla conoscenza ealla scienza. La critica delle opinioni accolte preceden-temente, il dubbio iniziale, appaiono ora il prodotto diatti liberi di una volontà che sente il dovere di evitarequell’errore di cui essa sola è responsabile: la ricerca ra-zionale assume così l’aspetto di una azione etica.

Il rilievo dato alla volontà nell’uomo si riflette nelmodo in cui il D. parla di Dio. In Lui, inteso come unasostanza spirituale infinita, il D., seguendo le direttivedel volontarismo medioevale di Duns Scoto e di Gu-glielmo di Ockham, si sforza di mettere in rilievol’onnipotenza, affermando che le verità eterne (che ledottrine filosofiche tradizionali, riprese nel Rinascimen-to dal Campanella e nell’età moderna dal Leibniz, con-sideravano increate perchè riposte nello stesso intelletto

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gono non all’intelletto propriamente detto, ma alla vo-lontà, la quale, invece di essere limitata come il primo,che include soltanto pochi oggetti, cioè possiede esclusi-vamente un numero ristretto di idee chiare e distinte, èinfinita perchè può estendersi a qualunque oggetto. Seconcedessimo l’assenso soltanto alle nostre conoscenzechiare e distinte, eviteremmo l’errore, che è prodottodall’abuso del libero arbitrio, per cui la nostra volontàoltrepassa i limiti di tali conoscenze. La teoria volontari-stica del giudizio, la convinzione che l’errore procededa un atto volontario dello spirito che concede a ideeoscure e confuse quell’assenso che dovrebbe essere ri-servato esclusivamente all’evidenza indiscutibile dellaverità, getta nuova luce sul procedimento seguito dal D.per dare un fondamento incrollabile alla conoscenza ealla scienza. La critica delle opinioni accolte preceden-temente, il dubbio iniziale, appaiono ora il prodotto diatti liberi di una volontà che sente il dovere di evitarequell’errore di cui essa sola è responsabile: la ricerca ra-zionale assume così l’aspetto di una azione etica.

Il rilievo dato alla volontà nell’uomo si riflette nelmodo in cui il D. parla di Dio. In Lui, inteso come unasostanza spirituale infinita, il D., seguendo le direttivedel volontarismo medioevale di Duns Scoto e di Gu-glielmo di Ockham, si sforza di mettere in rilievol’onnipotenza, affermando che le verità eterne (che ledottrine filosofiche tradizionali, riprese nel Rinascimen-to dal Campanella e nell’età moderna dal Leibniz, con-sideravano increate perchè riposte nello stesso intelletto

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del Creatore), e persino il principio di contraddizione, ele essenze delle cose, dipendono da un atto puramentearbitrario della volontà divina che così è liberata da qua-lunque limitazione, perchè non è più sottoposta alle nor-me che appaiono assolutamente valide alla nostra men-te. Questa dottrina, apparentemente anti-razionalistica,permette invece al D., come ha osservato il Bréhier, diriconoscere al nostro intelletto finito una conoscenzaperfetta delle essenze (e delle verità eterne), la cui natu-ra ed immutabilità appaiono garantite dalla veridicità edalla immutabile volontà del loro Creatore. In parte perl’influsso di queste dottrine (che in ultimo derivano dalpensiero di S. Agostino), si vengono modificando alcu-ne importanti concezioni gnoseologiche e metafisichedel D. che non si conformano in certi punti importantialla metodologia delle Regulae15 che insistono sul valoredell’attività spontanea del pensiero. È vero che il D. di-chiara ripetutamente che intende come innate le cono-scenze che provengono soltanto dalla nostra facoltà na-turale di pensare, cioè che vede in esse abitudini o di-sposizioni intellettuali, non concetti già formati. E a ciònon contraddirebbe nemmeno il fatto che le idee innate,per definizione, non sono il prodotto dell’attività volon-taria del soggetto come le a me ipso factae o fattizie,perchè ciò deve intendersi nel senso che lo spirito, pureformandole, non procede ad arbitrio ma si conforma

15 Per altre differenze v. pp. XXIX-XXXI [pagg. 42-45 di questa edi-zione elettronica Manuzio].

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del Creatore), e persino il principio di contraddizione, ele essenze delle cose, dipendono da un atto puramentearbitrario della volontà divina che così è liberata da qua-lunque limitazione, perchè non è più sottoposta alle nor-me che appaiono assolutamente valide alla nostra men-te. Questa dottrina, apparentemente anti-razionalistica,permette invece al D., come ha osservato il Bréhier, diriconoscere al nostro intelletto finito una conoscenzaperfetta delle essenze (e delle verità eterne), la cui natu-ra ed immutabilità appaiono garantite dalla veridicità edalla immutabile volontà del loro Creatore. In parte perl’influsso di queste dottrine (che in ultimo derivano dalpensiero di S. Agostino), si vengono modificando alcu-ne importanti concezioni gnoseologiche e metafisichedel D. che non si conformano in certi punti importantialla metodologia delle Regulae15 che insistono sul valoredell’attività spontanea del pensiero. È vero che il D. di-chiara ripetutamente che intende come innate le cono-scenze che provengono soltanto dalla nostra facoltà na-turale di pensare, cioè che vede in esse abitudini o di-sposizioni intellettuali, non concetti già formati. E a ciònon contraddirebbe nemmeno il fatto che le idee innate,per definizione, non sono il prodotto dell’attività volon-taria del soggetto come le a me ipso factae o fattizie,perchè ciò deve intendersi nel senso che lo spirito, pureformandole, non procede ad arbitrio ma si conforma

15 Per altre differenze v. pp. XXIX-XXXI [pagg. 42-45 di questa edi-zione elettronica Manuzio].

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all’intima natura di eterne essenze intelligibili. Ma unadifficoltà grave è sollevata da altri testi che consideranole idee come immagini delle cose, come impronte chel’anima accoglie passivamente, mentre invece esplica lasua attività nel giudizio affermando o negando. È benvero che il D. dichiara che i pensieri riguardanti oggettiintelligibili e le costruzioni della fantasia dipendonoprincipalmente dalla volontà, ma questa tesi contrastacon le altre le quali mostrano come egli, dominatonell’ultima fase del suo pensiero da motivi etico-religio-si d’origine agostiniana, tendesse a ridurre la conoscen-za a una forma di passività, mentre prima l’aveva conce-pita come l’esplicazione dell’attività spontanea dellospirito. La stessa tendenza che portava il D. a concepirele verità eterne come creazioni della volontà divina loinduceva a rendere il pensiero umano passivo di fronteall’azione del Creatore. La conoscenza intuitiva èun’illuminazione dello spirito, che così vede nella lucedi Dio ciò che Egli vuole manifestargli, talchè il nostrointelletto non agisce, ma riceve i raggi della divinità. Èchiaro che l’idea innata è ora non il prodotto dell’attivitàcostruttrice dello spirito, ma qualche cosa che esso rice-ve passivamente dal Creatore.

In ultimo, la metafisica cartesiana si riduce ad am-mettere una sostanza spirituale infinita, Dio Creatore, edue finite e create, lo spirito pensante, il corpo materialeesteso. Il D. definisce talvolta la sostanza come una cosache ha bisogno soltanto di sè stessa per esistere, ma ag-giunge che ciò vale esclusivamente per Dio, perchè non

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all’intima natura di eterne essenze intelligibili. Ma unadifficoltà grave è sollevata da altri testi che consideranole idee come immagini delle cose, come impronte chel’anima accoglie passivamente, mentre invece esplica lasua attività nel giudizio affermando o negando. È benvero che il D. dichiara che i pensieri riguardanti oggettiintelligibili e le costruzioni della fantasia dipendonoprincipalmente dalla volontà, ma questa tesi contrastacon le altre le quali mostrano come egli, dominatonell’ultima fase del suo pensiero da motivi etico-religio-si d’origine agostiniana, tendesse a ridurre la conoscen-za a una forma di passività, mentre prima l’aveva conce-pita come l’esplicazione dell’attività spontanea dellospirito. La stessa tendenza che portava il D. a concepirele verità eterne come creazioni della volontà divina loinduceva a rendere il pensiero umano passivo di fronteall’azione del Creatore. La conoscenza intuitiva èun’illuminazione dello spirito, che così vede nella lucedi Dio ciò che Egli vuole manifestargli, talchè il nostrointelletto non agisce, ma riceve i raggi della divinità. Èchiaro che l’idea innata è ora non il prodotto dell’attivitàcostruttrice dello spirito, ma qualche cosa che esso rice-ve passivamente dal Creatore.

In ultimo, la metafisica cartesiana si riduce ad am-mettere una sostanza spirituale infinita, Dio Creatore, edue finite e create, lo spirito pensante, il corpo materialeesteso. Il D. definisce talvolta la sostanza come una cosache ha bisogno soltanto di sè stessa per esistere, ma ag-giunge che ciò vale esclusivamente per Dio, perchè non

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vi è alcuna creatura che possa esistere un solo istantesenza essere sostenuta e conservata dalla potenza divina.Per conseguenza la parola sostanza non ha per le creatu-re il significato che ha rispetto al Creatore: riferita ad es-seri creati indica che essi per esistere richiedono soltan-to il concorso ordinario di Dio. Le due sostanze finitesono eterogenee, ma si uniscono intimamentenell’uomo. Però i rapporti tra lo spirito e il corpo e traessi e Dio, sostanza infinita, costituiscono due problemigravissimi, e strettamente connessi, sui quali si concen-trò l’attenzione dei pensatori. Già i contemporanei solle-varono obbiezioni all’unione e all’azione reciproca didue sostanze così eterogenee come dovevano essere lospirito e il corpo: e il D. dovette rispondere che è un fat-to oscuro per l’intelletto, ma conosciuto con chiarezzadal senso e indiscutibile. Ciò però non convinse (e nonpoteva convincere) tutti, sicchè gli Occasionalisti, purproponendosi di continuare il pensiero cartesiano, cre-dettero di trovare la soluzione del problema negandol’azione reciproca dello spirito e del corpo e riducendole cause naturali a occasioni dell’unica causa efficientereale, Dio: spogliando le creature di ogni attività, essi(che così accennavano già ad intendere in modo diversodal D. il rapporto tra la sostanza infinita e le finite),mentre accentuavano una tendenza che si era manifesta-ta nelle ultime fasi della dottrina del maestro per l’azio-ne di influssi agostiniani, davano maggiore sviluppo aquesti e in generale a motivi religiosi di pensiero.

Per ciò che riguarda la costruzione della scienza della

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vi è alcuna creatura che possa esistere un solo istantesenza essere sostenuta e conservata dalla potenza divina.Per conseguenza la parola sostanza non ha per le creatu-re il significato che ha rispetto al Creatore: riferita ad es-seri creati indica che essi per esistere richiedono soltan-to il concorso ordinario di Dio. Le due sostanze finitesono eterogenee, ma si uniscono intimamentenell’uomo. Però i rapporti tra lo spirito e il corpo e traessi e Dio, sostanza infinita, costituiscono due problemigravissimi, e strettamente connessi, sui quali si concen-trò l’attenzione dei pensatori. Già i contemporanei solle-varono obbiezioni all’unione e all’azione reciproca didue sostanze così eterogenee come dovevano essere lospirito e il corpo: e il D. dovette rispondere che è un fat-to oscuro per l’intelletto, ma conosciuto con chiarezzadal senso e indiscutibile. Ciò però non convinse (e nonpoteva convincere) tutti, sicchè gli Occasionalisti, purproponendosi di continuare il pensiero cartesiano, cre-dettero di trovare la soluzione del problema negandol’azione reciproca dello spirito e del corpo e riducendole cause naturali a occasioni dell’unica causa efficientereale, Dio: spogliando le creature di ogni attività, essi(che così accennavano già ad intendere in modo diversodal D. il rapporto tra la sostanza infinita e le finite),mentre accentuavano una tendenza che si era manifesta-ta nelle ultime fasi della dottrina del maestro per l’azio-ne di influssi agostiniani, davano maggiore sviluppo aquesti e in generale a motivi religiosi di pensiero.

Per ciò che riguarda la costruzione della scienza della

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natura, in complesso il D. si mantiene fedele ai principimetodologici delle Regulae; ma ora può essere certo cheessa ha significato oggettivo, che permette cioè di co-gliere l’intima struttura della realtà. Noi riceviamo pas-sivamente le impressioni dei sensi e siamo naturalmenteinclinati a credere che provengano da corpi esistentifuori di noi: siccome Dio non ci può ingannare, debbonoesistere realmente e possedere tutti i caratteri di cui pos-siamo formarci idee chiare e distinte pensandoli. L’unicanozione che possiamo impiegare per concepire così ilmondo materiale è quella dell’estensione; essa quindiforma la natura dei corpi: la materia è la sostanza estesa,e perciò non esiste spazio vuoto come non vi sono atomiindivisibili, perchè ciò che è esteso è divisibile. Unasola è la materia di tutto l’universo. Figura e movimentosono modalità dell’estensione, perchè non si possonopensare senza questa: la differenza delle forme spazialidipende dai movimenti delle parti di essa. Corpo o partedi materia è ciò che è trasportato insieme: in altri termi-ni, tutte le differenze del mondo corporeo si riducono aquelle delle figure determinate nell’estensione dal movi-mento. Se i corpi consistono in determinazionidell’estensione, le uniche idee chiare e distinte che ab-biamo del mondo fisico si riducono a quelle delle figure,delle grandezze, dei movimenti e delle regole secondole quali si possono diversificare, cioè dei principî dellageometria e della meccanica. Quindi, per mezzo delledifferenze delle figure e dei movimenti si dovrannospiegare senza eccezione le proprietà della materia: tutto

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natura, in complesso il D. si mantiene fedele ai principimetodologici delle Regulae; ma ora può essere certo cheessa ha significato oggettivo, che permette cioè di co-gliere l’intima struttura della realtà. Noi riceviamo pas-sivamente le impressioni dei sensi e siamo naturalmenteinclinati a credere che provengano da corpi esistentifuori di noi: siccome Dio non ci può ingannare, debbonoesistere realmente e possedere tutti i caratteri di cui pos-siamo formarci idee chiare e distinte pensandoli. L’unicanozione che possiamo impiegare per concepire così ilmondo materiale è quella dell’estensione; essa quindiforma la natura dei corpi: la materia è la sostanza estesa,e perciò non esiste spazio vuoto come non vi sono atomiindivisibili, perchè ciò che è esteso è divisibile. Unasola è la materia di tutto l’universo. Figura e movimentosono modalità dell’estensione, perchè non si possonopensare senza questa: la differenza delle forme spazialidipende dai movimenti delle parti di essa. Corpo o partedi materia è ciò che è trasportato insieme: in altri termi-ni, tutte le differenze del mondo corporeo si riducono aquelle delle figure determinate nell’estensione dal movi-mento. Se i corpi consistono in determinazionidell’estensione, le uniche idee chiare e distinte che ab-biamo del mondo fisico si riducono a quelle delle figure,delle grandezze, dei movimenti e delle regole secondole quali si possono diversificare, cioè dei principî dellageometria e della meccanica. Quindi, per mezzo delledifferenze delle figure e dei movimenti si dovrannospiegare senza eccezione le proprietà della materia: tutto

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il mondo visibile, celeste e terrestre, deve intendersicome una macchina in cui si considerano esclusivamen-te le figure e i movimenti delle parti: così occorre spie-gare meccanicamente la genesi dell’universo. Anche lanatura degli organismi viventi (le piante, gli animali,l’uomo) si può ridurre a una spiegazione meccanica,perchè non è necessario attribuire la coscienza ai bruti.Essa appartiene soltanto all’uomo in cui la sostanza pen-sante e l’estesa si uniscono intimamente in modo da for-mare un tutto solo. Le proprietà sensibili (che, essendopensate senza chiarezza e distinzione, non appartengonooggettivamente ai corpi, e, in quanto percepite, hannosoltanto lo ufficio di farci conoscere il valore che le coseesterne hanno per la nostra vita, perchè ci insegnanocome dobbiamo comportarci rispetto ad esse), si spiega-no con le figure e i movimenti delle parti dei corpi stes-si. L’ultima causa del movimento è Dio, che ha creato icorpi con una quantità determinata di moto e di riposo eche, conformemente alla propria immutabilità, la con-serva sempre uguale nell’universo: essa muta soltantonei singoli corpi. Questi sono passivi e non hanno la ca-pacità di produrre e di distruggere il movimento o dimutarne la quantità. Dopo Dio, appaiono come cause se-conde le leggi della natura (ossia le leggi del movimen-to), la cui costanza è derivata dall’immutabilitàdell’Essere divino, che agisce sempre nello stessomodo. Egli fa sì che, grazie a quelle leggi, si distribuiscafra i diversi corpi una somma fissa di movimenti: la pri-ma è il principio d’inerzia, la seconda, quella del movi-

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il mondo visibile, celeste e terrestre, deve intendersicome una macchina in cui si considerano esclusivamen-te le figure e i movimenti delle parti: così occorre spie-gare meccanicamente la genesi dell’universo. Anche lanatura degli organismi viventi (le piante, gli animali,l’uomo) si può ridurre a una spiegazione meccanica,perchè non è necessario attribuire la coscienza ai bruti.Essa appartiene soltanto all’uomo in cui la sostanza pen-sante e l’estesa si uniscono intimamente in modo da for-mare un tutto solo. Le proprietà sensibili (che, essendopensate senza chiarezza e distinzione, non appartengonooggettivamente ai corpi, e, in quanto percepite, hannosoltanto lo ufficio di farci conoscere il valore che le coseesterne hanno per la nostra vita, perchè ci insegnanocome dobbiamo comportarci rispetto ad esse), si spiega-no con le figure e i movimenti delle parti dei corpi stes-si. L’ultima causa del movimento è Dio, che ha creato icorpi con una quantità determinata di moto e di riposo eche, conformemente alla propria immutabilità, la con-serva sempre uguale nell’universo: essa muta soltantonei singoli corpi. Questi sono passivi e non hanno la ca-pacità di produrre e di distruggere il movimento o dimutarne la quantità. Dopo Dio, appaiono come cause se-conde le leggi della natura (ossia le leggi del movimen-to), la cui costanza è derivata dall’immutabilitàdell’Essere divino, che agisce sempre nello stessomodo. Egli fa sì che, grazie a quelle leggi, si distribuiscafra i diversi corpi una somma fissa di movimenti: la pri-ma è il principio d’inerzia, la seconda, quella del movi-

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mento in linea retta. Si può osservare che in tal modo ilD., pure ammettendo come indiscutibile il principio dicausa, riconosce che la causalità fisica, per sè presa, èinesplicabile, perchè i corpi sono passivi e non possonoincludere una forza che permetta all’uno di muoverel’altro, sicchè soltanto l’azione divina può considerarsiprincipio di efficienza. Quindi la scienza può esclusiva-mente determinare le leggi che regolano la successionedi stati non collegati da un nesso interiore. La veridicitàdivina fonda l’oggettività della scienza geometrico-mec-canica della natura, che appare vera perchè costruita permezzo di idee chiare e distinte: essa è l’unica accessibileall’uomo, mentre l’interpretazione teleologica, che pre-tende temerariamente di indovinare i fini impenetrabilidi Dio, non serve affatto per studio del mondo fisico: delresto nulla è più ridicolo della pretesa che Egli abbia fat-to ogni cosa per gli scopi umani.

Il Descartes dichiara che l’unica materia che egli co-nosce è quella che può essere divisa, figurata e mossa intutti i modi, ossia ciò che i geometri chiamano la quanti-tà e prendono per oggetto delle loro dimostrazioni: egliaccoglie nella sua fisica solamente i principî ricevutidalle matematiche16 ricavandoli soltanto da certi germidi verità che si trovano naturalmente nelle nostre anime:ma ciò non significa che egli voglia costruire la scienzacon un procedimento puramente a priori, perchè le Re-16 Questi principî includono le leggi del movimento, poichè il D.

considera questo geometricamente e dà carattere geometricoalla sua meccanica.

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mento in linea retta. Si può osservare che in tal modo ilD., pure ammettendo come indiscutibile il principio dicausa, riconosce che la causalità fisica, per sè presa, èinesplicabile, perchè i corpi sono passivi e non possonoincludere una forza che permetta all’uno di muoverel’altro, sicchè soltanto l’azione divina può considerarsiprincipio di efficienza. Quindi la scienza può esclusiva-mente determinare le leggi che regolano la successionedi stati non collegati da un nesso interiore. La veridicitàdivina fonda l’oggettività della scienza geometrico-mec-canica della natura, che appare vera perchè costruita permezzo di idee chiare e distinte: essa è l’unica accessibileall’uomo, mentre l’interpretazione teleologica, che pre-tende temerariamente di indovinare i fini impenetrabilidi Dio, non serve affatto per studio del mondo fisico: delresto nulla è più ridicolo della pretesa che Egli abbia fat-to ogni cosa per gli scopi umani.

Il Descartes dichiara che l’unica materia che egli co-nosce è quella che può essere divisa, figurata e mossa intutti i modi, ossia ciò che i geometri chiamano la quanti-tà e prendono per oggetto delle loro dimostrazioni: egliaccoglie nella sua fisica solamente i principî ricevutidalle matematiche16 ricavandoli soltanto da certi germidi verità che si trovano naturalmente nelle nostre anime:ma ciò non significa che egli voglia costruire la scienzacon un procedimento puramente a priori, perchè le Re-16 Questi principî includono le leggi del movimento, poichè il D.

considera questo geometricamente e dà carattere geometricoalla sua meccanica.

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gulae mostrano che le nozioni delle nature semplici, og-getto d’intuizione intellettuale, che lo spirito trova in sèstesso (sono del resto l’equivalente di quel sapere che,secondo Galileo, ognuno apprende da sè), sono statescelte appunto per dar ragione in generale del problemadell’esperienza, che costituisce l’inizio della ricerca. Ifenomeni e le esperienze che si considerano non servo-no, secondo i Principî, a provare i principî della fisica(che il D. ha fondato sulla sua filosofia generale), per-chè egli vuole spiegare gli effetti con le cause, non que-ste con quelli; ma quell’opera giustifica costantemente iprincipî con l’affermazione che possono dar ragione ditutti i fenomeni naturali, che le conseguenze che se nededucono matematicamente si accordano in modo esattocon tutte le esperienze, e giunge persino a sostenere chela verità delle leggi della meccanica può essere provatada un’infinità di esperienze, che le proprietà geome-trico-meccaniche dei corpi (grandezze, figure, movi-menti) si distinguono dalle altre qualità sensibili, oltreche per la chiarezza particolare con cui si pensano, per ilfatto che si possono sperimentare non con un solo senso,ma con tre, il tatto, la vista, l’udito. V’è di più: i principîsupremi sono così ricchi di conseguenze che da essi sipossono dedurre più cose di quelle che si vedono nelmondo, talchè le esperienze mostrano quali effetti si ve-rifichino nella realtà,e quali, per la loro importanza, me-ritino principalmente di esserne dedotti. Da prima è me-glio servirsi delle esperienze che si offrono spontanea-mente, perchè si ricercano le cause più comuni, ma poi

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gulae mostrano che le nozioni delle nature semplici, og-getto d’intuizione intellettuale, che lo spirito trova in sèstesso (sono del resto l’equivalente di quel sapere che,secondo Galileo, ognuno apprende da sè), sono statescelte appunto per dar ragione in generale del problemadell’esperienza, che costituisce l’inizio della ricerca. Ifenomeni e le esperienze che si considerano non servo-no, secondo i Principî, a provare i principî della fisica(che il D. ha fondato sulla sua filosofia generale), per-chè egli vuole spiegare gli effetti con le cause, non que-ste con quelli; ma quell’opera giustifica costantemente iprincipî con l’affermazione che possono dar ragione ditutti i fenomeni naturali, che le conseguenze che se nededucono matematicamente si accordano in modo esattocon tutte le esperienze, e giunge persino a sostenere chela verità delle leggi della meccanica può essere provatada un’infinità di esperienze, che le proprietà geome-trico-meccaniche dei corpi (grandezze, figure, movi-menti) si distinguono dalle altre qualità sensibili, oltreche per la chiarezza particolare con cui si pensano, per ilfatto che si possono sperimentare non con un solo senso,ma con tre, il tatto, la vista, l’udito. V’è di più: i principîsupremi sono così ricchi di conseguenze che da essi sipossono dedurre più cose di quelle che si vedono nelmondo, talchè le esperienze mostrano quali effetti si ve-rifichino nella realtà,e quali, per la loro importanza, me-ritino principalmente di esserne dedotti. Da prima è me-glio servirsi delle esperienze che si offrono spontanea-mente, perchè si ricercano le cause più comuni, ma poi

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occorre valersi di altre più particolari e più numerose:infatti, quanto più si progredisce nella conoscenza, tantopiù occorre, per distinguere gli effetti reali dai possibili,ricorrere alle esperienze, andando «au devant des causespar les effets». Inoltre la natura semplice e generale deiprincipî fa sì che gli stessi effetti possano spiegarsi inmodi svariati e perciò bisogna di nuovo cercare espe-rienze (tale parola qui significa propriamente esperi-menti) che diano risultati diversi, mostrando quale sia laspiegazione preferibile. Il D. riconosceva inoltre che percompletare la sua teoria generale della natura con ricer-che di fisica applicata, di meccanica (come scienza dellemacchine), di medicina, avrebbe avuto bisogno di espe-rienze (= esperimenti) troppo costose per un sempliceprivato. Insomma, i principî adottati per dar ragione delmondo empirico, sebbene garantiti rispetto al loro valo-re di verità concettuale dalla chiarezza con cui sonopensati, richiedono, per essere accettati nella spiegazio-ne della realtà concreta, una conferma che deve esseredata da tutti i fenomeni dell’esperienza; e questa poi ser-ve sempre più a orientare le ricerche speciali, a indicarei problemi particolari che si debbono risolvere, a mo-strare quali soluzioni siano preferibili. Nel Discorso VI,il D. (che non ha posto nella metafisica le basi razionalidelle teorie naturalistiche trattate nei Saggi che lo se-guono) chiama supposizioni (= ipotesi) i principî fisicidi cui si vale, e distinguendo la dimostrazione a priori, oprova, da quella a posteriori, o spiegazione, afferma chei principî, o cause, servono non tanto a provare gli effet-

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occorre valersi di altre più particolari e più numerose:infatti, quanto più si progredisce nella conoscenza, tantopiù occorre, per distinguere gli effetti reali dai possibili,ricorrere alle esperienze, andando «au devant des causespar les effets». Inoltre la natura semplice e generale deiprincipî fa sì che gli stessi effetti possano spiegarsi inmodi svariati e perciò bisogna di nuovo cercare espe-rienze (tale parola qui significa propriamente esperi-menti) che diano risultati diversi, mostrando quale sia laspiegazione preferibile. Il D. riconosceva inoltre che percompletare la sua teoria generale della natura con ricer-che di fisica applicata, di meccanica (come scienza dellemacchine), di medicina, avrebbe avuto bisogno di espe-rienze (= esperimenti) troppo costose per un sempliceprivato. Insomma, i principî adottati per dar ragione delmondo empirico, sebbene garantiti rispetto al loro valo-re di verità concettuale dalla chiarezza con cui sonopensati, richiedono, per essere accettati nella spiegazio-ne della realtà concreta, una conferma che deve esseredata da tutti i fenomeni dell’esperienza; e questa poi ser-ve sempre più a orientare le ricerche speciali, a indicarei problemi particolari che si debbono risolvere, a mo-strare quali soluzioni siano preferibili. Nel Discorso VI,il D. (che non ha posto nella metafisica le basi razionalidelle teorie naturalistiche trattate nei Saggi che lo se-guono) chiama supposizioni (= ipotesi) i principî fisicidi cui si vale, e distinguendo la dimostrazione a priori, oprova, da quella a posteriori, o spiegazione, afferma chei principî, o cause, servono non tanto a provare gli effet-

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ti che se ne deducono, quanto a spiegarli, e, per contro,sono provati da questi. Così (come più volte è stato os-servato) mostra di conoscere l’ufficio e le condizioni delprocedimento ipotetico nella ricerca scientifica. Lascienza cartesiana è assai meno lontana dalla considera-zione dei fenomeni empirici di quel che possa apparire,sebbene non colleghi così indissolubilmente il calcolomatematico e l’esperimento e non metta così in luce ilvalore particolare di questo come la fisica di Galileo.

In un altro punto invece il D. si avvicina a questo, aLeonardo e, sotto certi aspetti, a F. Bacone, cioè nellavalutazione della applicazione pratica della scienza; eciò non è abitualmente rilevato da coloro che, per con-dannarlo o per lodarlo, insistono tanto sull’utilitarismobaconiano. Il D. afferma di essersi deciso a comunicareal pubblico le sue teorie fisiche perchè era convinto cheesse potevano condurre a conoscenze assai utili nellavita: «au lieu de cette Philosophie spéculative, qu’onenseigne dans les éscholes, on en peut trouver unepratique par la quelle, connoissant la force et les actionsdu feu, de l’air, des astres, des cieux, et de tous lesautres cors qui nous environnent... nous les pourrionsemployer... à tous les usages auxquels ils sont propres,et ainsi nous rendre comme maistres et possesseurs de laNature. Ce qui n’est pas seulement à désirer pourl’invention d’une infinité d’artifices, qui feroient qu’oniouiroit, sans aucune peine, des fruits de la terre et detoutes les commoditéz qui s’y trouvent, maisprincipalement aussy pour la conservation de la santé,

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ti che se ne deducono, quanto a spiegarli, e, per contro,sono provati da questi. Così (come più volte è stato os-servato) mostra di conoscere l’ufficio e le condizioni delprocedimento ipotetico nella ricerca scientifica. Lascienza cartesiana è assai meno lontana dalla considera-zione dei fenomeni empirici di quel che possa apparire,sebbene non colleghi così indissolubilmente il calcolomatematico e l’esperimento e non metta così in luce ilvalore particolare di questo come la fisica di Galileo.

In un altro punto invece il D. si avvicina a questo, aLeonardo e, sotto certi aspetti, a F. Bacone, cioè nellavalutazione della applicazione pratica della scienza; eciò non è abitualmente rilevato da coloro che, per con-dannarlo o per lodarlo, insistono tanto sull’utilitarismobaconiano. Il D. afferma di essersi deciso a comunicareal pubblico le sue teorie fisiche perchè era convinto cheesse potevano condurre a conoscenze assai utili nellavita: «au lieu de cette Philosophie spéculative, qu’onenseigne dans les éscholes, on en peut trouver unepratique par la quelle, connoissant la force et les actionsdu feu, de l’air, des astres, des cieux, et de tous lesautres cors qui nous environnent... nous les pourrionsemployer... à tous les usages auxquels ils sont propres,et ainsi nous rendre comme maistres et possesseurs de laNature. Ce qui n’est pas seulement à désirer pourl’invention d’une infinité d’artifices, qui feroient qu’oniouiroit, sans aucune peine, des fruits de la terre et detoutes les commoditéz qui s’y trouvent, maisprincipalement aussy pour la conservation de la santé,

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laquelle est sans doute le premier bien, et le fondementde tous les autres biens de cette vie». Egli sperava che lamedicina potesse liberare l’uomo da un’infinità di ma-lattie sia del corpo che dello spirito e forse anchedall’indebolimento della vecchiaia, e scriveva nel Di-scorso di avere deciso di consacrare tutta la vita alla ri-cerca di quella scienza. Anche posteriormente, nellaprefazione ai Principî egli, definendo la filosofia lo stu-dio della saggezza, aggiungeva che questa designa nonsoltanto la prudenza negli affari, ma anche la perfettaconoscenza di tutto ciò che l’uomo può sapere, sia per lacondotta della vita, sia per la conservazione della salutee l’invenzione di tutte le arti: ma questa conoscenzadeve dedursi dalle cause prime o principî; e dopo avereconfrontato la filosofia a un albero che ha nella metafi-sica (la teoria dei principî della conoscenza) le radici, iltronco nella fisica e i rami nelle altre scienze che sorto-no da tale tronco e che si riducono a tre principali, lamedicina, la meccanica e la morale, osservava che,come i frutti si raccolgono soltanto alle estremità deirami, così la principale utilità della filosofia dipendeproprio da tali discipline. Se non si è occupato partico-larmente delle due prime, sappiamo già quale ostacolol’abbia trattenuto: l’impossibilità di fare gli esperimentiche giudicava necessari.

Ciò non significa che l’utilità per la vita che, a pareredel D., deve appartenere alla vera filosofia, che soltantopossedendola si identifica alla saggezza, abbia caratterestrettamente pratico-applicativo. La stessa prefazione ai

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laquelle est sans doute le premier bien, et le fondementde tous les autres biens de cette vie». Egli sperava che lamedicina potesse liberare l’uomo da un’infinità di ma-lattie sia del corpo che dello spirito e forse anchedall’indebolimento della vecchiaia, e scriveva nel Di-scorso di avere deciso di consacrare tutta la vita alla ri-cerca di quella scienza. Anche posteriormente, nellaprefazione ai Principî egli, definendo la filosofia lo stu-dio della saggezza, aggiungeva che questa designa nonsoltanto la prudenza negli affari, ma anche la perfettaconoscenza di tutto ciò che l’uomo può sapere, sia per lacondotta della vita, sia per la conservazione della salutee l’invenzione di tutte le arti: ma questa conoscenzadeve dedursi dalle cause prime o principî; e dopo avereconfrontato la filosofia a un albero che ha nella metafi-sica (la teoria dei principî della conoscenza) le radici, iltronco nella fisica e i rami nelle altre scienze che sorto-no da tale tronco e che si riducono a tre principali, lamedicina, la meccanica e la morale, osservava che,come i frutti si raccolgono soltanto alle estremità deirami, così la principale utilità della filosofia dipendeproprio da tali discipline. Se non si è occupato partico-larmente delle due prime, sappiamo già quale ostacolol’abbia trattenuto: l’impossibilità di fare gli esperimentiche giudicava necessari.

Ciò non significa che l’utilità per la vita che, a pareredel D., deve appartenere alla vera filosofia, che soltantopossedendola si identifica alla saggezza, abbia caratterestrettamente pratico-applicativo. La stessa prefazione ai

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Principî ripone il Sommo Bene nella conoscenza dellaverità, cioè nella saggezza, di cui la filosofia è lo studio;essa quindi è utile soprattutto in quanto, arrecandoall’uomo il possesso di quel bene, gli procura anche labeatitudine (naturale), che è il suo effetto.

La tendenza generale dei fondatori della filosofia mo-derna a collegare intimamente le loro ricerche coi pro-blemi della scienza, tendenza che trova nel D. la sua piùdecisa espressione, persiste nella età successiva sino alKant. Se è scarso il contributo arrecato dai cartesianiveri e propri allo sviluppo delle ricerche naturalistiche, èperò certo che i maggiori pensatori del secolo 17o e del18o sentono la necessità, se non altro, di interessarsi se-riamente dei problemi che la scienza pone a chi vuolegiungere a una interpretazione soddisfacente della real-tà. Così la filosofia cartesiana, che con la sua autorità in-discussa contribuiva a indurre anche i pensatori che nonle erano favorevoli a rimanere, sia pure per scopi critici,in intimo contatto con la ricerca scientifica, costituisce,sotto il punto di vista che ora si è indicato, il precedentediretto del pensiero kantiano, che appunto, in quanto sisforza di risalire dal fatto della scienza alle condizioniche la rendono possibile segue, sebbene in modo origi-nalissimo, la via indicata dal Descartes, quando, per giu-stificare razionalmente la oggettività della interpretazio-ne matematica dei fenomeni, risale al presupposto ulti-mo di ogni conoscenza. Però non si può dire che in ciò

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Principî ripone il Sommo Bene nella conoscenza dellaverità, cioè nella saggezza, di cui la filosofia è lo studio;essa quindi è utile soprattutto in quanto, arrecandoall’uomo il possesso di quel bene, gli procura anche labeatitudine (naturale), che è il suo effetto.

La tendenza generale dei fondatori della filosofia mo-derna a collegare intimamente le loro ricerche coi pro-blemi della scienza, tendenza che trova nel D. la sua piùdecisa espressione, persiste nella età successiva sino alKant. Se è scarso il contributo arrecato dai cartesianiveri e propri allo sviluppo delle ricerche naturalistiche, èperò certo che i maggiori pensatori del secolo 17o e del18o sentono la necessità, se non altro, di interessarsi se-riamente dei problemi che la scienza pone a chi vuolegiungere a una interpretazione soddisfacente della real-tà. Così la filosofia cartesiana, che con la sua autorità in-discussa contribuiva a indurre anche i pensatori che nonle erano favorevoli a rimanere, sia pure per scopi critici,in intimo contatto con la ricerca scientifica, costituisce,sotto il punto di vista che ora si è indicato, il precedentediretto del pensiero kantiano, che appunto, in quanto sisforza di risalire dal fatto della scienza alle condizioniche la rendono possibile segue, sebbene in modo origi-nalissimo, la via indicata dal Descartes, quando, per giu-stificare razionalmente la oggettività della interpretazio-ne matematica dei fenomeni, risale al presupposto ulti-mo di ogni conoscenza. Però non si può dire che in ciò

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consista il suo nucleo sempre vivo, il suo valore peren-ne. Per un caso non comune nella storia del pensiero,l’azione esercitata da quella filosofia sull’età sua, corri-sponde, in complesso, all’atteggiamento di chi cerchi dideterminare il valore che essa veramente e propriamentepossiede: la sua funzione storica corrisponde, se si eli-minano gli errori d’interpretazione, al suo significato su-per-storico. In quella filosofia i contemporanei viderosoprattutto l’esigenza di accettare per vere soltanto leconoscenze evidenti, cioè le idee chiare e distinte, e sisforzarono (come fecero pure i loro successori del seco-lo 17o e del 18o) di seguire tale norma. Senza dubbio,questo influsso del cartesianismo, specialmente nell’etàdell’illuminismo, nel complesso non fu benefico, perchèindusse le menti a ricercare le soluzioni semplici, a ri-fuggire da tutto ciò che non si potesse rinchiudere entroschemi concettuali di facile costruzione: l’astrattismoarbitrario e semplificatore, incapace di rendersi contodelle oscurità e delle difficoltà profonde dei problemi,insomma gli eccessi e gli abusi di un intellettualismounilaterale e superficiale furono spesso la dolorosa con-seguenza di un cartesianismo male inteso, che troppofrequentemente le critiche degli storici hanno scambiatocon quello autentico e al quale hanno attribuito perciòresponsabilità che non gli spettano. Infatti, era quellaun’interpretazione errata (di cui, bisogna riconoscerlo,più volte lo stesso D. aveva dato l’esempio) dell’esigen-za fondamentale dell’autentico pensiero cartesiano, chenel suo intimo spirito esige non già di volere ad ogni co-

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consista il suo nucleo sempre vivo, il suo valore peren-ne. Per un caso non comune nella storia del pensiero,l’azione esercitata da quella filosofia sull’età sua, corri-sponde, in complesso, all’atteggiamento di chi cerchi dideterminare il valore che essa veramente e propriamentepossiede: la sua funzione storica corrisponde, se si eli-minano gli errori d’interpretazione, al suo significato su-per-storico. In quella filosofia i contemporanei viderosoprattutto l’esigenza di accettare per vere soltanto leconoscenze evidenti, cioè le idee chiare e distinte, e sisforzarono (come fecero pure i loro successori del seco-lo 17o e del 18o) di seguire tale norma. Senza dubbio,questo influsso del cartesianismo, specialmente nell’etàdell’illuminismo, nel complesso non fu benefico, perchèindusse le menti a ricercare le soluzioni semplici, a ri-fuggire da tutto ciò che non si potesse rinchiudere entroschemi concettuali di facile costruzione: l’astrattismoarbitrario e semplificatore, incapace di rendersi contodelle oscurità e delle difficoltà profonde dei problemi,insomma gli eccessi e gli abusi di un intellettualismounilaterale e superficiale furono spesso la dolorosa con-seguenza di un cartesianismo male inteso, che troppofrequentemente le critiche degli storici hanno scambiatocon quello autentico e al quale hanno attribuito perciòresponsabilità che non gli spettano. Infatti, era quellaun’interpretazione errata (di cui, bisogna riconoscerlo,più volte lo stesso D. aveva dato l’esempio) dell’esigen-za fondamentale dell’autentico pensiero cartesiano, chenel suo intimo spirito esige non già di volere ad ogni co-

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sto risolvere le difficoltà nel modo più facile e più sem-plice, per mezzo di concetti che sembrano chiari e di-stinti, ma effettivamente sono poveri di contenuto e su-perficiali, bensì di rendersi ben conto della natura e del-la difficoltà dei problemi affrontati. Cercare l’evidenzapuò, anzi deve spesso significare (il paradosso è soltantonell’espressione) sforzarsi di riconoscere chiaramentel’oscurità dei problemi e accontentarsi soltanto delle so-luzioni che permettono di dar ragione di tutte le difficol-tà che presentano. Così concepito il pensiero del D. ap-pare la continuazione di quello di Platone, perchè la ri-soluzione incrollabile di chiudersi nel dubbio rispetto aogni conoscenza per il timore di un possibile errore, sin-chè non si sia offerta una prima certezza indiscutibile, èl’espressione di quella severa onestà scientifica, che almaggior discepolo di Socrate (che aveva imparato dalmaestro che occorre seguire il logos, cioè il pensiero ra-zionale, ovunque conduca, poichè di esso dobbiamo cu-rarci, non delle nostre opinioni personali, dell’io e deltu) imponeva l’obbligo di riaffrontare continuamente glistessi problemi, di riesaminare sempre da capo le solu-zioni presentate per correggerle e rielaborarle17.

Si vede da quanto precede che l’opinione predomi-nante, che attribuisce al D. il merito (o la colpa) di averecol cogito aperta la via al Kant e all’idealismo moderno,non si può accogliere senza riserve. È storicamente cer-to che il D., sebbene fosse convinto dell’esistenza di un

17 V. p. XXXVIII [pag. 56 di questa edizione Manuzio].

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sto risolvere le difficoltà nel modo più facile e più sem-plice, per mezzo di concetti che sembrano chiari e di-stinti, ma effettivamente sono poveri di contenuto e su-perficiali, bensì di rendersi ben conto della natura e del-la difficoltà dei problemi affrontati. Cercare l’evidenzapuò, anzi deve spesso significare (il paradosso è soltantonell’espressione) sforzarsi di riconoscere chiaramentel’oscurità dei problemi e accontentarsi soltanto delle so-luzioni che permettono di dar ragione di tutte le difficol-tà che presentano. Così concepito il pensiero del D. ap-pare la continuazione di quello di Platone, perchè la ri-soluzione incrollabile di chiudersi nel dubbio rispetto aogni conoscenza per il timore di un possibile errore, sin-chè non si sia offerta una prima certezza indiscutibile, èl’espressione di quella severa onestà scientifica, che almaggior discepolo di Socrate (che aveva imparato dalmaestro che occorre seguire il logos, cioè il pensiero ra-zionale, ovunque conduca, poichè di esso dobbiamo cu-rarci, non delle nostre opinioni personali, dell’io e deltu) imponeva l’obbligo di riaffrontare continuamente glistessi problemi, di riesaminare sempre da capo le solu-zioni presentate per correggerle e rielaborarle17.

Si vede da quanto precede che l’opinione predomi-nante, che attribuisce al D. il merito (o la colpa) di averecol cogito aperta la via al Kant e all’idealismo moderno,non si può accogliere senza riserve. È storicamente cer-to che il D., sebbene fosse convinto dell’esistenza di un

17 V. p. XXXVIII [pag. 56 di questa edizione Manuzio].

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mondo esterno indipendente dal pensiero (per ottenerela dimostrazione di questa credenza egli, come si è det-to, ampliò la sfera delle sue ricerche), esercitò un fortis-simo influsso sul movimento idealistico posteriore; e, amio parere, è pure certo che l’avere posto nel soggettopensante la condizione e il presupposto fondamentali,necessari e imprescindibili di ogni atto di conoscenza equindi di ogni affermazione di una qualsiasi realtà, co-stituisce una conquista filosofica permanente, che pos-siede un valore super-storico. Ma bisogna rendersi contoche il cogito ha valore e significato perchè è impostodalla suprema esigenza di un pensiero che vuole essereonesto e che perciò vuol vedere chiaro nei propri pro-blemi, che non s’accontenta di soluzioni incomplete esuperficiali e preferisce il tormento del dubbio alla faci-le soddisfazione delle affermazioni non giustificate, per-chè non fondate razionalmente. Anche coloro che nonaccettano nemmeno una delle tesi formulate dal D. pos-sono e debbono onorare in lui, come in Platone, un mae-stro di severa, cioè di onesta ricerca scientifica; ora nellavita intellettuale non meno che nella pratica il doverefondamentale è quello dell’onestà.

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mondo esterno indipendente dal pensiero (per ottenerela dimostrazione di questa credenza egli, come si è det-to, ampliò la sfera delle sue ricerche), esercitò un fortis-simo influsso sul movimento idealistico posteriore; e, amio parere, è pure certo che l’avere posto nel soggettopensante la condizione e il presupposto fondamentali,necessari e imprescindibili di ogni atto di conoscenza equindi di ogni affermazione di una qualsiasi realtà, co-stituisce una conquista filosofica permanente, che pos-siede un valore super-storico. Ma bisogna rendersi contoche il cogito ha valore e significato perchè è impostodalla suprema esigenza di un pensiero che vuole essereonesto e che perciò vuol vedere chiaro nei propri pro-blemi, che non s’accontenta di soluzioni incomplete esuperficiali e preferisce il tormento del dubbio alla faci-le soddisfazione delle affermazioni non giustificate, per-chè non fondate razionalmente. Anche coloro che nonaccettano nemmeno una delle tesi formulate dal D. pos-sono e debbono onorare in lui, come in Platone, un mae-stro di severa, cioè di onesta ricerca scientifica; ora nellavita intellettuale non meno che nella pratica il doverefondamentale è quello dell’onestà.

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CENNI BIBLIOGRAFICI

Un’ampia bibliografia, che giunge sino al 1923, sitrova in F. UEBERWEG, Grundriss der Geschichte der Phi-losophie, III volume, 12a ed. curata da M. FRISCHEISEN-KÖHLER e W. MOOG: Berlin, 1924: pp. 224-225 e 654-658. Nei seguenti cenni ci limitiamo a pochissime noti-zie: perciò non ricordiamo nemmeno le storie della filo-sofia (storie generali e storie della filosofia moderna):basta dire che tutte parlano della vita, degli scritti e delpensiero del D.

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CENNI BIBLIOGRAFICI

Un’ampia bibliografia, che giunge sino al 1923, sitrova in F. UEBERWEG, Grundriss der Geschichte der Phi-losophie, III volume, 12a ed. curata da M. FRISCHEISEN-KÖHLER e W. MOOG: Berlin, 1924: pp. 224-225 e 654-658. Nei seguenti cenni ci limitiamo a pochissime noti-zie: perciò non ricordiamo nemmeno le storie della filo-sofia (storie generali e storie della filosofia moderna):basta dire che tutte parlano della vita, degli scritti e delpensiero del D.

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OPERE DEL DESCARTES.

Il primo scritto del D. è un Compendium musicae, del1618. Nello stesso periodo si collocano altri lavori (fra iquali si può ricordare lo Studium bonae mentis) di cuiperò restano soltanto frammenti. Importanza incompara-bilmente maggiore hanno le Regulae ad directionem in-genii (probabilmente composte verso il 1628-1629: 1a

edizione nel volume Opuscula posthuma: Amsterdam1671), il Discours de la méthode18 (Leyde, 1637: primaopera pubblicata dal D., ma anonima), le Meditationesde prima philosophia con le Objectiones et Responsio-nes19 (Paris, 1641: alcune obbiezioni e risposte però tro-

18 Étienne de Courcelles tradusse in latino, col titolo Speciminaphilosophiae, il Discorso, la Diottrica e le Meteore. Questaversione (pubblicata nel 1644 a Amsterdam), che omette ilnome del traduttore, porta invece quello dell’autore, il qualegarantisce il lettore di averla riveduta e corretta: perciò puòservire utilmente in vari casi a chiarire il significato del testofrancese.

19 La prima edizione della traduzione francese (Paris, 1647) èopera, per le Meditazioni, del duca di Luynes, e per le Obbie-zioni e Risposte, del Clerselier. È stata vista e approvatadall’autore, salvo per le 5e Obbiezioni e Risposte, che egli nonvoleva fossero pubblicate. In questa edizione manca la tradu-zione delle 7e Obbiezioni e Risposte, che sono state aggiuntealle precedenti nella seconda edizione (Paris, 1661) dal Cler-selier, che rielaborò sia la versione del duca di Luynes che lapropria edizione precedente.

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OPERE DEL DESCARTES.

Il primo scritto del D. è un Compendium musicae, del1618. Nello stesso periodo si collocano altri lavori (fra iquali si può ricordare lo Studium bonae mentis) di cuiperò restano soltanto frammenti. Importanza incompara-bilmente maggiore hanno le Regulae ad directionem in-genii (probabilmente composte verso il 1628-1629: 1a

edizione nel volume Opuscula posthuma: Amsterdam1671), il Discours de la méthode18 (Leyde, 1637: primaopera pubblicata dal D., ma anonima), le Meditationesde prima philosophia con le Objectiones et Responsio-nes19 (Paris, 1641: alcune obbiezioni e risposte però tro-

18 Étienne de Courcelles tradusse in latino, col titolo Speciminaphilosophiae, il Discorso, la Diottrica e le Meteore. Questaversione (pubblicata nel 1644 a Amsterdam), che omette ilnome del traduttore, porta invece quello dell’autore, il qualegarantisce il lettore di averla riveduta e corretta: perciò puòservire utilmente in vari casi a chiarire il significato del testofrancese.

19 La prima edizione della traduzione francese (Paris, 1647) èopera, per le Meditazioni, del duca di Luynes, e per le Obbie-zioni e Risposte, del Clerselier. È stata vista e approvatadall’autore, salvo per le 5e Obbiezioni e Risposte, che egli nonvoleva fossero pubblicate. In questa edizione manca la tradu-zione delle 7e Obbiezioni e Risposte, che sono state aggiuntealle precedenti nella seconda edizione (Paris, 1661) dal Cler-selier, che rielaborò sia la versione del duca di Luynes che lapropria edizione precedente.

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varono posto soltanto in edizioni successive), i Princi-pia Philosophiae20 (Amsterdam, 1644), le Passions del’âme (Paris, 1649). È incerta la data di un dialogo fram-mentario, La recherche de la vérité, che, sebbene da al-cuni assegnato alla maturità del D., deve piuttosto essereconsiderato opera giovanile. (Fu pubblicato nella versio-ne latina negli Opuscula posthuma del 1671). Apparvealla luce dopo la morte del D. anche l’opera incompletaLe Monde ou Traité de la Lumiere. Ne fu pubblicatocome uno scritto a sè il capitolo 18o. , da prima col titoloDe homine nella traduzione latina (Leida, 1662), poi conquello L’homme nella redazione francese (Paris, 1664).Col titolo dell’opera completa (Le Monde...) apparve laprima parte di quel trattato a Parigi nel 1664: nel 1677 idue scritti furono pubblicati insieme. È importantissimal’ampia corrispondenza del D., perchè permette di se-guire da vicino lo sviluppo del suo pensiero, special-mente di fronte alle osservazioni e alle critiche altrui (1ªedizione in tre volumi: Paris, 1657, 1659 e 1667). Laprima edizione complessiva di tutti gli scritti è quella diAmsterdam, 1670-1683. Fondamentale è l’edizione na-

20 Furono tradotti in francese dal Picot; il nome del traduttoreperò non figura nella prima edizione (Paris, 1647). Questaversione è stata lodata dall’autore, ma con espressioni che neriguardano piuttosto lo stile che la fedeltà e l’esattezza. Inclu-de modificazioni del testo e aggiunte che forse appartengonoin parte all’autore, in parte al Picot. (V. ADAM, Avertissementpremesso all’edizione della traduzione francese: ed. ADAM-TANNERY, vol. IX, 2: pp. VIII sgg.).

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varono posto soltanto in edizioni successive), i Princi-pia Philosophiae20 (Amsterdam, 1644), le Passions del’âme (Paris, 1649). È incerta la data di un dialogo fram-mentario, La recherche de la vérité, che, sebbene da al-cuni assegnato alla maturità del D., deve piuttosto essereconsiderato opera giovanile. (Fu pubblicato nella versio-ne latina negli Opuscula posthuma del 1671). Apparvealla luce dopo la morte del D. anche l’opera incompletaLe Monde ou Traité de la Lumiere. Ne fu pubblicatocome uno scritto a sè il capitolo 18o. , da prima col titoloDe homine nella traduzione latina (Leida, 1662), poi conquello L’homme nella redazione francese (Paris, 1664).Col titolo dell’opera completa (Le Monde...) apparve laprima parte di quel trattato a Parigi nel 1664: nel 1677 idue scritti furono pubblicati insieme. È importantissimal’ampia corrispondenza del D., perchè permette di se-guire da vicino lo sviluppo del suo pensiero, special-mente di fronte alle osservazioni e alle critiche altrui (1ªedizione in tre volumi: Paris, 1657, 1659 e 1667). Laprima edizione complessiva di tutti gli scritti è quella diAmsterdam, 1670-1683. Fondamentale è l’edizione na-

20 Furono tradotti in francese dal Picot; il nome del traduttoreperò non figura nella prima edizione (Paris, 1647). Questaversione è stata lodata dall’autore, ma con espressioni che neriguardano piuttosto lo stile che la fedeltà e l’esattezza. Inclu-de modificazioni del testo e aggiunte che forse appartengonoin parte all’autore, in parte al Picot. (V. ADAM, Avertissementpremesso all’edizione della traduzione francese: ed. ADAM-TANNERY, vol. IX, 2: pp. VIII sgg.).

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zionale curata da ADAM e TANNERY, Paris, 1897-1913, sula quale è condotta la traduzione che qui si pubblica. Èin 13 volumi (I-V corrispondenza; VI-XI opere; XII C.ADAM, Vie et oeuvres de D.; XIII indice). Nel 1926 L.ROTH pubblicò la Correspondance of Descartes andConstantin Huyghens (1635-1647), Oxford. Si deve poiricordare per la sua importanza l’edizione del Discoursde la méthode, con ricco e accurato commento, curatada E. GILSON (Paris, 1925: 2ª ed. 1930). (L’autore pub-blicò una riduzione del suo commento nelle note dellasua edizione scolastica del Discours: Paris, 1930. Que-ste note, tradotte in italiano, corredano la versione deltesto cartesiano, fatta da E. CARRARA: Firenze, 1932). Perlo studio delle dottrine morali del D. è molto utile il vo-lume Lettres sur la morale. Correspondance avec laprincesse Elisabeth, Chanut et la reine Christine, texterevu et présenté par J. CHEVALIER (Paris, 1935), nel qualesono raccolte lettere che fanno parte della corrisponden-za. Di questa è stata recentemente iniziata una edizionea parte (Correspondance publiée... par CH. ADAM et E.G. MILHAUD: tome I: Paris, 1936).

Fra le traduzioni italiane del Discorso si possono ri-cordare quelle di M. CRIMI (Assisi, 1911) e di A. TILGHER

(Discorso sul metodo e Meditazioni filosofiche (con leObbiezioni e Risposte: 2 volumi: Bari, 1912-1913). Lostesso TILGHER pubblicò anche la versione dei Principîdi filosofia (Bari, 1914).

Traduzioni italiane con introduzione e commento delDiscorso e dei Principi, libro I, per uso scolastico:

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zionale curata da ADAM e TANNERY, Paris, 1897-1913, sula quale è condotta la traduzione che qui si pubblica. Èin 13 volumi (I-V corrispondenza; VI-XI opere; XII C.ADAM, Vie et oeuvres de D.; XIII indice). Nel 1926 L.ROTH pubblicò la Correspondance of Descartes andConstantin Huyghens (1635-1647), Oxford. Si deve poiricordare per la sua importanza l’edizione del Discoursde la méthode, con ricco e accurato commento, curatada E. GILSON (Paris, 1925: 2ª ed. 1930). (L’autore pub-blicò una riduzione del suo commento nelle note dellasua edizione scolastica del Discours: Paris, 1930. Que-ste note, tradotte in italiano, corredano la versione deltesto cartesiano, fatta da E. CARRARA: Firenze, 1932). Perlo studio delle dottrine morali del D. è molto utile il vo-lume Lettres sur la morale. Correspondance avec laprincesse Elisabeth, Chanut et la reine Christine, texterevu et présenté par J. CHEVALIER (Paris, 1935), nel qualesono raccolte lettere che fanno parte della corrisponden-za. Di questa è stata recentemente iniziata una edizionea parte (Correspondance publiée... par CH. ADAM et E.G. MILHAUD: tome I: Paris, 1936).

Fra le traduzioni italiane del Discorso si possono ri-cordare quelle di M. CRIMI (Assisi, 1911) e di A. TILGHER

(Discorso sul metodo e Meditazioni filosofiche (con leObbiezioni e Risposte: 2 volumi: Bari, 1912-1913). Lostesso TILGHER pubblicò anche la versione dei Principîdi filosofia (Bari, 1914).

Traduzioni italiane con introduzione e commento delDiscorso e dei Principi, libro I, per uso scolastico:

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di A. LANTRUA: Torino, 1925; III ed., ristampa, 1934;di G. DE GIULI: Torino, 1927; II ed., 3ª ristampa, 1934;di A. BOSISIO: Messina, 1934.

Del Discorso: di G. SAITTA: Bari, 1912; VI ed., 1935;di G. DE RUGGIERO: Firenze, 1925; di E. CARRARA [conintrod. e note di E. GILSON]: Firenze, 1932; di V. DE

RUVO: Firenze, 1936.Dei Principî: di C. DENTICE DI ACCADIA MOTZO: Bari,

1926; III ed., 1934; di I. SCIAKY: Firenze, 1932; di L.STEFANINI: Torino, ristampa, 1932.

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di A. LANTRUA: Torino, 1925; III ed., ristampa, 1934;di G. DE GIULI: Torino, 1927; II ed., 3ª ristampa, 1934;di A. BOSISIO: Messina, 1934.

Del Discorso: di G. SAITTA: Bari, 1912; VI ed., 1935;di G. DE RUGGIERO: Firenze, 1925; di E. CARRARA [conintrod. e note di E. GILSON]: Firenze, 1932; di V. DE

RUVO: Firenze, 1936.Dei Principî: di C. DENTICE DI ACCADIA MOTZO: Bari,

1926; III ed., 1934; di I. SCIAKY: Firenze, 1932; di L.STEFANINI: Torino, ristampa, 1932.

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STUDI SUL DESCARTES

S u lla v i ta :A. BAILLET. La vie de M. Descartes: 2 voll.; Paris,

1691.A. BAILLET. Abrégé de la vie de M. Descartes; Paris,

1692.C. ADAM. Vie et oeuvres de Descartes: (v. sopra).G. CANTECOR. Studio citato nell’Introduzione, p. IX n.

2 [pag. 11 n. 2 di questa edizione elettronica Manuzio].J. SIRVEN. Les années d’apprentissage de Descartes:

Paris, 1928.S u l c a r te s ia n is m o :F. BOUILLIER. Histoire de la philosophie cartésienne: 2

voll., Paris, 1854; III ed., 1868.O p e re g e n e ra l i :L. LIARD. Descartes: Paris, 1882; II ed., 1903.O. HAMELIN. Le système de Descartes: Paris, 1911; II

ed. 1921.J. CHEVALIER. Descartes: Paris, 1921; VIII ed., 1925.A. BOYCE GIBSON. The Philosophy of Descartes: Lon-

don, 1932.S. V. KEELING. Descartes: London, 1934.Notevoli studi sul pensiero cartesiano si trovano in

«Revue de Métaphysique et de Morale», IV (1896),fasc. 4o, consacrato al quarto centennario della nascita

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STUDI SUL DESCARTES

S u lla v i ta :A. BAILLET. La vie de M. Descartes: 2 voll.; Paris,

1691.A. BAILLET. Abrégé de la vie de M. Descartes; Paris,

1692.C. ADAM. Vie et oeuvres de Descartes: (v. sopra).G. CANTECOR. Studio citato nell’Introduzione, p. IX n.

2 [pag. 11 n. 2 di questa edizione elettronica Manuzio].J. SIRVEN. Les années d’apprentissage de Descartes:

Paris, 1928.S u l c a r te s ia n is m o :F. BOUILLIER. Histoire de la philosophie cartésienne: 2

voll., Paris, 1854; III ed., 1868.O p e re g e n e ra l i :L. LIARD. Descartes: Paris, 1882; II ed., 1903.O. HAMELIN. Le système de Descartes: Paris, 1911; II

ed. 1921.J. CHEVALIER. Descartes: Paris, 1921; VIII ed., 1925.A. BOYCE GIBSON. The Philosophy of Descartes: Lon-

don, 1932.S. V. KEELING. Descartes: London, 1934.Notevoli studi sul pensiero cartesiano si trovano in

«Revue de Métaphysique et de Morale», IV (1896),fasc. 4o, consacrato al quarto centennario della nascita

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del D.; XLIV (1937), fasc. 1o, consacrato al 3o centenna-rio della pubblicazione del Discours de la méthode.

L a v o ri p a r t ic o la r i :P. NATORP. Descartes Erkenntnistheorie: Eine Studie

zur Vorgeschichte des Kritizismus: Marburg, 1882.H. HEIMSOETH. Die Methode der Erkenntnis bei

Descartes und Leibniz I: Historische Einleitung:Descartes’ Methode der klaren und deutlichenErkenntnis: Giessen, 1912.

C. SERRUS. La méthode de Descartes et sonapplication à la métaphysique: Paris, 1933.

W. A. MERRYLESS. Descartes: some features of hismetaphysics and method: London, 1934.

J. WAHL. Du rôle de l’instant dans la philosophie deDescartes: Paris, 1920.

G. MILHAUD. Descartes savant: Paris, 1921.A. KOYRÉ. Essai sur l’idée de Dieu et les preuves de

son existence chez Descartes: Paris, 1922.H. GOUHIER. La pensée religieuse de Descartes: Paris,

1924.A. ESPINAS. Descartes et la morale: 2 voll.: Paris,

1925.P. MESNARD. Essai sur la morale de Descartes: Paris,

1936.M. LEROY. Descartes social: Paris, 1931.S u i ra p p o r ti co n a l t r i in d ir iz z i f i lo s o f ic i :L. BLANCHET. Les antécédents historiques du «Je

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del D.; XLIV (1937), fasc. 1o, consacrato al 3o centenna-rio della pubblicazione del Discours de la méthode.

L a v o ri p a r t ic o la r i :P. NATORP. Descartes Erkenntnistheorie: Eine Studie

zur Vorgeschichte des Kritizismus: Marburg, 1882.H. HEIMSOETH. Die Methode der Erkenntnis bei

Descartes und Leibniz I: Historische Einleitung:Descartes’ Methode der klaren und deutlichenErkenntnis: Giessen, 1912.

C. SERRUS. La méthode de Descartes et sonapplication à la métaphysique: Paris, 1933.

W. A. MERRYLESS. Descartes: some features of hismetaphysics and method: London, 1934.

J. WAHL. Du rôle de l’instant dans la philosophie deDescartes: Paris, 1920.

G. MILHAUD. Descartes savant: Paris, 1921.A. KOYRÉ. Essai sur l’idée de Dieu et les preuves de

son existence chez Descartes: Paris, 1922.H. GOUHIER. La pensée religieuse de Descartes: Paris,

1924.A. ESPINAS. Descartes et la morale: 2 voll.: Paris,

1925.P. MESNARD. Essai sur la morale de Descartes: Paris,

1936.M. LEROY. Descartes social: Paris, 1931.S u i ra p p o r ti co n a l t r i in d ir iz z i f i lo s o f ic i :L. BLANCHET. Les antécédents historiques du «Je

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pense, donc je suis»: Paris, 1920.E. GILSON. Index Scolastico-Cartésien: Paris, 1913.E. GILSON. Etudes sur le rôle de la pensée médiévale

dans la formation du système cartésien: Paris, 1930.E. GILSON. La liberté chez Descartes et la théologie:

Paris, 1913.A. LÉON. Les éléments cartésiens de la dottrine

spinoziste: Paris, 1907.P. LACHÈZE-REY. Les origines cartésiennes du Dieu de

Spinoza: Paris, 1930.

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pense, donc je suis»: Paris, 1920.E. GILSON. Index Scolastico-Cartésien: Paris, 1913.E. GILSON. Etudes sur le rôle de la pensée médiévale

dans la formation du système cartésien: Paris, 1930.E. GILSON. La liberté chez Descartes et la théologie:

Paris, 1913.A. LÉON. Les éléments cartésiens de la dottrine

spinoziste: Paris, 1907.P. LACHÈZE-REY. Les origines cartésiennes du Dieu de

Spinoza: Paris, 1930.

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OPERE ITALIANE SUL DESCARTES

S tu d i g e n e ra li :S. TURBIGLIO. Storia della filosofia cartesiana: Torino,

1866.O. MUSCATO. Cartesio e la filosofia moderna: Paler-

mo, 1913.S. TISSI. Cartesio: Milano, 1926.G. DE GIULI. Cartesio: Firenze, 1933.V. GIACOMIN. Il pensiero filosofico di Cartesio: Mila-

no, 1933.F. OLGIATI. Cartesio: Milano, 1934.Studi speciali:P. DE NARDI. La teoria rosminiana della forma

dell’umana intelligenza nei suoi rapporti colle teorichedi Kant, Cartesio, ecc. : Voghera, 1891

P. DE NARDI. Fonti, cause e critica del sistema filoso-fico di Cartesio: Forlì, 1896.

P. DE NARDI. Della matematica e della fisica nella lo-gica e nella metafisica di Cartesio, Spinoza, Leibnizio eKant: Forlì, 1905.

V. PERSIANI. Considerazioni sopra le dottrine filosofi-che di Cartesio: Napoli, 1879.

H. SIMONCINI. Le prime polemiche sulle «Meditazioni»di Descartes: Palermo, 1930.

L. COBIANCHI. Di Descartes e della evoluzione filosofi-ca nell’epoca del risorgimento: Bologna, 1875.

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OPERE ITALIANE SUL DESCARTES

S tu d i g e n e ra li :S. TURBIGLIO. Storia della filosofia cartesiana: Torino,

1866.O. MUSCATO. Cartesio e la filosofia moderna: Paler-

mo, 1913.S. TISSI. Cartesio: Milano, 1926.G. DE GIULI. Cartesio: Firenze, 1933.V. GIACOMIN. Il pensiero filosofico di Cartesio: Mila-

no, 1933.F. OLGIATI. Cartesio: Milano, 1934.Studi speciali:P. DE NARDI. La teoria rosminiana della forma

dell’umana intelligenza nei suoi rapporti colle teorichedi Kant, Cartesio, ecc. : Voghera, 1891

P. DE NARDI. Fonti, cause e critica del sistema filoso-fico di Cartesio: Forlì, 1896.

P. DE NARDI. Della matematica e della fisica nella lo-gica e nella metafisica di Cartesio, Spinoza, Leibnizio eKant: Forlì, 1905.

V. PERSIANI. Considerazioni sopra le dottrine filosofi-che di Cartesio: Napoli, 1879.

H. SIMONCINI. Le prime polemiche sulle «Meditazioni»di Descartes: Palermo, 1930.

L. COBIANCHI. Di Descartes e della evoluzione filosofi-ca nell’epoca del risorgimento: Bologna, 1875.

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G. SCERBO. G. B. Vico e il cartesianismo a Napoli:Roma, 1935.

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G. SCERBO. G. B. Vico e il cartesianismo a Napoli:Roma, 1935.

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DISCORSO DEL METODO

PER BENE DIRIGERE LA PROPRIA RAGIONE

E CERCARE LA VERITÀ NELLE SCIENZE

PARTE PRIMA

Se questo discorso21 sembra troppo lungo per essere let-

21 Come risulta da altri testi cartesiani citati dal Gilson, il D. rite-neva che il metodo consistesse più nella pratica che nella teo-ria e perciò intitolava questo scritto non Trattato ma Discorso,ossia usava un’espressione equivalente a quelle di Prefazioneo Opinione sul metodo. Ciò non significa che il Discorso ab-bia carattere exoterico; per il D. questo scritto non offre e nonvuole offrire una teoria metodologica particolareggiata, mal’indicazione dei principî generalissimi che debbono dirigerequalunque ricerca scientifica. In tal modo abbandonava il di-segno delle Regulae, che aveva lasciato frammentarie, forseperchè si era reso conto della impossibilità di costruire la teo-ria di una metodologia esauriente. In un certo senso, invece, ilDiscours realizza un altro progetto indicato nelle Regulae elasciato senza esecuzione. Anche nello scritto più antico il D.aveva pensato a stabilire una metodologia capace di dirigerequalsiasi specie di ricerca scientifica, ma, dopo essersi occu-pato di questi problemi generali, e accennato alla interpreta-zione matematica del mondo fisico, era passato allo studio diquestioni propriamente matematiche. Il Discours, appuntoperchè si limita a fissare i principî universalissimi della meto-

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DISCORSO DEL METODO

PER BENE DIRIGERE LA PROPRIA RAGIONE

E CERCARE LA VERITÀ NELLE SCIENZE

PARTE PRIMA

Se questo discorso21 sembra troppo lungo per essere let-

21 Come risulta da altri testi cartesiani citati dal Gilson, il D. rite-neva che il metodo consistesse più nella pratica che nella teo-ria e perciò intitolava questo scritto non Trattato ma Discorso,ossia usava un’espressione equivalente a quelle di Prefazioneo Opinione sul metodo. Ciò non significa che il Discorso ab-bia carattere exoterico; per il D. questo scritto non offre e nonvuole offrire una teoria metodologica particolareggiata, mal’indicazione dei principî generalissimi che debbono dirigerequalunque ricerca scientifica. In tal modo abbandonava il di-segno delle Regulae, che aveva lasciato frammentarie, forseperchè si era reso conto della impossibilità di costruire la teo-ria di una metodologia esauriente. In un certo senso, invece, ilDiscours realizza un altro progetto indicato nelle Regulae elasciato senza esecuzione. Anche nello scritto più antico il D.aveva pensato a stabilire una metodologia capace di dirigerequalsiasi specie di ricerca scientifica, ma, dopo essersi occu-pato di questi problemi generali, e accennato alla interpreta-zione matematica del mondo fisico, era passato allo studio diquestioni propriamente matematiche. Il Discours, appuntoperchè si limita a fissare i principî universalissimi della meto-

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to tutto in una volta, si potrà dividerlo in sei parti. E,nella prima, si troveranno diverse considerazioni sullescienze; nella seconda, le principali regole del metodoche l’Autore ha ricercato; nella 3.ª alcune regole dellamorale ch’egli ha ricavata da questo metodo22; nella 4.ª,le ragioni con cui prova la esistenza di Dio e dell’animaumana, che sono le basi della sua metafisica; nella 5.ª,l’ordine delle questioni di fisica, che egli ha studiato, eparticolarmente la spiegazione del movimento del cuoree di alcune altre difficoltà che riguardano la medicina,poi anche la differenza che c’è tra la nostra anima equella delle bestie; e nell’ultima, le cose che egli credesiano necessarie per progredire nello studio della naturae le ragioni che lo hanno spinto a scrivere.

CONSIDERAZIONI INTORNO ALLE SCIENZE23

Il buon senso24 è la cosa meglio distribuita nel mondodologia scientifica, può riferirsi a qualunque oggetto di ricer-ca. (Per altre differenze fra le sue opere, v. Introduzione, p.XXIX sgg. [pag. 42 sgg. di questa edizione Manuzio]).

22 Per il significato che si deve dare a queste parole, v. il com-mento alla terza parte.

23 I titoli delle diverse parti del Discorso sono tolti alle edizioniabituali; mancano invece in quelle Adam-Tannery e Gilson,che riproducono il testo originario. Si è creduto opportuno tra-durre tali titoli piuttosto che quelli della versione latina, per-chè sono più concisi.

24 Il bon sens è poco oltre identificato alla facoltà di giudicarebene (o rettamente); ma le due prime espressioni non debbonoessere prese nel loro senso abituale, perchè designano propria-

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to tutto in una volta, si potrà dividerlo in sei parti. E,nella prima, si troveranno diverse considerazioni sullescienze; nella seconda, le principali regole del metodoche l’Autore ha ricercato; nella 3.ª alcune regole dellamorale ch’egli ha ricavata da questo metodo22; nella 4.ª,le ragioni con cui prova la esistenza di Dio e dell’animaumana, che sono le basi della sua metafisica; nella 5.ª,l’ordine delle questioni di fisica, che egli ha studiato, eparticolarmente la spiegazione del movimento del cuoree di alcune altre difficoltà che riguardano la medicina,poi anche la differenza che c’è tra la nostra anima equella delle bestie; e nell’ultima, le cose che egli credesiano necessarie per progredire nello studio della naturae le ragioni che lo hanno spinto a scrivere.

CONSIDERAZIONI INTORNO ALLE SCIENZE23

Il buon senso24 è la cosa meglio distribuita nel mondodologia scientifica, può riferirsi a qualunque oggetto di ricer-ca. (Per altre differenze fra le sue opere, v. Introduzione, p.XXIX sgg. [pag. 42 sgg. di questa edizione Manuzio]).

22 Per il significato che si deve dare a queste parole, v. il com-mento alla terza parte.

23 I titoli delle diverse parti del Discorso sono tolti alle edizioniabituali; mancano invece in quelle Adam-Tannery e Gilson,che riproducono il testo originario. Si è creduto opportuno tra-durre tali titoli piuttosto che quelli della versione latina, per-chè sono più concisi.

24 Il bon sens è poco oltre identificato alla facoltà di giudicarebene (o rettamente); ma le due prime espressioni non debbonoessere prese nel loro senso abituale, perchè designano propria-

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poichè ciascuno pensa d’esserne così ben provvisto cheanche coloro che più difficilmente si accontentano inogni altra cosa non sogliono desiderarne più di quel chene hanno. In ciò non è verosimile che tutti s’ ingannino;piuttosto questo prova che la la capacità di ben giudica-re e di distinguere il vero dal falso – che è proprio quelche si chiama il buon senso o la ragione – è naturalmen-te eguale in tutti gli uomini; e parimenti che le differen-ze delle nostre opinioni non derivano dal fatto che gliuni siano più ragionevoli degli altri, ma soltanto dal fat-to che noi conduciamo i nostri pensieri per vie diverse, enon consideriamo le stesse cose. Perchè non basta avere

mente la capacità che ogni uomo possiede di distinguere ilvero dal falso e di apprendere il primo, ossia la luce naturale(lumen naturale, lumen naturae). Su questo concetto, che co-stituisce il presupposto ultimo del pensiero di F. Bacone e delD., e sul significato che possiede negli scritti di quest’ultimo,v. Introd. p. XXI e pp. XXXIV-XXXV [pag. 29 e pagg. 50-52in questa edizione Manuzio]. La luce naturale ha compiuto unufficio molto importante nelle dottrine filosofiche del Rinasci-mento e dell’inizio dell’età moderna. Tale concezione, che hai suoi antecedenti nella filosofia antica e specialmente nelloStoicismo, diventa tradizionale nel Medio Evo; però, mentrein questo periodo serve a mettere in rilievo l’inferiorità dellaconoscenza propria della mente umana di fronte alla luce so-prannaturale della Grazia, presso i rappresentanti del pensieromoderno compie l’ufficio di affermare la completa autonomiadello studio scientifico del mondo della natura (Galileo, Baco-ne) o, in generale, di oggetti diversi da quelli rivelati dallafede (Descartes, Hobbes).

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poichè ciascuno pensa d’esserne così ben provvisto cheanche coloro che più difficilmente si accontentano inogni altra cosa non sogliono desiderarne più di quel chene hanno. In ciò non è verosimile che tutti s’ ingannino;piuttosto questo prova che la la capacità di ben giudica-re e di distinguere il vero dal falso – che è proprio quelche si chiama il buon senso o la ragione – è naturalmen-te eguale in tutti gli uomini; e parimenti che le differen-ze delle nostre opinioni non derivano dal fatto che gliuni siano più ragionevoli degli altri, ma soltanto dal fat-to che noi conduciamo i nostri pensieri per vie diverse, enon consideriamo le stesse cose. Perchè non basta avere

mente la capacità che ogni uomo possiede di distinguere ilvero dal falso e di apprendere il primo, ossia la luce naturale(lumen naturale, lumen naturae). Su questo concetto, che co-stituisce il presupposto ultimo del pensiero di F. Bacone e delD., e sul significato che possiede negli scritti di quest’ultimo,v. Introd. p. XXI e pp. XXXIV-XXXV [pag. 29 e pagg. 50-52in questa edizione Manuzio]. La luce naturale ha compiuto unufficio molto importante nelle dottrine filosofiche del Rinasci-mento e dell’inizio dell’età moderna. Tale concezione, che hai suoi antecedenti nella filosofia antica e specialmente nelloStoicismo, diventa tradizionale nel Medio Evo; però, mentrein questo periodo serve a mettere in rilievo l’inferiorità dellaconoscenza propria della mente umana di fronte alla luce so-prannaturale della Grazia, presso i rappresentanti del pensieromoderno compie l’ufficio di affermare la completa autonomiadello studio scientifico del mondo della natura (Galileo, Baco-ne) o, in generale, di oggetti diversi da quelli rivelati dallafede (Descartes, Hobbes).

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un’intelligenza25 buona; l’essenziale è applicarla bene.Le più grandi anime sono capaci tanto dei maggiori vizi,quanto delle maggiori virtù; e coloro i quali non cammi-nano che molto lentamente, possono, se seguono semprela strada26 diritta, avanzare molto più di coloro che cor-rono e se ne allontanano.

Quanto a me non ho mai presunto che la mia intelli-genza fosse in nulla più perfetta di quella comune; anziho spesso desiderato d’avere il pensiero così rapido, ol’immaginazione così netta e distinta, o la memoria cosìampia, o così pronta, come altri. E non conosco qualitàdiverse da queste, che servano alla perfezione dello spi-rito: poichè rispetto alla ragione, o al buon senso, inquanto è la sola cosa che ci rende uomini e ci distinguedalle bestie, voglio credere che essa è tutt’intera in cia-scun individuo, e seguire in questo l’opinione comune

25 Il testo ha esprit; ma questa parola non designa qui la sostanzapensante e non è nemmeno, come vuole il Gilson, l’equivalen-te di pensée, pensiero, in quanto coestensivo alla coscienza.Come appare dalla parola ingenium, usata nella versione lati-na, esprit indica tutte le funzioni conoscitive, ossia la memo-ria, l’immaginazione e l’intelletto, inteso come la facoltà diavere idee e quindi anche, nel suo grado più alto, di intuire ifondamenti di ogni verità (raison). Ha però ragione il Gilsonquando osserva che gli esprits (in quanto intelligenze) posso-no differire tra loro, sebbene le ragioni siano uguali in tutti gliuomini.

26 La strada è il metodo, di cui è messa in rilievo la necessità peril buon uso dell’intelligenza.

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un’intelligenza25 buona; l’essenziale è applicarla bene.Le più grandi anime sono capaci tanto dei maggiori vizi,quanto delle maggiori virtù; e coloro i quali non cammi-nano che molto lentamente, possono, se seguono semprela strada26 diritta, avanzare molto più di coloro che cor-rono e se ne allontanano.

Quanto a me non ho mai presunto che la mia intelli-genza fosse in nulla più perfetta di quella comune; anziho spesso desiderato d’avere il pensiero così rapido, ol’immaginazione così netta e distinta, o la memoria cosìampia, o così pronta, come altri. E non conosco qualitàdiverse da queste, che servano alla perfezione dello spi-rito: poichè rispetto alla ragione, o al buon senso, inquanto è la sola cosa che ci rende uomini e ci distinguedalle bestie, voglio credere che essa è tutt’intera in cia-scun individuo, e seguire in questo l’opinione comune

25 Il testo ha esprit; ma questa parola non designa qui la sostanzapensante e non è nemmeno, come vuole il Gilson, l’equivalen-te di pensée, pensiero, in quanto coestensivo alla coscienza.Come appare dalla parola ingenium, usata nella versione lati-na, esprit indica tutte le funzioni conoscitive, ossia la memo-ria, l’immaginazione e l’intelletto, inteso come la facoltà diavere idee e quindi anche, nel suo grado più alto, di intuire ifondamenti di ogni verità (raison). Ha però ragione il Gilsonquando osserva che gli esprits (in quanto intelligenze) posso-no differire tra loro, sebbene le ragioni siano uguali in tutti gliuomini.

26 La strada è il metodo, di cui è messa in rilievo la necessità peril buon uso dell’intelligenza.

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dei Filosofi,27 i quali dicono che esistono il più e il menosolo tra gli accidenti, e non tra le forme, o nature, degliindividui d’una medesima specie28.

Ma non avrò riguardo di dire che penso di essere statomolto fortunato per aver trovato, fin dalla mia giovinez-za, alcune vie, che mi hanno condotto a talune conside-razioni e massime, con le quali ho formato un metodo29,

27 I filosofi sono i seguaci della filosofia tradizionale, aristote-lico-scolastica.

28 Per essi la sostanza risulta di materia e di forma (o forma so-stanziale); la prima costituisce il sostrato che dalla seconda ri-ceve le sue determinazioni intelligibili, ossa la sua essenza,che si esplica per mezzo della definizione e che è immutabile.Essa spetta ugualmente a tutti gli individui inclusi nella stessaspecie, che si distinguono fra loro per gli accidenti, o caratteriche possono o no trovarsi in un essere, perchè, non essendoinclusi nella definizione della sua essenza, non gli appartengo-no in modo necessario. Essi ammettono soltanto differenzequantitative, mentre la forma, in cui consiste l’essenza, risiedeintera in ogni individuo di una determinata specie. Per il D.(non per la filosofia tradizionale, però) l’essenza dell’uomoconsiste nella ragione che lo distingue dagli altri animali, eche perciò appartiene ugualmente a tutti gli esseri umani, incui invece possono variare quantitativamente l’immaginazio-ne, la memoria..... che sono accidenti. Così il D. movendo dal-la propria concezione dell’essenza dell’uomo, si vale di dottri-ne della filosofia tradizionale per giungere a conclusioni con-trarie ad essa.

29 Secondo il Gilson, le vie (chemins) di cui parla il D. sarebbero«certi modi di riflettere e di pensare» acquistati spontanea-mente al Collegio di La Flèche, che dovevano condurlo, versoil 1618-19, alle considerazioni e alle massime con le quali ha

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dei Filosofi,27 i quali dicono che esistono il più e il menosolo tra gli accidenti, e non tra le forme, o nature, degliindividui d’una medesima specie28.

Ma non avrò riguardo di dire che penso di essere statomolto fortunato per aver trovato, fin dalla mia giovinez-za, alcune vie, che mi hanno condotto a talune conside-razioni e massime, con le quali ho formato un metodo29,

27 I filosofi sono i seguaci della filosofia tradizionale, aristote-lico-scolastica.

28 Per essi la sostanza risulta di materia e di forma (o forma so-stanziale); la prima costituisce il sostrato che dalla seconda ri-ceve le sue determinazioni intelligibili, ossa la sua essenza,che si esplica per mezzo della definizione e che è immutabile.Essa spetta ugualmente a tutti gli individui inclusi nella stessaspecie, che si distinguono fra loro per gli accidenti, o caratteriche possono o no trovarsi in un essere, perchè, non essendoinclusi nella definizione della sua essenza, non gli appartengo-no in modo necessario. Essi ammettono soltanto differenzequantitative, mentre la forma, in cui consiste l’essenza, risiedeintera in ogni individuo di una determinata specie. Per il D.(non per la filosofia tradizionale, però) l’essenza dell’uomoconsiste nella ragione che lo distingue dagli altri animali, eche perciò appartiene ugualmente a tutti gli esseri umani, incui invece possono variare quantitativamente l’immaginazio-ne, la memoria..... che sono accidenti. Così il D. movendo dal-la propria concezione dell’essenza dell’uomo, si vale di dottri-ne della filosofia tradizionale per giungere a conclusioni con-trarie ad essa.

29 Secondo il Gilson, le vie (chemins) di cui parla il D. sarebbero«certi modi di riflettere e di pensare» acquistati spontanea-mente al Collegio di La Flèche, che dovevano condurlo, versoil 1618-19, alle considerazioni e alle massime con le quali ha

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onde mi sembra di aver modo d’aumentare per gradi lamia conoscenza e di elevarla a poco a poco al punto piùalto che la mediocrità del mio ingegno e la breve duratadella mia vita30 le potranno permettere di raggiungere.

Poichè io ne ho già raccolto tali frutti31 che sebbene,nei giudizi che faccio di me stesso, io mi sforzi sempred’inclinare dalla parte della diffidenza piuttosto che daquella della presunzione; e sebbene, considerando conocchio di Filosofo le diverse azioni e imprese di tutti gliuomini, non ve ne sia quasi nessuna che non mi sembrivana e inutile; provo tuttavia una grandissima soddisfa-zione per il progresso che credo di aver fatto nella ricer-

poi costituito il suo metodo. Può darsi che questo sia effettiva-mente il significato del testo; ma si tratta, in tal caso, di una diquelle errate proiezioni nel passato che sono frequenti nel Di-scorso. I modi di riflettere e di pensare usati dal D. nella suavita di La Flèche differiscono totalmente sia dalla teoria meto-dologica delle Regulae, sia da quella del Discours; ed è vanolo sforzo di considerare queste la formulazione astratta di queiprocedimenti. Si è poi notato nella Introduzione (pp. XV-XVI[pagg. 20-21 di questa edizione Manuzio]) che la determina-zione del metodo non precedette, ma seguì le ricerche scienti-fiche (matematiche e fisiche) compute dal Descartes dopo la-sciato il Collegio.

30 Sembra un presentimento; infatti il D. doveva morire a 53anni.

31 All’epoca della composizione del Discorso, il D. aveva giàcompiuto importanti ricerche matematiche e fisiche e gettatole basi della sua metafisica. Quanto all’affermazione che essesiano state il frutto del suo metodo, v. nota 2 della p. 6 [nota29 di questa edizione Manuzio].

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onde mi sembra di aver modo d’aumentare per gradi lamia conoscenza e di elevarla a poco a poco al punto piùalto che la mediocrità del mio ingegno e la breve duratadella mia vita30 le potranno permettere di raggiungere.

Poichè io ne ho già raccolto tali frutti31 che sebbene,nei giudizi che faccio di me stesso, io mi sforzi sempred’inclinare dalla parte della diffidenza piuttosto che daquella della presunzione; e sebbene, considerando conocchio di Filosofo le diverse azioni e imprese di tutti gliuomini, non ve ne sia quasi nessuna che non mi sembrivana e inutile; provo tuttavia una grandissima soddisfa-zione per il progresso che credo di aver fatto nella ricer-

poi costituito il suo metodo. Può darsi che questo sia effettiva-mente il significato del testo; ma si tratta, in tal caso, di una diquelle errate proiezioni nel passato che sono frequenti nel Di-scorso. I modi di riflettere e di pensare usati dal D. nella suavita di La Flèche differiscono totalmente sia dalla teoria meto-dologica delle Regulae, sia da quella del Discours; ed è vanolo sforzo di considerare queste la formulazione astratta di queiprocedimenti. Si è poi notato nella Introduzione (pp. XV-XVI[pagg. 20-21 di questa edizione Manuzio]) che la determina-zione del metodo non precedette, ma seguì le ricerche scienti-fiche (matematiche e fisiche) compute dal Descartes dopo la-sciato il Collegio.

30 Sembra un presentimento; infatti il D. doveva morire a 53anni.

31 All’epoca della composizione del Discorso, il D. aveva giàcompiuto importanti ricerche matematiche e fisiche e gettatole basi della sua metafisica. Quanto all’affermazione che essesiano state il frutto del suo metodo, v. nota 2 della p. 6 [nota29 di questa edizione Manuzio].

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ca della verità, e concepisco tali speranze per l’avveni-re32 che, se tra le occupazioni degli uomini puramenteuomini33 ve n’è qualcuna che sia solidamente buona eimportante, oso credere che sia quella ch’io ho scelto.

Tuttavia può darsi che m’inganni e che non sia, forse,che un po’ di rame e di vetro quel che prendo per oro ediamanti. So quanto noi siamo soggetti a ingannarci inquel che ci riguarda, e quanto anche i giudizi dei nostriamici ci debbano esser sospetti, quando sono in nostrofavore. Ma sarò molto lieto di far vedere, in questo di-scorso, quali sono le vie che ho seguito, e di rappresen-tare in esso la mia vita come in un quadro, affinchè cia-scuno ne possa giudicare, e io, apprendendo dalla vocecomune le opinioni che se ne avranno, trovi in ciò unnuovo modo d’istruirmi, che aggiungerò a quelli di cuiho l’abitudine di valermi.

Pertanto il mio scopo non è d’insegnare qui il metodoche ciascuno deve seguire per dirigere bene la propriaragione, ma soltanto di far vedere in qual modo io abbiacercato di dirigere la mia34. Quelli che si occupano didare precetti, debbono stimarsi più abili di quelli ai qualili dànno; e se sbagliano nella più piccola cosa, meritanobiasimo. Ma, non proponendo questo scritto che come

32 Queste speranze riguardano il progresso delle conoscenze, ingenerale e, in particolare, della medicina e della morale.

33 Gli uomini puramente uomini sono coloro che sono guidatisoltanto dalla luce naturale, non da quella soprannaturale.

34 Si dovrà prendere alla lettera questa affermazione? Non sem-bra che riveli il vero pensiero dell’autore.

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ca della verità, e concepisco tali speranze per l’avveni-re32 che, se tra le occupazioni degli uomini puramenteuomini33 ve n’è qualcuna che sia solidamente buona eimportante, oso credere che sia quella ch’io ho scelto.

Tuttavia può darsi che m’inganni e che non sia, forse,che un po’ di rame e di vetro quel che prendo per oro ediamanti. So quanto noi siamo soggetti a ingannarci inquel che ci riguarda, e quanto anche i giudizi dei nostriamici ci debbano esser sospetti, quando sono in nostrofavore. Ma sarò molto lieto di far vedere, in questo di-scorso, quali sono le vie che ho seguito, e di rappresen-tare in esso la mia vita come in un quadro, affinchè cia-scuno ne possa giudicare, e io, apprendendo dalla vocecomune le opinioni che se ne avranno, trovi in ciò unnuovo modo d’istruirmi, che aggiungerò a quelli di cuiho l’abitudine di valermi.

Pertanto il mio scopo non è d’insegnare qui il metodoche ciascuno deve seguire per dirigere bene la propriaragione, ma soltanto di far vedere in qual modo io abbiacercato di dirigere la mia34. Quelli che si occupano didare precetti, debbono stimarsi più abili di quelli ai qualili dànno; e se sbagliano nella più piccola cosa, meritanobiasimo. Ma, non proponendo questo scritto che come

32 Queste speranze riguardano il progresso delle conoscenze, ingenerale e, in particolare, della medicina e della morale.

33 Gli uomini puramente uomini sono coloro che sono guidatisoltanto dalla luce naturale, non da quella soprannaturale.

34 Si dovrà prendere alla lettera questa affermazione? Non sem-bra che riveli il vero pensiero dell’autore.

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una storia, o, se lo preferite, come un racconto35, in cui,tra alcuni esempi che si possono imitare, se ne troveran-no forse anche parecchi altri che si avrà ragione di nonseguire, spero che esso scritto sarà utile ad alcuni, senzaesser dannoso a nessuno, e che tutti mi saranno gratidella mia franchezza.

Io sono stato educato allo studio delle lettere fin dallamia fanciullezza,36 e poichè mi avevano persuaso che,per loro mezzo, si poteva acquistare una conoscenzachiara e sicura di tutto ciò ch’è utile alla vita, avevo ungrandissimo desiderio di apprenderle. Ma appena ebbicompiuto tutto questo corso di studi37, alla fine del qualesi è di solito ricevuti nel numero dei dotti, cambiai inte-ramente d’opinione; perchè mi trovavo impigliato intanti dubbi ed errori, che mi sembrava di avere ottenuto,cercando d’istruirmi, il solo profitto di avere scopertosempre più la mia ignoranza. Eppure io ero in una delle

35 Fable nel testo; ma non si può tradurre con favola. Si osserviche il D., quando identificava discorso a prefazione o a avver-timento (v. nota 1 della p. 3 [nota 1 di questa edizione Manu-zio]) attribuiva al suo scritto importanza maggiore di quellache gli assegna qui.

36 Per il valore storico di questa autobiografia intellettuale delD., v. nella Intr. (pp. XIV-XV [pagg. 18-20 di questa edizioneManuzio]) il riassunto delle osservazioni del Cantecor.

37 Gli studi del collegio vennero ampliati con quelli di dirittocompiuti in seguito dal D., che gli permisero di ottenere a Poi-tiers nel 1616 il baccalaureato e la licenza in quella disciplina.Essi pure debbono quindi essere inclusi nel corso di cui si par-la qui.

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una storia, o, se lo preferite, come un racconto35, in cui,tra alcuni esempi che si possono imitare, se ne troveran-no forse anche parecchi altri che si avrà ragione di nonseguire, spero che esso scritto sarà utile ad alcuni, senzaesser dannoso a nessuno, e che tutti mi saranno gratidella mia franchezza.

Io sono stato educato allo studio delle lettere fin dallamia fanciullezza,36 e poichè mi avevano persuaso che,per loro mezzo, si poteva acquistare una conoscenzachiara e sicura di tutto ciò ch’è utile alla vita, avevo ungrandissimo desiderio di apprenderle. Ma appena ebbicompiuto tutto questo corso di studi37, alla fine del qualesi è di solito ricevuti nel numero dei dotti, cambiai inte-ramente d’opinione; perchè mi trovavo impigliato intanti dubbi ed errori, che mi sembrava di avere ottenuto,cercando d’istruirmi, il solo profitto di avere scopertosempre più la mia ignoranza. Eppure io ero in una delle

35 Fable nel testo; ma non si può tradurre con favola. Si osserviche il D., quando identificava discorso a prefazione o a avver-timento (v. nota 1 della p. 3 [nota 1 di questa edizione Manu-zio]) attribuiva al suo scritto importanza maggiore di quellache gli assegna qui.

36 Per il valore storico di questa autobiografia intellettuale delD., v. nella Intr. (pp. XIV-XV [pagg. 18-20 di questa edizioneManuzio]) il riassunto delle osservazioni del Cantecor.

37 Gli studi del collegio vennero ampliati con quelli di dirittocompiuti in seguito dal D., che gli permisero di ottenere a Poi-tiers nel 1616 il baccalaureato e la licenza in quella disciplina.Essi pure debbono quindi essere inclusi nel corso di cui si par-la qui.

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più celebri scuole dell’Europa,38 dove pensavo dovesse-ro trovarsi uomini dotti, se mai ve n’erano in alcun po-sto della terra. Vi avevo imparato tutto quello che gli al-tri vi imparavano; anzi, non essendomi contentato dellescienze che c’insegnavano, avevo scorso tutti i libri che,su le scienze che sono stimate più curiose e più rare,39

mi erano potuti cadere tra le mani. Inoltre conoscevo igiudizi che gli altri davano di me: e non mi sembravache mi stimassero inferiore ai miei condiscepoli, sebbe-ne ve ne fossero già alcuni che erano destinati a occupa-re i posti dei nostri maestri. E, infine, il nostro secolo misembrava non meno fiorente, e non meno fertile di buo-ne intelligenze di tutti i precedenti.40 Questo mi facevaprendere la libertà di giudicare da me di tutti gli altri, e

38 Per il Collegio di La Flèche e le finalità che gli insegnanti diesso si proponevano, v. Intr., pp. IX-X [pagg. 10-11 di questaedizione Manuzio].

39 Si tratta di scritti delle cosiddette scienze occulte (magia,astrologia,.....) che, nel Rinascimento e nell’inizio dell’etàmoderna, avevano incontrato grandissimo favore e larghissi-ma diffusione. Se Leonardo, Galileo e, come si vedrà, il De-scartes, le attaccarono violentemente, filosofi e scienziati insi-gni (p. es. G. Bruno, T. Campanella, Tycho Brahe, Kepler, F.Bacone) o le coltivarono, o posero notevoli riserve alle lorocritiche.

40 Questo giudizio generale si applica piuttosto all’età del Rina-scimento che alla prima metà del 1600. In questo periodo,però, si ebbe la formazione della nuova scienza della natura esi preparò la fioritura della letteratura francese, che dovevatrovare il suo culmine nel secolo di Luigi XIV.

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più celebri scuole dell’Europa,38 dove pensavo dovesse-ro trovarsi uomini dotti, se mai ve n’erano in alcun po-sto della terra. Vi avevo imparato tutto quello che gli al-tri vi imparavano; anzi, non essendomi contentato dellescienze che c’insegnavano, avevo scorso tutti i libri che,su le scienze che sono stimate più curiose e più rare,39

mi erano potuti cadere tra le mani. Inoltre conoscevo igiudizi che gli altri davano di me: e non mi sembravache mi stimassero inferiore ai miei condiscepoli, sebbe-ne ve ne fossero già alcuni che erano destinati a occupa-re i posti dei nostri maestri. E, infine, il nostro secolo misembrava non meno fiorente, e non meno fertile di buo-ne intelligenze di tutti i precedenti.40 Questo mi facevaprendere la libertà di giudicare da me di tutti gli altri, e

38 Per il Collegio di La Flèche e le finalità che gli insegnanti diesso si proponevano, v. Intr., pp. IX-X [pagg. 10-11 di questaedizione Manuzio].

39 Si tratta di scritti delle cosiddette scienze occulte (magia,astrologia,.....) che, nel Rinascimento e nell’inizio dell’etàmoderna, avevano incontrato grandissimo favore e larghissi-ma diffusione. Se Leonardo, Galileo e, come si vedrà, il De-scartes, le attaccarono violentemente, filosofi e scienziati insi-gni (p. es. G. Bruno, T. Campanella, Tycho Brahe, Kepler, F.Bacone) o le coltivarono, o posero notevoli riserve alle lorocritiche.

40 Questo giudizio generale si applica piuttosto all’età del Rina-scimento che alla prima metà del 1600. In questo periodo,però, si ebbe la formazione della nuova scienza della natura esi preparò la fioritura della letteratura francese, che dovevatrovare il suo culmine nel secolo di Luigi XIV.

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di pensare che non c’era nessuna dottrina al mondo chefosse tale quale m’avevano, per l’innanzi, fatto sperare.

Non smettevo però di stimare gli esercizi, ai quali siattende nelle scuole.41 Sapevo che le lingue che vi si im-parano42 sono necessarie per comprendere i libri antichi;che la grazia delle favole43 risveglia l’intelligenza; che leazioni memorabili delle storie la elevano, e che, lettecon discernimento, aiutano a formare il giudizio44; chela lettura di tutti i buoni libri è come una conversazionecon i migliori uomini dei secoli passati, che ne sono sta-ti gli autori, e anzi una conversazione premeditata, incui essi ci fanno conoscere soltanto i loro migliori pen-sieri; che l’eloquenza ha forze e bellezze incomparabili,che la poesia ha squisitezze e dolcezze incantevoli; chele matematiche hanno invenzioni sottilissime, e che pos-

41 Il D. ricorda qui gli argomenti che si portavano per esaltare ilvalore e l’utilità degli studi che si coltivavano nelle scuole deltempo suo, e propriamente nei collegi dei Gesuiti, che colle-gavano le discipline letterarie e storiche, fiorite nel periodoumanistico, alla filosofia e alla scienza della tradizione aristo-telico-scolastica. In certi casi, almeno, si può dubitare se ri-produca tali argomenti con piena esattezza.

42 Il greco e il latino.43 Le favole di cui parla il D. includono principalmente le narra-

zioni. mitologiche e le vere e proprie favole con finalità mora-li; a queste ultime specialmente si riferisce l’affermazione cheservono a risvegliare l’intelligenza.

44 L’opinione ricordata è quella del Montaigne, che apprezzavaaltamente la storia in quanto insegna a giudicare rettamentedegli uomini, delle loro azioni e dei casi della vita.

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di pensare che non c’era nessuna dottrina al mondo chefosse tale quale m’avevano, per l’innanzi, fatto sperare.

Non smettevo però di stimare gli esercizi, ai quali siattende nelle scuole.41 Sapevo che le lingue che vi si im-parano42 sono necessarie per comprendere i libri antichi;che la grazia delle favole43 risveglia l’intelligenza; che leazioni memorabili delle storie la elevano, e che, lettecon discernimento, aiutano a formare il giudizio44; chela lettura di tutti i buoni libri è come una conversazionecon i migliori uomini dei secoli passati, che ne sono sta-ti gli autori, e anzi una conversazione premeditata, incui essi ci fanno conoscere soltanto i loro migliori pen-sieri; che l’eloquenza ha forze e bellezze incomparabili,che la poesia ha squisitezze e dolcezze incantevoli; chele matematiche hanno invenzioni sottilissime, e che pos-

41 Il D. ricorda qui gli argomenti che si portavano per esaltare ilvalore e l’utilità degli studi che si coltivavano nelle scuole deltempo suo, e propriamente nei collegi dei Gesuiti, che colle-gavano le discipline letterarie e storiche, fiorite nel periodoumanistico, alla filosofia e alla scienza della tradizione aristo-telico-scolastica. In certi casi, almeno, si può dubitare se ri-produca tali argomenti con piena esattezza.

42 Il greco e il latino.43 Le favole di cui parla il D. includono principalmente le narra-

zioni. mitologiche e le vere e proprie favole con finalità mora-li; a queste ultime specialmente si riferisce l’affermazione cheservono a risvegliare l’intelligenza.

44 L’opinione ricordata è quella del Montaigne, che apprezzavaaltamente la storia in quanto insegna a giudicare rettamentedegli uomini, delle loro azioni e dei casi della vita.

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sono molto servire tanto a contentare i curiosi quanto afacilitare tutte le arti e diminuire il lavoro degli uomi-ni;45 che gli scritti di morale46 contengono parecchi inse-gnamenti ed esortazioni alla virtù che sono molto utili;che la teologia insegna a guadagnare il cielo;47 che la fi-losofia48 dà modo di parlare con verosimiglianza di ogni

45 Per i motivi ricordati nell’Intr. (pp. IX-X [pag. 11 di questaedizione Manuzio]), nel collegio di La Flèche gli studi mate-matici erano coltivati più nelle loro applicazioni pratiche chenella loro struttura razionale. Si trattava infatti di contribuirealla preparazione di persone che, per la classe sociale cui ap-partenevano, erano destinate a coprire importanti cariche pub-bliche e perciò si insisteva molto su quanto poteva servire nel-la vita e specialmente nella carriera militare.

46 Come risulta da ciò che è detto poco oltre, il D. si riferisce ascritti morali dell’antichità classica. Erano particolarmentestudiate le opere di Seneca.

47 Si può dubitare se i difensori della tradizione scolastica abbia-no affermato che la teologia insegna a guadagnare il cielo. Dalpunto di vista ortodosso, condizione necessaria per ottenerequesto fine è il condurre una vita cristiana illuminata dallafede. Un testo di S. Tommaso (Summa Theologica, pars I, q. 1art. 1, Concl.) parla propriamente della necessità della rivela-zione divina delle verità che occorrono per la salvezza delleanime, ma ciò non significa che essa sia data soltanto ai dottiin teologia.

48 Nei collegi diretti dai Gesuiti, gli studi letterari (di umanità),di sei anni, erano seguiti da un triennio di filosofia, divisi inlogica, fisica e metafisica (il D. vi impiegò un tempo minore:probabilmente otto anni e mezzo). Inoltre si studiava matema-tica nel secondo anno e morale nel terzo. Ad eccezione dellamatematica, quelle discipline si fondavano sugli insegnamenti

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sono molto servire tanto a contentare i curiosi quanto afacilitare tutte le arti e diminuire il lavoro degli uomi-ni;45 che gli scritti di morale46 contengono parecchi inse-gnamenti ed esortazioni alla virtù che sono molto utili;che la teologia insegna a guadagnare il cielo;47 che la fi-losofia48 dà modo di parlare con verosimiglianza di ogni

45 Per i motivi ricordati nell’Intr. (pp. IX-X [pag. 11 di questaedizione Manuzio]), nel collegio di La Flèche gli studi mate-matici erano coltivati più nelle loro applicazioni pratiche chenella loro struttura razionale. Si trattava infatti di contribuirealla preparazione di persone che, per la classe sociale cui ap-partenevano, erano destinate a coprire importanti cariche pub-bliche e perciò si insisteva molto su quanto poteva servire nel-la vita e specialmente nella carriera militare.

46 Come risulta da ciò che è detto poco oltre, il D. si riferisce ascritti morali dell’antichità classica. Erano particolarmentestudiate le opere di Seneca.

47 Si può dubitare se i difensori della tradizione scolastica abbia-no affermato che la teologia insegna a guadagnare il cielo. Dalpunto di vista ortodosso, condizione necessaria per ottenerequesto fine è il condurre una vita cristiana illuminata dallafede. Un testo di S. Tommaso (Summa Theologica, pars I, q. 1art. 1, Concl.) parla propriamente della necessità della rivela-zione divina delle verità che occorrono per la salvezza delleanime, ma ciò non significa che essa sia data soltanto ai dottiin teologia.

48 Nei collegi diretti dai Gesuiti, gli studi letterari (di umanità),di sei anni, erano seguiti da un triennio di filosofia, divisi inlogica, fisica e metafisica (il D. vi impiegò un tempo minore:probabilmente otto anni e mezzo). Inoltre si studiava matema-tica nel secondo anno e morale nel terzo. Ad eccezione dellamatematica, quelle discipline si fondavano sugli insegnamenti

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cosa, e di farsi ammirare dai meno dotti49; che la giuri-sprudenza, la medicina50 e le altre scienze procuranoonori e ricchezze a quelli che le coltivano51; e infine, cheè bene averle esaminate tutte, anche le più superstiziosee le più false, per conoscere il loro giusto valore e stareattenti a non esserne ingannati52.

Ma credevo d’aver già dato abbastanza tempo allelingue, e così anche alla lettura dei libri antichi, e alle

di Aristotele, interpretato da S. Tommaso.49 Al pari di Bacone (v. Intr., pp. XXI-XXII [pagg. 29-30 di que-

sta edizione Manuzio]), il D. riteneva che la filosofia tradizio-nale aristotelico-scolastica avesse carattere essenzialmentedialettico, e perciò insegnasse soltanto a discutere in modotale da rendere verisimili le proprie opinioni, non a conquista-re verità sicure. Effettivamente nelle scuole dei Gesuiti aveva-no largo posto le discussioni, che dovevano servire sia a sag-giare il valore delle opinioni che a eccitare e a sviluppare leintelligenze.

50 Probabilmente, il D. si occupò di medicina a Poitiers, mentrevi studiava giurisprudenza.

51 Il Gilson ricorda un proverbio del tempo: Dat Galenus opes,dat Justinianus honores. Ma è difficile ammettere che coloroche cercavano di porre in luce il valore degli studi tradizionali(e sinora il D. ha riprodotto le loro opinioni) si limitassero arivolgere quelle lodi alla medicina e alla giurisprudenza.

52 Dopo avere ricordato gli argomenti che servivano a giustifica-re gli insegnamenti tradizionali, il D. espone i motivi che lohanno indotto a trovarli non convincenti. Queste critiche noncolpiscono soltanto i difensori della tradizione scolastica edumanistica, ma anche (come appare da ciò che è detto dellastoria) pensatori che, come il Montaigne, avevano attaccatofortemente ambedue.

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cosa, e di farsi ammirare dai meno dotti49; che la giuri-sprudenza, la medicina50 e le altre scienze procuranoonori e ricchezze a quelli che le coltivano51; e infine, cheè bene averle esaminate tutte, anche le più superstiziosee le più false, per conoscere il loro giusto valore e stareattenti a non esserne ingannati52.

Ma credevo d’aver già dato abbastanza tempo allelingue, e così anche alla lettura dei libri antichi, e alle

di Aristotele, interpretato da S. Tommaso.49 Al pari di Bacone (v. Intr., pp. XXI-XXII [pagg. 29-30 di que-

sta edizione Manuzio]), il D. riteneva che la filosofia tradizio-nale aristotelico-scolastica avesse carattere essenzialmentedialettico, e perciò insegnasse soltanto a discutere in modotale da rendere verisimili le proprie opinioni, non a conquista-re verità sicure. Effettivamente nelle scuole dei Gesuiti aveva-no largo posto le discussioni, che dovevano servire sia a sag-giare il valore delle opinioni che a eccitare e a sviluppare leintelligenze.

50 Probabilmente, il D. si occupò di medicina a Poitiers, mentrevi studiava giurisprudenza.

51 Il Gilson ricorda un proverbio del tempo: Dat Galenus opes,dat Justinianus honores. Ma è difficile ammettere che coloroche cercavano di porre in luce il valore degli studi tradizionali(e sinora il D. ha riprodotto le loro opinioni) si limitassero arivolgere quelle lodi alla medicina e alla giurisprudenza.

52 Dopo avere ricordato gli argomenti che servivano a giustifica-re gli insegnamenti tradizionali, il D. espone i motivi che lohanno indotto a trovarli non convincenti. Queste critiche noncolpiscono soltanto i difensori della tradizione scolastica edumanistica, ma anche (come appare da ciò che è detto dellastoria) pensatori che, come il Montaigne, avevano attaccatofortemente ambedue.

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loro storie, e alle loro favole. Poichè conversare con gliuomini degli altri secoli è quasi la stessa cosa che viag-giare. È bene saper qualche cosa dei costumi dei diversipopoli, per giudicare dei nostri più sanamente e nonpensare che tutto quello che è contro le nostre mode siaridicolo e contro ragione, come hanno abitudine di farequelli che non hanno visto niente. Ma quando s’impiegatroppo tempo a viaggiare, si diventa alla fine stranierinel proprio paese: e quando si è troppo curiosi dellecose che si facevano nei secoli passati, si resta di solitomolto ignoranti di quelle che si fanno in questo53. Oltrea ciò, le favole fanno immaginare come possibili parec-chi avvenimenti che non lo sono;54 e anche le storie piùfedeli, se non cambiano nè aumentano il valore dellecose per renderle più degne d’esser lette, almeno neomettono quasi sempre le più basse e meno illustri cir-costanze: da ciò deriva che il resto non sembra qual è, eche coloro i quali regolano i loro costumi secondo gliesempi che ne cavano, sono soggetti a cadere nelle stra-vaganze dei Paladini dei nostri romanzi e a concepiredisegni che superano le loro forze55.

53 Così si criticano piuttosto gli abusi di certi studi che il lorovero ufficio.

54 Anche quando sono lette con discernimento e riflessione?Quanto alle narrazioni della mitologia, non possono evidente-mente illudere alcuno.

55 Il D. non affronta direttamente la tesi del Montaigne (ricordatasopra) che la storia, in quanto insegna a giudicare degli uomi-ni e dei casi della vita, allarga l’esperienza e acuisce la valuta-

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loro storie, e alle loro favole. Poichè conversare con gliuomini degli altri secoli è quasi la stessa cosa che viag-giare. È bene saper qualche cosa dei costumi dei diversipopoli, per giudicare dei nostri più sanamente e nonpensare che tutto quello che è contro le nostre mode siaridicolo e contro ragione, come hanno abitudine di farequelli che non hanno visto niente. Ma quando s’impiegatroppo tempo a viaggiare, si diventa alla fine stranierinel proprio paese: e quando si è troppo curiosi dellecose che si facevano nei secoli passati, si resta di solitomolto ignoranti di quelle che si fanno in questo53. Oltrea ciò, le favole fanno immaginare come possibili parec-chi avvenimenti che non lo sono;54 e anche le storie piùfedeli, se non cambiano nè aumentano il valore dellecose per renderle più degne d’esser lette, almeno neomettono quasi sempre le più basse e meno illustri cir-costanze: da ciò deriva che il resto non sembra qual è, eche coloro i quali regolano i loro costumi secondo gliesempi che ne cavano, sono soggetti a cadere nelle stra-vaganze dei Paladini dei nostri romanzi e a concepiredisegni che superano le loro forze55.

53 Così si criticano piuttosto gli abusi di certi studi che il lorovero ufficio.

54 Anche quando sono lette con discernimento e riflessione?Quanto alle narrazioni della mitologia, non possono evidente-mente illudere alcuno.

55 Il D. non affronta direttamente la tesi del Montaigne (ricordatasopra) che la storia, in quanto insegna a giudicare degli uomi-ni e dei casi della vita, allarga l’esperienza e acuisce la valuta-

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Pregiavo molto l’eloquenza ed ero innamorato dellapoesia; ma ritenevo che l’una e l’altra fossero doni dellospirito piuttosto che frutti dello studio.56 Coloro che ra-gionano meglio e che ordinano più facilmente i loropensieri, per renderli chiari e intelligibili, possono sem-pre meglio persuadere di quel che propongono, anche senon parlano che il basso bretone57 e non hanno mai im-parato retorica. E quelli che hanno le trovate più piace-voli e sanno esprimerle nel modo più adorno e più dol-ce, non cesserebbero di essere i migliori poeti, anche sel’arte Poetica fosse loro sconosciuta.

Mi dilettavo soprattutto delle matematiche, per la cer-tezza e l’evidenza delle loro ragioni; ma non rilevavoancora il loro vero uso; e pensando che non servissero

zione morale; invece, egli confuta la opinione tradizionale hi-storia magistra vitae, che intende nel senso più letterale. Nonsi preoccupa affatto della convinzione del Machiavelli (cheaveva trovato numerosi seguaci) che la storia deve costituire ilfondamento della politica e non pensa al valore di quella sto-ria delle lettere e delle arti che F. Bacone, precorrendo i tempi,intendeva come una vera e propria storia della cultura e chia-mava l’onore e l’anima di tutta la storia civile. Anche se si ri-tiene che nel Discorso il D. riproduca le riflessioni della suagiovinezza, si può trovare strano che non aggiunga ad essequalche nuova osservazione.

56 Alla precettistica dei trattati e delle arti poetiche il D. contrap-pone l’ispirazione spontanea e così ritorna alla convinzionedei più antichi poeti greci (Omero, Esiodo), di Pindaro, di De-mocrito e di Platone che per mezzo del poeta parla la Musa.

57 Esempio di dialetto barbarico.

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Pregiavo molto l’eloquenza ed ero innamorato dellapoesia; ma ritenevo che l’una e l’altra fossero doni dellospirito piuttosto che frutti dello studio.56 Coloro che ra-gionano meglio e che ordinano più facilmente i loropensieri, per renderli chiari e intelligibili, possono sem-pre meglio persuadere di quel che propongono, anche senon parlano che il basso bretone57 e non hanno mai im-parato retorica. E quelli che hanno le trovate più piace-voli e sanno esprimerle nel modo più adorno e più dol-ce, non cesserebbero di essere i migliori poeti, anche sel’arte Poetica fosse loro sconosciuta.

Mi dilettavo soprattutto delle matematiche, per la cer-tezza e l’evidenza delle loro ragioni; ma non rilevavoancora il loro vero uso; e pensando che non servissero

zione morale; invece, egli confuta la opinione tradizionale hi-storia magistra vitae, che intende nel senso più letterale. Nonsi preoccupa affatto della convinzione del Machiavelli (cheaveva trovato numerosi seguaci) che la storia deve costituire ilfondamento della politica e non pensa al valore di quella sto-ria delle lettere e delle arti che F. Bacone, precorrendo i tempi,intendeva come una vera e propria storia della cultura e chia-mava l’onore e l’anima di tutta la storia civile. Anche se si ri-tiene che nel Discorso il D. riproduca le riflessioni della suagiovinezza, si può trovare strano che non aggiunga ad essequalche nuova osservazione.

56 Alla precettistica dei trattati e delle arti poetiche il D. contrap-pone l’ispirazione spontanea e così ritorna alla convinzionedei più antichi poeti greci (Omero, Esiodo), di Pindaro, di De-mocrito e di Platone che per mezzo del poeta parla la Musa.

57 Esempio di dialetto barbarico.

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che alle arti meccaniche, mi meravigliavo che, essendole loro basi così ferme e solide, non vi si fosse costruitosopra niente di più importante58. Al contrario, invece,paragonavo gli scritti degli antichi pagani, che s’occupa-no di morale, a palazzi molto superbi e fastosi costruitisoltanto su sabbia e su fango. Essi innalzano molto inalto le virtù, e le fanno sembrare stimabili al di sopra ditutte le cose che sono al mondo; ma non insegnano ab-bastanza a conoscerle, e spesso quel che essi chiamanocon un nome così bello non è che insensibilità, o orgo-glio, o disperazione, o parricidio.59

Provavo reverenza per la nostra teologia e aspiravo,

58 Quale sia il vero uso delle matematiche di cui parla il testonon è chiaro; probabilmente il D. si riferisce alle possibilità ditrarre da quelle scienze i criteri di un metodo universale, vali-do per ogni forma di conoscenza. Secondo il Cantecor, si trat-terebbe dell’applicazione di quelle scienze all’interpretazionedei fenomeni del mondo fisico.

59 È chiara l’allusione alle dottrine etiche dello Stoicismo, chenel secolo 16o e in quello seguente trovarono larga diffusionein Francia, specialmente per opera di coloro che si sforzaronodi conciliarle col Cristianesimo; ne subì fortemente l’influssoanche il D., che qui le critica. L’insensibilità di cui egli parla èl’apatia, la mancanza di passioni, in cui gli Stoici riponevanola virtù. Parlando dell’orgoglio egli accenna alla loro afferma-zione, che il saggio è uguale agli Dei; parlando della dispera-zione, accenna alla loro giustificazione del suicidio; parlandodel parricidio, probabilmente allude all’assassinio di Cesarecompiuto dal figlio Bruto che era uno stoico. Queste critichenon colpiscono però l’etica studiata a La Flèche secondo gliinsegnamenti di Aristotele.

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che alle arti meccaniche, mi meravigliavo che, essendole loro basi così ferme e solide, non vi si fosse costruitosopra niente di più importante58. Al contrario, invece,paragonavo gli scritti degli antichi pagani, che s’occupa-no di morale, a palazzi molto superbi e fastosi costruitisoltanto su sabbia e su fango. Essi innalzano molto inalto le virtù, e le fanno sembrare stimabili al di sopra ditutte le cose che sono al mondo; ma non insegnano ab-bastanza a conoscerle, e spesso quel che essi chiamanocon un nome così bello non è che insensibilità, o orgo-glio, o disperazione, o parricidio.59

Provavo reverenza per la nostra teologia e aspiravo,

58 Quale sia il vero uso delle matematiche di cui parla il testonon è chiaro; probabilmente il D. si riferisce alle possibilità ditrarre da quelle scienze i criteri di un metodo universale, vali-do per ogni forma di conoscenza. Secondo il Cantecor, si trat-terebbe dell’applicazione di quelle scienze all’interpretazionedei fenomeni del mondo fisico.

59 È chiara l’allusione alle dottrine etiche dello Stoicismo, chenel secolo 16o e in quello seguente trovarono larga diffusionein Francia, specialmente per opera di coloro che si sforzaronodi conciliarle col Cristianesimo; ne subì fortemente l’influssoanche il D., che qui le critica. L’insensibilità di cui egli parla èl’apatia, la mancanza di passioni, in cui gli Stoici riponevanola virtù. Parlando dell’orgoglio egli accenna alla loro afferma-zione, che il saggio è uguale agli Dei; parlando della dispera-zione, accenna alla loro giustificazione del suicidio; parlandodel parricidio, probabilmente allude all’assassinio di Cesarecompiuto dal figlio Bruto che era uno stoico. Queste critichenon colpiscono però l’etica studiata a La Flèche secondo gliinsegnamenti di Aristotele.

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quanto ogni altro, a guadagnare il cielo; ma, avendo ap-preso, come cosa sicurissima, che la via non ne è menoaperta ai più ignoranti che ai più dotti,60 e che le veritàrivelate che vi conducono sono al disopra della nostraintelligenza, non avrei osato sottometterle alla debolez-za dei miei ragionamenti, e pensavo che per mettersi aesaminarle e per riuscirvi, bisognasse avere qualchestraordinaria assistenza del cielo ed essere più cheuomo.61

Non dirò nulla della filosofia, se non che, vedendoche è stata coltivata dagli ingegni più eccellenti che sia-no vissuti da molti secoli, e che tuttavia non vi si trovaancora cosa di cui non si disputi e che, per conseguenza,non sia dubbia, non avevo tanta presunzione da speraredi riuscirvi meglio degli altri; e che, considerando quan-te opinioni diverse possono esservi su uno stesso argo-mento, sostenute da persone dotte, senza che ve ne pos-sa esser mai più d’una sola che sia vera, reputavo quasicome falso tutto ciò che era soltanto verisimile.62

60 Si accorda questa affermazione con un’altra precedente? vedinota 5 della p. 10 [nota 47 a pag. 91 di questa edizione Manu-zio]. In ogni modo, è chiaro che così il D. esprime la sua ten-denza a ridurre, sinchè può, la religione alla fede, svalutandoin tal modo la scienza teologica della tradizione scolastica.

61 Secondo i criterî della ortodossia cattolica, le verità della fedesuperiori alla ragione umana, sono rivelate in modo sopranna-turale; ma non occorre una straordinaria assistenza celeste peresaminarle. La critica che il D. rivolge alla teologia scolasticanon appare ben fondata.

62 Ciò che si presta a discussione non si impone alla mente come

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quanto ogni altro, a guadagnare il cielo; ma, avendo ap-preso, come cosa sicurissima, che la via non ne è menoaperta ai più ignoranti che ai più dotti,60 e che le veritàrivelate che vi conducono sono al disopra della nostraintelligenza, non avrei osato sottometterle alla debolez-za dei miei ragionamenti, e pensavo che per mettersi aesaminarle e per riuscirvi, bisognasse avere qualchestraordinaria assistenza del cielo ed essere più cheuomo.61

Non dirò nulla della filosofia, se non che, vedendoche è stata coltivata dagli ingegni più eccellenti che sia-no vissuti da molti secoli, e che tuttavia non vi si trovaancora cosa di cui non si disputi e che, per conseguenza,non sia dubbia, non avevo tanta presunzione da speraredi riuscirvi meglio degli altri; e che, considerando quan-te opinioni diverse possono esservi su uno stesso argo-mento, sostenute da persone dotte, senza che ve ne pos-sa esser mai più d’una sola che sia vera, reputavo quasicome falso tutto ciò che era soltanto verisimile.62

60 Si accorda questa affermazione con un’altra precedente? vedinota 5 della p. 10 [nota 47 a pag. 91 di questa edizione Manu-zio]. In ogni modo, è chiaro che così il D. esprime la sua ten-denza a ridurre, sinchè può, la religione alla fede, svalutandoin tal modo la scienza teologica della tradizione scolastica.

61 Secondo i criterî della ortodossia cattolica, le verità della fedesuperiori alla ragione umana, sono rivelate in modo sopranna-turale; ma non occorre una straordinaria assistenza celeste peresaminarle. La critica che il D. rivolge alla teologia scolasticanon appare ben fondata.

62 Ciò che si presta a discussione non si impone alla mente come

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Riguardo alle altre scienze poi, siccome esse prendo-no a prestito i loro principî dalla filosofia, giudicavo chenon poteva esservi costruito nulla di solido su basi cosìpoco ferme. E nè l’onore, nè il guadagno ch’esse pro-mettono, erano sufficienti a indurmi ad apprenderle;63

poichè non ero, grazie a Dio, in una condizione chem’obbligasse a fare della scienza un mestiere per solle-vare la mia fortuna; e sebbene non facessi professione didisprezzare la gloria al pari dei cinici64, facevo tuttavia

verità sicura e necessaria e perciò ha soltanto carattere di ve-rosimiglianza e di possibilità. Ma il verosimile può non esserevero, ossia, può essere falso; perciò il D., per non accettarefalsità, respingeva ogni affermazione puramente probabile,pur non dichiarandola falsa. In tal modo negava fede alla filo-sofia scolastica, che, sebbene limitasse il probabile alla sferadella fisica (nella quale, secondo le dottrine aristoteliche, re-gna la contingenza, cioè la possibilità che una cosa avvenga onon avvenga, perchè nei suoi studi deve riferirsi alla materia,che equivale alla possibilità), effettivamente aveva fatto og-getto di discussione quasi ogni argomento di cui trattava. An-che la teologia offriva lo stesso spettacolo; ma il D. si guardadal rivolgere ad essa la critica di cui fa oggetto la filosofia tra-dizionale.

63 Le scienze in questione debbono essere la giurisprudenza e lamedicina, perchè l’onore e il guadagno di cui parla sono pre-cedentemente ricordati a proposito di esse. La critica che il D.rivolge a quelle discipline si vale della convinzione che esse sìfondassero sulla filosofia. Questa critica però può appariretroppo generica e poco stringente, specialmente rispetto allagiurisprudenza, che del resto il D. studiò ed apprese.

64 Il Cinismo insegnava a disprezzare tutte le cose che appaiono

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Riguardo alle altre scienze poi, siccome esse prendo-no a prestito i loro principî dalla filosofia, giudicavo chenon poteva esservi costruito nulla di solido su basi cosìpoco ferme. E nè l’onore, nè il guadagno ch’esse pro-mettono, erano sufficienti a indurmi ad apprenderle;63

poichè non ero, grazie a Dio, in una condizione chem’obbligasse a fare della scienza un mestiere per solle-vare la mia fortuna; e sebbene non facessi professione didisprezzare la gloria al pari dei cinici64, facevo tuttavia

verità sicura e necessaria e perciò ha soltanto carattere di ve-rosimiglianza e di possibilità. Ma il verosimile può non esserevero, ossia, può essere falso; perciò il D., per non accettarefalsità, respingeva ogni affermazione puramente probabile,pur non dichiarandola falsa. In tal modo negava fede alla filo-sofia scolastica, che, sebbene limitasse il probabile alla sferadella fisica (nella quale, secondo le dottrine aristoteliche, re-gna la contingenza, cioè la possibilità che una cosa avvenga onon avvenga, perchè nei suoi studi deve riferirsi alla materia,che equivale alla possibilità), effettivamente aveva fatto og-getto di discussione quasi ogni argomento di cui trattava. An-che la teologia offriva lo stesso spettacolo; ma il D. si guardadal rivolgere ad essa la critica di cui fa oggetto la filosofia tra-dizionale.

63 Le scienze in questione debbono essere la giurisprudenza e lamedicina, perchè l’onore e il guadagno di cui parla sono pre-cedentemente ricordati a proposito di esse. La critica che il D.rivolge a quelle discipline si vale della convinzione che esse sìfondassero sulla filosofia. Questa critica però può appariretroppo generica e poco stringente, specialmente rispetto allagiurisprudenza, che del resto il D. studiò ed apprese.

64 Il Cinismo insegnava a disprezzare tutte le cose che appaiono

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molto poco conto di quella che non speravo di poter ac-quistare se non con falsi titoli. E infine, riguardo allecattive dottrine,65 credevo di già conoscere abbastanzaquel ch’esse valevano per non essere più soggetto ad es-sere ingannato nè dalle promesse d’un alchimista66, nèdalle predizioni d’un astrologo, nè dalle imposture d’unmago, nè da gli artifizi o dalla vanteria di qualcuno diquelli che fanno professione di sapere più che non san-no.67

Per questo, appena l’età mi permise d’uscire dallasoggezione dei miei precettori,68 abbandonai interamen-te lo studio delle lettere;69 e risolvendomi a non cercare

pregevoli all’opinione comune, inclusa la gloria, e a pregiaresoltanto la virtù.

65 Le scienze occulte: alchimia, astrologia, magia. Le chiamamalvagie, perchè le ritiene, se non altro, non fondate sulla co-noscenza del vero e quindi infette d’inganno. L’opinione co-mune le collegava con l’azione degli spiriti malvagi.

66 Gli alchimisti promettevano principalmente di guarire tutte lemalattie e di trasformare, con la pietra filosofale, gli altri me-talli in oro.

67 I cultori della magia affermavano di potere produrre spettri, il-lusioni e altri effetti meravigliosi. Il D. denominava scienzadei miracoli un ramo delle matematiche, per mostrare che essopuò generare le stesse illusioni che, secondo l’opinione comu-ne, i maghi facevano apparire con l’aiuto dei demoni.

68 Rispetto all’esattezza di queste affermazioni, cfr. Intr., p. XIV[pag. 18 di questa edizione Manuzio].

69 Delle discipline insegnate tradizionalmente nelle scuole, costi-tuite soprattutto da studi letterari. Però il D. continuò a occu-parsi in questo periodo delle applicazioni della matematica

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molto poco conto di quella che non speravo di poter ac-quistare se non con falsi titoli. E infine, riguardo allecattive dottrine,65 credevo di già conoscere abbastanzaquel ch’esse valevano per non essere più soggetto ad es-sere ingannato nè dalle promesse d’un alchimista66, nèdalle predizioni d’un astrologo, nè dalle imposture d’unmago, nè da gli artifizi o dalla vanteria di qualcuno diquelli che fanno professione di sapere più che non san-no.67

Per questo, appena l’età mi permise d’uscire dallasoggezione dei miei precettori,68 abbandonai interamen-te lo studio delle lettere;69 e risolvendomi a non cercare

pregevoli all’opinione comune, inclusa la gloria, e a pregiaresoltanto la virtù.

65 Le scienze occulte: alchimia, astrologia, magia. Le chiamamalvagie, perchè le ritiene, se non altro, non fondate sulla co-noscenza del vero e quindi infette d’inganno. L’opinione co-mune le collegava con l’azione degli spiriti malvagi.

66 Gli alchimisti promettevano principalmente di guarire tutte lemalattie e di trasformare, con la pietra filosofale, gli altri me-talli in oro.

67 I cultori della magia affermavano di potere produrre spettri, il-lusioni e altri effetti meravigliosi. Il D. denominava scienzadei miracoli un ramo delle matematiche, per mostrare che essopuò generare le stesse illusioni che, secondo l’opinione comu-ne, i maghi facevano apparire con l’aiuto dei demoni.

68 Rispetto all’esattezza di queste affermazioni, cfr. Intr., p. XIV[pag. 18 di questa edizione Manuzio].

69 Delle discipline insegnate tradizionalmente nelle scuole, costi-tuite soprattutto da studi letterari. Però il D. continuò a occu-parsi in questo periodo delle applicazioni della matematica

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più altra scienza oltre quella che si potesse trovare in mestesso, o anche nel gran libro del mondo,70 impiegai ilresto della mia giovinezza71 a viaggiare, a veder corti edeserciti, a frequentar persone di diverse indoli e condi-zioni,72 a raccogliere diverse esperienze,73 a mettere aprova me stesso nelle occasioni che la fortuna mi mette-va innanzi, e, ovunque, a fare tali riflessioni su le coseche si presentavano, da poterne ricavare qualche profit-to. Perchè mi sembrava che avrei potuto trovare mag-giore verità nei ragionamenti che ciascuno fa sugli affariche gli importano – il cui esito deve punirlo subitodopo, se ha male giudicato – che nei ragionamenti chefa un uomo di lettere nel suo studio, su speculazioni chenon producono nessun effetto,74 e che hanno per lui for-se la sola conseguenza di renderlo tanto più vano quantopiù esse saranno lontane dal senso comune, perchè egliavrà dovuto impiegare tanto maggiore ingegno e artifi-cio a cercare di renderle verisimili. E io avevo sempreun estremo desiderio d’imparare a distinguere il vero dalfalso, per veder chiaro nelle mie azioni, e camminare

che potevano essere utili alla sua carriera militare.70 Il mondo umano, cioè la vita sociale.71 1616-1619.72 V. Intr., p. X [pag. 11 di questa edizione Manuzio].73 Su sè stesso e sugli altri uomini.74 L’uomo di lettere è lo studioso puro, che può commettere er-

rori senza soffrire alcun danno. Invece gli sbagli di giudiziocommessi nella vita conducono ad azioni destinate all’insuc-cesso e così sono subito puniti dalla vita stessa.

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più altra scienza oltre quella che si potesse trovare in mestesso, o anche nel gran libro del mondo,70 impiegai ilresto della mia giovinezza71 a viaggiare, a veder corti edeserciti, a frequentar persone di diverse indoli e condi-zioni,72 a raccogliere diverse esperienze,73 a mettere aprova me stesso nelle occasioni che la fortuna mi mette-va innanzi, e, ovunque, a fare tali riflessioni su le coseche si presentavano, da poterne ricavare qualche profit-to. Perchè mi sembrava che avrei potuto trovare mag-giore verità nei ragionamenti che ciascuno fa sugli affariche gli importano – il cui esito deve punirlo subitodopo, se ha male giudicato – che nei ragionamenti chefa un uomo di lettere nel suo studio, su speculazioni chenon producono nessun effetto,74 e che hanno per lui for-se la sola conseguenza di renderlo tanto più vano quantopiù esse saranno lontane dal senso comune, perchè egliavrà dovuto impiegare tanto maggiore ingegno e artifi-cio a cercare di renderle verisimili. E io avevo sempreun estremo desiderio d’imparare a distinguere il vero dalfalso, per veder chiaro nelle mie azioni, e camminare

che potevano essere utili alla sua carriera militare.70 Il mondo umano, cioè la vita sociale.71 1616-1619.72 V. Intr., p. X [pag. 11 di questa edizione Manuzio].73 Su sè stesso e sugli altri uomini.74 L’uomo di lettere è lo studioso puro, che può commettere er-

rori senza soffrire alcun danno. Invece gli sbagli di giudiziocommessi nella vita conducono ad azioni destinate all’insuc-cesso e così sono subito puniti dalla vita stessa.

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con sicurezza in questa vita.75

È vero che, mentre mi occupavo soltanto di conside-rare i costumi degli altri uomini, non vi trovavo nulla dicui esser certo, e vi notavo quasi tanta diversità quantane avevo osservata per l’innanzi tra le opinioni dei filo-sofi. Di modo che il più grande profitto che ne ritraevo

75 Questa autobiografìa intellettuale del D. produce l’impressio-ne, in chi la considera nell’insieme e in molti particolari, cheegli sia rimasto insoddisfatto degli studi compiuti (nel colle-gio di La Flèche, e anche a Poitiers) per motivi essenzialmen-te pratici, cioè perchè non gli apparivano utili per la vita prati-ca, come aveva sperato quando li aveva intrapresi. (Il fattoche, uscito da La Flèche. continuò a coltivare le matematicheper gli scopi della sua carriera militare mostra che in queltempo egli intendeva l’utilità del sapere in senso strettamentepratico, sicchè le affermazioni del Discorso debbono interpre-tarsi in tal modo per il tempo al quale si riferiscono). Per quel-la ragione più che per altro egli (che mostra di non apprezzaremolto il valore culturale delle discipline storico-letterarie), cri-tica il carattere prevalentemente umanistico dell’insegnamen-to di La Flèche; e, si può aggiungere, si vale, per condannarecerti studi, di argomenti non molto convincenti. Questo moti-vo pratico appare anche quando afferma che volle conoscereda vicino il mondo degli uomini e che era animato da un for-tissimo desiderio di procedere in modo sicuro nella vita.D’altra parte le critiche che egli rivolge alla giurisprudenza ealla medicina, discipline rivolte a scopi essenzialmente pratici,sono tanto generiche e astratte da far ritenere che con esse vo-lesse giustificare la mancanza di interesse che provava perquelli studi. Quanto alle scienze matematiche, che nel collegiodi La Flèche erano studiate soprattutto nelle loro applicazionitecnico-pratiche, non si comprende perchè il D., così deside-

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con sicurezza in questa vita.75

È vero che, mentre mi occupavo soltanto di conside-rare i costumi degli altri uomini, non vi trovavo nulla dicui esser certo, e vi notavo quasi tanta diversità quantane avevo osservata per l’innanzi tra le opinioni dei filo-sofi. Di modo che il più grande profitto che ne ritraevo

75 Questa autobiografìa intellettuale del D. produce l’impressio-ne, in chi la considera nell’insieme e in molti particolari, cheegli sia rimasto insoddisfatto degli studi compiuti (nel colle-gio di La Flèche, e anche a Poitiers) per motivi essenzialmen-te pratici, cioè perchè non gli apparivano utili per la vita prati-ca, come aveva sperato quando li aveva intrapresi. (Il fattoche, uscito da La Flèche. continuò a coltivare le matematicheper gli scopi della sua carriera militare mostra che in queltempo egli intendeva l’utilità del sapere in senso strettamentepratico, sicchè le affermazioni del Discorso debbono interpre-tarsi in tal modo per il tempo al quale si riferiscono). Per quel-la ragione più che per altro egli (che mostra di non apprezzaremolto il valore culturale delle discipline storico-letterarie), cri-tica il carattere prevalentemente umanistico dell’insegnamen-to di La Flèche; e, si può aggiungere, si vale, per condannarecerti studi, di argomenti non molto convincenti. Questo moti-vo pratico appare anche quando afferma che volle conoscereda vicino il mondo degli uomini e che era animato da un for-tissimo desiderio di procedere in modo sicuro nella vita.D’altra parte le critiche che egli rivolge alla giurisprudenza ealla medicina, discipline rivolte a scopi essenzialmente pratici,sono tanto generiche e astratte da far ritenere che con esse vo-lesse giustificare la mancanza di interesse che provava perquelli studi. Quanto alle scienze matematiche, che nel collegiodi La Flèche erano studiate soprattutto nelle loro applicazionitecnico-pratiche, non si comprende perchè il D., così deside-

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era che, vedendo parecchie cose le quali, benchè ci sem-brino molto stravaganti e ridicole, sono però comune-mente accettate e approvate da altri grandi popoli, impa-ravo a non credere troppo fermamente, in tutto ciò di cuimi ero persuaso soltanto per mezzo dello esempio e del

roso di un sapere utile alla vita, si stupisse della sproporzioneche esisteva fra la solidità dei loro fondamenti e lo scarso svi-luppo delle costruzioni che su questi erano state edificate. Delresto, anche uscito da La Flèche, continuò a coltivarle per gliscopi della sua carriera militare. Motivi non pratici, ma teore-tici di insoddisfazione e di critica appaiono invece sia nella di-chiarazione del D. che egli aspirava a una conoscenza chiarae certa di tutto ciò che è utile alla vita (perchè per quanto ilGilson si sforzi di intendere questi aggettivi nel senso abitualedelle parole, fanno invincibilmente pensare alla concezionecartesiana della vera e propria scienza), sia nel ricordo deglierrori e dei dubbi in cui si trovò involto dopo compiuto il suocorso di studi, sia, e soprattutto, nelle critiche che egli rivolgealla filosofia scolastica, che gli appariva incapace di superarela cerchia della verisimiglianza. Chi, come Bacone, vedevanel sapere uno strumento di azione, criticava la filosofia e lascienza tradizionale soprattutto per la loro sterilità pratica (cfr.Intr., p. XXI [pag. 29 in questa edizione Manuzio]). Questamancanza di coerenza nella narrazione del D. fa ritenere che ilvero motivo della sua insoddisfazione fosse pratico; gli studicompiuti non gli apparivano utili per la vita, in generale, e, inparticolare, per una carriera che potesse interessarlo e attirar-lo. I motivi teoretici di critica debbono avere agito sulla mentedel D. in un periodo posteriore a quello di cui parla, sicchè, ri-ferendoli a questo, ha proiettato nel passato ciò che appartene-va al presente. Così si rafforzano le conclusioni del Cantecor

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era che, vedendo parecchie cose le quali, benchè ci sem-brino molto stravaganti e ridicole, sono però comune-mente accettate e approvate da altri grandi popoli, impa-ravo a non credere troppo fermamente, in tutto ciò di cuimi ero persuaso soltanto per mezzo dello esempio e del

roso di un sapere utile alla vita, si stupisse della sproporzioneche esisteva fra la solidità dei loro fondamenti e lo scarso svi-luppo delle costruzioni che su questi erano state edificate. Delresto, anche uscito da La Flèche, continuò a coltivarle per gliscopi della sua carriera militare. Motivi non pratici, ma teore-tici di insoddisfazione e di critica appaiono invece sia nella di-chiarazione del D. che egli aspirava a una conoscenza chiarae certa di tutto ciò che è utile alla vita (perchè per quanto ilGilson si sforzi di intendere questi aggettivi nel senso abitualedelle parole, fanno invincibilmente pensare alla concezionecartesiana della vera e propria scienza), sia nel ricordo deglierrori e dei dubbi in cui si trovò involto dopo compiuto il suocorso di studi, sia, e soprattutto, nelle critiche che egli rivolgealla filosofia scolastica, che gli appariva incapace di superarela cerchia della verisimiglianza. Chi, come Bacone, vedevanel sapere uno strumento di azione, criticava la filosofia e lascienza tradizionale soprattutto per la loro sterilità pratica (cfr.Intr., p. XXI [pag. 29 in questa edizione Manuzio]). Questamancanza di coerenza nella narrazione del D. fa ritenere che ilvero motivo della sua insoddisfazione fosse pratico; gli studicompiuti non gli apparivano utili per la vita, in generale, e, inparticolare, per una carriera che potesse interessarlo e attirar-lo. I motivi teoretici di critica debbono avere agito sulla mentedel D. in un periodo posteriore a quello di cui parla, sicchè, ri-ferendoli a questo, ha proiettato nel passato ciò che appartene-va al presente. Così si rafforzano le conclusioni del Cantecor

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costume,76 e così mi liberavo a poco a poco da molti er-rori che possono offuscare la nostra luce naturale e ren-derci meno capaci di ascoltare la voce della ragione. Madopo ch’ebbi impiegato alcuni anni a studiare così nellibro del mondo e a cercar d’acquistare qualche espe-rienza, presi un giorno77 la risoluzione di studiare anchein me stesso, e d’impiegare tutte le forze della mia intel-

(cfr. Intr., pp. XIV-XV [pagg. 18-20 in questa edizione Manu-zio]). L’affermazione del D., che intraprese i suoi viaggi perconoscere la vita e per imparare a condursi in essa in modo si-curo, non sembra si possa accettare senza riserve: infatti eglinon si pose a viaggiare per quel motivo, ma perchè ciò era ri-chiesto dalla carriera militare che aveva scelto, avendola rite-nuta più delle altre conforme alle sue tendenze (v. Intr., ivi). Ildesiderio di allargare la sfera delle proprie esperienze puòavere agito sulla scelta di quella professione in modo soltantosubordinato, almeno da principio; in seguito, però, può avereacquistato importanza, anche perchè il contrasto sperimentatodal D. fra i costumi degli uomini nei diversi paesi facilmentedeve averlo spinto a fare le riflessioni di cui ora parlerà.

76 Cioè, senza giustificazione razionale.77 Secondo il Discours, nel periodo che precede il giorno di cui

qui si parla (novembre 1619) il D. avrebbe completamente ab-bandonato gli studi; ma ciò è in contrasto coi fatti, perchè inquelli anni si occupò da prima di studi matematici di caratteretecnico e poi, per gli eccitamenti del Beeckmann, di ricerchematematiche (geometriche e fisico-matematiche) puramenteteoretiche: cfr. Intr., p. XIV [pag. 18 in questa edizione Manu-zio]. Nell’aprile 1619, scrivendo al Beeckmann, gli comunica-va la sua intenzione di elaborare una meccanica e una geome-tria quando avesse potuto fissare in qualche luogo la sua resi-denza.

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costume,76 e così mi liberavo a poco a poco da molti er-rori che possono offuscare la nostra luce naturale e ren-derci meno capaci di ascoltare la voce della ragione. Madopo ch’ebbi impiegato alcuni anni a studiare così nellibro del mondo e a cercar d’acquistare qualche espe-rienza, presi un giorno77 la risoluzione di studiare anchein me stesso, e d’impiegare tutte le forze della mia intel-

(cfr. Intr., pp. XIV-XV [pagg. 18-20 in questa edizione Manu-zio]). L’affermazione del D., che intraprese i suoi viaggi perconoscere la vita e per imparare a condursi in essa in modo si-curo, non sembra si possa accettare senza riserve: infatti eglinon si pose a viaggiare per quel motivo, ma perchè ciò era ri-chiesto dalla carriera militare che aveva scelto, avendola rite-nuta più delle altre conforme alle sue tendenze (v. Intr., ivi). Ildesiderio di allargare la sfera delle proprie esperienze puòavere agito sulla scelta di quella professione in modo soltantosubordinato, almeno da principio; in seguito, però, può avereacquistato importanza, anche perchè il contrasto sperimentatodal D. fra i costumi degli uomini nei diversi paesi facilmentedeve averlo spinto a fare le riflessioni di cui ora parlerà.

76 Cioè, senza giustificazione razionale.77 Secondo il Discours, nel periodo che precede il giorno di cui

qui si parla (novembre 1619) il D. avrebbe completamente ab-bandonato gli studi; ma ciò è in contrasto coi fatti, perchè inquelli anni si occupò da prima di studi matematici di caratteretecnico e poi, per gli eccitamenti del Beeckmann, di ricerchematematiche (geometriche e fisico-matematiche) puramenteteoretiche: cfr. Intr., p. XIV [pag. 18 in questa edizione Manu-zio]. Nell’aprile 1619, scrivendo al Beeckmann, gli comunica-va la sua intenzione di elaborare una meccanica e una geome-tria quando avesse potuto fissare in qualche luogo la sua resi-denza.

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ligenza a scegliere le vie che dovevo seguire, ciò che miriuscì molto meglio, mi sembra, che se non mi fossi maiallontanato nè dal mio paese, nè dai miei libri.

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ligenza a scegliere le vie che dovevo seguire, ciò che miriuscì molto meglio, mi sembra, che se non mi fossi maiallontanato nè dal mio paese, nè dai miei libri.

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PARTE SECONDAPRINCIPALI REGOLE DEL METODO

Ero allora in Germania, dove l’occasione delle guerreche non vi sono ancora finite, mi aveva chiamato; ementre tornavo verso l’esercito dall’incoronazionedell’Imperatore,78 l’inizio dell’inverno79 mi fermò in unquartiere,80 dove, non trovando alcuna conversazioneche mi distraesse, e non avendo d’altra parte, per fortu-na, nè cure nè passioni che mi turbassero, rimanevo tut-to il giorno chiuso da solo in una stanza riscaldata,81

dove avevo ogni agio d’intrattenermi coi miei pensieri.82

78 V. Introd., p. X-XI [pagg. 11-13 in questa edizione Manuzio].Nel 1637, data di pubblicazione del Discorso, ardeva ancorala guerra dei Trent’Anni, chiusa nel 1648 dalla pace di West-falia. È probabile che il D., che aveva lasciato l’Olanda il 29aprile 1619, dopo avere assistito all’incoronazione dell’impe-ratore Ferdinando II (la quale fu celebrata con feste che sisvolsero dal 29 luglio al 9 settembre 1619), si sia recato pres-so l’esercito cattolico di Massimiliano duca di Baviera.

79 L’inizio del novembre 1619.80 Si suppone che il D. si sia trattenuto in un villaggio presso

Ulm.81 Poêle, stufa: ossia, stanza riscaldata da una stufa di maiolica.82 Il D. nell’aprile 1619 aveva scritto al Beeckmann che quando

si fosse stabilito in qualche posto, avrebbe rivolto i suoi sforzia comporre una meccanica e una geometria (n. 1 della p. 19[nota 77 alla pag. 102 in questa edizione Manuzio]). Nella suaresidenza invernale dovette quindi occuparsi di questo argo-mento. Il 10 novembre di quell’anno scriveva di avere scoper-

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PARTE SECONDAPRINCIPALI REGOLE DEL METODO

Ero allora in Germania, dove l’occasione delle guerreche non vi sono ancora finite, mi aveva chiamato; ementre tornavo verso l’esercito dall’incoronazionedell’Imperatore,78 l’inizio dell’inverno79 mi fermò in unquartiere,80 dove, non trovando alcuna conversazioneche mi distraesse, e non avendo d’altra parte, per fortu-na, nè cure nè passioni che mi turbassero, rimanevo tut-to il giorno chiuso da solo in una stanza riscaldata,81

dove avevo ogni agio d’intrattenermi coi miei pensieri.82

78 V. Introd., p. X-XI [pagg. 11-13 in questa edizione Manuzio].Nel 1637, data di pubblicazione del Discorso, ardeva ancorala guerra dei Trent’Anni, chiusa nel 1648 dalla pace di West-falia. È probabile che il D., che aveva lasciato l’Olanda il 29aprile 1619, dopo avere assistito all’incoronazione dell’impe-ratore Ferdinando II (la quale fu celebrata con feste che sisvolsero dal 29 luglio al 9 settembre 1619), si sia recato pres-so l’esercito cattolico di Massimiliano duca di Baviera.

79 L’inizio del novembre 1619.80 Si suppone che il D. si sia trattenuto in un villaggio presso

Ulm.81 Poêle, stufa: ossia, stanza riscaldata da una stufa di maiolica.82 Il D. nell’aprile 1619 aveva scritto al Beeckmann che quando

si fosse stabilito in qualche posto, avrebbe rivolto i suoi sforzia comporre una meccanica e una geometria (n. 1 della p. 19[nota 77 alla pag. 102 in questa edizione Manuzio]). Nella suaresidenza invernale dovette quindi occuparsi di questo argo-mento. Il 10 novembre di quell’anno scriveva di avere scoper-

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Uno dei primi fra essi che mi presi a considerare fu chespesso non vi è tanta perfezione nelle opere composte dimolte parti e fatte dalla mano di diversi maestri,83 quan-ta in quelle a cui uno solo ha lavorato. Così si vede chele costruzioni che un solo architetto ha cominciato e fi-nito sono di solito più belle e meglio ordinate di quelle

to i fondamenti di una scienza meravigliosa (è incerto se unanota dell’11 novembre 1620, in cui egli scriveva che comin-ciava a comprendere il fondamento di una ammirabile scoper-ta, si riferisca a ciò che aveva trovato l’anno precedente). Perl’entusiasmo che allora lo dominava, nella notte dal 10 all’11novembre 1619 fece tre sogni successivi e, risvegliatosi, siconvinse che con essi lo Spirito di Verità aveva voluto aprirglii tesori di tutte le scienze (v. Introd., pp. X-XI [pagg. 11-13 inquesta edizione Manuzio]). Secondo l’Hamelin (Le systèmede D., pp. 42-44) in quel giorno egli avrebbe scoperto il suometodo; a parere del Keeling (Descartes, pp. 10-11), si tratte-rebbe della riduzione dei concetti primi della fisica alla geo-metria, ossia della interpretazione matematica dei fenomeninaturali; il Gilson (R. DESCARTES, Discours de la méthode, pp.158-159) ritiene che il D. abbia concepito la possibilità di co-struire tutte le scienze per mezzo del metodo geometrico. Ora,«questa scoperta implica necessariamente l’idea dell’unità si-stematica delle scienze e il presentimento della missione cheda allora in poi doveva essere la sua: constituirne da solol’intero sistema. I sogni della notte seguente non fecero altroche rafforzare in lui quella convinzione». Così si convalide-rebbe la dichiarazione del Discorso, che succede subito a que-sto passo, che uno dei primi pensieri che gli si presentò fuquello che l’edificio della scienza deve essere l’opera di unsolo artefice e che il D. riteneva dì avere la capacità di co-struirlo. Ma queste affermazioni non appaiono accettabili. La

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Uno dei primi fra essi che mi presi a considerare fu chespesso non vi è tanta perfezione nelle opere composte dimolte parti e fatte dalla mano di diversi maestri,83 quan-ta in quelle a cui uno solo ha lavorato. Così si vede chele costruzioni che un solo architetto ha cominciato e fi-nito sono di solito più belle e meglio ordinate di quelle

to i fondamenti di una scienza meravigliosa (è incerto se unanota dell’11 novembre 1620, in cui egli scriveva che comin-ciava a comprendere il fondamento di una ammirabile scoper-ta, si riferisca a ciò che aveva trovato l’anno precedente). Perl’entusiasmo che allora lo dominava, nella notte dal 10 all’11novembre 1619 fece tre sogni successivi e, risvegliatosi, siconvinse che con essi lo Spirito di Verità aveva voluto aprirglii tesori di tutte le scienze (v. Introd., pp. X-XI [pagg. 11-13 inquesta edizione Manuzio]). Secondo l’Hamelin (Le systèmede D., pp. 42-44) in quel giorno egli avrebbe scoperto il suometodo; a parere del Keeling (Descartes, pp. 10-11), si tratte-rebbe della riduzione dei concetti primi della fisica alla geo-metria, ossia della interpretazione matematica dei fenomeninaturali; il Gilson (R. DESCARTES, Discours de la méthode, pp.158-159) ritiene che il D. abbia concepito la possibilità di co-struire tutte le scienze per mezzo del metodo geometrico. Ora,«questa scoperta implica necessariamente l’idea dell’unità si-stematica delle scienze e il presentimento della missione cheda allora in poi doveva essere la sua: constituirne da solol’intero sistema. I sogni della notte seguente non fecero altroche rafforzare in lui quella convinzione». Così si convalide-rebbe la dichiarazione del Discorso, che succede subito a que-sto passo, che uno dei primi pensieri che gli si presentò fuquello che l’edificio della scienza deve essere l’opera di unsolo artefice e che il D. riteneva dì avere la capacità di co-struirlo. Ma queste affermazioni non appaiono accettabili. La

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che molti han cercato di mettere insieme, facendo uso divecchie mura ch’erano state costruite per altri fini. Cosìquelle vecchie città che, in principio semplici borgate,sono diventate, col succedersi del tempo, città grandi,sono ordinariamente così mal proporzionate – in para-gone di quegli spazi84 regolari che un ingegnere traccia asuo piacere in una pianura – che, sebbene, considerandoi loro edifizi ciascuno a parte, vi si trovi spesso altret-

spiegazione che il D. ha dato dei suoi sogni non parladell’unità sistematica delle scienze, e quanto alla ammirabilescoperta dell’11 novembre 1619, nulla permette di sostenereche avesse lo stesso oggetto di quei sogni. Il D., che non famenzione nè dell’una, nè degli altri nel Discorso, ha, anche inquesto caso, proiettato in un passato ormai molto lontano pen-sieri nati nella sua mente in tempi più recenti e, alla luce diquesti, forse, dato a sè stesso una nuova interpretazione deipropri sogni. Questi lo decisero a consacrare la propria vitaalla scienza; ed effettivamente, anche dal 1620 al 1628, cioènegli anni che precedettero la sua decisione di stabilirsi inOlanda per dedicarsi completamente ai suoi studi, si occupòcon intensità di ricerche matematiche e fisiche. Un testo carte-siano giovanile afferma che le scienze sono collegate, ma ciònon permette di parlare della loro unità sistematica e di unmetodo geometrico universale. Non vi è motivo di affermareche di tali argomenti si parlasse nemmeno nello Studium bo-nae mentis (uno scritto che l’Adam pone verso il 1620, permotivi poco convincenti pur riconoscendo che si potrebbe col-locare verso il 1627-1628), perchè le notizie che si hanno suquell’opera possono soltanto far supporre che vi si trattasseroquestioni metodologiche.

83 Artefici.84 Places: soprattutto piazzeforti.

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che molti han cercato di mettere insieme, facendo uso divecchie mura ch’erano state costruite per altri fini. Cosìquelle vecchie città che, in principio semplici borgate,sono diventate, col succedersi del tempo, città grandi,sono ordinariamente così mal proporzionate – in para-gone di quegli spazi84 regolari che un ingegnere traccia asuo piacere in una pianura – che, sebbene, considerandoi loro edifizi ciascuno a parte, vi si trovi spesso altret-

spiegazione che il D. ha dato dei suoi sogni non parladell’unità sistematica delle scienze, e quanto alla ammirabilescoperta dell’11 novembre 1619, nulla permette di sostenereche avesse lo stesso oggetto di quei sogni. Il D., che non famenzione nè dell’una, nè degli altri nel Discorso, ha, anche inquesto caso, proiettato in un passato ormai molto lontano pen-sieri nati nella sua mente in tempi più recenti e, alla luce diquesti, forse, dato a sè stesso una nuova interpretazione deipropri sogni. Questi lo decisero a consacrare la propria vitaalla scienza; ed effettivamente, anche dal 1620 al 1628, cioènegli anni che precedettero la sua decisione di stabilirsi inOlanda per dedicarsi completamente ai suoi studi, si occupòcon intensità di ricerche matematiche e fisiche. Un testo carte-siano giovanile afferma che le scienze sono collegate, ma ciònon permette di parlare della loro unità sistematica e di unmetodo geometrico universale. Non vi è motivo di affermareche di tali argomenti si parlasse nemmeno nello Studium bo-nae mentis (uno scritto che l’Adam pone verso il 1620, permotivi poco convincenti pur riconoscendo che si potrebbe col-locare verso il 1627-1628), perchè le notizie che si hanno suquell’opera possono soltanto far supporre che vi si trattasseroquestioni metodologiche.

83 Artefici.84 Places: soprattutto piazzeforti.

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tanta o maggiore arte che in quelli delle altre città, tutta-via, nel veder come sono ordinati, qui uno grande, làuno piccolo, e come rendono le vie curve e ineguali, sidirebbe che sono stati disposti così piuttosto dal casoche dalla volontà di uomini forniti di ragione. E se siconsidera che vi sono stati pure in ogni tempo funziona-ri incaricati di occuparsi degli edifizi dei privati, per far-li servire all’abbellimento generale, si comprenderà cheè difficile, lavorando solo sulle opere altrui, far cosaperfetta. Così immaginavo che i popoli i quali, un tempomezzo selvaggi, e poi gradatamente inciviliti, han fattole loro leggi soltanto a misura che i mali dei delitti e del-le liti ve li hanno costretti, non possono esser così beneordinati come quelli che, fin da quando si sono riuniti,hanno osservato le leggi di qualche prudente Legislato-re. Del pari è ben certo che lo stato della vera religione,di cui Dio solo ha fatto gli ordinamenti, deve essere in-comparabilmente meglio regolato di tutti gli altri. E perparlare delle cose umane, io credo che, se Sparta è statain altri tempi fiorentissima, ciò non è avvenuto per labontà di ciascuna delle sue leggi in particolare, visto cheparecchie erano molto strane e persino contrarie ai buo-ni costumi,85 ma perchè, inventate da uno solo,86 tende-

85 Ad es., l’esposizione sul Taigeto dei neonati deformi, l’uso diubbriacare gli Iloti perchè servissero di esempio ai giovaniSpartani.

86 Licurgo, il legislatore mitico al quale la tradizione attribuivala costituzione di Sparta, mirante a fare sì che ogni cittadino,educato militarmente, consacrasse tutte le proprie attività, in

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tanta o maggiore arte che in quelli delle altre città, tutta-via, nel veder come sono ordinati, qui uno grande, làuno piccolo, e come rendono le vie curve e ineguali, sidirebbe che sono stati disposti così piuttosto dal casoche dalla volontà di uomini forniti di ragione. E se siconsidera che vi sono stati pure in ogni tempo funziona-ri incaricati di occuparsi degli edifizi dei privati, per far-li servire all’abbellimento generale, si comprenderà cheè difficile, lavorando solo sulle opere altrui, far cosaperfetta. Così immaginavo che i popoli i quali, un tempomezzo selvaggi, e poi gradatamente inciviliti, han fattole loro leggi soltanto a misura che i mali dei delitti e del-le liti ve li hanno costretti, non possono esser così beneordinati come quelli che, fin da quando si sono riuniti,hanno osservato le leggi di qualche prudente Legislato-re. Del pari è ben certo che lo stato della vera religione,di cui Dio solo ha fatto gli ordinamenti, deve essere in-comparabilmente meglio regolato di tutti gli altri. E perparlare delle cose umane, io credo che, se Sparta è statain altri tempi fiorentissima, ciò non è avvenuto per labontà di ciascuna delle sue leggi in particolare, visto cheparecchie erano molto strane e persino contrarie ai buo-ni costumi,85 ma perchè, inventate da uno solo,86 tende-

85 Ad es., l’esposizione sul Taigeto dei neonati deformi, l’uso diubbriacare gli Iloti perchè servissero di esempio ai giovaniSpartani.

86 Licurgo, il legislatore mitico al quale la tradizione attribuivala costituzione di Sparta, mirante a fare sì che ogni cittadino,educato militarmente, consacrasse tutte le proprie attività, in

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vano tutte allo stesso fine. E così pensavo che le scienzedei libri, almeno quelle le cui ragioni sono solo probabi-li e non includono alcuna dimostrazione,87 essendosiformate e accresciute a poco a poco con le opinioni dimolte persone diverse, non sono così vicine alla veritàcome i semplici ragionamenti che può fare un uomo dibuon senso88 su le cose che si presentano. E così ancorapensavo che, poichè tutti siamo stati fanciulli primad’essere uomini, e abbiamo dovuto per lungo tempo es-sere governati dai nostri appetiti e dai nostri precettori,89

che erano spesso contrari gli uni agli altri, e che nè gliuni nè gli altri, forse, ci consigliavano sempre il meglio,è quasi impossibile che i nostri giudizi siano così puri ecosì solidi come sarebbero stati, se avessimo avuto l’usointero della nostra ragione fin dalla nostra nascita e fos-simo stati guidati solo da essa.

È vero che non vediamo demolire tutte le case d’unacittà, per il solo scopo di rifarle in un altro modo, e direnderne le vie più belle; ma si vede bene che molti fan-no abbattere le loro per ricostruirle, e che anzi qualche

pace e in guerra, al servizio e alla difesa della città.87 V. pp. 11 e 14 [pagg. 92 e 96 in questa edizione Manuzio].88 Buon senso, come appare dalla versione latina, equivale a ra-

gione naturale, Cf. nota 2 della p. 4 [nota 24 in questa edizio-ne Manuzio].

89 Gli appetiti irrazionali, derivanti dalle impressioni sensibili, egli insegnamenti dei precettori, fondati su quel sapere tradi-zionale che il D. ha criticato precedentemente, debbono appa-rire cause di pregiudizi e di errori.

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vano tutte allo stesso fine. E così pensavo che le scienzedei libri, almeno quelle le cui ragioni sono solo probabi-li e non includono alcuna dimostrazione,87 essendosiformate e accresciute a poco a poco con le opinioni dimolte persone diverse, non sono così vicine alla veritàcome i semplici ragionamenti che può fare un uomo dibuon senso88 su le cose che si presentano. E così ancorapensavo che, poichè tutti siamo stati fanciulli primad’essere uomini, e abbiamo dovuto per lungo tempo es-sere governati dai nostri appetiti e dai nostri precettori,89

che erano spesso contrari gli uni agli altri, e che nè gliuni nè gli altri, forse, ci consigliavano sempre il meglio,è quasi impossibile che i nostri giudizi siano così puri ecosì solidi come sarebbero stati, se avessimo avuto l’usointero della nostra ragione fin dalla nostra nascita e fos-simo stati guidati solo da essa.

È vero che non vediamo demolire tutte le case d’unacittà, per il solo scopo di rifarle in un altro modo, e direnderne le vie più belle; ma si vede bene che molti fan-no abbattere le loro per ricostruirle, e che anzi qualche

pace e in guerra, al servizio e alla difesa della città.87 V. pp. 11 e 14 [pagg. 92 e 96 in questa edizione Manuzio].88 Buon senso, come appare dalla versione latina, equivale a ra-

gione naturale, Cf. nota 2 della p. 4 [nota 24 in questa edizio-ne Manuzio].

89 Gli appetiti irrazionali, derivanti dalle impressioni sensibili, egli insegnamenti dei precettori, fondati su quel sapere tradi-zionale che il D. ha criticato precedentemente, debbono appa-rire cause di pregiudizi e di errori.

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volta vi sono costretti, quando esse rischiano di cadereda sè e le loro fondamenta non sono molto solide. Suquesto esempio, mi persuadevo che non sarebbe affattoragionevole che un individuo si proponesse di riformareuno Stato, cambiandovi tutto dalle fondamenta, e but-tandolo giù per rimetterlo in piedi, e neppure di riforma-re il corpo delle scienze, o l’ordine stabilito nelle scuoleper insegnarle; ma che, riguardo a tutte le opinioni cheavevo accettate fino allora tra le mie credenze, non pote-vo far di meglio che cominciare, una buona volta, a to-glierle via per rimettervene dopo o delle migliori o an-che le stesse, quando le avessi assestate con la ragione.90

90 Ajustees au niveau de la raison. È più chiara la versione latinanaturae rationis examen subiissent. Precedentemente (v. p. 14[pag. 96 in questa edizione Manuzio]) il D., stando alle dichia-razioni del Discorso, aveva ritenuto «quasi come falso tuttociò che era soltanto verisimile»; ma questa sua sfiducia riguar-dava propriamente la filosofia tradizionale; ora egli decide diliberare la sua mente da tutte le opinioni accolte precedente-mente, per vedere se possano essere giustificate razionalmenteo debbano essere sostituite con altre migliori. Si ha così il pas-saggio dalla sfiducia nell’insegnamento della filosofia scola-stica al proponimento di sottoporre a un esame rigoroso e me-todico le credenze di qualunque genere (salvo quelle religiose)accettate sino allora. Se anche non si ritiene che queste fasidel pensiero del D. debbano collocarsi negli anni indicati dalui, non vi è ragione di non considerarle distinte e successive.Ancora però non si può parlare di un dubbio universale, cheappare soltanto posteriormente; il D. infatti qui non soltantonon diffida affatto del valore della ragione, ma non dubitanemmeno della esistenza delle cose esterne.

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volta vi sono costretti, quando esse rischiano di cadereda sè e le loro fondamenta non sono molto solide. Suquesto esempio, mi persuadevo che non sarebbe affattoragionevole che un individuo si proponesse di riformareuno Stato, cambiandovi tutto dalle fondamenta, e but-tandolo giù per rimetterlo in piedi, e neppure di riforma-re il corpo delle scienze, o l’ordine stabilito nelle scuoleper insegnarle; ma che, riguardo a tutte le opinioni cheavevo accettate fino allora tra le mie credenze, non pote-vo far di meglio che cominciare, una buona volta, a to-glierle via per rimettervene dopo o delle migliori o an-che le stesse, quando le avessi assestate con la ragione.90

90 Ajustees au niveau de la raison. È più chiara la versione latinanaturae rationis examen subiissent. Precedentemente (v. p. 14[pag. 96 in questa edizione Manuzio]) il D., stando alle dichia-razioni del Discorso, aveva ritenuto «quasi come falso tuttociò che era soltanto verisimile»; ma questa sua sfiducia riguar-dava propriamente la filosofia tradizionale; ora egli decide diliberare la sua mente da tutte le opinioni accolte precedente-mente, per vedere se possano essere giustificate razionalmenteo debbano essere sostituite con altre migliori. Si ha così il pas-saggio dalla sfiducia nell’insegnamento della filosofia scola-stica al proponimento di sottoporre a un esame rigoroso e me-todico le credenze di qualunque genere (salvo quelle religiose)accettate sino allora. Se anche non si ritiene che queste fasidel pensiero del D. debbano collocarsi negli anni indicati dalui, non vi è ragione di non considerarle distinte e successive.Ancora però non si può parlare di un dubbio universale, cheappare soltanto posteriormente; il D. infatti qui non soltantonon diffida affatto del valore della ragione, ma non dubitanemmeno della esistenza delle cose esterne.

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E credetti fermamente che, con questo mezzo, sarei riu-scito a condurre la mia vita molto meglio che se avessicostruito soltanto su vecchie basi e mi fossi appoggiatosoltanto sui principî di cui m’ero lasciato persuaderenella mia giovinezza, senza aver mai esaminato se fos-sero veri. Perchè, sebbene notassi in questo diverse dif-ficoltà, non le trovavo però senza rimedio nè paragona-bili a quelle che si incontrano nella riforma delle piùpiccole cose riguardanti la vita pubblica. Questi grandicorpi91 sono troppo difficili a rialzare, una volta abbattu-ti, o anche a tenere in piedi, una volta scossi, e le lorocadute non possono essere che molto violente. Poi, ri-spetto alle loro imperfezioni, se ne hanno – e basta ladifferenza che c’è tra essi, ad assicurare che parecchi nehanno –, l’uso le ha senza dubbio molto attenuate, e anzine ha evitate o corrette insensibilmente un gran numero,a cui non sarebbe possibile provvedere altrettanto benecon la prudenza. E infine, sono quasi sempre più sop-portabili di quel che sarebbe il loro cambiamento: comele grandi vie, che girano tra le montagne, diventano apoco a poco tanto liscie e comode, a forza d’essere fre-quentate, che è molto meglio seguirle, anzichè cercaredi andar più diritto, arrampicandosi su le rocce e discen-dendo fino al fondo dei precipizi. Per questo, non sapreiin nessun modo approvare quei temperamenti confusio-nari e inquieti i quali, non chiamati nè dalla loro nascita,

91 Gli stati e le istituzioni pubbliche, in generale.

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E credetti fermamente che, con questo mezzo, sarei riu-scito a condurre la mia vita molto meglio che se avessicostruito soltanto su vecchie basi e mi fossi appoggiatosoltanto sui principî di cui m’ero lasciato persuaderenella mia giovinezza, senza aver mai esaminato se fos-sero veri. Perchè, sebbene notassi in questo diverse dif-ficoltà, non le trovavo però senza rimedio nè paragona-bili a quelle che si incontrano nella riforma delle piùpiccole cose riguardanti la vita pubblica. Questi grandicorpi91 sono troppo difficili a rialzare, una volta abbattu-ti, o anche a tenere in piedi, una volta scossi, e le lorocadute non possono essere che molto violente. Poi, ri-spetto alle loro imperfezioni, se ne hanno – e basta ladifferenza che c’è tra essi, ad assicurare che parecchi nehanno –, l’uso le ha senza dubbio molto attenuate, e anzine ha evitate o corrette insensibilmente un gran numero,a cui non sarebbe possibile provvedere altrettanto benecon la prudenza. E infine, sono quasi sempre più sop-portabili di quel che sarebbe il loro cambiamento: comele grandi vie, che girano tra le montagne, diventano apoco a poco tanto liscie e comode, a forza d’essere fre-quentate, che è molto meglio seguirle, anzichè cercaredi andar più diritto, arrampicandosi su le rocce e discen-dendo fino al fondo dei precipizi. Per questo, non sapreiin nessun modo approvare quei temperamenti confusio-nari e inquieti i quali, non chiamati nè dalla loro nascita,

91 Gli stati e le istituzioni pubbliche, in generale.

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nè dalla loro fortuna,92 al maneggio degli affari pubblici,non smettono di escogitare sempre, colla mente, qualchenuova riforma. E se pensassi che vi fosse la più piccolacosa in questo scritto, per cui mi si potesse sospettare diquesta follia, sarei dolentissimo d’averlo lasciato pub-blicare93. Mai il mio disegno s’è esteso al di là dellosforzo di riformare i miei pensieri, e di costruire in uncampo ch’è tutto mio. Che se, essendomi la mia operapiaciuta molto, ve ne faccio vedere qui il modello, nonvoglio perciò consigliare a nessuno d’imitarla94. Coloroche Dio ha fatto partecipare meglio delle sue grazieavranno, forse, disegni più elevati; ma temo assai chegià questo sia troppo audace per molti. La sola risolu-zione di disfarsi di tutte le opinioni nelle quali preceden-temente si è creduto, non è un esempio che ognuno deb-ba seguire95; e il mondo è composto quasi esclusivamen-

92 Condizione sociale.93 Il D. insiste sulla limitazione della sua opera riformatrice alla

sfera del sapere e si sforza di mostrare che non deve essereestesa alla vita politica e sociale perchè in questa ogni trasfor-mazione improvvisa e radicale produce mali peggiori di quelliche debbono essere eliminati. Con queste argomentazioni(prese in parte al Montaigne) egli polemizza anticipatamentecontro l’illuminismo del secolo 18o che, in generate, volevasottoporre alle esigenze di un razionalismo unilaterale e astrat-to la realtà concreta del mondo umano: lo stato, il diritto, leistituzioni sociali.

94 È completamente sincera questa affermazione?95 Il Gilson giustamente osserva che per questo motivo (come ri-

sulta da un passo delle Risposte alle Quarte Obbiezioni alle

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nè dalla loro fortuna,92 al maneggio degli affari pubblici,non smettono di escogitare sempre, colla mente, qualchenuova riforma. E se pensassi che vi fosse la più piccolacosa in questo scritto, per cui mi si potesse sospettare diquesta follia, sarei dolentissimo d’averlo lasciato pub-blicare93. Mai il mio disegno s’è esteso al di là dellosforzo di riformare i miei pensieri, e di costruire in uncampo ch’è tutto mio. Che se, essendomi la mia operapiaciuta molto, ve ne faccio vedere qui il modello, nonvoglio perciò consigliare a nessuno d’imitarla94. Coloroche Dio ha fatto partecipare meglio delle sue grazieavranno, forse, disegni più elevati; ma temo assai chegià questo sia troppo audace per molti. La sola risolu-zione di disfarsi di tutte le opinioni nelle quali preceden-temente si è creduto, non è un esempio che ognuno deb-ba seguire95; e il mondo è composto quasi esclusivamen-

92 Condizione sociale.93 Il D. insiste sulla limitazione della sua opera riformatrice alla

sfera del sapere e si sforza di mostrare che non deve essereestesa alla vita politica e sociale perchè in questa ogni trasfor-mazione improvvisa e radicale produce mali peggiori di quelliche debbono essere eliminati. Con queste argomentazioni(prese in parte al Montaigne) egli polemizza anticipatamentecontro l’illuminismo del secolo 18o che, in generate, volevasottoporre alle esigenze di un razionalismo unilaterale e astrat-to la realtà concreta del mondo umano: lo stato, il diritto, leistituzioni sociali.

94 È completamente sincera questa affermazione?95 Il Gilson giustamente osserva che per questo motivo (come ri-

sulta da un passo delle Risposte alle Quarte Obbiezioni alle

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te di due specie di intelligenze, a cui non conviene innessun modo: cioè di coloro i quali, credendosi più abiliche non siano, non possono far a meno di precipitare iloro giudizi, nè avere abbastanza pazienza per condurrecon ordine tutti i loro pensieri – onde deriva che, se sifossero una volta presa la libertà di dubitare dei principîche hanno accettato e di scostarsi dalla via comune, nonpotrebbero restare in quella che bisogna prendere perandar più diritto, e rimarrebbero fuor di strada tutta laloro vita96. E poi, di coloro i quali, avendo sufficiente ra-gione, o modestia, per giudicare ch’essi sono meno ca-paci di distinguere il vero dal falso97 di altri da cui pos-sono essere istruiti, debbono piuttosto contentarsi di se-guire le opinioni di questi altri che cercarne essi stessidelle migliori.

E per me, sarei stato senza dubbio del numero di que-

sue Meditazioni) il D. limitò fortemente la trattazione del dub-bio metodico nel Discours, che, essendo scritto in francese,era accessible a una larga cerchia di lettori, e le sviluppò afondo nelle Meditazioni perchè queste, composte in latino, sirivolgevano soltanto ai dotti.

96 Queste parole contengono la critica dei filosofi del Rinasci-mento, che avevano aspramente assalito la filosofia e la scien-za tradizionale, ma, per mancanza di procedimenti metodolo-gici rigorosi, si erano sviati dalla verità, costruendo sistemiprivi di basi sicure.

97 Come spiega il Gilson, il D., mentre è convinto che tutti gliuomini siano capaci di distinguere il vero dal falso quandosono presenti al pensiero, ritiene che soltanto pochi possanoscoprire la verità da sè.

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te di due specie di intelligenze, a cui non conviene innessun modo: cioè di coloro i quali, credendosi più abiliche non siano, non possono far a meno di precipitare iloro giudizi, nè avere abbastanza pazienza per condurrecon ordine tutti i loro pensieri – onde deriva che, se sifossero una volta presa la libertà di dubitare dei principîche hanno accettato e di scostarsi dalla via comune, nonpotrebbero restare in quella che bisogna prendere perandar più diritto, e rimarrebbero fuor di strada tutta laloro vita96. E poi, di coloro i quali, avendo sufficiente ra-gione, o modestia, per giudicare ch’essi sono meno ca-paci di distinguere il vero dal falso97 di altri da cui pos-sono essere istruiti, debbono piuttosto contentarsi di se-guire le opinioni di questi altri che cercarne essi stessidelle migliori.

E per me, sarei stato senza dubbio del numero di que-

sue Meditazioni) il D. limitò fortemente la trattazione del dub-bio metodico nel Discours, che, essendo scritto in francese,era accessible a una larga cerchia di lettori, e le sviluppò afondo nelle Meditazioni perchè queste, composte in latino, sirivolgevano soltanto ai dotti.

96 Queste parole contengono la critica dei filosofi del Rinasci-mento, che avevano aspramente assalito la filosofia e la scien-za tradizionale, ma, per mancanza di procedimenti metodolo-gici rigorosi, si erano sviati dalla verità, costruendo sistemiprivi di basi sicure.

97 Come spiega il Gilson, il D., mentre è convinto che tutti gliuomini siano capaci di distinguere il vero dal falso quandosono presenti al pensiero, ritiene che soltanto pochi possanoscoprire la verità da sè.

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sti ultimi se non avessi mai avuto che un solo maestro onon avessi conosciuto le differenze che ci sono state inogni tempo tra le opinioni dei più dotti. Ma avendo im-parato, fin dal Collegio, che non si può nulla immagina-re di così strano e di così poco credibile, che non sia sta-to detto da qualche filosofo98, e poi, nei viaggi, avendoriconosciuto che tutti quelli i quali hanno un modo disentire molto contrario al nostro non sono, per questo,nè barbari nè selvaggi, e che anzi molti usano, altrettan-to o più di noi, della ragione; e avendo consideratoquanto uno stesso uomo, colla sua stessa intelligenza,educato dall’infanzia tra Francesi o Tedeschi, diventi di-verso da quel che sarebbe, se fosse sempre vissuto traCinesi o Cannibali; e come, fino nelle mode dei nostriabiti, la stessa cosa che ci è piaciuta dieci anni fa, e cipiacerà forse ancora prima che passino altri dieci anni,ci sembri ora stravagante e ridicola: di modo che il co-stume e l’esempio ci persuadono molto più di qualsiasiconoscenza certa, e tuttavia la pluralità dei voti non èuna prova che valga nulla, per le verità un poco difficilida scoprire, perchè è molto più verosimile che le abbiatrovate un uomo solo che tutto un popolo99: non potevoscegliere qualcuno le cui opinioni mi sembrassero doveressere preferite a quelle degli altri, e mi trovai quasi co-stretto a prender l’iniziativa di condurmi da me stesso.

Ma, come un uomo che cammina solo e nelle tenebre,98 Da CICERONE, De divinatione, II, 58. Questo pensiero è stato

spesso ripetuto da altri.99 Anche Galileo e F. Bacone hanno espresso pensieri simili.

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sti ultimi se non avessi mai avuto che un solo maestro onon avessi conosciuto le differenze che ci sono state inogni tempo tra le opinioni dei più dotti. Ma avendo im-parato, fin dal Collegio, che non si può nulla immagina-re di così strano e di così poco credibile, che non sia sta-to detto da qualche filosofo98, e poi, nei viaggi, avendoriconosciuto che tutti quelli i quali hanno un modo disentire molto contrario al nostro non sono, per questo,nè barbari nè selvaggi, e che anzi molti usano, altrettan-to o più di noi, della ragione; e avendo consideratoquanto uno stesso uomo, colla sua stessa intelligenza,educato dall’infanzia tra Francesi o Tedeschi, diventi di-verso da quel che sarebbe, se fosse sempre vissuto traCinesi o Cannibali; e come, fino nelle mode dei nostriabiti, la stessa cosa che ci è piaciuta dieci anni fa, e cipiacerà forse ancora prima che passino altri dieci anni,ci sembri ora stravagante e ridicola: di modo che il co-stume e l’esempio ci persuadono molto più di qualsiasiconoscenza certa, e tuttavia la pluralità dei voti non èuna prova che valga nulla, per le verità un poco difficilida scoprire, perchè è molto più verosimile che le abbiatrovate un uomo solo che tutto un popolo99: non potevoscegliere qualcuno le cui opinioni mi sembrassero doveressere preferite a quelle degli altri, e mi trovai quasi co-stretto a prender l’iniziativa di condurmi da me stesso.

Ma, come un uomo che cammina solo e nelle tenebre,98 Da CICERONE, De divinatione, II, 58. Questo pensiero è stato

spesso ripetuto da altri.99 Anche Galileo e F. Bacone hanno espresso pensieri simili.

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risolsi d’andare così lentamente e d’usare tanta circo-spezione in ogni cosa che, pur avanzando pochissimo,avrei evitato, almeno, di cadere. Anzi non volli comin-ciare col respingere completamente nessuna delle opi-nioni che potevano essersi insinuate per l’innanzi tra lemie credenze senza esservi state introdotte dalla ragio-ne, prima d’aver impiegato molto tempo nel fare il pro-getto dell’opera che intraprendevo e nel cercare il verometodo per giungere alla conoscenza di tutte le cose dicui la mia intelligenza fosse capace.

Quando ero più giovane100, avevo un po’ studiato, trale parti della filosofia, la logica, e tra le matematiche,l’analisi dei geometri e l’algebra, tre arti o scienze chesembravano dover dare qualche contributo al mio dise-gno. Ma, esaminandole, mi accorsi che, per la logica, isuoi sillogismi e la maggior parte delle altre sue regoleservono101, più che ad apprendere, a spiegare ad altri lecose che si sanno, o anche, come l’arte di Lullo102, a par-

100 A La Flèche.101 Anche nelle Regulae il D. critica il sillogismo. Nella Reg. II

presenta la stessa osservazione del Discours: il sillogismo nonpuò scoprire verità nuove e serve soltanto a esporre meglioagli altri quelle già conosciute. Inoltre lo accusa di essere unmeccanismo formalistico cieco; la stessa critica è da lui rivol-ta alla logica di R. Lullo.

102 Raimondo Lullo (1235-1315) esponeva nella sua Ars Magnaun procedimento che insegnava a combinare tutti i concetti e arisolvere tutte le questioni. In un testo citato dal Gilson (lette-ra al Beeckmann del 29 aprile 1619) il D. racconta di avere in-contrato in un albergo di Dordrecht un seguace del Lullo; era

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risolsi d’andare così lentamente e d’usare tanta circo-spezione in ogni cosa che, pur avanzando pochissimo,avrei evitato, almeno, di cadere. Anzi non volli comin-ciare col respingere completamente nessuna delle opi-nioni che potevano essersi insinuate per l’innanzi tra lemie credenze senza esservi state introdotte dalla ragio-ne, prima d’aver impiegato molto tempo nel fare il pro-getto dell’opera che intraprendevo e nel cercare il verometodo per giungere alla conoscenza di tutte le cose dicui la mia intelligenza fosse capace.

Quando ero più giovane100, avevo un po’ studiato, trale parti della filosofia, la logica, e tra le matematiche,l’analisi dei geometri e l’algebra, tre arti o scienze chesembravano dover dare qualche contributo al mio dise-gno. Ma, esaminandole, mi accorsi che, per la logica, isuoi sillogismi e la maggior parte delle altre sue regoleservono101, più che ad apprendere, a spiegare ad altri lecose che si sanno, o anche, come l’arte di Lullo102, a par-

100 A La Flèche.101 Anche nelle Regulae il D. critica il sillogismo. Nella Reg. II

presenta la stessa osservazione del Discours: il sillogismo nonpuò scoprire verità nuove e serve soltanto a esporre meglioagli altri quelle già conosciute. Inoltre lo accusa di essere unmeccanismo formalistico cieco; la stessa critica è da lui rivol-ta alla logica di R. Lullo.

102 Raimondo Lullo (1235-1315) esponeva nella sua Ars Magnaun procedimento che insegnava a combinare tutti i concetti e arisolvere tutte le questioni. In un testo citato dal Gilson (lette-ra al Beeckmann del 29 aprile 1619) il D. racconta di avere in-contrato in un albergo di Dordrecht un seguace del Lullo; era

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lare, senza discernimento, di quelle che s’ignorano. Esebbene la logica contenga effettivamente molti precettiverissimi e buonissimi, ve ne sono però frammischiatitanti altri nocivi e superflui, che è quasi tanto difficilesepararneli, quanto trarre fuori una Diana o una Minervada un blocco di marmo che non sia ancora sbozzato.Poi, quanto all’analisi degli antichi103 e all’algebra dei

un vecchio assai loquace che si vantava di potere parlare perun’ora di un argomento qualsiasi, e poi, di tornarne a parlarenell’ora successiva servendosi di pensieri del tutto diversi, ecosì di seguito per venti ore. Lo studioso francese ritiene cheil D. abbia giudicato l’opera logica del Lullo nel Discorso sot-to l’impressione di quel ricordo. G. Bruno, invece, ammiravaassai la logica del Lullo.

103 Secondo le notizie date da Pappo, l’analisi dei geometri greciconsisteva nel considerare concessa la soluzione del problemaproposto per vedere che cosa ne seguisse: così si determinava-no progressivamente le condizioni della soluzione, sino agiungere a qualche cosa già conosciuta o a un primo principio.La sintesi partita dal punto di arrivo dell’analisi, e, seguendola strada inversa di questa, deduceva la soluzione dalle propo-sizioni dalle quali dipendeva. Secondo il D., gli antichi geo-metri si sono serviti dell’analisi per risolvere i problemi, seb-bene, per nascondere ai posteri il procedimento di cui si servi-vano, ne abbiano presentato soltanto soluzioni sintetiche. Asuo parere, l’analisi è preferibile alla sintesi, perchè, mostran-do la via per la quale una cosa è stata scoperta, permette al let-tore di comprendere questa così bene come se egli stessol’avesse trovata. Il procedimento sintetico, invece, constringebensì il lettore ad assentire alla dimostrazione, ma non gli mo-stra in qual modo sia stata scoperta la cosa in questione.

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lare, senza discernimento, di quelle che s’ignorano. Esebbene la logica contenga effettivamente molti precettiverissimi e buonissimi, ve ne sono però frammischiatitanti altri nocivi e superflui, che è quasi tanto difficilesepararneli, quanto trarre fuori una Diana o una Minervada un blocco di marmo che non sia ancora sbozzato.Poi, quanto all’analisi degli antichi103 e all’algebra dei

un vecchio assai loquace che si vantava di potere parlare perun’ora di un argomento qualsiasi, e poi, di tornarne a parlarenell’ora successiva servendosi di pensieri del tutto diversi, ecosì di seguito per venti ore. Lo studioso francese ritiene cheil D. abbia giudicato l’opera logica del Lullo nel Discorso sot-to l’impressione di quel ricordo. G. Bruno, invece, ammiravaassai la logica del Lullo.

103 Secondo le notizie date da Pappo, l’analisi dei geometri greciconsisteva nel considerare concessa la soluzione del problemaproposto per vedere che cosa ne seguisse: così si determinava-no progressivamente le condizioni della soluzione, sino agiungere a qualche cosa già conosciuta o a un primo principio.La sintesi partita dal punto di arrivo dell’analisi, e, seguendola strada inversa di questa, deduceva la soluzione dalle propo-sizioni dalle quali dipendeva. Secondo il D., gli antichi geo-metri si sono serviti dell’analisi per risolvere i problemi, seb-bene, per nascondere ai posteri il procedimento di cui si servi-vano, ne abbiano presentato soltanto soluzioni sintetiche. Asuo parere, l’analisi è preferibile alla sintesi, perchè, mostran-do la via per la quale una cosa è stata scoperta, permette al let-tore di comprendere questa così bene come se egli stessol’avesse trovata. Il procedimento sintetico, invece, constringebensì il lettore ad assentire alla dimostrazione, ma non gli mo-stra in qual modo sia stata scoperta la cosa in questione.

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moderni,104 oltre che si applicano solo ad argomentimolto astratti e che non sembrano d’alcuna utilità, laprima è sempre così legata alla considerazione delle fi-gure che non può esercitare l’intelletto senza affaticaremolto l’immaginazione105; e, nella seconda, ci si è tantoassoggettati a certe regole e a certe cifre,106 che se n’èfatta un’arte confusa e oscura, che impaccia l’intelligen-za, invece d’una scienza che la coltiva. Perciò pensaiche bisognasse cercare qualche altro metodo il quale,comprendendo i vantaggi di quei tre, fosse esente dailoro difetti. E siccome la moltitudine delle leggi forniscespesso scuse ai vizi, di modo che uno Stato è molto me-glio regolato quando, essendovene solo pochissime, visono molto rigorosamente osservate; così, invece di quelgran numero di precetti di cui la logica è composta, cre-detti d’averne abbastanza dei quattro seguenti,107 purchè

104 La versione latina chiarisce il pensiero del D.: «l’Algebra,come si insegna abitualmente».

105 La geometria antica doveva far lavorare continuamentel’immaginazione perchè era assoggettata sempre alla conside-razione delle figure e non si valeva di procedimenti puramenterazionali di dimostrazione.

106 I caratteri cossici.107 Le Regulae ad directionem ingenii, che senza dubbio sono

anteriori al Discorso, volevano presentare una teoria metodo-logica assai più particolareggiata di questa; si ritiene anzi cheil D. abbia lasciato incompiuta quell’opera perchè sempre piùsi era convinto della impossibilità di esporre tutte le norme delmetodo e della inefficacia di insegnamenti di tal genere. Pro-babilmente, come si è osservato, altri motivi, e più forti, han-

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moderni,104 oltre che si applicano solo ad argomentimolto astratti e che non sembrano d’alcuna utilità, laprima è sempre così legata alla considerazione delle fi-gure che non può esercitare l’intelletto senza affaticaremolto l’immaginazione105; e, nella seconda, ci si è tantoassoggettati a certe regole e a certe cifre,106 che se n’èfatta un’arte confusa e oscura, che impaccia l’intelligen-za, invece d’una scienza che la coltiva. Perciò pensaiche bisognasse cercare qualche altro metodo il quale,comprendendo i vantaggi di quei tre, fosse esente dailoro difetti. E siccome la moltitudine delle leggi forniscespesso scuse ai vizi, di modo che uno Stato è molto me-glio regolato quando, essendovene solo pochissime, visono molto rigorosamente osservate; così, invece di quelgran numero di precetti di cui la logica è composta, cre-detti d’averne abbastanza dei quattro seguenti,107 purchè

104 La versione latina chiarisce il pensiero del D.: «l’Algebra,come si insegna abitualmente».

105 La geometria antica doveva far lavorare continuamentel’immaginazione perchè era assoggettata sempre alla conside-razione delle figure e non si valeva di procedimenti puramenterazionali di dimostrazione.

106 I caratteri cossici.107 Le Regulae ad directionem ingenii, che senza dubbio sono

anteriori al Discorso, volevano presentare una teoria metodo-logica assai più particolareggiata di questa; si ritiene anzi cheil D. abbia lasciato incompiuta quell’opera perchè sempre piùsi era convinto della impossibilità di esporre tutte le norme delmetodo e della inefficacia di insegnamenti di tal genere. Pro-babilmente, come si è osservato, altri motivi, e più forti, han-

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prendessi una ferma e costante risoluzione di non man-care nemmeno una sola volta d’osservarli.

Il primo era, di non accettare mai per vera alcunacosa, che non conoscessi evidentemente essere tale:cioè, d’evitare con cura la precipitazione e la prevenzio-ne; e di non includere nei miei giudizi niente più di

no agito su di lui: ma è probabile che anche quello indicato siastato presente alla sua mente. Comunque, è certo che il D. col-loca nel 1619-1620 riflessioni e convinzioni che appartengonosenza dubbio a un periodo assai posteriore, nuova prova delrelativo valore storico delle notizie che egli dà sullo sviluppodel suo pensiero. – Le quattro regole in cui il D. riassume lasua metodologia, nella loro densità formidabile di contenutosono difficilissime da comprendersi esattamente; non è quindistrano che in generale gli interpreti abbiano cercato di chiarir-le per mezzo delle Regulae, servendosi per tale scope di dot-trine e concezioni che sono formulate in queste, ma non nelDiscorso che, si ritiene, le sottintende. Queste interpretazionipresuppongono che nel tempo che core fra la composizionedelle due opere (un decennio, circa), il D. non abbia, almenonella sostanza, modificato il proprio pensiero. Ora, l’esame dicerte teorie delle Regulae non menzionate nell’altra opera viscopre difficoltà molto gravi (v. Introd., pp. XXIX-XXX[pagg. 42-44 in questa edizione Manuzio]). Se il D., per evita-re tali difficoltà, modificò e trasformò in seguito il propriopensiero, è chiaro che si può ricorrere alle Regulae per chiari-re il Discorso soltanto se si fa uso di concezioni che non pre-stano il fianco alle critiche accennate. Per questa ragione, sipuò ammettere che anche nel Discorso egli abbia assegnatoalla sua metodologia l’ufficio esclusivo di indicare come sideve usare l’intuizione e come si deve fare la deduzione, sen-za pretendere di insegnare come si compiano quelle operazio-

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prendessi una ferma e costante risoluzione di non man-care nemmeno una sola volta d’osservarli.

Il primo era, di non accettare mai per vera alcunacosa, che non conoscessi evidentemente essere tale:cioè, d’evitare con cura la precipitazione e la prevenzio-ne; e di non includere nei miei giudizi niente più di

no agito su di lui: ma è probabile che anche quello indicato siastato presente alla sua mente. Comunque, è certo che il D. col-loca nel 1619-1620 riflessioni e convinzioni che appartengonosenza dubbio a un periodo assai posteriore, nuova prova delrelativo valore storico delle notizie che egli dà sullo sviluppodel suo pensiero. – Le quattro regole in cui il D. riassume lasua metodologia, nella loro densità formidabile di contenutosono difficilissime da comprendersi esattamente; non è quindistrano che in generale gli interpreti abbiano cercato di chiarir-le per mezzo delle Regulae, servendosi per tale scope di dot-trine e concezioni che sono formulate in queste, ma non nelDiscorso che, si ritiene, le sottintende. Queste interpretazionipresuppongono che nel tempo che core fra la composizionedelle due opere (un decennio, circa), il D. non abbia, almenonella sostanza, modificato il proprio pensiero. Ora, l’esame dicerte teorie delle Regulae non menzionate nell’altra opera viscopre difficoltà molto gravi (v. Introd., pp. XXIX-XXX[pagg. 42-44 in questa edizione Manuzio]). Se il D., per evita-re tali difficoltà, modificò e trasformò in seguito il propriopensiero, è chiaro che si può ricorrere alle Regulae per chiari-re il Discorso soltanto se si fa uso di concezioni che non pre-stano il fianco alle critiche accennate. Per questa ragione, sipuò ammettere che anche nel Discorso egli abbia assegnatoalla sua metodologia l’ufficio esclusivo di indicare come sideve usare l’intuizione e come si deve fare la deduzione, sen-za pretendere di insegnare come si compiano quelle operazio-

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quello che si presentasse così chiaramente e così distin-tamente alla mia intelligenza che io non avessi alcunaoccasione di metterlo in dubbio108.

Il secondo, di dividere ciascuna delle difficoltà cheesaminassi, in tante particelle quante fossero possibili, e

ni che la mente possiede già e che talvolta esplica in modospontaneo.

108 Si afferma di solito che questa norma prescrive di ritenerecome vere soltanto le idee (nel senso generale di conoscenze)chiare e distinte, ossia ciò che può essere intuito dalla mente.Questo è giusto, ma richiede qualche spiegazione. Il D. ritieneche si possono intuire non soltanto le nozioni e le nozioni co-muni o assiomi, ma anche i nessi necessari delle nozioni stes-se, che sono giudizi evidenti (v. Introd., p. XXV [pag. 35 inquesta edizione Manuzio]). Ora, ogni momento del procedi-mento deduttivo, che è un giudizio, deve possedere carattereintuitivo (v. Introd. XXVI [pag. 37 in questa edizione Manu-zio]), sicchè la norma dell’evidenza prescrive di accordare va-lore di verità anche alla deduzione necessaria, alla quale si ri-feriscono la seconda e la terza regola. Così è espressa in altraforma la tesi delle Regulae, che l’intuizione evidente e la de-duzione necessaria sono i soli atti dell’intelligenza che ci per-mettono di conseguire la conoscenza certa della verità. La pre-venzione, che questa norma raccomanda di evitare, consistenel dominio che esercitano sulla nostra mente i giudizi (= pre-giudizi) che vi si sono radicati nell’infanzia e che riteniamoverissimi ed evidentissimi. Come si vede, con questa norma ilD. non rivendica soltanto i diritti del pensiero razionale controil principio di autorità, per ciò che riguarda la sfera della co-noscenza naturale, ma combatte anche sia la tendenza che por-ta gli uomini a dare giudizi prima di avere con l’intelletto in-

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quello che si presentasse così chiaramente e così distin-tamente alla mia intelligenza che io non avessi alcunaoccasione di metterlo in dubbio108.

Il secondo, di dividere ciascuna delle difficoltà cheesaminassi, in tante particelle quante fossero possibili, e

ni che la mente possiede già e che talvolta esplica in modospontaneo.

108 Si afferma di solito che questa norma prescrive di ritenerecome vere soltanto le idee (nel senso generale di conoscenze)chiare e distinte, ossia ciò che può essere intuito dalla mente.Questo è giusto, ma richiede qualche spiegazione. Il D. ritieneche si possono intuire non soltanto le nozioni e le nozioni co-muni o assiomi, ma anche i nessi necessari delle nozioni stes-se, che sono giudizi evidenti (v. Introd., p. XXV [pag. 35 inquesta edizione Manuzio]). Ora, ogni momento del procedi-mento deduttivo, che è un giudizio, deve possedere carattereintuitivo (v. Introd. XXVI [pag. 37 in questa edizione Manu-zio]), sicchè la norma dell’evidenza prescrive di accordare va-lore di verità anche alla deduzione necessaria, alla quale si ri-feriscono la seconda e la terza regola. Così è espressa in altraforma la tesi delle Regulae, che l’intuizione evidente e la de-duzione necessaria sono i soli atti dell’intelligenza che ci per-mettono di conseguire la conoscenza certa della verità. La pre-venzione, che questa norma raccomanda di evitare, consistenel dominio che esercitano sulla nostra mente i giudizi (= pre-giudizi) che vi si sono radicati nell’infanzia e che riteniamoverissimi ed evidentissimi. Come si vede, con questa norma ilD. non rivendica soltanto i diritti del pensiero razionale controil principio di autorità, per ciò che riguarda la sfera della co-noscenza naturale, ma combatte anche sia la tendenza che por-ta gli uomini a dare giudizi prima di avere con l’intelletto in-

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necessarie per risolverle meglio109.Il terzo, di condurre in ordine i miei pensieri, comin-

ciando dagli oggetti più semplici e più facili da conosce-re, per salire a poco a poco, come per gradi, fino alla co-noscenza dei più composti; supponendo ordine anche tra

tuito la verità con piena evidenza, sia la fede cieca nei pregiu-dizi della prima età. Per il D., il giudizio è un atto della volon-tà che può oltrepassare i limiti delle conoscenze chiare e di-stinte che le offre l’intelletto e così andare incontro all’errore;per evitarlo, occorre valersi del dubbio rispetto a tutto ciò chenon si può pensare con chiarezza e distinzione. Ma, come si ègià osservato, non si è ancora raggiunto il completo dubbio dicui si parlerà in seguito, perchè il D. continua a considerare si-curamente vere le conoscenze evidenti e non discute l’esisten-za del mondo esterno. Si tratta, finora, di costruire una scienzache corrisponda alle esigenze del pensiero razionale, la cui va-lidità non si mette in discussione. Ma l’esigenza della comple-ta evidenza costringerà poi il D. a rendere universale il suodubbio. – Sul valore vero e sul significato profondo della teo-ria delle idee chiare e distinte, v. Introd., pp. XLV-XLVI [pagg.67-69 in questa edizione Manuzio].

109 Norma dell’analisi che, come risulta da ciò che è detto in se-guito, e come è indicato dalle Regulae, deve procedere con or-dine, al pari della sintesi di cui parla quella seguente. L’analisiè presa nel senso più generale di riduzione di una conoscenzaa un’altra alla quale è subordinata (passaggio dalla conseguen-za al principio, dall’effetto alla causa, dal condizionato allasua condizione necessaria, dal tutto ai suoi elementi costituto-ri). Le parti in cui si deve dividere una difficoltà però in certicasi possono essere non soltanto i problemi più generali da cuidipende progressivamente, ma anche quelli particolari di cui

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necessarie per risolverle meglio109.Il terzo, di condurre in ordine i miei pensieri, comin-

ciando dagli oggetti più semplici e più facili da conosce-re, per salire a poco a poco, come per gradi, fino alla co-noscenza dei più composti; supponendo ordine anche tra

tuito la verità con piena evidenza, sia la fede cieca nei pregiu-dizi della prima età. Per il D., il giudizio è un atto della volon-tà che può oltrepassare i limiti delle conoscenze chiare e di-stinte che le offre l’intelletto e così andare incontro all’errore;per evitarlo, occorre valersi del dubbio rispetto a tutto ciò chenon si può pensare con chiarezza e distinzione. Ma, come si ègià osservato, non si è ancora raggiunto il completo dubbio dicui si parlerà in seguito, perchè il D. continua a considerare si-curamente vere le conoscenze evidenti e non discute l’esisten-za del mondo esterno. Si tratta, finora, di costruire una scienzache corrisponda alle esigenze del pensiero razionale, la cui va-lidità non si mette in discussione. Ma l’esigenza della comple-ta evidenza costringerà poi il D. a rendere universale il suodubbio. – Sul valore vero e sul significato profondo della teo-ria delle idee chiare e distinte, v. Introd., pp. XLV-XLVI [pagg.67-69 in questa edizione Manuzio].

109 Norma dell’analisi che, come risulta da ciò che è detto in se-guito, e come è indicato dalle Regulae, deve procedere con or-dine, al pari della sintesi di cui parla quella seguente. L’analisiè presa nel senso più generale di riduzione di una conoscenzaa un’altra alla quale è subordinata (passaggio dalla conseguen-za al principio, dall’effetto alla causa, dal condizionato allasua condizione necessaria, dal tutto ai suoi elementi costituto-ri). Le parti in cui si deve dividere una difficoltà però in certicasi possono essere non soltanto i problemi più generali da cuidipende progressivamente, ma anche quelli particolari di cui

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quelli che non si precedono naturalmente l’un l’altro110.E l’ultimo, di fare ovunque enumerazioni così com-

plete e rassegne così generali da esser sicuro di nonometter nulla111.

Quelle lunghe catene di ragioni, tutte semplici e faci-li, di cui i Geometri sogliono servirsi, per giungere alle

risulta. (Ad esempio, per risolvere un problema è necessariotalvolta decomporlo in altri, e trovare la soluzione di questi).In ogni caso, si giunge, se si spinge l’analisi a fondo, alle co-noscenze semplici (e irriducibili) di cui parla la regola seguen-te.

110 Regola della sintesi, intesa pure, come l’analisi, nel suo signi-ficato più generale. Gli oggetti più semplici corrispondonosoltanto sotto certi rispetti alle nature semplici delle Regulae:infatti queste affermano da una parte che la semplicità loro ri-siede propriamente nell’atto mentale che le apprende, ciò chevale anche per enti relativamente complessi, dall’altra che nonpossono includere alcuna falsità per la loro stessa semplicità,ciò che richiede che questa sia assoluta. La prima determina-zione soltanto si applica agli oggetti semplici della terza rego-la, che non afferma affatto che tutte le cose risultano dellacomposizione di elementi semplici. Si aggiunga che gli ogget-ti sono considerati esclusivamente in relazione coi pensieri (oidee) che se ne hanno. In sostanza, questa regola si riferiscesoltanto all’intelligenza e alle sue idee, non alla struttura dellarealtà. Il D., parlando di certe cose più facili a conoscere di al-tre, si conforma alla distinzione tradizionale derivante da Ari-stotele, fra ciò che è più noto per natura, o per sè, e ciò che èpiù noto rispetto a noi. È più facile a conoscere non quello cheeffettivamente ci appare tale, come i dati dei sensi, ma ciò chein sè ha il massimo di intelligibilità e costituisce il presuppo-sto e la condizione della conoscenza delle altre cose. Questa

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quelli che non si precedono naturalmente l’un l’altro110.E l’ultimo, di fare ovunque enumerazioni così com-

plete e rassegne così generali da esser sicuro di nonometter nulla111.

Quelle lunghe catene di ragioni, tutte semplici e faci-li, di cui i Geometri sogliono servirsi, per giungere alle

risulta. (Ad esempio, per risolvere un problema è necessariotalvolta decomporlo in altri, e trovare la soluzione di questi).In ogni caso, si giunge, se si spinge l’analisi a fondo, alle co-noscenze semplici (e irriducibili) di cui parla la regola seguen-te.

110 Regola della sintesi, intesa pure, come l’analisi, nel suo signi-ficato più generale. Gli oggetti più semplici corrispondonosoltanto sotto certi rispetti alle nature semplici delle Regulae:infatti queste affermano da una parte che la semplicità loro ri-siede propriamente nell’atto mentale che le apprende, ciò chevale anche per enti relativamente complessi, dall’altra che nonpossono includere alcuna falsità per la loro stessa semplicità,ciò che richiede che questa sia assoluta. La prima determina-zione soltanto si applica agli oggetti semplici della terza rego-la, che non afferma affatto che tutte le cose risultano dellacomposizione di elementi semplici. Si aggiunga che gli ogget-ti sono considerati esclusivamente in relazione coi pensieri (oidee) che se ne hanno. In sostanza, questa regola si riferiscesoltanto all’intelligenza e alle sue idee, non alla struttura dellarealtà. Il D., parlando di certe cose più facili a conoscere di al-tre, si conforma alla distinzione tradizionale derivante da Ari-stotele, fra ciò che è più noto per natura, o per sè, e ciò che èpiù noto rispetto a noi. È più facile a conoscere non quello cheeffettivamente ci appare tale, come i dati dei sensi, ma ciò chein sè ha il massimo di intelligibilità e costituisce il presuppo-sto e la condizione della conoscenza delle altre cose. Questa

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loro più difficili dimostrazioni, m’avevano dato occasio-ne d’immaginare che tutte le cose le quali possono cade-re sotto la conoscenza degli uomini, si susseguano nellostesso modo, e che, purchè soltanto ci si astengadall’accettarne per vera qualcuna che non lo sia, e siconservi sempre l’ordine che occorre per dedurle le unedalle altre, non possano esservene di così lontane, allequali infine non si pervenga, nè di così nascoste che nonsi scoprano112. E non penai molto a cercare da quali oc-

regola prescrive di supporre un ordine anche se non ne esisteeffettivamente uno naturale, cioè se si tratta di risolvere pro-blemi artificiali, come l’enigma della Sfinge.

111 L’enumerazione nelle Regulae compie due uffici: da una par-te è una deduzione complicata che congiunge due estremi pas-sando successivamente, grazie a un movimento continuo eininterrotto di pensiero, per una lunga serie di medi, sicchè lamente può intuire ogni singolo momento di essa, ma non ilsuo insieme. La regola prescrive di non omettere alcun anellodella catena, sia nella ricerca del rapporto di dipendenza checollega una conoscenza a un’altra, sia nella divisione di unadifficoltà complessa nelle sue parti elementari. Dall’altra,come dice il Bréhier, l’enumerazione è «una scelta metodicache esclude tutto ciò che non è necessario per il problema sta-bilito». Di ciò la quarta regola non parla. È chiaro che la nor-ma della enumerazione ha un posto subordinato alle altre, per-chè prescrive soltanto di procedere metodicamente nelle dedu-zioni lunghe e complicate.

112 Stando al Discorso, il D., riflettendo sui procedimenti sponta-nei delle matematiche, stabilì con precisione le norme allequali, senza rendersene ben conto, si erano sottoposti i lorocultori. In seguito, si propose di applicarle nelle sue ricerche

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loro più difficili dimostrazioni, m’avevano dato occasio-ne d’immaginare che tutte le cose le quali possono cade-re sotto la conoscenza degli uomini, si susseguano nellostesso modo, e che, purchè soltanto ci si astengadall’accettarne per vera qualcuna che non lo sia, e siconservi sempre l’ordine che occorre per dedurle le unedalle altre, non possano esservene di così lontane, allequali infine non si pervenga, nè di così nascoste che nonsi scoprano112. E non penai molto a cercare da quali oc-

regola prescrive di supporre un ordine anche se non ne esisteeffettivamente uno naturale, cioè se si tratta di risolvere pro-blemi artificiali, come l’enigma della Sfinge.

111 L’enumerazione nelle Regulae compie due uffici: da una par-te è una deduzione complicata che congiunge due estremi pas-sando successivamente, grazie a un movimento continuo eininterrotto di pensiero, per una lunga serie di medi, sicchè lamente può intuire ogni singolo momento di essa, ma non ilsuo insieme. La regola prescrive di non omettere alcun anellodella catena, sia nella ricerca del rapporto di dipendenza checollega una conoscenza a un’altra, sia nella divisione di unadifficoltà complessa nelle sue parti elementari. Dall’altra,come dice il Bréhier, l’enumerazione è «una scelta metodicache esclude tutto ciò che non è necessario per il problema sta-bilito». Di ciò la quarta regola non parla. È chiaro che la nor-ma della enumerazione ha un posto subordinato alle altre, per-chè prescrive soltanto di procedere metodicamente nelle dedu-zioni lunghe e complicate.

112 Stando al Discorso, il D., riflettendo sui procedimenti sponta-nei delle matematiche, stabilì con precisione le norme allequali, senza rendersene ben conto, si erano sottoposti i lorocultori. In seguito, si propose di applicarle nelle sue ricerche

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corresse cominciare: perchè sapevo già che occorrevacominciare dalle più semplici e più facili da conoscere:e considerando che fra tutti coloro che hanno perl’innanzi ricercato la verità nelle scienze, i soli matema-tici hanno potuto trovare alcune dimostrazioni, cioè al-cune ragioni certe ed evidenti, non dubitavo che si do-vesse cominciare da quelle cose che essi hanno esami-nate; benchè non ne sperassi altra utilità, se non cheavrebbero abituato la mia intelligenza a pascersi di veri-tà e a non contentarsi di false ragioni. Ma non mi propo-si, per questo, di cercare d’imparare tutte quelle scienzeparticolari che si chiamano comunemente matemati-che113; e vedendo che sebbene i loro soggetti siano diffe-renti, si accordano però tutte in questo, che in essi siconsiderano soltanto i diversi rapporti o proporzioni114

scientifiche e, per uniformarsi alla terza regola, si occupò dap-prima di quelle stesse discipline matematiche dalle quali leaveva derivate (dopo averle liberate dai difetti che vi aveva ri-scontrato), appunto perchè esse gli offrivano le cose più sem-plici e più facili a conoscere. Questa narrazione poggiasull’affermazione che il D., dopo lasciato il collegio, non siera più occupato di studi e che poi, nell’inverno 1619-1620,aveva rivolto la sue attenzioni alle ricerche matematiche deglialtri, e specialmente degli antichi. Come si è visto, ciò è ine-satto, sicchè egli avrebbe potuto riflettere anche sulle ricercheproprie.

113 Le matematiche pure e le loro applicazioni alla realtà fisica(astronomia, meccanica, ottica....), che nella scolastica si chia-mavano matematiche miste.

114 I rapporti o proporzioni sono nelle Regulae distinti in due ge-

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corresse cominciare: perchè sapevo già che occorrevacominciare dalle più semplici e più facili da conoscere:e considerando che fra tutti coloro che hanno perl’innanzi ricercato la verità nelle scienze, i soli matema-tici hanno potuto trovare alcune dimostrazioni, cioè al-cune ragioni certe ed evidenti, non dubitavo che si do-vesse cominciare da quelle cose che essi hanno esami-nate; benchè non ne sperassi altra utilità, se non cheavrebbero abituato la mia intelligenza a pascersi di veri-tà e a non contentarsi di false ragioni. Ma non mi propo-si, per questo, di cercare d’imparare tutte quelle scienzeparticolari che si chiamano comunemente matemati-che113; e vedendo che sebbene i loro soggetti siano diffe-renti, si accordano però tutte in questo, che in essi siconsiderano soltanto i diversi rapporti o proporzioni114

scientifiche e, per uniformarsi alla terza regola, si occupò dap-prima di quelle stesse discipline matematiche dalle quali leaveva derivate (dopo averle liberate dai difetti che vi aveva ri-scontrato), appunto perchè esse gli offrivano le cose più sem-plici e più facili a conoscere. Questa narrazione poggiasull’affermazione che il D., dopo lasciato il collegio, non siera più occupato di studi e che poi, nell’inverno 1619-1620,aveva rivolto la sue attenzioni alle ricerche matematiche deglialtri, e specialmente degli antichi. Come si è visto, ciò è ine-satto, sicchè egli avrebbe potuto riflettere anche sulle ricercheproprie.

113 Le matematiche pure e le loro applicazioni alla realtà fisica(astronomia, meccanica, ottica....), che nella scolastica si chia-mavano matematiche miste.

114 I rapporti o proporzioni sono nelle Regulae distinti in due ge-

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che vi si trovano, pensavo che valesse meglio esaminareesclusivamente queste proporzioni in generale e senzasupporle in soggetti115 diversi da quelli capaci di render-mene la conoscenza più facile, anzi senza legarle in nes-sun modo a tali soggetti, per poterle meglio applicaredopo a tutti gli altri ai quali convenissero116. Poi, avendoosservato che, per conoscerle, avrei avuto qualche voltabisogno di considerarle ciascuna in particolare, e qual-che volta soltanto di ricordarle, o di comprenderne pa-recchie insieme,117 pensai che, per considerarle meglioin particolare, dovevo supporle in linee,118 perchè nontrovavo niente di più semplice nè ch’io potessi più di-stintamente rappresentare alla mia immaginazione e ai

neri: di ordine e di misura.115 Soggetto, nella terminologia tradizionale seguita dal D., si-

gnifica la realtà alla quale si riferisce il pensiero.116 Studiando i rapporti o le proporzioni per sè, senza collegarle

con vincoli fissi a certi oggetti particolari, il D. mirava ad ap-plicarle poi a tutti gli oggetti fra i quali potessero essere stabi-lite, cioè non soltanto i numeri e le figure, ma anche gli astri, isuoni.... Questo studio dei rapporti o delle proporzioni in ge-nerale costituisce la matematica universale, la quale, appuntoperchè scienza dei rapporti non soltanto di ordine, ma anchedi misura, si riferisce sempre a grandezze. Il metodo, per sèpreso, prescrive soltanto la ricerca dell’ordine: applicato allamatematica universale, deve includere anche lo studio dei rap-porti di misura.

117 Si tratta di deduzioni lunghe e complicate, che richiedonol’intervento della memoria.

118 Ossia, rappresentarle per mezzo di linee.

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che vi si trovano, pensavo che valesse meglio esaminareesclusivamente queste proporzioni in generale e senzasupporle in soggetti115 diversi da quelli capaci di render-mene la conoscenza più facile, anzi senza legarle in nes-sun modo a tali soggetti, per poterle meglio applicaredopo a tutti gli altri ai quali convenissero116. Poi, avendoosservato che, per conoscerle, avrei avuto qualche voltabisogno di considerarle ciascuna in particolare, e qual-che volta soltanto di ricordarle, o di comprenderne pa-recchie insieme,117 pensai che, per considerarle meglioin particolare, dovevo supporle in linee,118 perchè nontrovavo niente di più semplice nè ch’io potessi più di-stintamente rappresentare alla mia immaginazione e ai

neri: di ordine e di misura.115 Soggetto, nella terminologia tradizionale seguita dal D., si-

gnifica la realtà alla quale si riferisce il pensiero.116 Studiando i rapporti o le proporzioni per sè, senza collegarle

con vincoli fissi a certi oggetti particolari, il D. mirava ad ap-plicarle poi a tutti gli oggetti fra i quali potessero essere stabi-lite, cioè non soltanto i numeri e le figure, ma anche gli astri, isuoni.... Questo studio dei rapporti o delle proporzioni in ge-nerale costituisce la matematica universale, la quale, appuntoperchè scienza dei rapporti non soltanto di ordine, ma anchedi misura, si riferisce sempre a grandezze. Il metodo, per sèpreso, prescrive soltanto la ricerca dell’ordine: applicato allamatematica universale, deve includere anche lo studio dei rap-porti di misura.

117 Si tratta di deduzioni lunghe e complicate, che richiedonol’intervento della memoria.

118 Ossia, rappresentarle per mezzo di linee.

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miei sensi119; ma che, per ricordarle o comprenderne pa-recchie insieme, dovevo designarle con cifre, le più bre-vi possibili120: e che, con questo mezzo, io avrei presotutto il meglio dall’analisi geometrica e dall’algebra,121 eavrei corretto con l’una tutti i difetti dell’altra. Così, di-fatti, oso dire che l’esatta osservanza di quei pochi pre-

119 Come osserva il Gilson, per rendere la matematica universa-le, il D. doveva eliminare il dualismo esistente fra l’aritmeti-ca, che si occupa del numero o quantità discontinua, e la geo-metria, che studia la grandezza spaziale, o quantità continua,rappresentando simbolicamente la quantità meno semplice permezzo della più semplice. Le grandezze spaziali sono simbolipiù semplici dei numeri, perchè possono rappresentare tutte lequantità discontinue e i loro rapporti, mentre talvolta il proce-dimento inverso non è possibile: ad esempio, i rapporti dellegrandezze incommensurabili sono inesprimibili per mezzo dinumeri. Fra tutte le grandezze spaziali, le linee sono le piùsemplici e debbono essere prescelte, perchè possono simbo-leggiare tutti i rapporti quantitativi possibili, fra numeri, frasuperfici e fra solidi: così le proporzioni di quantità possonoessere studiate per sè, senza che sia necessario collegarle ailoro termini. Le linee usate come rappresentazione simbolicadei rapporti quantitativi in generale si rivolgono alla immagi-nazione, che è un aiuto di cui l’intelligenza deve fare uso, evi-tando però di subirne il dominio, come avveniva nella geome-tria antica.

120 Chiffres = Simboli algebrici. Il D. eliminò la complicata no-tazione usata nell’algebra del suo tempo valendosi di lettereper designare le grandezze (linee) e di numeri posti su di essecome esponenti, per indicare le potenze, che precedentementeerano rappresentate per mezzo dei caratteri cossici.

121 Nota il Gilson che la geometria analitica cartesiana conserva

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miei sensi119; ma che, per ricordarle o comprenderne pa-recchie insieme, dovevo designarle con cifre, le più bre-vi possibili120: e che, con questo mezzo, io avrei presotutto il meglio dall’analisi geometrica e dall’algebra,121 eavrei corretto con l’una tutti i difetti dell’altra. Così, di-fatti, oso dire che l’esatta osservanza di quei pochi pre-

119 Come osserva il Gilson, per rendere la matematica universa-le, il D. doveva eliminare il dualismo esistente fra l’aritmeti-ca, che si occupa del numero o quantità discontinua, e la geo-metria, che studia la grandezza spaziale, o quantità continua,rappresentando simbolicamente la quantità meno semplice permezzo della più semplice. Le grandezze spaziali sono simbolipiù semplici dei numeri, perchè possono rappresentare tutte lequantità discontinue e i loro rapporti, mentre talvolta il proce-dimento inverso non è possibile: ad esempio, i rapporti dellegrandezze incommensurabili sono inesprimibili per mezzo dinumeri. Fra tutte le grandezze spaziali, le linee sono le piùsemplici e debbono essere prescelte, perchè possono simbo-leggiare tutti i rapporti quantitativi possibili, fra numeri, frasuperfici e fra solidi: così le proporzioni di quantità possonoessere studiate per sè, senza che sia necessario collegarle ailoro termini. Le linee usate come rappresentazione simbolicadei rapporti quantitativi in generale si rivolgono alla immagi-nazione, che è un aiuto di cui l’intelligenza deve fare uso, evi-tando però di subirne il dominio, come avveniva nella geome-tria antica.

120 Chiffres = Simboli algebrici. Il D. eliminò la complicata no-tazione usata nell’algebra del suo tempo valendosi di lettereper designare le grandezze (linee) e di numeri posti su di essecome esponenti, per indicare le potenze, che precedentementeerano rappresentate per mezzo dei caratteri cossici.

121 Nota il Gilson che la geometria analitica cartesiana conserva

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cetti che avevo scelti, mi diede tanta facilità di chiariretutti i problemi a cui quelle due scienze s’applicano, chenei due o tre mesi che impiegai a esaminarli – avendocominciato dai più semplici e generali, ed ogni veritàtrovata essendo una regola che mi serviva dopo a trovar-ne altre – non solo venni a capo di molti di essi che pri-ma avevo giudicato assai difficili, ma mi sembrò anche,verso la fine, di poter determinare, perfino in quelli cheignoravo, con quali mezzi e fin dove fosse possibile ri-solverli.122 In questo non vi sembrerò, forse, molto vano,

della analisi geometrica il sussidio che questa chiedeall’immaginazione, in quanto si serve di linee, ma evita di le-gare la ricerca alla considerazione delle figure, perchè lascienza che egli crea è un’algebra. La geometria analitica con-serva del calcolo algebrico precedente la brevità determinatadal suo simbolismo, ma, essendo un’analisi, si rivolgeall’intelligenza e perciò elimina il meccanismo cieco che do-minava in quel calcolo.

122 Stando a questo testo, il D. nell’inverno 1619-1620 (novem-bre-febbraio) fissò da prima i principî direttori del suo metodoe poi li applicò alle matematiche, nelle quali, grazie all’osser-vanza di quei pochi precetti, fece notevoli scoperte. (Queste sidovrebbero collocare nei mesi di dicembre 1619-febbraio1620). Ma siccome si è riconosciuto, in casi che si possonobene determinare, che nel Discorso egli ha più volte retrodata-to certi momenti del suo sviluppo intellettuale, si può suppor-re che abbia agito così anche in questo caso e che perciò laformulazione delle norme del metodo abbia non preceduto,ma seguito le sue ricerche e le sue scoperte matematiche diquell’inverno. L’affermazione del D. che tali scoperte furonoil frutto del suo metodo (affermazione che appare nel titolo

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cetti che avevo scelti, mi diede tanta facilità di chiariretutti i problemi a cui quelle due scienze s’applicano, chenei due o tre mesi che impiegai a esaminarli – avendocominciato dai più semplici e generali, ed ogni veritàtrovata essendo una regola che mi serviva dopo a trovar-ne altre – non solo venni a capo di molti di essi che pri-ma avevo giudicato assai difficili, ma mi sembrò anche,verso la fine, di poter determinare, perfino in quelli cheignoravo, con quali mezzi e fin dove fosse possibile ri-solverli.122 In questo non vi sembrerò, forse, molto vano,

della analisi geometrica il sussidio che questa chiedeall’immaginazione, in quanto si serve di linee, ma evita di le-gare la ricerca alla considerazione delle figure, perchè lascienza che egli crea è un’algebra. La geometria analitica con-serva del calcolo algebrico precedente la brevità determinatadal suo simbolismo, ma, essendo un’analisi, si rivolgeall’intelligenza e perciò elimina il meccanismo cieco che do-minava in quel calcolo.

122 Stando a questo testo, il D. nell’inverno 1619-1620 (novem-bre-febbraio) fissò da prima i principî direttori del suo metodoe poi li applicò alle matematiche, nelle quali, grazie all’osser-vanza di quei pochi precetti, fece notevoli scoperte. (Queste sidovrebbero collocare nei mesi di dicembre 1619-febbraio1620). Ma siccome si è riconosciuto, in casi che si possonobene determinare, che nel Discorso egli ha più volte retrodata-to certi momenti del suo sviluppo intellettuale, si può suppor-re che abbia agito così anche in questo caso e che perciò laformulazione delle norme del metodo abbia non preceduto,ma seguito le sue ricerche e le sue scoperte matematiche diquell’inverno. L’affermazione del D. che tali scoperte furonoil frutto del suo metodo (affermazione che appare nel titolo

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se considerate che, essendoci una sola verità per ognicosa, chiunque la trovi ne sa tanto quanto se ne può sa-pere; e che, per esempio, un fanciullo istruito nell’arit-metica, avendo fatto un’addizione secondo le regole,può esser certo d’aver trovato, su la somma che esami-nava, tutto ciò che l’intelligenza umana può trovare.Giacchè, infine, il metodo che insegna a seguire il veroordine, e a enumerare esattamente tutte le circostanze diciò che si cerca, contiene tutto quello che arreca certez-za alle regole dell’aritmetica.

Ma ciò che in questo metodo mi soddisfaceva di piùera che, grazie ad esso, ero sicuro di fare uso in tutto

stesso della prima edizione del Discorso: v. Introd., p. XII[pag. 15 in questa edizione Manuzio]) si spiega facilmente sesi pensa che egli voleva mettere in evidenza il valore l’effica-cia della sua dottrina metodologica; ma è poco verosimile cheprogressi scientifici importanti siano stati compiuti grazieall’applicazione riflessa di certe norme, siano pure generalissi-me. A ciò si aggiunga che nelle Regulae il metodo cartesiano,sebbene aspiri all’universalità, appare applicabile soltanto allescienze di tipo matematico. È questo un forte indizio contro lanarrazione del Discorso. In breve: si può pensare che il D.,dopo avere fatto delle scoperte matematiche importanti, si siasforzato di stabilire le norme di un metodo valido in ognicampo di ricerca scientifica, ma nel formularle abbia conside-rato oggetti propri di una matematica che, sebbene universale,era sempre rinchiusa nella sfera delle grandezze. Questa in-coerenza, che appare nelle Regulae (che forse seguono dipoco le riflessioni del D. sul metodo della scienza in generale)non è presente nel Discorso, che segna una nuova fase delpensiero dell’autore.

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se considerate che, essendoci una sola verità per ognicosa, chiunque la trovi ne sa tanto quanto se ne può sa-pere; e che, per esempio, un fanciullo istruito nell’arit-metica, avendo fatto un’addizione secondo le regole,può esser certo d’aver trovato, su la somma che esami-nava, tutto ciò che l’intelligenza umana può trovare.Giacchè, infine, il metodo che insegna a seguire il veroordine, e a enumerare esattamente tutte le circostanze diciò che si cerca, contiene tutto quello che arreca certez-za alle regole dell’aritmetica.

Ma ciò che in questo metodo mi soddisfaceva di piùera che, grazie ad esso, ero sicuro di fare uso in tutto

stesso della prima edizione del Discorso: v. Introd., p. XII[pag. 15 in questa edizione Manuzio]) si spiega facilmente sesi pensa che egli voleva mettere in evidenza il valore l’effica-cia della sua dottrina metodologica; ma è poco verosimile cheprogressi scientifici importanti siano stati compiuti grazieall’applicazione riflessa di certe norme, siano pure generalissi-me. A ciò si aggiunga che nelle Regulae il metodo cartesiano,sebbene aspiri all’universalità, appare applicabile soltanto allescienze di tipo matematico. È questo un forte indizio contro lanarrazione del Discorso. In breve: si può pensare che il D.,dopo avere fatto delle scoperte matematiche importanti, si siasforzato di stabilire le norme di un metodo valido in ognicampo di ricerca scientifica, ma nel formularle abbia conside-rato oggetti propri di una matematica che, sebbene universale,era sempre rinchiusa nella sfera delle grandezze. Questa in-coerenza, che appare nelle Regulae (che forse seguono dipoco le riflessioni del D. sul metodo della scienza in generale)non è presente nel Discorso, che segna una nuova fase delpensiero dell’autore.

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della mia ragione, se non perfettamente, almeno il me-glio che fosse in mio potere; che inoltre sentivo, usando-lo, che la mia intelligenza si abituava a poco o poco aconcepire più nettamente e più distintamente i suoi og-getti, e che, non avendolo assoggettato a nessuna parti-colare materia, mi ripromettevo d’applicarlo così util-mente alle difficoltà delle altre scienze, come avevo fat-to per quelle dell’algebra.123 Non che, per questo, osassidi intraprendere subito l’esame di tutte quelle che si po-tessero presentare; perchè anche questo sarebbe statocontrario all’ordine che quel metodo prescrive. Maavendo osservato che i loro principî dovevano tutti esserpresi a prestito dalla filosofia,124 in cui non ne trovavo

123 Le Regulae mostrano che il D. intendeva di interpretare ma-tematicamente i fenomeni fisici, spiegandoli per mezzo di al-cune nature semplici che si trovano soltanto nei corpi (esten-sione, figura, movimento). In questa sfera di ricerca ritenevache si dovessero considerare sia le relazioni di ordine chequelle di misura (v. Introd., p. XXVIII [pag. 40 in questa edi-zione Manuzio]).

124 Soprattutto dalla filosofia prima o metafisica, che si occupadei concetti che stanno alla base delle scienze particolari, eprincipalmente di quelle che studiano il mondo fisico. Il D.viene così a distinguere le matematiche dalle altre scienze,perchè non ritiene che esse abbiano un fondamento nella filo-sofia generale; egli può fare questa eccezione perchè crede an-cora che la evidenza dei concetti primitivi e dei principî diesse sia garanzia sufficiente di verità e non richieda che se nedia un’ulteriore giustificazione. Si conferma ciò che si è giàosservato, che in questa fase del suo pensiero il D. dubita diciò che non possiede l’evidenza propria delle matematiche,

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della mia ragione, se non perfettamente, almeno il me-glio che fosse in mio potere; che inoltre sentivo, usando-lo, che la mia intelligenza si abituava a poco o poco aconcepire più nettamente e più distintamente i suoi og-getti, e che, non avendolo assoggettato a nessuna parti-colare materia, mi ripromettevo d’applicarlo così util-mente alle difficoltà delle altre scienze, come avevo fat-to per quelle dell’algebra.123 Non che, per questo, osassidi intraprendere subito l’esame di tutte quelle che si po-tessero presentare; perchè anche questo sarebbe statocontrario all’ordine che quel metodo prescrive. Maavendo osservato che i loro principî dovevano tutti esserpresi a prestito dalla filosofia,124 in cui non ne trovavo

123 Le Regulae mostrano che il D. intendeva di interpretare ma-tematicamente i fenomeni fisici, spiegandoli per mezzo di al-cune nature semplici che si trovano soltanto nei corpi (esten-sione, figura, movimento). In questa sfera di ricerca ritenevache si dovessero considerare sia le relazioni di ordine chequelle di misura (v. Introd., p. XXVIII [pag. 40 in questa edi-zione Manuzio]).

124 Soprattutto dalla filosofia prima o metafisica, che si occupadei concetti che stanno alla base delle scienze particolari, eprincipalmente di quelle che studiano il mondo fisico. Il D.viene così a distinguere le matematiche dalle altre scienze,perchè non ritiene che esse abbiano un fondamento nella filo-sofia generale; egli può fare questa eccezione perchè crede an-cora che la evidenza dei concetti primitivi e dei principî diesse sia garanzia sufficiente di verità e non richieda che se nedia un’ulteriore giustificazione. Si conferma ciò che si è giàosservato, che in questa fase del suo pensiero il D. dubita diciò che non possiede l’evidenza propria delle matematiche,

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ancora di certi, pensai che occorreva, innanzi tutto, cer-care di stabilirvene125; e che, essendo questa la cosa piùimportante del mondo, e quella dove la precipitazione ela prevenzione erano più da temere, non dovevo accin-germi a venirne a capo prima d’aver raggiunto un’etàmolto più matura di quella di ventitrè anni, che avevoallora,126 e prima d’aver impiegato molto tempo a prepa-rarmivi, sia sradicando dalla mia intelligenza tutte lecattive opinioni che vi avevo accolte prima di quel tem-po, sia accumulando molte esperienze, che potessero es-ser poi la materia dei miei ragionamenti,127 ed esercitan-domi sempre nel metodo che m’ero prescritto, per con-

ma arresta il suo dubbio davanti a quell’evidenza. In altri ter-mini, si limita a determinare i fondamenti del sapere scientifi-co.

125 Stabilire principî filosofici certi.126 Il D. era nato nel 1596, sicchè nell’inverno 1619-1620 si tro-

vava nel ventiquattresimo anno.127 Le esperienze che il D. contava di fare in quel tempo in mez-

zo al mondo umano potevano davvero servirgli a introdurreprincipî filosofici certi, capaci di costituire i fondamenti dellafisica? D’altra parte, negli anni che vanno dal 1620 al 1629, altempo cioè in cui decise di comporre una opera metafisica, ilD. compì importanti ricerche di fisica. Ancora una volta, sideve mettere in dubbio l’esattezza storica del Discorso. Sem-bra legittimo ritenere che il D. non abbia pensato nel 1619-1620 nè a stabilire una teoria generale del metodo, nè a co-struire una metafisica; che negli anni successivi si sia occupa-to di fisica; che verso il 1628-1629 abbia determinato i princi-pî generali del metodo, e che infine nel 1629 si sia posto acomporre un’opera metafisica.

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ancora di certi, pensai che occorreva, innanzi tutto, cer-care di stabilirvene125; e che, essendo questa la cosa piùimportante del mondo, e quella dove la precipitazione ela prevenzione erano più da temere, non dovevo accin-germi a venirne a capo prima d’aver raggiunto un’etàmolto più matura di quella di ventitrè anni, che avevoallora,126 e prima d’aver impiegato molto tempo a prepa-rarmivi, sia sradicando dalla mia intelligenza tutte lecattive opinioni che vi avevo accolte prima di quel tem-po, sia accumulando molte esperienze, che potessero es-ser poi la materia dei miei ragionamenti,127 ed esercitan-domi sempre nel metodo che m’ero prescritto, per con-

ma arresta il suo dubbio davanti a quell’evidenza. In altri ter-mini, si limita a determinare i fondamenti del sapere scientifi-co.

125 Stabilire principî filosofici certi.126 Il D. era nato nel 1596, sicchè nell’inverno 1619-1620 si tro-

vava nel ventiquattresimo anno.127 Le esperienze che il D. contava di fare in quel tempo in mez-

zo al mondo umano potevano davvero servirgli a introdurreprincipî filosofici certi, capaci di costituire i fondamenti dellafisica? D’altra parte, negli anni che vanno dal 1620 al 1629, altempo cioè in cui decise di comporre una opera metafisica, ilD. compì importanti ricerche di fisica. Ancora una volta, sideve mettere in dubbio l’esattezza storica del Discorso. Sem-bra legittimo ritenere che il D. non abbia pensato nel 1619-1620 nè a stabilire una teoria generale del metodo, nè a co-struire una metafisica; che negli anni successivi si sia occupa-to di fisica; che verso il 1628-1629 abbia determinato i princi-pî generali del metodo, e che infine nel 1629 si sia posto acomporre un’opera metafisica.

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solidarmi in esso sempre più.

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solidarmi in esso sempre più.

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PARTE TERZAALCUNE REGOLE DI MORALE DERIVATE DA QUESTO METODO

E infine, siccome non basta, prima di cominciare a ri-costruire la casa dove si abita, abbatterla e provvedersidi materiali e d’architetti, o esercitarsi nell’architettura,e, oltre a ciò, averne con cura tracciato il disegno; maoccorre anche essersi provvisto di qualche altra casadove si possa abitare comodamente durante il tempo chesi lavorerà: così, per non rimanere indeciso nelle mieazioni mentre la ragione m’obbligava ad esserlo neimiei giudizi, e per non smettere di vivere, da quel mo-mento, il più felicemente possibile, mi formai una mora-le provvisoria128, la quale non consisteva che in tre o

128 Secondo il D. la meccanica, la medicina e la morale costitui-scono i rami dell’albero della filosofia, che ha le sue radicinella metafisica (la quale contiene i principî della conoscenzae perciò è anche una gnoseologia), e il tronco della fisica. Lamorale, che presuppose una conoscenza completa delle altrescienze, e particolarmente di quelle che si occupano della na-tura dell’uomo, è il grado più elevato della saggezza, che èl’oggetto di studio della filosofia. Ciò vale per una morale fi-losofica, che, appunto perchè derivata dai primi principî indi-scutibili e costruita secondo l’ordine razionale prescritto dalmetodo, deve possedere carattere definitivo. Ma a questo ri-sultato può giungere soltanto chi ha costruito completamenteun sistema filosofico, mentre il D., nel momento di cui parla ilDiscorso, sta appena per iniziare la ricerca dei suoi fondamen-ti. Ora, se speculativamente si può restare nell’incertezza

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PARTE TERZAALCUNE REGOLE DI MORALE DERIVATE DA QUESTO METODO

E infine, siccome non basta, prima di cominciare a ri-costruire la casa dove si abita, abbatterla e provvedersidi materiali e d’architetti, o esercitarsi nell’architettura,e, oltre a ciò, averne con cura tracciato il disegno; maoccorre anche essersi provvisto di qualche altra casadove si possa abitare comodamente durante il tempo chesi lavorerà: così, per non rimanere indeciso nelle mieazioni mentre la ragione m’obbligava ad esserlo neimiei giudizi, e per non smettere di vivere, da quel mo-mento, il più felicemente possibile, mi formai una mora-le provvisoria128, la quale non consisteva che in tre o

128 Secondo il D. la meccanica, la medicina e la morale costitui-scono i rami dell’albero della filosofia, che ha le sue radicinella metafisica (la quale contiene i principî della conoscenzae perciò è anche una gnoseologia), e il tronco della fisica. Lamorale, che presuppose una conoscenza completa delle altrescienze, e particolarmente di quelle che si occupano della na-tura dell’uomo, è il grado più elevato della saggezza, che èl’oggetto di studio della filosofia. Ciò vale per una morale fi-losofica, che, appunto perchè derivata dai primi principî indi-scutibili e costruita secondo l’ordine razionale prescritto dalmetodo, deve possedere carattere definitivo. Ma a questo ri-sultato può giungere soltanto chi ha costruito completamenteun sistema filosofico, mentre il D., nel momento di cui parla ilDiscorso, sta appena per iniziare la ricerca dei suoi fondamen-ti. Ora, se speculativamente si può restare nell’incertezza

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quattro massime, di cui voglio mettervi a parte.La prima era d’obbedire alle leggi e ai costumi del

mio paese, conservando costantemente la religione incui Dio m’ha fatto la grazia d’essere istruito fin dallamia infanzia, e regolandomi, in ogni altra cosa, secondole opinioni più moderate, e meno eccessive, che fosserocomunemente messe in pratica dalle persone più sensatefra quelle colle quali avrei dovuto vivere129. Infatti co-

quando non si sono ancora risolti i problemi del pensiero, nonsi può rimanere passivi e indecisi davanti a quelli della azione,cioè della vita pratica ai quali in qualche modo occorre dareuna soluzione, anche se non si è certi che sia la migliore. Daciò deriva la necessità di una morale provvisoria, destinata adarrecare al D., per quanto egli può presumere, la vita più felicepossibile nel tempo in cui sta compiendo la sua ricerca filoso-fica. Ma si tratta di possibilità, non di certezza. Il D., appuntoperchè non può fondare razionalmente quella morale, devecontentarsi del verosimile, di ciò che è più probabile del resto,senza aspirare a una conoscenza vera e perciò non può esseresicuro di raggiungere lo scopo che si propone. Se nemmeno inseguito il D. compose un trattato filosofico sui problemi etici,espose però le sue idee sull’argomento nella corrispondenzacon la principessa Elisabetta, con lo Chanut e con la ReginaCristina di Svezia. La morale definitiva che vi è presentatanon differisce, nel suo contenuto sostanziale, (ad eccezionedella prima regola) da quella provvisoria del Discorso; però sene distingue per il fatto che poggia su una giustificazione ra-zionale. La morale definitiva si fonda su tutta la filosofia delD. e particolarmente sulla sua concezione generale della natu-ra umana e trova i suoi presupposti psicologici nel trattato Lepassioni dell’anima.

129 Mentre nella morale provvisoria, che non possiede principî

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quattro massime, di cui voglio mettervi a parte.La prima era d’obbedire alle leggi e ai costumi del

mio paese, conservando costantemente la religione incui Dio m’ha fatto la grazia d’essere istruito fin dallamia infanzia, e regolandomi, in ogni altra cosa, secondole opinioni più moderate, e meno eccessive, che fosserocomunemente messe in pratica dalle persone più sensatefra quelle colle quali avrei dovuto vivere129. Infatti co-

quando non si sono ancora risolti i problemi del pensiero, nonsi può rimanere passivi e indecisi davanti a quelli della azione,cioè della vita pratica ai quali in qualche modo occorre dareuna soluzione, anche se non si è certi che sia la migliore. Daciò deriva la necessità di una morale provvisoria, destinata adarrecare al D., per quanto egli può presumere, la vita più felicepossibile nel tempo in cui sta compiendo la sua ricerca filoso-fica. Ma si tratta di possibilità, non di certezza. Il D., appuntoperchè non può fondare razionalmente quella morale, devecontentarsi del verosimile, di ciò che è più probabile del resto,senza aspirare a una conoscenza vera e perciò non può esseresicuro di raggiungere lo scopo che si propone. Se nemmeno inseguito il D. compose un trattato filosofico sui problemi etici,espose però le sue idee sull’argomento nella corrispondenzacon la principessa Elisabetta, con lo Chanut e con la ReginaCristina di Svezia. La morale definitiva che vi è presentatanon differisce, nel suo contenuto sostanziale, (ad eccezionedella prima regola) da quella provvisoria del Discorso; però sene distingue per il fatto che poggia su una giustificazione ra-zionale. La morale definitiva si fonda su tutta la filosofia delD. e particolarmente sulla sua concezione generale della natu-ra umana e trova i suoi presupposti psicologici nel trattato Lepassioni dell’anima.

129 Mentre nella morale provvisoria, che non possiede principî

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minciando da quel momento a non tener alcun contodelle mie opinioni, perchè le volevo sottoporre tutte a unnuovo esame, ero sicuro di non poter fare meglio cheseguire quelle dei più assennati. E benchè vi siano, for-se, persone altrettanto assennate tra i Persiani o i Cinesiche fra noi, mi sembrava che la cosa più utile fosse re-golarmi secondo coloro coi quali avrei dovuto vivere, eche, per sapere quali erano veramente le loro opinioni,dovessi far attenzione a quello che facevano piuttostoche a quello che dicevano; non soltanto perchè, nellacorruzione dei nostri costumi, vi sono poche personeche vogliano dire tutto quello che credono, ma ancheperchè molte lo ignorano esse stesse; giacchè, essendol’atto del pensiero con cui si crede una cosa, diverso daquello con cui si sa di crederla, spesso l’uno è senzal’altro130. E tra molte opinioni egualmente accettate, sce-glievo solo le più moderate: sia perchè queste sono sem-pre le più comode per la pratica, e verisimilmente le mi-gliori, ogni eccesso essendo di solito cattivo; sia anche,nel caso che sbagliassi, per allontanarmi dal sentiero

razionali sicuri, si raccomanda di seguire la tradizione e i co-stumi del paese nel quale si vive e in particolare di prendereper esempio le persone che, per quanto mostra l’esperienza,appaiono più sensate delle altre, in quella definitiva si prescri-ve di scegliere per guida la ragione.

130 La credenza è un atto di giudizio e perciò dipende dalla vo-lontà, mentre la conoscenza appartiene all’intelletto: quindi èpossibile che una di quelle due operazioni del pensiero si in-contri senza l’altra.

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minciando da quel momento a non tener alcun contodelle mie opinioni, perchè le volevo sottoporre tutte a unnuovo esame, ero sicuro di non poter fare meglio cheseguire quelle dei più assennati. E benchè vi siano, for-se, persone altrettanto assennate tra i Persiani o i Cinesiche fra noi, mi sembrava che la cosa più utile fosse re-golarmi secondo coloro coi quali avrei dovuto vivere, eche, per sapere quali erano veramente le loro opinioni,dovessi far attenzione a quello che facevano piuttostoche a quello che dicevano; non soltanto perchè, nellacorruzione dei nostri costumi, vi sono poche personeche vogliano dire tutto quello che credono, ma ancheperchè molte lo ignorano esse stesse; giacchè, essendol’atto del pensiero con cui si crede una cosa, diverso daquello con cui si sa di crederla, spesso l’uno è senzal’altro130. E tra molte opinioni egualmente accettate, sce-glievo solo le più moderate: sia perchè queste sono sem-pre le più comode per la pratica, e verisimilmente le mi-gliori, ogni eccesso essendo di solito cattivo; sia anche,nel caso che sbagliassi, per allontanarmi dal sentiero

razionali sicuri, si raccomanda di seguire la tradizione e i co-stumi del paese nel quale si vive e in particolare di prendereper esempio le persone che, per quanto mostra l’esperienza,appaiono più sensate delle altre, in quella definitiva si prescri-ve di scegliere per guida la ragione.

130 La credenza è un atto di giudizio e perciò dipende dalla vo-lontà, mentre la conoscenza appartiene all’intelletto: quindi èpossibile che una di quelle due operazioni del pensiero si in-contri senza l’altra.

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vero meno che se, avendo scelto uno degli estremi, fos-se stato l’altro quello che occorreva seguire. E, in parti-colare, ponevo tra gli eccessi tutte le promesse con cuisi toglie qualche cosa alla propria libertà131. Non che iodisapprovassi le leggi le quali, per rimediare all’inco-stanza degli spiriti deboli, permettono, quando si haqualche disegno buono, o anche, per la sicurezza delcommercio, qualche disegno soltanto indifferente, che sifacciano voti o contratti che obblighino a perseverare inesso132; ma siccome non vedevo al mondo nessuna cosarimanere sempre nello stesso stato, e quanto al mio par-ticolare, mi ripromettevo di perfezionare sempre più imiei giudizi, e non di renderli peggiori, avrei pensato dicommettere una grande colpa contro il buon senso se,pel fatto che approvavo allora qualche cosa, mi fossi ob-bligato a prenderla per buona anche dopo, quando, for-se, avrebbe cessato d’esserlo, o avrei io cessato di sti-marla tale.133

La mia seconda massima era d’essere nelle mie azioniil più fermo e risoluto che potessi, e di seguire anche le

131 Come determina meglio la versione latina: la libertà di cam-biare in seguito la decisione.

132 Il D. distingue i voti religiosi che impegnano a compiere attibuoni, dai contratti commerciali, che obbligano a fare coseche, per sè, sono moralmente indifferenti.

133 Appunto perchè la morale di cui parla non ha fondamento ra-zionale e perciò è provvisoria, il D. non può impegnare la pro-pria volontà in modo definitivo a giudicare sempre le cosenello stesso modo.

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vero meno che se, avendo scelto uno degli estremi, fos-se stato l’altro quello che occorreva seguire. E, in parti-colare, ponevo tra gli eccessi tutte le promesse con cuisi toglie qualche cosa alla propria libertà131. Non che iodisapprovassi le leggi le quali, per rimediare all’inco-stanza degli spiriti deboli, permettono, quando si haqualche disegno buono, o anche, per la sicurezza delcommercio, qualche disegno soltanto indifferente, che sifacciano voti o contratti che obblighino a perseverare inesso132; ma siccome non vedevo al mondo nessuna cosarimanere sempre nello stesso stato, e quanto al mio par-ticolare, mi ripromettevo di perfezionare sempre più imiei giudizi, e non di renderli peggiori, avrei pensato dicommettere una grande colpa contro il buon senso se,pel fatto che approvavo allora qualche cosa, mi fossi ob-bligato a prenderla per buona anche dopo, quando, for-se, avrebbe cessato d’esserlo, o avrei io cessato di sti-marla tale.133

La mia seconda massima era d’essere nelle mie azioniil più fermo e risoluto che potessi, e di seguire anche le

131 Come determina meglio la versione latina: la libertà di cam-biare in seguito la decisione.

132 Il D. distingue i voti religiosi che impegnano a compiere attibuoni, dai contratti commerciali, che obbligano a fare coseche, per sè, sono moralmente indifferenti.

133 Appunto perchè la morale di cui parla non ha fondamento ra-zionale e perciò è provvisoria, il D. non può impegnare la pro-pria volontà in modo definitivo a giudicare sempre le cosenello stesso modo.

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opinioni più dubbie, quando mi fossi deciso per esse,con non minore costanza che se fossero state sicurissi-me:134 imitando in questo i viaggiatori i quali, trovandosisperduti in qualche foresta, non debbono vagare girandoora da una parte ora da un’altra, nè ancor meno fermarsiin un posto, ma camminar sempre il più diritto possibilein una sola direzione, e non cambiarla per deboli ragio-ni, benchè, forse, in principio, solo il caso li abbia deter-minati a sceglierla: giacchè, con questo mezzo, se nonvanno proprio dove desiderano, arriveranno almeno, infine, in qualche luogo, dove verosimilmente si troveran-no meglio che nel mezzo d’una foresta. E così, siccomele azioni della vita non permettono spesso alcun indu-gio, è una verità certissima che, quando non è in nostropotere discernere le opinioni più vere, dobbiamo seguirele più probabili; e anzi, anche se non notiamo maggioreprobabilità nelle une che nelle altre, dobbiamo tuttaviadeciderci per alcune, e considerarle dopo, non più comedubbie, in quanto si riferiscono alla pratica, ma comeverissime e certissime, perchè tale è la ragione che ci hafatto decidere per esse.135 E questo potè d’allora in poi

134 Nella morale definitiva, questa regola prescrive di avere unaferma e costante risoluzione di eseguire tutto ciò che la ragio-ne consiglierà, senza lasciarsi fuorviare dalle passioni e dagliappetiti; la fermezza di questa risoluzione costituisce la virtù.Sul terreno della morale razionale, non si possono incontrareopinioni dubbie.

135 In alcuni casi dobbiamo deciderci ad agire secondo una certaopinione, sebbene non appaia più probabile di altre; in seguito

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opinioni più dubbie, quando mi fossi deciso per esse,con non minore costanza che se fossero state sicurissi-me:134 imitando in questo i viaggiatori i quali, trovandosisperduti in qualche foresta, non debbono vagare girandoora da una parte ora da un’altra, nè ancor meno fermarsiin un posto, ma camminar sempre il più diritto possibilein una sola direzione, e non cambiarla per deboli ragio-ni, benchè, forse, in principio, solo il caso li abbia deter-minati a sceglierla: giacchè, con questo mezzo, se nonvanno proprio dove desiderano, arriveranno almeno, infine, in qualche luogo, dove verosimilmente si troveran-no meglio che nel mezzo d’una foresta. E così, siccomele azioni della vita non permettono spesso alcun indu-gio, è una verità certissima che, quando non è in nostropotere discernere le opinioni più vere, dobbiamo seguirele più probabili; e anzi, anche se non notiamo maggioreprobabilità nelle une che nelle altre, dobbiamo tuttaviadeciderci per alcune, e considerarle dopo, non più comedubbie, in quanto si riferiscono alla pratica, ma comeverissime e certissime, perchè tale è la ragione che ci hafatto decidere per esse.135 E questo potè d’allora in poi

134 Nella morale definitiva, questa regola prescrive di avere unaferma e costante risoluzione di eseguire tutto ciò che la ragio-ne consiglierà, senza lasciarsi fuorviare dalle passioni e dagliappetiti; la fermezza di questa risoluzione costituisce la virtù.Sul terreno della morale razionale, non si possono incontrareopinioni dubbie.

135 In alcuni casi dobbiamo deciderci ad agire secondo una certaopinione, sebbene non appaia più probabile di altre; in seguito

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liberarmi da tutti i pentimenti e rimorsi, che soglionoagitare le coscienze di quegli spiriti deboli e vacillanti,che si abbandonano incostantemente a praticare comebuone le cose ch’essi giudicano poi cattive.

La mia terza massima era di cercar sempre di vincereme piuttosto che la fortuna, e di cambiare i miei desideripiuttosto che l’ordine del mondo; e, in generale, d’abi-tuarmi a credere che non v’è niente che sia interamentein nostro potere, fuor che i nostri pensieri, di modo che,dopo che abbiamo fatto il nostro meglio riguardo allecose che ci sono esterne, tutto ciò che non ci riesce è,per noi, assolutamente impossibile.136 E questo solo mi

dobbiamo ritenerla, rispetto alla pratica, non come dubbia, macome verissima e certissima, perchè era tale la ragione che cel’aveva fatta scegliere: infatti, l’intelligenza non ne conoscevaaltra migliore e la decisione si imponeva alla volontà.

136 Sono completamente in nostro potere soltanto i nostri pensie-ri (intesi in modo tale da designare tutte le operazioni dell’ani-ma), mentre le cose esterne lo sono solamente in parte, cioè inquanto dipendono da quelli, ma non in tutto, perchè fuori dinoi esistono altre forze che possono impedire la realizzazionedei nostri progetti. Siccome le cose esterne, in grandissimamisura, si sottraggono al nostro potere, quando abbiamo fattotutto quello che dipendeva da noi per raggiungere rispetto adesse uno scopo senza riuscirvi, dobbiamo convincerci che ilsuo conseguimento era impossibile. Nella morale definitivaquesta norma, di origine stoica, è presentata così: – Chi agiscesecondo la voce della ragione deve considerare che i beni chenon possiede sono tutti nello stesso modo fuori del suo potere;così si abituerà a non desiderarli e potrà essere libero dal desi-derio e dal rammarico (regret) o dal pentimento. Infatti, se-

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liberarmi da tutti i pentimenti e rimorsi, che soglionoagitare le coscienze di quegli spiriti deboli e vacillanti,che si abbandonano incostantemente a praticare comebuone le cose ch’essi giudicano poi cattive.

La mia terza massima era di cercar sempre di vincereme piuttosto che la fortuna, e di cambiare i miei desideripiuttosto che l’ordine del mondo; e, in generale, d’abi-tuarmi a credere che non v’è niente che sia interamentein nostro potere, fuor che i nostri pensieri, di modo che,dopo che abbiamo fatto il nostro meglio riguardo allecose che ci sono esterne, tutto ciò che non ci riesce è,per noi, assolutamente impossibile.136 E questo solo mi

dobbiamo ritenerla, rispetto alla pratica, non come dubbia, macome verissima e certissima, perchè era tale la ragione che cel’aveva fatta scegliere: infatti, l’intelligenza non ne conoscevaaltra migliore e la decisione si imponeva alla volontà.

136 Sono completamente in nostro potere soltanto i nostri pensie-ri (intesi in modo tale da designare tutte le operazioni dell’ani-ma), mentre le cose esterne lo sono solamente in parte, cioè inquanto dipendono da quelli, ma non in tutto, perchè fuori dinoi esistono altre forze che possono impedire la realizzazionedei nostri progetti. Siccome le cose esterne, in grandissimamisura, si sottraggono al nostro potere, quando abbiamo fattotutto quello che dipendeva da noi per raggiungere rispetto adesse uno scopo senza riuscirvi, dobbiamo convincerci che ilsuo conseguimento era impossibile. Nella morale definitivaquesta norma, di origine stoica, è presentata così: – Chi agiscesecondo la voce della ragione deve considerare che i beni chenon possiede sono tutti nello stesso modo fuori del suo potere;così si abituerà a non desiderarli e potrà essere libero dal desi-derio e dal rammarico (regret) o dal pentimento. Infatti, se-

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sembrava sufficiente per impedirmi di desiderare, in av-venire, cosa ch’io non acquistassi, e così per rendermisoddisfatto. Siccome infatti la nostra volontà è natural-mente inclinata a desiderare soltanto le cose che il no-stro intelletto le rappresenta in qualche modo come pos-sibili, è certo che, se noi consideriamo tutti i beni chesono fuori di noi come egualmente lontani dal nostropotere, non proveremo maggiore rammarico mancandodi quelli che sembrano dovuti alla nostra nascita, quan-do ne saremo privati senza nostra colpa, più di quanto cirammarichiamo di non possedere i regni della Cina odel Messico; e che, facendo, come si dice, di necessitàvirtù, non desidereremo d’essere sani quando siamo ma-lati, o d’essere liberi quando siamo in prigione, più diquanto desideriamo ora d’avere corpi così poco corrutti-bili come i diamanti, o ali per volare come gli uccelli.137

Ma confesso che c’è bisogno d’un lungo esercizio ed’una meditazione spesso ripetuta per abituarsi a consi-derare, sotto questo aspetto, tutte le cose; e credo che

guendo la ragione, non abbiamo motivo di pentirci anche se inseguito gli avvenimenti ci mostrano che ci siamo sbagliati,perchè basta che la coscienza ci testimoni che da parte nostranon vi è stato difetto di risolutezza e di virtù per eseguire lecose che abbiamo giudicate migliori delle altre. La virtù sola èquindi sufficiente per renderci soddisfatti in questa vita.

137 Ciò non significa che l’uomo debba adagiarsi nella indiffe-renza e nella apatia. Egli deve fare ciò che può per conseguirei fini che ritiene buoni, ma se, senza sua colpa, non vi riesce,deve rassegnarsi a un ordine di cose che è in suo potere sol-tanto in quanto dipende dalle attività della sua anima.

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sembrava sufficiente per impedirmi di desiderare, in av-venire, cosa ch’io non acquistassi, e così per rendermisoddisfatto. Siccome infatti la nostra volontà è natural-mente inclinata a desiderare soltanto le cose che il no-stro intelletto le rappresenta in qualche modo come pos-sibili, è certo che, se noi consideriamo tutti i beni chesono fuori di noi come egualmente lontani dal nostropotere, non proveremo maggiore rammarico mancandodi quelli che sembrano dovuti alla nostra nascita, quan-do ne saremo privati senza nostra colpa, più di quanto cirammarichiamo di non possedere i regni della Cina odel Messico; e che, facendo, come si dice, di necessitàvirtù, non desidereremo d’essere sani quando siamo ma-lati, o d’essere liberi quando siamo in prigione, più diquanto desideriamo ora d’avere corpi così poco corrutti-bili come i diamanti, o ali per volare come gli uccelli.137

Ma confesso che c’è bisogno d’un lungo esercizio ed’una meditazione spesso ripetuta per abituarsi a consi-derare, sotto questo aspetto, tutte le cose; e credo che

guendo la ragione, non abbiamo motivo di pentirci anche se inseguito gli avvenimenti ci mostrano che ci siamo sbagliati,perchè basta che la coscienza ci testimoni che da parte nostranon vi è stato difetto di risolutezza e di virtù per eseguire lecose che abbiamo giudicate migliori delle altre. La virtù sola èquindi sufficiente per renderci soddisfatti in questa vita.

137 Ciò non significa che l’uomo debba adagiarsi nella indiffe-renza e nella apatia. Egli deve fare ciò che può per conseguirei fini che ritiene buoni, ma se, senza sua colpa, non vi riesce,deve rassegnarsi a un ordine di cose che è in suo potere sol-tanto in quanto dipende dalle attività della sua anima.

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principalmente in questo consistesse il segreto di queifilosofi che hanno potuto nei tempi passati sottrarsiall’impero della fortuna, e, nonostante i dolori e la po-vertà, gareggiare in felicità coi loro Dei. Infatti, occu-pandosi senza posa a considerare i limiti loro prescrittidalla natura, si persuadevano così perfettamente cheniente era in loro potere fuor che i loro pensieri, chequesto solo era sufficiente a impedir loro d’avere affe-zione per le altre cose; e disponevano d’essi così assolu-tamente, da avere in ciò qualche ragione di stimarsi piùricchi, e più potenti, e più liberi e più felici di tutti gli al-tri uomini che, non avendo questa filosofia, per quantofavoriti dalla natura e dalla fortuna, non dispongono maicosì di tutto quel che vogliono.138

Infine, per conclusione di questa morale, pensai disottoporre a una ricerca rigorosa le diverse occupazioniche hanno gli uomini in questa vita, per cercare di sce-gliere la migliore; e senza voler dire nulla di quella deglialtri, pensai di non poter fare di meglio che continuarein quella stessa in cui mi trovavo, cioè impiegare tutta lamia vita a coltivare la mia ragione e progredire, perquanto potessi, nella conoscenza della verità, seguendoil metodo che m’ero prescritto. Avevo provato cosìgrandi soddisfazioni, da che avevo cominciato a servir-

138 Queste lodi sono rivolte ai filosofi stoici (dei quali vengonoricordati alcuni paradossi notissimi), che nella prima partesono vivamente criticati. Effettivamente, la morale del D. di-pende in largo misura dallo Stoicismo, che però, come risultada ciò che segue, è conciliato con l’Epicureismo.

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principalmente in questo consistesse il segreto di queifilosofi che hanno potuto nei tempi passati sottrarsiall’impero della fortuna, e, nonostante i dolori e la po-vertà, gareggiare in felicità coi loro Dei. Infatti, occu-pandosi senza posa a considerare i limiti loro prescrittidalla natura, si persuadevano così perfettamente cheniente era in loro potere fuor che i loro pensieri, chequesto solo era sufficiente a impedir loro d’avere affe-zione per le altre cose; e disponevano d’essi così assolu-tamente, da avere in ciò qualche ragione di stimarsi piùricchi, e più potenti, e più liberi e più felici di tutti gli al-tri uomini che, non avendo questa filosofia, per quantofavoriti dalla natura e dalla fortuna, non dispongono maicosì di tutto quel che vogliono.138

Infine, per conclusione di questa morale, pensai disottoporre a una ricerca rigorosa le diverse occupazioniche hanno gli uomini in questa vita, per cercare di sce-gliere la migliore; e senza voler dire nulla di quella deglialtri, pensai di non poter fare di meglio che continuarein quella stessa in cui mi trovavo, cioè impiegare tutta lamia vita a coltivare la mia ragione e progredire, perquanto potessi, nella conoscenza della verità, seguendoil metodo che m’ero prescritto. Avevo provato cosìgrandi soddisfazioni, da che avevo cominciato a servir-

138 Queste lodi sono rivolte ai filosofi stoici (dei quali vengonoricordati alcuni paradossi notissimi), che nella prima partesono vivamente criticati. Effettivamente, la morale del D. di-pende in largo misura dallo Stoicismo, che però, come risultada ciò che segue, è conciliato con l’Epicureismo.

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mi di questo metodo, che non credevo si potesse rice-verne nè di più dolci, nè di più innocenti, in questa vita:e scoprendo tutti i giorni, per suo mezzo, alcune verità,che mi sembravano abbastanza importanti, e comune-mente ignorate dagli altri uomini, la soddisfazione chene avevo empiva in tal modo il mio spirito che tutto ilresto non mi toccava per niente.139 Inoltre, le tre massi-me precedenti erano fondate solo sul disegno che avevodi continuare ad istruirmi:140 perchè, avendoci Iddiodato, a ciascuno, qualche luce141 per discernere il verodal falso, non avrei creduto di dovermi contentare delleopinioni altrui142 un sol momento, se non mi fossi pro-posto d’impiegare il mio proprio giudizio ad esaminarle,

139 La soddisfazione o la gioia prù viva consiste per il D.nell’esercizio delle attività intellettuali e nelle scoperte cheesso produce. Appare così nella morale provvisoria quell’altavalutazione del piacere o della voluttà (che a parere dell’auto-re può chiamarsi, non meno del Sommo Bene, il fine delle no-stre azioni, perchè esse mirano propriamente alla beatitudine,cioè al godimento di quel Bene) che avvicina la morale defini-tiva del D., come egli stesso dichiara, a Epicuro. Ma, comedel resto ha ritenuto anche questo, i piaceri che possono pro-curare la beatitudine sono quelli spirituali.

140 Le regole della morale provvisoria sono stabilite per renderepossibile quella ricerca della verità che a sua volta dovrà con-durre alla morale definitiva; questa appare così lo scopo equindi la giustificazione delle prime.

141 La luce naturale: v. pp. 4-5 [pagg. 82-84 in questa edizioneManuzio].

142 V. la regola prima, p. 42 [pag. 131 in questa edizione Manu-zio].

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mi di questo metodo, che non credevo si potesse rice-verne nè di più dolci, nè di più innocenti, in questa vita:e scoprendo tutti i giorni, per suo mezzo, alcune verità,che mi sembravano abbastanza importanti, e comune-mente ignorate dagli altri uomini, la soddisfazione chene avevo empiva in tal modo il mio spirito che tutto ilresto non mi toccava per niente.139 Inoltre, le tre massi-me precedenti erano fondate solo sul disegno che avevodi continuare ad istruirmi:140 perchè, avendoci Iddiodato, a ciascuno, qualche luce141 per discernere il verodal falso, non avrei creduto di dovermi contentare delleopinioni altrui142 un sol momento, se non mi fossi pro-posto d’impiegare il mio proprio giudizio ad esaminarle,

139 La soddisfazione o la gioia prù viva consiste per il D.nell’esercizio delle attività intellettuali e nelle scoperte cheesso produce. Appare così nella morale provvisoria quell’altavalutazione del piacere o della voluttà (che a parere dell’auto-re può chiamarsi, non meno del Sommo Bene, il fine delle no-stre azioni, perchè esse mirano propriamente alla beatitudine,cioè al godimento di quel Bene) che avvicina la morale defini-tiva del D., come egli stesso dichiara, a Epicuro. Ma, comedel resto ha ritenuto anche questo, i piaceri che possono pro-curare la beatitudine sono quelli spirituali.

140 Le regole della morale provvisoria sono stabilite per renderepossibile quella ricerca della verità che a sua volta dovrà con-durre alla morale definitiva; questa appare così lo scopo equindi la giustificazione delle prime.

141 La luce naturale: v. pp. 4-5 [pagg. 82-84 in questa edizioneManuzio].

142 V. la regola prima, p. 42 [pag. 131 in questa edizione Manu-zio].

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a tempo debito; e non avrei saputo esimermi da ogniscrupolo, seguendole, se non avessi sperato di non per-dere, per questo, nessuna occasione di trovarne delle mi-gliori, nel caso che ve ne fossero. E infine non avrei sa-puto limitare i miei desideri, nè essere soddisfatto, senon avessi seguito un cammino per cui, pensandod’essere sicuro dell’acquisto di tutte le conoscenze dicui fossi capace, pensavo d’essere sicuro, con lo stessomezzo, anche dell’acquisto di tutti i veri beni che fosse-ro mai in mio potere;143 infatti, essendo inclinata la no-stra volontà a seguire o a fuggire una cosa, soltanto inquanto il nostro intelletto gliela presenti come buona ocattiva, basta bene giudicare per bene operare, e giudi-care il meglio che si possa per fare anche il meglio, cioèper acquistare tutte le virtù, e insieme tutti gli altri beniche si possono acquistare;144 e quando si è certi che così

143 Per acquistare i veri beni che sono in nostro potere, occorresapere quali sono e distinguerli dagli apparenti.

144 Il D. si conforma alla concezione derivata dalla filosofia so-cratica platonica, che chi conosce il bene non può non agirebene e ritiene, con la filosofia scolastica, che la vo1ontà seguela percezione del bene che le offre l’intelletto; però, a suo pa-rere, ciò avviene immancabilmente soltanto se quella perce-zione è evidente. Così non è affatto negata la liberta della vo-lontà, che nell’uomo è, non meno che in Dio, qualche cosa diassoluto. Infatti, l’evidenza richiede, per essere riconosciuta,uno sforzo volontario dell’attenzione; così, se per un momen-to allontaniamo questa da una conoscenza che ci appare chiarae distinta, non vediamo più la piena luce della verità e possia-mo agire in modo contrario ad essa.

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a tempo debito; e non avrei saputo esimermi da ogniscrupolo, seguendole, se non avessi sperato di non per-dere, per questo, nessuna occasione di trovarne delle mi-gliori, nel caso che ve ne fossero. E infine non avrei sa-puto limitare i miei desideri, nè essere soddisfatto, senon avessi seguito un cammino per cui, pensandod’essere sicuro dell’acquisto di tutte le conoscenze dicui fossi capace, pensavo d’essere sicuro, con lo stessomezzo, anche dell’acquisto di tutti i veri beni che fosse-ro mai in mio potere;143 infatti, essendo inclinata la no-stra volontà a seguire o a fuggire una cosa, soltanto inquanto il nostro intelletto gliela presenti come buona ocattiva, basta bene giudicare per bene operare, e giudi-care il meglio che si possa per fare anche il meglio, cioèper acquistare tutte le virtù, e insieme tutti gli altri beniche si possono acquistare;144 e quando si è certi che così

143 Per acquistare i veri beni che sono in nostro potere, occorresapere quali sono e distinguerli dagli apparenti.

144 Il D. si conforma alla concezione derivata dalla filosofia so-cratica platonica, che chi conosce il bene non può non agirebene e ritiene, con la filosofia scolastica, che la vo1ontà seguela percezione del bene che le offre l’intelletto; però, a suo pa-rere, ciò avviene immancabilmente soltanto se quella perce-zione è evidente. Così non è affatto negata la liberta della vo-lontà, che nell’uomo è, non meno che in Dio, qualche cosa diassoluto. Infatti, l’evidenza richiede, per essere riconosciuta,uno sforzo volontario dell’attenzione; così, se per un momen-to allontaniamo questa da una conoscenza che ci appare chiarae distinta, non vediamo più la piena luce della verità e possia-mo agire in modo contrario ad essa.

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è, non si può non esser felici.Dopo essermi così provvisto di queste massime, e

averle messe da parte, con le verità della fede, che sonsempre state le prime tra le mie credenze,145 giudicaiche, per tutto il resto delle mie opinioni, potevo libera-mente cominciare a disfarmene. E siccome speravo dipoterne venire meglio a capo conversando con gli uomi-ni,146 che rimanendo più a lungo chiuso nella stanza147

dove avevo avuto tutti questi pensieri, non ancora finitol’inverno, mi rimisi a viaggiare. E in tutti i nove anni se-guenti,148 non feci altro che girare qua e là nel mondo

145 Le verità di fede non possono essere discusse dalla ragioneumana guidata dalla luce naturale, perchè sono rivelate dallaluce soprannaturale della Grazia, la quale determina la volontàa compiere quel giudizio che è l’atto con cui le crediamo.

146 Per ciò che riguarda la vita morale, questa si può ammettere;ma rispetto alle opinioni di carattere teoretico, la cosa è diver-sa, e anche il D. (che dichiara in seguito di essersi in quel tem-po esercitato nel metodo e di avere compiuto ricerche mate-matiche) non dice una parola precisa su quell’argomento.

147 Poêle = Stanza scaldata da una stufa.148 1620-1628, cioè dall’abbandono del quartiere d’inverno alla

seconda e permanente residenza in Olanda. Per notizie su que-sti anni della vita del D., v. Introd., p. XI [pag. 13 in questaedizione Manuzio]. Si può dubitare sull’epoca in cui il D. fis-sò le norme della sua morale provvisoria: infatti, siccome sicollegano alla determinazione delle regole del metodo, si do-vrebbero collocare nello stesso tempo sia le prime sia le se-conde, cioè verso il 1628. Da ciò segue che appaiono pococredibili i motivi addotti dal D. per dar ragione dei suoi viag-gi.

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è, non si può non esser felici.Dopo essermi così provvisto di queste massime, e

averle messe da parte, con le verità della fede, che sonsempre state le prime tra le mie credenze,145 giudicaiche, per tutto il resto delle mie opinioni, potevo libera-mente cominciare a disfarmene. E siccome speravo dipoterne venire meglio a capo conversando con gli uomi-ni,146 che rimanendo più a lungo chiuso nella stanza147

dove avevo avuto tutti questi pensieri, non ancora finitol’inverno, mi rimisi a viaggiare. E in tutti i nove anni se-guenti,148 non feci altro che girare qua e là nel mondo

145 Le verità di fede non possono essere discusse dalla ragioneumana guidata dalla luce naturale, perchè sono rivelate dallaluce soprannaturale della Grazia, la quale determina la volontàa compiere quel giudizio che è l’atto con cui le crediamo.

146 Per ciò che riguarda la vita morale, questa si può ammettere;ma rispetto alle opinioni di carattere teoretico, la cosa è diver-sa, e anche il D. (che dichiara in seguito di essersi in quel tem-po esercitato nel metodo e di avere compiuto ricerche mate-matiche) non dice una parola precisa su quell’argomento.

147 Poêle = Stanza scaldata da una stufa.148 1620-1628, cioè dall’abbandono del quartiere d’inverno alla

seconda e permanente residenza in Olanda. Per notizie su que-sti anni della vita del D., v. Introd., p. XI [pag. 13 in questaedizione Manuzio]. Si può dubitare sull’epoca in cui il D. fis-sò le norme della sua morale provvisoria: infatti, siccome sicollegano alla determinazione delle regole del metodo, si do-vrebbero collocare nello stesso tempo sia le prime sia le se-conde, cioè verso il 1628. Da ciò segue che appaiono pococredibili i motivi addotti dal D. per dar ragione dei suoi viag-gi.

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cercando d’essere piuttosto spettatore che attore in tuttele commedie che vi si rappresentano; e occupandomiparticolarmente a riflettere, in ogni argomento, su ciòche potesse renderlo sospetto, e darci occasioned’ingannarci, sradicavo frattanto dalla mia mente tuttigli errori che vi si erano potuti insinuare precedente-mente. Non ch’io imitassi per questo gli Scettici, chenon dubitano che per dubitare e affettano d’essere sem-pre irresoluti:149 perchè, al contrario, tutto il mio disegnonon tendeva che a farmi sicuro,150 e a buttar via la terramobile e la sabbia per trovare la roccia o l’argilla.151 Ciòmi riusciva, mi sembra, abbastanza bene, in quanto che,cercando di scoprire la falsità o l’incertezza delle propo-sizioni che esaminavo, non con deboli congetture macon ragionamenti chiari e sicuri, non ne trovavo alcunacosì dubbia che non ne ritraessi sempre qualche conclu-sione abbastanza certa, non foss’altro questa stessa: chenon conteneva nulla di certo.152 E come, abbattendo unavecchia casa, se ne conservano di solito i rottami, per-

149 Lo scetticismo antico aveva trovato largo eco nel Rinasci-mento, e particolarmente nel Montaigne che ne aveva ripre-sentato le argomentazioni.

150 Ciò significa (come risulta dalla versione latina): a trovarequalche cosa di certo.

151 Il D. vuole eliminare le opinioni malsicure, che prestano ilfianco alle dubitazioni dello scetticismo, per raggiungere veri-tà certe e indiscutibili.

152 Mentre lo scetticismo vuole mantenere la mente nell’incer-tezza, il D. si sforza di raggiungere la certezza, se non altroquesta: che le opinioni criticate non sono certe.

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cercando d’essere piuttosto spettatore che attore in tuttele commedie che vi si rappresentano; e occupandomiparticolarmente a riflettere, in ogni argomento, su ciòche potesse renderlo sospetto, e darci occasioned’ingannarci, sradicavo frattanto dalla mia mente tuttigli errori che vi si erano potuti insinuare precedente-mente. Non ch’io imitassi per questo gli Scettici, chenon dubitano che per dubitare e affettano d’essere sem-pre irresoluti:149 perchè, al contrario, tutto il mio disegnonon tendeva che a farmi sicuro,150 e a buttar via la terramobile e la sabbia per trovare la roccia o l’argilla.151 Ciòmi riusciva, mi sembra, abbastanza bene, in quanto che,cercando di scoprire la falsità o l’incertezza delle propo-sizioni che esaminavo, non con deboli congetture macon ragionamenti chiari e sicuri, non ne trovavo alcunacosì dubbia che non ne ritraessi sempre qualche conclu-sione abbastanza certa, non foss’altro questa stessa: chenon conteneva nulla di certo.152 E come, abbattendo unavecchia casa, se ne conservano di solito i rottami, per-

149 Lo scetticismo antico aveva trovato largo eco nel Rinasci-mento, e particolarmente nel Montaigne che ne aveva ripre-sentato le argomentazioni.

150 Ciò significa (come risulta dalla versione latina): a trovarequalche cosa di certo.

151 Il D. vuole eliminare le opinioni malsicure, che prestano ilfianco alle dubitazioni dello scetticismo, per raggiungere veri-tà certe e indiscutibili.

152 Mentre lo scetticismo vuole mantenere la mente nell’incer-tezza, il D. si sforza di raggiungere la certezza, se non altroquesta: che le opinioni criticate non sono certe.

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chè servano a costruirne una nuova; così, distruggendotra le mie opinioni tutte quelle che giudicavo mal fonda-te, facevo diverse osservazioni e acquistavo parecchieesperienze, che mi sono poi servite a stabilire opinionipiù certe. E inoltre, continuavo a esercitarmi nel metodoche m’ero prescritto; perchè, oltre ad aver cura di con-durre in generale tutti i miei pensieri secondo le sue re-gole, mi riservavo di tanto in tanto alcune ore, che im-piegavo particolarmente a metterlo in pratica in alcunedifficoltà di matematica, o anche in alcune altre, che po-tevo rendere quasi simili a quelle delle matematiche,staccandole da tutti i principî delle altre scienze che nontrovavo abbastanza solidi, come vedrete che ho fatto inparecchie difficoltà che sono spiegate in questo volu-me153. E così, senza vivere diversamente – in apparenza– da quelli che, non avendo altra occupazione che quelladi passare una vita piacevole e innocente, si studiano diseparare i piaceri dai vizi, e che, per godere del loroozio senza annoiarsi, usano di tutti i divertimenti onesti,io non cessavo di proseguire nel mio piano e di progre-dire nella conoscenza della verità, forse più che se non

153 Il D. parla dei problemi studiati nei saggi che seguitavano ilDiscorso (Geometria, Diottrica, Meteore): le difficoltà nonmatematiche di cui egli si occupava, cercando di renderle qua-si simili alle matematiche, sono dunque quelle trattate nei dueultimi scritti. In altri termini, egli cercava di interpretare mate-maticamente certi fenomeni fisici, separandoli dai principîdelle scienze tradizionali, derivate dalla filosofia aristotelico-scolastica.

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chè servano a costruirne una nuova; così, distruggendotra le mie opinioni tutte quelle che giudicavo mal fonda-te, facevo diverse osservazioni e acquistavo parecchieesperienze, che mi sono poi servite a stabilire opinionipiù certe. E inoltre, continuavo a esercitarmi nel metodoche m’ero prescritto; perchè, oltre ad aver cura di con-durre in generale tutti i miei pensieri secondo le sue re-gole, mi riservavo di tanto in tanto alcune ore, che im-piegavo particolarmente a metterlo in pratica in alcunedifficoltà di matematica, o anche in alcune altre, che po-tevo rendere quasi simili a quelle delle matematiche,staccandole da tutti i principî delle altre scienze che nontrovavo abbastanza solidi, come vedrete che ho fatto inparecchie difficoltà che sono spiegate in questo volu-me153. E così, senza vivere diversamente – in apparenza– da quelli che, non avendo altra occupazione che quelladi passare una vita piacevole e innocente, si studiano diseparare i piaceri dai vizi, e che, per godere del loroozio senza annoiarsi, usano di tutti i divertimenti onesti,io non cessavo di proseguire nel mio piano e di progre-dire nella conoscenza della verità, forse più che se non

153 Il D. parla dei problemi studiati nei saggi che seguitavano ilDiscorso (Geometria, Diottrica, Meteore): le difficoltà nonmatematiche di cui egli si occupava, cercando di renderle qua-si simili alle matematiche, sono dunque quelle trattate nei dueultimi scritti. In altri termini, egli cercava di interpretare mate-maticamente certi fenomeni fisici, separandoli dai principîdelle scienze tradizionali, derivate dalla filosofia aristotelico-scolastica.

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avessi fatto altro che legger libri o frequentar letterati154.Tuttavia quei nove anni passarono prima ch’io avessi

preso nessun partito, su le difficoltà che sogliono esserdisputate tra i dotti, e prima ch’io avessi cominciato acercare i fondamenti di una filosofia più certa della vol-gare.155 E l’esempio di molti ingegni i quali, avendoneavuto prima d’ora il disegno, mi sembravano non esser-vi riusciti156, mi faceva immaginare in ciò tante difficol-tà, che non avrei forse ancora osato mettermi all’opera,se non avessi visto che alcuni facevano già correr lavoce ch’io ne fossi venuto a capo. Non saprei dire suche cosa essi fondassero quest’opinione; e, se vi ho con-tribuito io in parte coi miei discorsi, dev’essere statoconfessando quello che ignoravo, più ingenuamente diquanto abbiano abitudine di fare coloro i quali hanno unpo’ studiato, e forse anche facendo vedere le ragioni cheavevo di dubitare di molte cose che gli altri stimano cer-te, piuttosto che vantandomi di qualche scienza. Maavendo l’animo abbastanza altero per non volere che misi ritenesse diverso da quello che ero, pensai che dovessicercare, con tutti i mezzi, di rendermi degno della repu-

154 Viaggiando e frequentando uomini di diversi paesi il D. puòessere stato spinto a compiere le ricerche matematiche e fisi-che di cui parla? Non si tratta piuttosto di una spiegazione,trovata più tardi, del genere di vita condotta in quel tempo?

155 Aristotelico-scolastica.156 Allusione agli sforzi dei novatori, cioè ai filosofi del Rinasci-

mento.

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avessi fatto altro che legger libri o frequentar letterati154.Tuttavia quei nove anni passarono prima ch’io avessi

preso nessun partito, su le difficoltà che sogliono esserdisputate tra i dotti, e prima ch’io avessi cominciato acercare i fondamenti di una filosofia più certa della vol-gare.155 E l’esempio di molti ingegni i quali, avendoneavuto prima d’ora il disegno, mi sembravano non esser-vi riusciti156, mi faceva immaginare in ciò tante difficol-tà, che non avrei forse ancora osato mettermi all’opera,se non avessi visto che alcuni facevano già correr lavoce ch’io ne fossi venuto a capo. Non saprei dire suche cosa essi fondassero quest’opinione; e, se vi ho con-tribuito io in parte coi miei discorsi, dev’essere statoconfessando quello che ignoravo, più ingenuamente diquanto abbiano abitudine di fare coloro i quali hanno unpo’ studiato, e forse anche facendo vedere le ragioni cheavevo di dubitare di molte cose che gli altri stimano cer-te, piuttosto che vantandomi di qualche scienza. Maavendo l’animo abbastanza altero per non volere che misi ritenesse diverso da quello che ero, pensai che dovessicercare, con tutti i mezzi, di rendermi degno della repu-

154 Viaggiando e frequentando uomini di diversi paesi il D. puòessere stato spinto a compiere le ricerche matematiche e fisi-che di cui parla? Non si tratta piuttosto di una spiegazione,trovata più tardi, del genere di vita condotta in quel tempo?

155 Aristotelico-scolastica.156 Allusione agli sforzi dei novatori, cioè ai filosofi del Rinasci-

mento.

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tazione che si aveva di me; e sono appunto otto anni157

che questo mio desiderio mi fece risolvere ad allonta-narmi da tutti i luoghi dove potessi aver conoscenze, eritirarmi qui, in un paese dove la lunga durata dellaguerra158 ha fatto stabilire tali ordinamenti che gli eserci-ti che vi si mantengono sembrano servire soltanto a farsì che vi si goda dei frutti della pace con tanta maggioresicurezza, e dove, in mezzo alla grande folla di personeattivissime, e più sollecite dei propri affari che curiosedi quelli degli altri159, senza mancare di nessuna dellecomodità che sono nelle città più popolate, ho potuto vi-vere così solitario e ritirato come nei deserti più remoti.

157 Il D. si recò in Olanda (qui, dice in seguito) nell’autunno del1628.

158 Salvo un’interruzione dal 1609 al 1621, la guerra che l’Olan-da sostenne per la propria indipendenza contro la Spagna duròdal 1572 al 1648.

159 In una lettera del 5 maggio 1631 il D. scriveva che a Amster-dam, ove allora risiedeva, era la sola persona che non si occu-passe di commercio.

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tazione che si aveva di me; e sono appunto otto anni157

che questo mio desiderio mi fece risolvere ad allonta-narmi da tutti i luoghi dove potessi aver conoscenze, eritirarmi qui, in un paese dove la lunga durata dellaguerra158 ha fatto stabilire tali ordinamenti che gli eserci-ti che vi si mantengono sembrano servire soltanto a farsì che vi si goda dei frutti della pace con tanta maggioresicurezza, e dove, in mezzo alla grande folla di personeattivissime, e più sollecite dei propri affari che curiosedi quelli degli altri159, senza mancare di nessuna dellecomodità che sono nelle città più popolate, ho potuto vi-vere così solitario e ritirato come nei deserti più remoti.

157 Il D. si recò in Olanda (qui, dice in seguito) nell’autunno del1628.

158 Salvo un’interruzione dal 1609 al 1621, la guerra che l’Olan-da sostenne per la propria indipendenza contro la Spagna duròdal 1572 al 1648.

159 In una lettera del 5 maggio 1631 il D. scriveva che a Amster-dam, ove allora risiedeva, era la sola persona che non si occu-passe di commercio.

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PARTE QUARTARAGIONI CHE PROVANO L’ESISTENZA DI DIO E DELL’ANIMA

UMANA E FONDAMENTO DELLA METAFISICA

Non so se debbo parlarvi sulle prime meditazioni chevi ho fatto: perchè esse sono così metafisiche e cosìpoco comuni160 che forse non piaceranno a tutti. E tutta-via, perchè si possa giudicare se le basi che ho sceltosono abbastanza solide, mi trovo in qualche modo co-stretto a parlarne. Avevo da molto tempo notato che, ri-spetto ai costumi, occorre qualche volta seguire opinioniche si sanno molto incerte, precisamente come se fosse-ro indubitabili, nel modo che si è detto sopra161; ma sic-come allora desideravo di attendere solamente alla ricer-ca della verità, pensai che occorreva che facessi tutto ilcontrario e respingessi come assolutamente falso tuttociò in cui potessi immaginare il minimo dubbio, per ve-dere se non restasse, dopo questo, qualche cosa tra lemie credenze che fosse interamente indubitabile162.

160 Astratte e lontane dall’uso comune, In questa parte il D. rias-sume il contenuto delle sue Meditazioni, pubblicate nel 1641,ma risalenti, nella loro sostanza, al 1628-1629.

161 V. pp. 44-45 [pagg. 133-135 in questa edizione Manuzio].162 Precedentemente il principio dell’evidenza è stato applicato

soltanto come un criterio che deve rendere possibile la costru-zione della scienza, perchè ha servito a criticare certe cono-scenze imperfette, ma non ha determinato alcun dubbiosull’esistenza delle cose esterne e sulla validità della cono-

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PARTE QUARTARAGIONI CHE PROVANO L’ESISTENZA DI DIO E DELL’ANIMA

UMANA E FONDAMENTO DELLA METAFISICA

Non so se debbo parlarvi sulle prime meditazioni chevi ho fatto: perchè esse sono così metafisiche e cosìpoco comuni160 che forse non piaceranno a tutti. E tutta-via, perchè si possa giudicare se le basi che ho sceltosono abbastanza solide, mi trovo in qualche modo co-stretto a parlarne. Avevo da molto tempo notato che, ri-spetto ai costumi, occorre qualche volta seguire opinioniche si sanno molto incerte, precisamente come se fosse-ro indubitabili, nel modo che si è detto sopra161; ma sic-come allora desideravo di attendere solamente alla ricer-ca della verità, pensai che occorreva che facessi tutto ilcontrario e respingessi come assolutamente falso tuttociò in cui potessi immaginare il minimo dubbio, per ve-dere se non restasse, dopo questo, qualche cosa tra lemie credenze che fosse interamente indubitabile162.

160 Astratte e lontane dall’uso comune, In questa parte il D. rias-sume il contenuto delle sue Meditazioni, pubblicate nel 1641,ma risalenti, nella loro sostanza, al 1628-1629.

161 V. pp. 44-45 [pagg. 133-135 in questa edizione Manuzio].162 Precedentemente il principio dell’evidenza è stato applicato

soltanto come un criterio che deve rendere possibile la costru-zione della scienza, perchè ha servito a criticare certe cono-scenze imperfette, ma non ha determinato alcun dubbiosull’esistenza delle cose esterne e sulla validità della cono-

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Così, siccome i nostri sensi talvolta c’ingannano, vollisupporre che nessuna cosa fosse tale, quale essi ce lafanno immaginare. E siccome vi sono uomini ches’ingannano nel ragionare, anche sui più semplici argo-menti di geometria, e vi commettono dei paralogismi,io, giudicando che ero soggetto a sbagliare quanto ognialtro, respinsi come false tutte163 le ragioni che prima

scenza razionale. Ora esso acquista significato filosofico uni-versale perchè prescrive di dubitare anche della oggettività edella legittimità della conoscenza, considerata in tutta la suaampiezza; però lo scopo primo del D. è quello di dimostrareche la interpretazione matematica del mondo fisico, ossia lanuova scienza della natura, ha valore oggettivo (v. Introd. p.XXIII-XXIV [pagg. 33-35 in questa edizione Manuzio]). Apparechiaramente da questo testo come il D. col suo dubbio univer-sale mirasse non soltanto a evitare ogni possibilità di errore,ma anche a vedere se fosse possibile raggiungere una certezzaindiscutibile, che tale dubbio non potesse intaccare in alcunmodo. In altri termini, pure ponendosi nella posizione delloscetticismo, aspirava ad uscirne e, si può dire, presentiva cheavrebbe potuto farlo. Per motivi ricordati precedentemente (v.nota 1 della p. 27 [nota 95 a pag. 111 in questa edizione Ma-nuzio]), le critiche scettiche alla conoscenza, che nelle Medi-tazioni sono largamente svolte, vengono nel Discorso ridotte abrevi cenni.

163 Si mostra da prima la mancanza di certezza della conoscenzasensibile, non per negare l’esistenza delle cose esterne (ciòche verrà fatto in seguito con l’argomento dei sogni), ma permostrare che non vi è ragione di ammettere che esse corri-spondano alle nostre percezioni; in seguito, si respinge la cer-tezza della conoscenza puramente intellettuale. In ambo i casisi fa uso del principio che un testimone che in qualche caso si

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Così, siccome i nostri sensi talvolta c’ingannano, vollisupporre che nessuna cosa fosse tale, quale essi ce lafanno immaginare. E siccome vi sono uomini ches’ingannano nel ragionare, anche sui più semplici argo-menti di geometria, e vi commettono dei paralogismi,io, giudicando che ero soggetto a sbagliare quanto ognialtro, respinsi come false tutte163 le ragioni che prima

scenza razionale. Ora esso acquista significato filosofico uni-versale perchè prescrive di dubitare anche della oggettività edella legittimità della conoscenza, considerata in tutta la suaampiezza; però lo scopo primo del D. è quello di dimostrareche la interpretazione matematica del mondo fisico, ossia lanuova scienza della natura, ha valore oggettivo (v. Introd. p.XXIII-XXIV [pagg. 33-35 in questa edizione Manuzio]). Apparechiaramente da questo testo come il D. col suo dubbio univer-sale mirasse non soltanto a evitare ogni possibilità di errore,ma anche a vedere se fosse possibile raggiungere una certezzaindiscutibile, che tale dubbio non potesse intaccare in alcunmodo. In altri termini, pure ponendosi nella posizione delloscetticismo, aspirava ad uscirne e, si può dire, presentiva cheavrebbe potuto farlo. Per motivi ricordati precedentemente (v.nota 1 della p. 27 [nota 95 a pag. 111 in questa edizione Ma-nuzio]), le critiche scettiche alla conoscenza, che nelle Medi-tazioni sono largamente svolte, vengono nel Discorso ridotte abrevi cenni.

163 Si mostra da prima la mancanza di certezza della conoscenzasensibile, non per negare l’esistenza delle cose esterne (ciòche verrà fatto in seguito con l’argomento dei sogni), ma permostrare che non vi è ragione di ammettere che esse corri-spondano alle nostre percezioni; in seguito, si respinge la cer-tezza della conoscenza puramente intellettuale. In ambo i casisi fa uso del principio che un testimone che in qualche caso si

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avevo preso per dimostrazioni. E infine, considerandoche tutti gli stessi pensieri che abbiamo quando siamosvegli, ci possono venire anche quando dormiamo, sen-za che allora ve ne sia alcuno che sia vero, risolsi di fin-gere164 che tutte le cose che mi fossero mai entrate nellamente, non fossero più vere delle illusioni dei miei so-

è mostrato fallace, non merita mai di essere ritenuto veritiero(falsus in uno, falsus in omnibus). Si osservi, rispetto agli er-rori, o paralogismi, che si possono commettere da alcuni ra-gionando anche sui più semplici argomenti della geometria,che il D. adduce esempi di procedimenti deduttivi che, per laloro stessa semplicità, non sembrano richiedere il ricordo dipassaggi precedenti di pensiero: in questi casi, pare si abbia dafare con deduzioni immediate, che sono oggetto di intuizione.Nei Principî (I, 5) si dice che si può dubitare delle dimostra-zioni e dei principî della matematica, perchè vi sono uominiche si sono ingannati ragionando su questi argomenti; è chiaroche qui si discute il valore anche di giudizi intuitivi. Questi te-sti non si accordano con la distinzione fatta dal D. tra la cer-tezza assoluta dell’intuizione presente e quella del ricordo chese ne può avere in seguito (v. Introd. p. XXXV-XXXVI [pagg. 52-53 in questa edizione Manuzio]. – Come ha osservato il Gil-son, il D. nel Discorso non presenta l’ipotesi che o Dio lo ab-bia creato tale da ingannarsi sempre o un genio malvagio ado-peri tutte le sue arti per ingannarlo, ipotesi che nelle Medita-zioni e nei Principî appare un argomento di dubbio più fortedegli altri e che serve a legittimare la possibilità di una menteche erri sempre. Effettivamente, però, questo argomento è piùimpressionante che stringente, perchè il D. nel Discorso può,anche senza farne uso, valersi degli stessi pensieri delle altreopere per uscire dal dubbio e porre fondamenti sicuri alla co-noscenza in generale e alla scienza in particolare.

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avevo preso per dimostrazioni. E infine, considerandoche tutti gli stessi pensieri che abbiamo quando siamosvegli, ci possono venire anche quando dormiamo, sen-za che allora ve ne sia alcuno che sia vero, risolsi di fin-gere164 che tutte le cose che mi fossero mai entrate nellamente, non fossero più vere delle illusioni dei miei so-

è mostrato fallace, non merita mai di essere ritenuto veritiero(falsus in uno, falsus in omnibus). Si osservi, rispetto agli er-rori, o paralogismi, che si possono commettere da alcuni ra-gionando anche sui più semplici argomenti della geometria,che il D. adduce esempi di procedimenti deduttivi che, per laloro stessa semplicità, non sembrano richiedere il ricordo dipassaggi precedenti di pensiero: in questi casi, pare si abbia dafare con deduzioni immediate, che sono oggetto di intuizione.Nei Principî (I, 5) si dice che si può dubitare delle dimostra-zioni e dei principî della matematica, perchè vi sono uominiche si sono ingannati ragionando su questi argomenti; è chiaroche qui si discute il valore anche di giudizi intuitivi. Questi te-sti non si accordano con la distinzione fatta dal D. tra la cer-tezza assoluta dell’intuizione presente e quella del ricordo chese ne può avere in seguito (v. Introd. p. XXXV-XXXVI [pagg. 52-53 in questa edizione Manuzio]. – Come ha osservato il Gil-son, il D. nel Discorso non presenta l’ipotesi che o Dio lo ab-bia creato tale da ingannarsi sempre o un genio malvagio ado-peri tutte le sue arti per ingannarlo, ipotesi che nelle Medita-zioni e nei Principî appare un argomento di dubbio più fortedegli altri e che serve a legittimare la possibilità di una menteche erri sempre. Effettivamente, però, questo argomento è piùimpressionante che stringente, perchè il D. nel Discorso può,anche senza farne uso, valersi degli stessi pensieri delle altreopere per uscire dal dubbio e porre fondamenti sicuri alla co-noscenza in generale e alla scienza in particolare.

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gni. Ma subito dopo mi accorsi che, mentre volevo cosìpensare che tutto fosse falso165, occorreva necessaria-mente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E notandoche questa verità: io penso, dunque io sono era così fer-ma e sicura, che tutte le più stravaganti supposizioni de-gli scettici non erano capaci di scuoterla, giudicai chepotevo accettarla, senza scrupolo, come il primo princi-pio della filosofia che cercavo166.

Poi, esaminando con attenzione ciò che ero, e veden-do che potevo fingere di non aver corpo, e che non esi-stesse nè un mondo nè un luogo dove io fossi, ma chenon potevo fingere, per questo, che io non ci fossi; eche, al contrario, da ciò stesso, ch’io pensavo di dubitare

164 L’espressione usata mostra che il D. non dubita effettivamen-te della realtà delle cose esterne, ma si sforza di negar fede acredenze che non appaiono ancora razionalmente giustificatedavanti alla esigenza dell’evidenza.

165 Falso si oppone qui sia a reale, sia a vero, nel senso razionaledella parola.

166 Il cogito non può essere intaccato dalle critiche dello scettici-smo, perchè ognuna di esse, ogni dubbio, implica il pensiero equesto implica l’essere. L’esistenza del soggetto pensante è in-sieme una certezza razionale inattaccabile e l’apprensione diuna realtà indiscutibile, perchè sperimentata in modo imme-diato. Inoltre, è il presupposto fondamentale della conoscenza(v. Introd. pp. XXXIII-XXXIV [pagg. 48-50 in questa edizioneManuzio]). Sotto tutti questi aspetti, costituisce il primo prin-cipio della filosofia, perchè garantisce la validità della cono-scenza considerata nel suo funzionamento e la sua capacità dicogliere una realtà oggettiva.

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gni. Ma subito dopo mi accorsi che, mentre volevo cosìpensare che tutto fosse falso165, occorreva necessaria-mente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E notandoche questa verità: io penso, dunque io sono era così fer-ma e sicura, che tutte le più stravaganti supposizioni de-gli scettici non erano capaci di scuoterla, giudicai chepotevo accettarla, senza scrupolo, come il primo princi-pio della filosofia che cercavo166.

Poi, esaminando con attenzione ciò che ero, e veden-do che potevo fingere di non aver corpo, e che non esi-stesse nè un mondo nè un luogo dove io fossi, ma chenon potevo fingere, per questo, che io non ci fossi; eche, al contrario, da ciò stesso, ch’io pensavo di dubitare

164 L’espressione usata mostra che il D. non dubita effettivamen-te della realtà delle cose esterne, ma si sforza di negar fede acredenze che non appaiono ancora razionalmente giustificatedavanti alla esigenza dell’evidenza.

165 Falso si oppone qui sia a reale, sia a vero, nel senso razionaledella parola.

166 Il cogito non può essere intaccato dalle critiche dello scettici-smo, perchè ognuna di esse, ogni dubbio, implica il pensiero equesto implica l’essere. L’esistenza del soggetto pensante è in-sieme una certezza razionale inattaccabile e l’apprensione diuna realtà indiscutibile, perchè sperimentata in modo imme-diato. Inoltre, è il presupposto fondamentale della conoscenza(v. Introd. pp. XXXIII-XXXIV [pagg. 48-50 in questa edizioneManuzio]). Sotto tutti questi aspetti, costituisce il primo prin-cipio della filosofia, perchè garantisce la validità della cono-scenza considerata nel suo funzionamento e la sua capacità dicogliere una realtà oggettiva.

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della verità167 delle altre cose, seguiva evidentissima-mente e sicurissimamente che io esistevo; mentre, seavessi soltanto cessato di pensare, ancor che fosse statovero168 tutto il resto di ciò che avevo mai immaginato,non avrei avuto nessuna ragione di credere d’essere esi-stito169: conobbi, da questo, che io ero una sostanza170 dicui tutta l’essenza o natura consiste soltanto nel pensaree che, per essere, non ha bisogno di nessun luogo, nè di-

167 Verità = realtà.168 Vero nel senso di reale.169 Come spiega la versione latina: durante quel tempo.170 Il D. non definisce sempre nello stesso modo la sostanza.

(Una definizione si è ricordata nella Introd. p. XXXIX [pag.58 in questa edizione Manuzio]). Questo testo del Discorsoimplica la tesi sostenuta nelle Risposte alle Terze Obbiezioni:«Ogni cosa alla quale inerisce immediatamente come in unsoggetto, o per la quale esiste qualche cosa che appercepiamo,cioè qualche proprietà, o qualità, o attributo, di cui abbiamo innoi un’idea reale, si chiama sostanza». Questa è dunque ilsoggetto immediato o la causa di un attributo di cui abbiamoun’idea reale. Come si è ricordato, la natura o essenza dellasostanza risiede nel suo attributo, cioè nella proprietà perma-nente di essa, di cui i modi sono le determinazioni mutevoli(v. Introd. nota 3 della p. XXXII [nota 11 in questa edizioneManuzio]). La sostanza si può pensare soltanto per mezzo delsuo attributo, che ci permette di conoscerla nella sua essenza.Perciò il D. afferma poco oltre che l’io è una sostanza la cuiessenza o natura consiste soltanto nel pensare: infatti esso(cioè l’anima) è la sostanza di cui il pensiero (inteso in mododa designare tutto ciò di cui abbiamo coscienza in modo im-mediato) è l’attributo.

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della verità167 delle altre cose, seguiva evidentissima-mente e sicurissimamente che io esistevo; mentre, seavessi soltanto cessato di pensare, ancor che fosse statovero168 tutto il resto di ciò che avevo mai immaginato,non avrei avuto nessuna ragione di credere d’essere esi-stito169: conobbi, da questo, che io ero una sostanza170 dicui tutta l’essenza o natura consiste soltanto nel pensaree che, per essere, non ha bisogno di nessun luogo, nè di-

167 Verità = realtà.168 Vero nel senso di reale.169 Come spiega la versione latina: durante quel tempo.170 Il D. non definisce sempre nello stesso modo la sostanza.

(Una definizione si è ricordata nella Introd. p. XXXIX [pag.58 in questa edizione Manuzio]). Questo testo del Discorsoimplica la tesi sostenuta nelle Risposte alle Terze Obbiezioni:«Ogni cosa alla quale inerisce immediatamente come in unsoggetto, o per la quale esiste qualche cosa che appercepiamo,cioè qualche proprietà, o qualità, o attributo, di cui abbiamo innoi un’idea reale, si chiama sostanza». Questa è dunque ilsoggetto immediato o la causa di un attributo di cui abbiamoun’idea reale. Come si è ricordato, la natura o essenza dellasostanza risiede nel suo attributo, cioè nella proprietà perma-nente di essa, di cui i modi sono le determinazioni mutevoli(v. Introd. nota 3 della p. XXXII [nota 11 in questa edizioneManuzio]). La sostanza si può pensare soltanto per mezzo delsuo attributo, che ci permette di conoscerla nella sua essenza.Perciò il D. afferma poco oltre che l’io è una sostanza la cuiessenza o natura consiste soltanto nel pensare: infatti esso(cioè l’anima) è la sostanza di cui il pensiero (inteso in mododa designare tutto ciò di cui abbiamo coscienza in modo im-mediato) è l’attributo.

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pende da nessuna cosa materiale171. Di modo chequest’Io, cioè l’anima per cui io sono quel che sono, èinteramente distinta dal corpo e anzi è di questo più fa-cile a conoscere172, e ancor che il corpo non fosse, l’ani-ma non cesserebbe d’essere tutto quello che è.

Dopo questo, considerai in generale quel che è richie-sto perchè una proposizione sia vera e certa;173 infatti,siccome ne avevo allora trovata una che sapevo essertale, pensai di dovere anche sapere in che cosa consistequesta certezza. E avendo notato che non v’è proprioniente in questa proposizione: io penso, dunque io sono,che m’assicuri che io dico la verità, se non che veggomolto chiaramente che, per pensare, bisogna essere:pensai di poter prendere per regola generale che le cose

171 Posso dubitare dell’esistenza di qualunque cosa, ma non diquella del mio io che dubita; se invece esistessero tutte le altrecose, ma io avessi cessato di pensare, non avrei ragione di cre-dere alla mia propria esistenza. Quindi, anche se esiste unmondo materiale, l’esistenza del mio pensiero, rispetto allaconoscenza che ne ho, non dipende affatto da esso. Così sidice esplicitamente che la conoscenza che il soggetto ha di sènon ha per condizione quella del mondo esterno; ma implici-tamente si afferma anche che ogni affermazione della realtàdel secondo è condizionata dal cogito, perchè consiste in unatto del pensiero.

172 Infatti, essendo l’anima, cioè l’io pensante, il presupposto diogni conoscenza, non si può pensare alcuna cosa, senza pen-sare insieme l’idea di essa.

173 La traduzione latina: «perchè qualche proposizione sia cono-sciuta come vera e certa».

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pende da nessuna cosa materiale171. Di modo chequest’Io, cioè l’anima per cui io sono quel che sono, èinteramente distinta dal corpo e anzi è di questo più fa-cile a conoscere172, e ancor che il corpo non fosse, l’ani-ma non cesserebbe d’essere tutto quello che è.

Dopo questo, considerai in generale quel che è richie-sto perchè una proposizione sia vera e certa;173 infatti,siccome ne avevo allora trovata una che sapevo essertale, pensai di dovere anche sapere in che cosa consistequesta certezza. E avendo notato che non v’è proprioniente in questa proposizione: io penso, dunque io sono,che m’assicuri che io dico la verità, se non che veggomolto chiaramente che, per pensare, bisogna essere:pensai di poter prendere per regola generale che le cose

171 Posso dubitare dell’esistenza di qualunque cosa, ma non diquella del mio io che dubita; se invece esistessero tutte le altrecose, ma io avessi cessato di pensare, non avrei ragione di cre-dere alla mia propria esistenza. Quindi, anche se esiste unmondo materiale, l’esistenza del mio pensiero, rispetto allaconoscenza che ne ho, non dipende affatto da esso. Così sidice esplicitamente che la conoscenza che il soggetto ha di sènon ha per condizione quella del mondo esterno; ma implici-tamente si afferma anche che ogni affermazione della realtàdel secondo è condizionata dal cogito, perchè consiste in unatto del pensiero.

172 Infatti, essendo l’anima, cioè l’io pensante, il presupposto diogni conoscenza, non si può pensare alcuna cosa, senza pen-sare insieme l’idea di essa.

173 La traduzione latina: «perchè qualche proposizione sia cono-sciuta come vera e certa».

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da noi concepite molto chiaramente e molto distinta-mente sono tutte vere;174 ma che c’è solo qualche diffi-coltà nel rilevare bene quali sono quelle che concepiamodistintamente.

In seguito,175 riflettendo sul fatto che io dubitavo, eche, per conseguenza, il mio essere non era interamenteperfetto, giacchè vedevo chiaramente che conoscere erauna perfezione maggiore che dubitare, mi proposi dicercare donde avevo appreso a pensare a qualche cosa dipiù perfetto che io non fossi: e conobbi in modo eviden-te che dovevo avere appreso ciò da qualche natura chefosse di fatto più perfetta.176 Per quel che riguarda i pen-sieri che avevo di molte altre cose fuori di me, come delcielo, della terra, della luce, del calore e di mille altre,non mi preoccupavo altrettanto di sapere donde venisse-ro, perchè, non notando nulla in esse che mi sembrasserenderle superiori a me,177 potevo credere che, se erano

174 Per i rapporti che esistono fra il cogito e le conoscenze chiaree distinte, v. Introd., p. XXXIV-XXXV [pagg. 50-52 in questa edi-zione Manuzio]. In seguito, il Discorso mostra che il D. stabi-lisce la regola generale di cui parla in questo passo perchèpresuppone la verità delle idee chiare e distinte.

175 Come appare in seguito, il D. circa di dimostrare che Dio,cioè l’essere perfettissimo, esiste, per poter giustificare la re-gola generale che le idee chiare e distinte sono vere.

176 Perfezione è per il D. sinonimo di realtà. Un essere imperfet-to è sotto qualche rispetto privo della realtà che uno più per-fetto possiede. Il dubbio è meno perfetto della conoscenza,perchè è la mancanza di essa.

177 Cioè: più ricche di realtà, nel loro contenuto concettuale. Si

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da noi concepite molto chiaramente e molto distinta-mente sono tutte vere;174 ma che c’è solo qualche diffi-coltà nel rilevare bene quali sono quelle che concepiamodistintamente.

In seguito,175 riflettendo sul fatto che io dubitavo, eche, per conseguenza, il mio essere non era interamenteperfetto, giacchè vedevo chiaramente che conoscere erauna perfezione maggiore che dubitare, mi proposi dicercare donde avevo appreso a pensare a qualche cosa dipiù perfetto che io non fossi: e conobbi in modo eviden-te che dovevo avere appreso ciò da qualche natura chefosse di fatto più perfetta.176 Per quel che riguarda i pen-sieri che avevo di molte altre cose fuori di me, come delcielo, della terra, della luce, del calore e di mille altre,non mi preoccupavo altrettanto di sapere donde venisse-ro, perchè, non notando nulla in esse che mi sembrasserenderle superiori a me,177 potevo credere che, se erano

174 Per i rapporti che esistono fra il cogito e le conoscenze chiaree distinte, v. Introd., p. XXXIV-XXXV [pagg. 50-52 in questa edi-zione Manuzio]. In seguito, il Discorso mostra che il D. stabi-lisce la regola generale di cui parla in questo passo perchèpresuppone la verità delle idee chiare e distinte.

175 Come appare in seguito, il D. circa di dimostrare che Dio,cioè l’essere perfettissimo, esiste, per poter giustificare la re-gola generale che le idee chiare e distinte sono vere.

176 Perfezione è per il D. sinonimo di realtà. Un essere imperfet-to è sotto qualche rispetto privo della realtà che uno più per-fetto possiede. Il dubbio è meno perfetto della conoscenza,perchè è la mancanza di essa.

177 Cioè: più ricche di realtà, nel loro contenuto concettuale. Si

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vere, fossero dipendenti dalla mia natura, in quanto essaaveva qualche perfezione; e se non erano vere, che le ri-cevevo dal nulla, cioè ch’erano in me, perchè avevodell’imperfezione.178 Ma non poteva esser lo stessodell’idea d’un essere più perfetto del mio: perchè che miprovenisse dal nulla era cosa manifestamente impossibi-

tratta di ciò che il D., seguendo la terminologia scolastica,chiama la realitas objectiva ideae, cioè della realtà cheun’idea possiede in quanto rappresenta un oggetto, che si devedistinguere dalla realitas formalis, che le appartiene perchè èun modo del pensiero, cioè una esplicazione della attività diquesto, ossia per il fatto che esiste. (Ogni essere esistente pos-siede realtà formale). Sotto il secondo rispetto, tutte le ideesono uguali, e hanno come causa efficiente il soggetto inquanto esplica la propria attività pensante. Invece, la realtàoggettiva è diversa nelle diverse idee, perchè consiste nel con-tenuto concettuale che presenta gradi svariati: quanto più riccoè tale contenuto, tanto è maggiore quella realtà, della quale,secondo il D., deve pure esistere una causa efficiente. Per leidee delle cose che non sono più perfette di me (che cioè nonposseggono un contenuto più ricco di realtà), posso considera-re me stesso causa efficiente della realtà oggettiva che inclu-dono.

178 Si osserva abitualmente che il D. presuppone il principio, cheegli formula in altri testi: «la verità consiste nell’essere, e lafalsità nel non essere» e si nota che esso deriva dalla teoriascolastica dei predicati trascendentali che appartengonoall’essere in quanto essere: unum, verum, bonum, cum enteconvertuntur. Questa teoria, però, implica la convinzione chela veritas in essendo (che si deve distinguere dalla veritas incognoscendo, che consiste nella adaequatio rei et intellectus)risiede nella adeguazione della cosa al suo modello o archeti-

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vere, fossero dipendenti dalla mia natura, in quanto essaaveva qualche perfezione; e se non erano vere, che le ri-cevevo dal nulla, cioè ch’erano in me, perchè avevodell’imperfezione.178 Ma non poteva esser lo stessodell’idea d’un essere più perfetto del mio: perchè che miprovenisse dal nulla era cosa manifestamente impossibi-

tratta di ciò che il D., seguendo la terminologia scolastica,chiama la realitas objectiva ideae, cioè della realtà cheun’idea possiede in quanto rappresenta un oggetto, che si devedistinguere dalla realitas formalis, che le appartiene perchè èun modo del pensiero, cioè una esplicazione della attività diquesto, ossia per il fatto che esiste. (Ogni essere esistente pos-siede realtà formale). Sotto il secondo rispetto, tutte le ideesono uguali, e hanno come causa efficiente il soggetto inquanto esplica la propria attività pensante. Invece, la realtàoggettiva è diversa nelle diverse idee, perchè consiste nel con-tenuto concettuale che presenta gradi svariati: quanto più riccoè tale contenuto, tanto è maggiore quella realtà, della quale,secondo il D., deve pure esistere una causa efficiente. Per leidee delle cose che non sono più perfette di me (che cioè nonposseggono un contenuto più ricco di realtà), posso considera-re me stesso causa efficiente della realtà oggettiva che inclu-dono.

178 Si osserva abitualmente che il D. presuppone il principio, cheegli formula in altri testi: «la verità consiste nell’essere, e lafalsità nel non essere» e si nota che esso deriva dalla teoriascolastica dei predicati trascendentali che appartengonoall’essere in quanto essere: unum, verum, bonum, cum enteconvertuntur. Questa teoria, però, implica la convinzione chela veritas in essendo (che si deve distinguere dalla veritas incognoscendo, che consiste nella adaequatio rei et intellectus)risiede nella adeguazione della cosa al suo modello o archeti-

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le; e poichè non è meno ripugnante179 che il più perfettoderivi e dipenda dal meno perfetto, di quanto sia ripu-gnante che dal nulla proceda qualche cosa, non la pote-vo avere neppure da me. Di modo che restava che fossestata messa in me da una natura veramente più perfettach’io non fossi, e che, anzi, avesse tutte le perfezioni dicui io potevo avere qualche idea, che cioè, per spiegar-

po (idea) nella mente divina. Invece per il D. l’idea è vera inquanto ha un certo contenuto intelligibile, che costituisce lasua realtà; se ne manca, è falsa. Ora se le idee in questionesono vere, posseggono un contenuto reale, del quale io possoessere causa, perchè la mia realtà non è inferiore alla loro; sesono false, non posseggono tale contenuto, e perciò derivanoda me, in quanto includo qualche imperfezione, cioè qualchemancanza di realtà.

179 Repugnante alla ragione, perchè contraddittorio.

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le; e poichè non è meno ripugnante179 che il più perfettoderivi e dipenda dal meno perfetto, di quanto sia ripu-gnante che dal nulla proceda qualche cosa, non la pote-vo avere neppure da me. Di modo che restava che fossestata messa in me da una natura veramente più perfettach’io non fossi, e che, anzi, avesse tutte le perfezioni dicui io potevo avere qualche idea, che cioè, per spiegar-

po (idea) nella mente divina. Invece per il D. l’idea è vera inquanto ha un certo contenuto intelligibile, che costituisce lasua realtà; se ne manca, è falsa. Ora se le idee in questionesono vere, posseggono un contenuto reale, del quale io possoessere causa, perchè la mia realtà non è inferiore alla loro; sesono false, non posseggono tale contenuto, e perciò derivanoda me, in quanto includo qualche imperfezione, cioè qualchemancanza di realtà.

179 Repugnante alla ragione, perchè contraddittorio.

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mi con una parola, fosse Dio180. A questo aggiunsi181

che, poichè conoscevo alcune perfezioni che non avevo,non ero il solo essere che esistesse (userò qui, se per-mettete, liberamente i termini della Scuola)182, ma cheoccorreva per necessità, che ve ne fosse qualche altropiù perfetto, dal quale dipendessi e dal quale avessi rice-

180 Si applica così il principio di causalità, che per il D. implicache l’effetto non può contenere qualche realtà che non preesi-sta, o in modo simile (formaliter) o in modo più elevato (emi-nenter) nella causa efficiente, perchè altrimenti il primo deri-verebbe qualche cosa dal nulla. Quindi, come da questo nonpuò nascere alcuna realtà, così dal meno perfetto, ossia dalmeno reale, non può procedere qualche cosa più perfetta, cioèpiù reale. Ora, la realtà formale del mio essere, che è imperfet-ta e quindi difettosa, non può essere la causa efficiente dellarealtà oggettiva, cioè del contenuto concettuale, dell’idea diun essere più perfetto, o più reale, di me, anzi di quello perfet-tissimo (includente tutta la realtà), Dio perciò deve avere im-presso nella mia mente l’idea che ne ho. Il vizio fondamentaledi questa prova consiste nel ricercare una causa efficiente del-la realtà oggettiva, cioè del contenuto concettuale, delle idee,del quale si può domandare solamente la ragione. Nello stessomodo non si ha il diritto di chiedere quale sia la causa effi-ciente di una conclusione, perchè questa trova nelle premessesoltanto il suo fondamento razionale. La Scolastica non chie-deva le cause efficienti del contenuto concettuale dei nostripensieri, e perciò qualche rappresentante di essa criticò il D.su questo punto. È giusta l’osservazione del Gilson che tuttala metafisica del D. richiede che un grado, sia pur minimo, diessere appartenga alla realtà oggettiva delle nostre idee, per-chè soltanto con essa può provare l’esistenza di Dio per mez-zo dei suoi effetti e quella del mondo esterno; ma si può so-

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mi con una parola, fosse Dio180. A questo aggiunsi181

che, poichè conoscevo alcune perfezioni che non avevo,non ero il solo essere che esistesse (userò qui, se per-mettete, liberamente i termini della Scuola)182, ma cheoccorreva per necessità, che ve ne fosse qualche altropiù perfetto, dal quale dipendessi e dal quale avessi rice-

180 Si applica così il principio di causalità, che per il D. implicache l’effetto non può contenere qualche realtà che non preesi-sta, o in modo simile (formaliter) o in modo più elevato (emi-nenter) nella causa efficiente, perchè altrimenti il primo deri-verebbe qualche cosa dal nulla. Quindi, come da questo nonpuò nascere alcuna realtà, così dal meno perfetto, ossia dalmeno reale, non può procedere qualche cosa più perfetta, cioèpiù reale. Ora, la realtà formale del mio essere, che è imperfet-ta e quindi difettosa, non può essere la causa efficiente dellarealtà oggettiva, cioè del contenuto concettuale, dell’idea diun essere più perfetto, o più reale, di me, anzi di quello perfet-tissimo (includente tutta la realtà), Dio perciò deve avere im-presso nella mia mente l’idea che ne ho. Il vizio fondamentaledi questa prova consiste nel ricercare una causa efficiente del-la realtà oggettiva, cioè del contenuto concettuale, delle idee,del quale si può domandare solamente la ragione. Nello stessomodo non si ha il diritto di chiedere quale sia la causa effi-ciente di una conclusione, perchè questa trova nelle premessesoltanto il suo fondamento razionale. La Scolastica non chie-deva le cause efficienti del contenuto concettuale dei nostripensieri, e perciò qualche rappresentante di essa criticò il D.su questo punto. È giusta l’osservazione del Gilson che tuttala metafisica del D. richiede che un grado, sia pur minimo, diessere appartenga alla realtà oggettiva delle nostre idee, per-chè soltanto con essa può provare l’esistenza di Dio per mez-zo dei suoi effetti e quella del mondo esterno; ma si può so-

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vuto tutto quello che avevo. Perchè, se fossi stato solo eindipendente da ogni altro, in modo tale da aver avutoda me stesso183 tutto quel poco che partecipavodell’essere perfetto,184 avrei potuto avere da me, per lastessa ragione, tutto il di più che io sapevo mancarmi, ecosì essere io stesso infinito, eterno, immutabile, onni-sciente, onnipotente, e infine avere tutte le perfezioniche potevo notare in Dio. Giacchè, secondo i ragiona-

spettare che abbia ritenuta evidente quella proposizione ap-punto perchè ne aveva bisogno per costruire la su filosofia.

181 Comincia qui quella che abitualmente si chiama la secondaprova dell’esistenza di Dio, che per il D. considerava un’espo-sizione diversa e più completa della precedente, sebbene di-chiarasse di non interessarsi se venisse o no ritenuta diversada questa. Siccome essa muove dall’esistenza di un essere(l’uomo) che possiede l’idea di Dio, ossa dell’essere perfettis-simo, coincide in parte con la prima prova, dalla quale peròdifferisce, perchè non si fonda sull’esame di quell’idea consi-derata in sè stessa. Il pensiero del D. è questo. Io, nell’idea diDio, penso perfezioni di cui so di essere privo e che non ho ilpotere di procurarmi, sebbene le desideri. Ciò prova che deb-bo quello che possiedo a Dio, dal quale io dipendo. Infatti seesistessi io solo e fossi indipendente da ogni altro essere, avreidato a me stesso non soltanto quelle poche perfezioni che ho,ma tutte quelle che sono incluse nell’idea di Dio. Questa pro-va è maggiormente sviluppata nelle Meditazioni e nei Principî(cf. Introd. p. XXXVII [pag. 54 di questa edizione Manuzio]).

182 Espressioni del linguaggio usato dalla filosofia scolastica,come avere da sè, partecipare di..... (Gilson).

183 Da avere dato a me stesso.184 Quella piccola parte di perfezione (= dell’essere perfetto) di

cui partecipavo.

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vuto tutto quello che avevo. Perchè, se fossi stato solo eindipendente da ogni altro, in modo tale da aver avutoda me stesso183 tutto quel poco che partecipavodell’essere perfetto,184 avrei potuto avere da me, per lastessa ragione, tutto il di più che io sapevo mancarmi, ecosì essere io stesso infinito, eterno, immutabile, onni-sciente, onnipotente, e infine avere tutte le perfezioniche potevo notare in Dio. Giacchè, secondo i ragiona-

spettare che abbia ritenuta evidente quella proposizione ap-punto perchè ne aveva bisogno per costruire la su filosofia.

181 Comincia qui quella che abitualmente si chiama la secondaprova dell’esistenza di Dio, che per il D. considerava un’espo-sizione diversa e più completa della precedente, sebbene di-chiarasse di non interessarsi se venisse o no ritenuta diversada questa. Siccome essa muove dall’esistenza di un essere(l’uomo) che possiede l’idea di Dio, ossa dell’essere perfettis-simo, coincide in parte con la prima prova, dalla quale peròdifferisce, perchè non si fonda sull’esame di quell’idea consi-derata in sè stessa. Il pensiero del D. è questo. Io, nell’idea diDio, penso perfezioni di cui so di essere privo e che non ho ilpotere di procurarmi, sebbene le desideri. Ciò prova che deb-bo quello che possiedo a Dio, dal quale io dipendo. Infatti seesistessi io solo e fossi indipendente da ogni altro essere, avreidato a me stesso non soltanto quelle poche perfezioni che ho,ma tutte quelle che sono incluse nell’idea di Dio. Questa pro-va è maggiormente sviluppata nelle Meditazioni e nei Principî(cf. Introd. p. XXXVII [pag. 54 di questa edizione Manuzio]).

182 Espressioni del linguaggio usato dalla filosofia scolastica,come avere da sè, partecipare di..... (Gilson).

183 Da avere dato a me stesso.184 Quella piccola parte di perfezione (= dell’essere perfetto) di

cui partecipavo.

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menti che ho fatto, per conoscere la natura di Dio, perquanto la mia n’era capace,185 io dovevo solo considera-re, di tutte le cose di cui trovavo in me qualche idea, sefosse perfezione o no possederle, ed ero sicuro che nes-suna di quelle che indicavano qualche imperfezione erain lui, ma che tutte le altre vi erano186. Così vedevo cheil dubbio, l’incostanza, la tristezza, e simili cose, non vipotevano essere, per la ragione che sarei stato io stessocontento d’esserne esente. Inoltre, poi, avevo idee dimolte cose sensibili e corporee: chè, per quanto suppo-nessi che sognavo, e che tutto quel che vedevo o imma-ginavo era falso, non potevo tuttavia negare che le ideedi esse cose fossero realmente nel mio pensiero; ma sic-come avevo già riconosciuto in me molto chiaramenteche la natura intelligente è distinta dalla corporea, consi-derando che ogni composizione testimonia dipendenza,e che la dipendenza è manifestamente un difetto187, infe-rii da questo che non poteva essere una perfezione inDio essere composto di queste due nature, e che, perconseguenza, egli non lo era; ma che, se v’erano dei

185 In quanto la ragione naturale, da sola, può conoscere la natu-ra di Dio.

186 Provata l’esistenza di Dio, cioè dell’essere perfettissimo, ilD. procede a determinarne la natura; per far ciò, gli basta rico-noscere quali cose, di cui ha qualche idea, denotino perfezione(= realtà).

187 La versione latina è più ampia e più chiara: «infatti notavoche in ogni composizione una parte dipende dall’altra, e il tut-to dipende dalle parti».

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menti che ho fatto, per conoscere la natura di Dio, perquanto la mia n’era capace,185 io dovevo solo considera-re, di tutte le cose di cui trovavo in me qualche idea, sefosse perfezione o no possederle, ed ero sicuro che nes-suna di quelle che indicavano qualche imperfezione erain lui, ma che tutte le altre vi erano186. Così vedevo cheil dubbio, l’incostanza, la tristezza, e simili cose, non vipotevano essere, per la ragione che sarei stato io stessocontento d’esserne esente. Inoltre, poi, avevo idee dimolte cose sensibili e corporee: chè, per quanto suppo-nessi che sognavo, e che tutto quel che vedevo o imma-ginavo era falso, non potevo tuttavia negare che le ideedi esse cose fossero realmente nel mio pensiero; ma sic-come avevo già riconosciuto in me molto chiaramenteche la natura intelligente è distinta dalla corporea, consi-derando che ogni composizione testimonia dipendenza,e che la dipendenza è manifestamente un difetto187, infe-rii da questo che non poteva essere una perfezione inDio essere composto di queste due nature, e che, perconseguenza, egli non lo era; ma che, se v’erano dei

185 In quanto la ragione naturale, da sola, può conoscere la natu-ra di Dio.

186 Provata l’esistenza di Dio, cioè dell’essere perfettissimo, ilD. procede a determinarne la natura; per far ciò, gli basta rico-noscere quali cose, di cui ha qualche idea, denotino perfezione(= realtà).

187 La versione latina è più ampia e più chiara: «infatti notavoche in ogni composizione una parte dipende dall’altra, e il tut-to dipende dalle parti».

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corpi nel mondo, o anche delle intelligenze188, o altre na-ture189 che non fossero completamente perfette, il loroessere doveva dipendere dalla sua potenza, in tal mododa non poter sussistere senza di Lui un solo momento190.

Volli cercare, dopo ciò, altre verità191, ed essendomiproposto l’oggetto dei geometri, che io concepivo comeun corpo continuo192 o uno spazio indefinitamente estesoin lunghezza, larghezza, altezza o profondità, divisibilein diverse parti, le quali potevano avere diverse figure egrandezze, ed esser mosse o trasposte in tutti i modi,perchè i geometri suppongono tutto ciò nel loro oggetto,scorsi alcune delle loro più semplici dimostrazioni. Eavendo notato che quella grande certezza, da tutti attri-buita ad esse, è fondata soltanto sul fatto che si concepi-scono evidentemente, secondo la regola esposta da mepoco sopra, notai anche che non c’era proprio niente in

188 Intelligenze separate da corpi = angeli (Gilson).189 Uomini, nei quali le intelligenze sono unite a corpi (Gilson).190 Altrove (Meditazioni, Principii, Risposte alle Terze Obbie-

zioni) il D. mostra che la conservazione delle creature si iden-tifica a una creazione continua da parte del loro Autore (v. In-trod., p. XXXVII [pag. 54 di questa edizione Manuzio]).

191 Dopo avere dimostrato l’esistenza del suo io pensante e quel-la di Dio e determinato la natura di questo, il D. procede aesaminare la struttura razionale del mondo fisico, cioè il con-tenuto concettuale chiaro e distinto delle idee delle cose mate-riali, contenuto che risiede nell’idea della estensione e nelledeterminazioni di essa, figura e movimento. In seguito ricer-cherà se quelle cose esistano effettivamente fuori di lui.

192 Cioè senza intervalli vuoti.

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corpi nel mondo, o anche delle intelligenze188, o altre na-ture189 che non fossero completamente perfette, il loroessere doveva dipendere dalla sua potenza, in tal mododa non poter sussistere senza di Lui un solo momento190.

Volli cercare, dopo ciò, altre verità191, ed essendomiproposto l’oggetto dei geometri, che io concepivo comeun corpo continuo192 o uno spazio indefinitamente estesoin lunghezza, larghezza, altezza o profondità, divisibilein diverse parti, le quali potevano avere diverse figure egrandezze, ed esser mosse o trasposte in tutti i modi,perchè i geometri suppongono tutto ciò nel loro oggetto,scorsi alcune delle loro più semplici dimostrazioni. Eavendo notato che quella grande certezza, da tutti attri-buita ad esse, è fondata soltanto sul fatto che si concepi-scono evidentemente, secondo la regola esposta da mepoco sopra, notai anche che non c’era proprio niente in

188 Intelligenze separate da corpi = angeli (Gilson).189 Uomini, nei quali le intelligenze sono unite a corpi (Gilson).190 Altrove (Meditazioni, Principii, Risposte alle Terze Obbie-

zioni) il D. mostra che la conservazione delle creature si iden-tifica a una creazione continua da parte del loro Autore (v. In-trod., p. XXXVII [pag. 54 di questa edizione Manuzio]).

191 Dopo avere dimostrato l’esistenza del suo io pensante e quel-la di Dio e determinato la natura di questo, il D. procede aesaminare la struttura razionale del mondo fisico, cioè il con-tenuto concettuale chiaro e distinto delle idee delle cose mate-riali, contenuto che risiede nell’idea della estensione e nelledeterminazioni di essa, figura e movimento. In seguito ricer-cherà se quelle cose esistano effettivamente fuori di lui.

192 Cioè senza intervalli vuoti.

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esse che m’assicurasse dell’esistenza del loro oggetto.Perchè, ad esempio, vedevo bene che, supponendo untriangolo, occorreva che i suoi tre angoli fossero egualia due retti; ma non vedevo niente che, per questo,m’assicurasse che v’era al mondo qualche triangolo193.Mentre, ritornando a esaminare l’idea che avevo d’unessere perfetto, trovavo che l’esistenza v’era inclusa,nello stesso modo che nell’idea d’un triangolo è inclusoche i suoi tre angoli siano eguali a due retti, o in quellad’una sfera che tutte le sue parti siano egualmente di-stanti dal suo centro, o anche più evidentemente; e che,in conseguenza, è almeno tanto certo che Dio, che èquest’Essere così perfetto, è o esiste, quanto una qual-siasi dimostrazione di Geometria potrebbe essere cer-ta194.

193 Nelle idee degli enti geometrici, e in generale delle cose cheincludono soltanto una parte della realtà, l’essenza e l’esisten-za sono distinte, sicchè si può pensare la prima indipendente-mente dalla seconda. Invece nell’idea di Dio l’esistenza è in-separabile dall’essenza; in ciò consiste l’argomento ontologi-co di S. Anselmo, che il D. ora presenta, sebbene a modo pro-prio, per provare nuovamente che Dio esiste. Questo passag-gio di pensiero è determinato dalla contrapposizione che il D.rileva, tra le prime idee, e la seconda.

194 L’argomento di S. Anselmo venne criticato dal suo contem-poraneo Gaunilone e poi da S. Tommaso fra gli scolastici; edopo il Descartes (il quale trovò contraddittori nel Gassendi enell’Hobbes) dal Kant, che sostenne che l’esistenza non è unpredicato che si possa attribuire al concetto di una cosa, ma èsoltanto la posizione di una cosa, o di certe determinazioni in

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esse che m’assicurasse dell’esistenza del loro oggetto.Perchè, ad esempio, vedevo bene che, supponendo untriangolo, occorreva che i suoi tre angoli fossero egualia due retti; ma non vedevo niente che, per questo,m’assicurasse che v’era al mondo qualche triangolo193.Mentre, ritornando a esaminare l’idea che avevo d’unessere perfetto, trovavo che l’esistenza v’era inclusa,nello stesso modo che nell’idea d’un triangolo è inclusoche i suoi tre angoli siano eguali a due retti, o in quellad’una sfera che tutte le sue parti siano egualmente di-stanti dal suo centro, o anche più evidentemente; e che,in conseguenza, è almeno tanto certo che Dio, che èquest’Essere così perfetto, è o esiste, quanto una qual-siasi dimostrazione di Geometria potrebbe essere cer-ta194.

193 Nelle idee degli enti geometrici, e in generale delle cose cheincludono soltanto una parte della realtà, l’essenza e l’esisten-za sono distinte, sicchè si può pensare la prima indipendente-mente dalla seconda. Invece nell’idea di Dio l’esistenza è in-separabile dall’essenza; in ciò consiste l’argomento ontologi-co di S. Anselmo, che il D. ora presenta, sebbene a modo pro-prio, per provare nuovamente che Dio esiste. Questo passag-gio di pensiero è determinato dalla contrapposizione che il D.rileva, tra le prime idee, e la seconda.

194 L’argomento di S. Anselmo venne criticato dal suo contem-poraneo Gaunilone e poi da S. Tommaso fra gli scolastici; edopo il Descartes (il quale trovò contraddittori nel Gassendi enell’Hobbes) dal Kant, che sostenne che l’esistenza non è unpredicato che si possa attribuire al concetto di una cosa, ma èsoltanto la posizione di una cosa, o di certe determinazioni in

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Ma la ragione per cui molti si persuadono che è diffi-cile conoscerlo, e anche conoscere che cos’è la loro ani-ma, è che essi non innalzano mai la loro mente al di làdelle cose sensibili, e sono talmente abituati a non con-siderare nulla se non per mezzo della immaginazione(che è il modo di pensare particolare alle cose materia-li195), che tutto quello che non è immaginabile sembraloro non intelligibile. Ciò che è abbastanza manifestodal fatto, che perfino i filosofi hanno per massima, nelleScuole, non esservi nulla nell’intelletto che non sia pri-ma stato nel senso, dove tuttavia è certo che le idee diDio e dell’anima non sono mai state196. E mi sembra che

sè stesse. Sul valore dell’argomento continuano le discussionitra i filosofi. Si osservi che il D. in queste prove adopera comeevidenti non poche proposizioni, che, se non altro, si prestanoalla discussione, mentre precedentemente aveva involto neldubbio persino le conoscenze più semplici e più chiare e di-stinte. V. nota della p. 54 [nota 163 di questa edizione Manu-zio].

195 Proprio delle cose materiali.196 Allude ai rappresentanti della tradizione peripatetico-scolasti-

ca, che, fondandosi sulla tesi aristotelica che non è possibileun pensiero indipendente dalle immagini sensibili, sostenevanihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. Questaproposizione, che non era ancora intesa nel senso dell’empiri-smo sensistico, (per il quale tutta la conoscenza è derivata dalmateriale sensibile), significava che i concetti si formano gra-zie a processi di astrazione compiuti sulle percezioni del sen-so, sicchè da queste occorre muovere anche per giungere apensare le nozioni di Dio e dell’anima, che invece, secondo ilD., si trovano nell’intimo della nostra intelligenza, come idee

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Ma la ragione per cui molti si persuadono che è diffi-cile conoscerlo, e anche conoscere che cos’è la loro ani-ma, è che essi non innalzano mai la loro mente al di làdelle cose sensibili, e sono talmente abituati a non con-siderare nulla se non per mezzo della immaginazione(che è il modo di pensare particolare alle cose materia-li195), che tutto quello che non è immaginabile sembraloro non intelligibile. Ciò che è abbastanza manifestodal fatto, che perfino i filosofi hanno per massima, nelleScuole, non esservi nulla nell’intelletto che non sia pri-ma stato nel senso, dove tuttavia è certo che le idee diDio e dell’anima non sono mai state196. E mi sembra che

sè stesse. Sul valore dell’argomento continuano le discussionitra i filosofi. Si osservi che il D. in queste prove adopera comeevidenti non poche proposizioni, che, se non altro, si prestanoalla discussione, mentre precedentemente aveva involto neldubbio persino le conoscenze più semplici e più chiare e di-stinte. V. nota della p. 54 [nota 163 di questa edizione Manu-zio].

195 Proprio delle cose materiali.196 Allude ai rappresentanti della tradizione peripatetico-scolasti-

ca, che, fondandosi sulla tesi aristotelica che non è possibileun pensiero indipendente dalle immagini sensibili, sostenevanihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. Questaproposizione, che non era ancora intesa nel senso dell’empiri-smo sensistico, (per il quale tutta la conoscenza è derivata dalmateriale sensibile), significava che i concetti si formano gra-zie a processi di astrazione compiuti sulle percezioni del sen-so, sicchè da queste occorre muovere anche per giungere apensare le nozioni di Dio e dell’anima, che invece, secondo ilD., si trovano nell’intimo della nostra intelligenza, come idee

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coloro i quali vogliono adoperare la loro immaginazioneper comprenderle, fanno proprio come se, per udire isuoni o sentire gli odori, volessero servirsi dei loro oc-chi: senonchè c’è ancora questa differenza, che il sensodella vista non ci assicura della verità dei suoi oggettimeno di quel che facciano i sensi dell’odorato odell’udito: mentre nè la nostra immaginazione nè i no-stri sensi potrebbero mai assicurarci di alcuna cosa, se ilnostro intelletto non intervenisse197.

Infine, se vi sono ancora uomini i quali non siano ab-bastanza persuasi dell’esistenza di Dio e della loro ani-ma per le ragioni da me arrecate, voglio ch’essi sappia-no che tutte le altre cose, di cui si credono forse più si-curi, come di avere un corpo, e che vi sono degli astri euna terra, e simili, sono meno certe198. Perchè, sebbene

innate.197 Tutti i sensi hanno lo stesso valore, mentre l’intelletto è in-

comparabilmente superiore a loro. Infatti, siccome soltanto leidee chiare e distinte, che provengono da esso, sono vere,quelle offerte dal senso, confuse e oscure, non possono rap-presentarci le cose materiali in modo attendibile; esclusiva-mente l’intelletto ce le può far conoscere tali quali sono, cioècome parti dell’estensione. Errore ben più grave dell’usare unsenso per percepire oggetti propri di un altro è quello di valer-si dell’attività sensibile (che per sè non è capace di apprenderele cose fedelmente) per cogliere realtà che si conoscono sol-tanto con quell’intelletto, che deve giudicare del valore dellepercezioni.

198 L’esistenza dell’anima e di Dio è molto più sicura di quelladel mondo corporeo. Infatti la prima conoscenza di una realtà

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coloro i quali vogliono adoperare la loro immaginazioneper comprenderle, fanno proprio come se, per udire isuoni o sentire gli odori, volessero servirsi dei loro oc-chi: senonchè c’è ancora questa differenza, che il sensodella vista non ci assicura della verità dei suoi oggettimeno di quel che facciano i sensi dell’odorato odell’udito: mentre nè la nostra immaginazione nè i no-stri sensi potrebbero mai assicurarci di alcuna cosa, se ilnostro intelletto non intervenisse197.

Infine, se vi sono ancora uomini i quali non siano ab-bastanza persuasi dell’esistenza di Dio e della loro ani-ma per le ragioni da me arrecate, voglio ch’essi sappia-no che tutte le altre cose, di cui si credono forse più si-curi, come di avere un corpo, e che vi sono degli astri euna terra, e simili, sono meno certe198. Perchè, sebbene

innate.197 Tutti i sensi hanno lo stesso valore, mentre l’intelletto è in-

comparabilmente superiore a loro. Infatti, siccome soltanto leidee chiare e distinte, che provengono da esso, sono vere,quelle offerte dal senso, confuse e oscure, non possono rap-presentarci le cose materiali in modo attendibile; esclusiva-mente l’intelletto ce le può far conoscere tali quali sono, cioècome parti dell’estensione. Errore ben più grave dell’usare unsenso per percepire oggetti propri di un altro è quello di valer-si dell’attività sensibile (che per sè non è capace di apprenderele cose fedelmente) per cogliere realtà che si conoscono sol-tanto con quell’intelletto, che deve giudicare del valore dellepercezioni.

198 L’esistenza dell’anima e di Dio è molto più sicura di quelladel mondo corporeo. Infatti la prima conoscenza di una realtà

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si abbia di queste cose una certezza morale199 tale chesembra, a meno di essere stravaganti, di non poterne du-bitare, tuttavia, a meno d’essere irragionevoli, quando sitratta d’una certezza metafisica, non si può negare chesia motivo sufficiente, per non esserne interamente sicu-ri, l’avere notato che si può, nello stesso modo,immagi-nare, quando si dorme, d’avere un altro corpo, e di ve-dere altri astri, e un’altra terra, senza che nulla di ciòesista. Perchè, donde si sa che i pensieri che vengono insogno sono più falsi degli altri, visto che spesso nonsono meno vivi e chiari? Studino su ciò le migliori intel-ligenze quanto loro piacerà; non credo che possano darenessuna ragione sufficiente a togliere questo dubbio, senon presuppongono l’esistenza di Dio. Perchè, in primoluogo, appunto quello che poco fa ho preso per una re-

oggettiva che non offre presa al dubbio è costituitadall’apprensione che il soggetto pensante ha di sè stesso, laquale conduce ad affermare l’esistenza di un Dio perfettissimoe perciò verace, che è condizione necessaria della verità dellenostre conoscenze chiare e distinte Ora, della realtà delle coseesterne si può essere sicuri soltanto se si ricorre a criteri razio-nali, i quali si fondano appunto sul valore di quelle conoscen-ze. Per dimostrare queste tesi il D. sottopone a un esame criti-co la conoscenza sensibile; ma tale discussione, nella sua rapi-dità, non distingue abbastanza chiaramente i diversi argomentitrattati.

199 Convinzione profonda, capace di guidare la condotta nellavita pratica, ma non giustificata razionalmente in modo tale daescludere ogni dubbio, al pari della certezza metafisica di cuiparla in seguito.

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si abbia di queste cose una certezza morale199 tale chesembra, a meno di essere stravaganti, di non poterne du-bitare, tuttavia, a meno d’essere irragionevoli, quando sitratta d’una certezza metafisica, non si può negare chesia motivo sufficiente, per non esserne interamente sicu-ri, l’avere notato che si può, nello stesso modo,immagi-nare, quando si dorme, d’avere un altro corpo, e di ve-dere altri astri, e un’altra terra, senza che nulla di ciòesista. Perchè, donde si sa che i pensieri che vengono insogno sono più falsi degli altri, visto che spesso nonsono meno vivi e chiari? Studino su ciò le migliori intel-ligenze quanto loro piacerà; non credo che possano darenessuna ragione sufficiente a togliere questo dubbio, senon presuppongono l’esistenza di Dio. Perchè, in primoluogo, appunto quello che poco fa ho preso per una re-

oggettiva che non offre presa al dubbio è costituitadall’apprensione che il soggetto pensante ha di sè stesso, laquale conduce ad affermare l’esistenza di un Dio perfettissimoe perciò verace, che è condizione necessaria della verità dellenostre conoscenze chiare e distinte Ora, della realtà delle coseesterne si può essere sicuri soltanto se si ricorre a criteri razio-nali, i quali si fondano appunto sul valore di quelle conoscen-ze. Per dimostrare queste tesi il D. sottopone a un esame criti-co la conoscenza sensibile; ma tale discussione, nella sua rapi-dità, non distingue abbastanza chiaramente i diversi argomentitrattati.

199 Convinzione profonda, capace di guidare la condotta nellavita pratica, ma non giustificata razionalmente in modo tale daescludere ogni dubbio, al pari della certezza metafisica di cuiparla in seguito.

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gola, cioè che le cose da noi concepite molto chiaramen-te e molto distintamente sono tutte vere, è certo soloperchè Dio è o esiste, ed è un essere perfetto, e perchètutto ciò ch’è in noi proviene da Lui200. Donde segue chele nostre idee o nozioni, essendo cose reali e che pro-vengono da Dio in tutto ciò in cui sono chiare e distinte,in questo non possono essere che vere. Di modo che senoi ne abbiamo abbastanza spesso di quelle che conten-gono falsità, ciò può verificarsi soltanto in quelle chehanno qualcosa di confuso ed oscuro, perchè in ciò par-tecipano del nulla; cioè esse sono in noi così confuseperchè noi non siamo del tutto perfetti201. Ed è evidenteche non è meno ripugnante202 che la falsità o l’imperfe-zione, in quanto tale, proceda da Dio, di quel che sia ri-pugnante, che la verità o la perfezione proceda dal nien-te. Ma se non sapessimo che tutto quello che c’è in noi

200 In questo testo, come in alcuni altri, il D. mostra di non rite-nere assolutamente certe nemmeno le intuizioni presenti ecosì giustifica l’accusa di circolo vizioso rivoltagli già da cri-tici contemporanei (specialmente dal Gassendi) e ripetutaspesso in seguito: infatti all’esistenza di Dio egli giunge inquanto si serve di conoscenze chiare e distinte e poi si valedella veridicità divina per giustificare tali conoscenze. In que-sti casi non si può dire che il D. ricorra a Dio per salvare daldubbio il ricordo di certezze intuitive anteriori e quindi la va-lidità della deduzione mediata. (Cf. Intr. p. xxxv e nota 2 dellastessa pagina [pag. 52 e nota 14 di questa edizione Manuzio]).

201 V. nota 2 della p. 58 [nota 178 di questa edizione Manuzio].202 Contraddittorio: v. nota 1 della p. 59 [nota 179 di questa edi-

zione Manuzio].

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gola, cioè che le cose da noi concepite molto chiaramen-te e molto distintamente sono tutte vere, è certo soloperchè Dio è o esiste, ed è un essere perfetto, e perchètutto ciò ch’è in noi proviene da Lui200. Donde segue chele nostre idee o nozioni, essendo cose reali e che pro-vengono da Dio in tutto ciò in cui sono chiare e distinte,in questo non possono essere che vere. Di modo che senoi ne abbiamo abbastanza spesso di quelle che conten-gono falsità, ciò può verificarsi soltanto in quelle chehanno qualcosa di confuso ed oscuro, perchè in ciò par-tecipano del nulla; cioè esse sono in noi così confuseperchè noi non siamo del tutto perfetti201. Ed è evidenteche non è meno ripugnante202 che la falsità o l’imperfe-zione, in quanto tale, proceda da Dio, di quel che sia ri-pugnante, che la verità o la perfezione proceda dal nien-te. Ma se non sapessimo che tutto quello che c’è in noi

200 In questo testo, come in alcuni altri, il D. mostra di non rite-nere assolutamente certe nemmeno le intuizioni presenti ecosì giustifica l’accusa di circolo vizioso rivoltagli già da cri-tici contemporanei (specialmente dal Gassendi) e ripetutaspesso in seguito: infatti all’esistenza di Dio egli giunge inquanto si serve di conoscenze chiare e distinte e poi si valedella veridicità divina per giustificare tali conoscenze. In que-sti casi non si può dire che il D. ricorra a Dio per salvare daldubbio il ricordo di certezze intuitive anteriori e quindi la va-lidità della deduzione mediata. (Cf. Intr. p. xxxv e nota 2 dellastessa pagina [pag. 52 e nota 14 di questa edizione Manuzio]).

201 V. nota 2 della p. 58 [nota 178 di questa edizione Manuzio].202 Contraddittorio: v. nota 1 della p. 59 [nota 179 di questa edi-

zione Manuzio].

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di reale e di vero viene da un essere perfetto e infinito,per chiare e distinte che fossero le nostre idee, nonavremmo nessuna ragione capace d’assicurarci ch’essehanno la perfezione d’esser vere.

Ora, dopochè la conoscenza di Dio e dell’anima ci hacosì resi certi di questa regola, è molto facile intendereche le fantasticherie da noi immaginate mentre dormia-mo non debbono in nessun modo farci dubitare della ve-rità dei pensieri che abbiamo quando siamo svegli. Per-chè se ci accadesse, anche dormendo, d’avere qualcheidea molto distinta, come, per esempio, se un geometrainventasse qualche nuova dimostrazione, il suo sonnonon le impedirebbe d’esser vera. E quanto all’errore piùabituale dei nostri sogni, consistente in ciò ch’essi cirappresentano diversi oggetti nello stesso modo dei no-stri sensi esterni, non bisogna che esso ci dia occasionedi diffidare della verità di tali idee, perchè esse possonoanche ingannarci abbastanza spesso senza che dormia-mo: come quando quelli che hanno l’itterizia veggonotutto di color giallo, o come quando gli astri o altri corpilontanissimi ci sembrano molto più piccoli che non sia-no. Perchè, infine, sia che siamo svegli, sia che dormia-mo, dobbiamo sempre lasciarci persuadere solo dall’evi-denza della nostra ragione. E si deve notare che dicodella nostra ragione, e non della nostra immaginazionenè dei nostri sensi. Così, sebbene vediamo il sole moltochiaramente, non dobbiamo credere, per questo, che siagrande soltanto come lo vediamo; e possiamo bene im-maginare distintamente una testa di leone innestata sul

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di reale e di vero viene da un essere perfetto e infinito,per chiare e distinte che fossero le nostre idee, nonavremmo nessuna ragione capace d’assicurarci ch’essehanno la perfezione d’esser vere.

Ora, dopochè la conoscenza di Dio e dell’anima ci hacosì resi certi di questa regola, è molto facile intendereche le fantasticherie da noi immaginate mentre dormia-mo non debbono in nessun modo farci dubitare della ve-rità dei pensieri che abbiamo quando siamo svegli. Per-chè se ci accadesse, anche dormendo, d’avere qualcheidea molto distinta, come, per esempio, se un geometrainventasse qualche nuova dimostrazione, il suo sonnonon le impedirebbe d’esser vera. E quanto all’errore piùabituale dei nostri sogni, consistente in ciò ch’essi cirappresentano diversi oggetti nello stesso modo dei no-stri sensi esterni, non bisogna che esso ci dia occasionedi diffidare della verità di tali idee, perchè esse possonoanche ingannarci abbastanza spesso senza che dormia-mo: come quando quelli che hanno l’itterizia veggonotutto di color giallo, o come quando gli astri o altri corpilontanissimi ci sembrano molto più piccoli che non sia-no. Perchè, infine, sia che siamo svegli, sia che dormia-mo, dobbiamo sempre lasciarci persuadere solo dall’evi-denza della nostra ragione. E si deve notare che dicodella nostra ragione, e non della nostra immaginazionenè dei nostri sensi. Così, sebbene vediamo il sole moltochiaramente, non dobbiamo credere, per questo, che siagrande soltanto come lo vediamo; e possiamo bene im-maginare distintamente una testa di leone innestata sul

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corpo d’una capra, senza che occorra concludere, perquesto, che ci sia al mondo una Chimera: perchè la ra-gione non ci dice che quello che vediamo o immaginia-mo così sia vero. Ma essa ci dice invece che tutte le no-stre idee o nozioni debbono avere qualche fondamentodi verità; perchè non sarebbe possibile che Dio, il qualeè perfettissimo e veracissimo, le avesse messe in noisenza quel fondamento. E siccome i nostri ragionamentinon sono mai così evidenti e così compiuti nel sonnocome nella veglia, benchè qualche volta le nostre imma-ginazioni siano allora altrettanto, e anche più vive e pre-cise, la ragione ci dice anche che, non potendo i nostripensieri esser tutti veri, perchè noi non siamo del tuttoperfetti, quel che essi hanno di vero deve infallibilmentetrovarsi nei pensieri che abbiamo da svegli, piuttostoche nei nostri sogni203.

203 Occorre distinguere nelle idee (o immagini) sensibili ricorda-te dal D. a) le percezioni normali (la visione degli astri o di al-tri corpi che, per la lontananza, appaiono più piccoli del vero);b) le impressioni determinate da condizioni patologichedell’organismo (quelle dell’itterico); c) i sogni; d) le costru-zioni della fantasia (la Chimera); a) e b) ci rivelano la presen-za di una realtà, che però non rappresentano fedelmente; c) ed) non ci manifestano alcun oggetto esistente; a) si distingueda b) perchè dipende dalle condizioni normali dell’organismoe così permette a diversi individui di intendersi fra loro e diregolare concordemente e utilmente la loro condotta nellavita. Le percezioni normali di a) si distinguono dai sogni di c)perchè presentano una connessione interiore che manca ai se-condi (v. Medit. VI, che svolge e chiarisce ciò che qui è ac-

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corpo d’una capra, senza che occorra concludere, perquesto, che ci sia al mondo una Chimera: perchè la ra-gione non ci dice che quello che vediamo o immaginia-mo così sia vero. Ma essa ci dice invece che tutte le no-stre idee o nozioni debbono avere qualche fondamentodi verità; perchè non sarebbe possibile che Dio, il qualeè perfettissimo e veracissimo, le avesse messe in noisenza quel fondamento. E siccome i nostri ragionamentinon sono mai così evidenti e così compiuti nel sonnocome nella veglia, benchè qualche volta le nostre imma-ginazioni siano allora altrettanto, e anche più vive e pre-cise, la ragione ci dice anche che, non potendo i nostripensieri esser tutti veri, perchè noi non siamo del tuttoperfetti, quel che essi hanno di vero deve infallibilmentetrovarsi nei pensieri che abbiamo da svegli, piuttostoche nei nostri sogni203.

203 Occorre distinguere nelle idee (o immagini) sensibili ricorda-te dal D. a) le percezioni normali (la visione degli astri o di al-tri corpi che, per la lontananza, appaiono più piccoli del vero);b) le impressioni determinate da condizioni patologichedell’organismo (quelle dell’itterico); c) i sogni; d) le costru-zioni della fantasia (la Chimera); a) e b) ci rivelano la presen-za di una realtà, che però non rappresentano fedelmente; c) ed) non ci manifestano alcun oggetto esistente; a) si distingueda b) perchè dipende dalle condizioni normali dell’organismoe così permette a diversi individui di intendersi fra loro e diregolare concordemente e utilmente la loro condotta nellavita. Le percezioni normali di a) si distinguono dai sogni di c)perchè presentano una connessione interiore che manca ai se-condi (v. Medit. VI, che svolge e chiarisce ciò che qui è ac-

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PARTE QUINTA204

ORDINE DELLE QUISTIONI DI FISICA

Sarei molto lieto di continuare e di far qui vedere tut-ta la catena delle altre verità che ho dedotte da questeprime205. Ma poichè, a tale scopo, bisognerebbe che ora

cennato sul problema del sogno); differiscono dalle costruzio-ni arbitrarie della fantasia (d) per il loro carattere passivo, checi spinge ad ammettere che derivino da cause esterne diverseda noi (v. Intr., p. XXXVI [pag. 53 di questa edizione Manu-zio]). In tutti questi casi, spetta alla ragione giudicare del si-gnificato e del valore delle immagini sensibili; ma in essa puòconfidare soltanto chi sa che Dio non ci può ingannare. Tuttele idee debbono avere un certo fondamento di verità, che peròmuta nei diversi casi. Esse, senza eccezione, in quanto stati dicoscienza, posseggono realtà formale. Sia i sogni che le im-pressioni provate da chi si trova in condizioni fisiologicheanormali, come l’itterico, sono determinate dalle stesse leggiuniversali della natura che regolano tutti i fatti del mondo fisi-co; quelle impressioni, inoltre, ci manifestano l’esistenza dioggetti indipendenti da noi. Le percezioni dell’uomo normalecompiono inoltre una funzione biologicamente utile.

204 La quinta parte è un riassunto dello scritto Il Mondo o Tratta-to della Luce, cominciato verso la fine del 1629, e non pubbli-cato per la condanna di Galileo (Cfr. Intr., p. XII [pag. 15 diquesta edizione Manuzio]).

205 Le teorie scientifiche alle quali il D. accenna si fondano sullatesi che la materia è una realtà estesa e che tutti i mutamentidel mondo fisico consistono nel movimento delle sue parti (=figure). Ora queste proposizioni sono incluse nelle Regulae,che non le deducono dalla filosofia generale riassunta nel Di-

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PARTE QUINTA204

ORDINE DELLE QUISTIONI DI FISICA

Sarei molto lieto di continuare e di far qui vedere tut-ta la catena delle altre verità che ho dedotte da questeprime205. Ma poichè, a tale scopo, bisognerebbe che ora

cennato sul problema del sogno); differiscono dalle costruzio-ni arbitrarie della fantasia (d) per il loro carattere passivo, checi spinge ad ammettere che derivino da cause esterne diverseda noi (v. Intr., p. XXXVI [pag. 53 di questa edizione Manu-zio]). In tutti questi casi, spetta alla ragione giudicare del si-gnificato e del valore delle immagini sensibili; ma in essa puòconfidare soltanto chi sa che Dio non ci può ingannare. Tuttele idee debbono avere un certo fondamento di verità, che peròmuta nei diversi casi. Esse, senza eccezione, in quanto stati dicoscienza, posseggono realtà formale. Sia i sogni che le im-pressioni provate da chi si trova in condizioni fisiologicheanormali, come l’itterico, sono determinate dalle stesse leggiuniversali della natura che regolano tutti i fatti del mondo fisi-co; quelle impressioni, inoltre, ci manifestano l’esistenza dioggetti indipendenti da noi. Le percezioni dell’uomo normalecompiono inoltre una funzione biologicamente utile.

204 La quinta parte è un riassunto dello scritto Il Mondo o Tratta-to della Luce, cominciato verso la fine del 1629, e non pubbli-cato per la condanna di Galileo (Cfr. Intr., p. XII [pag. 15 diquesta edizione Manuzio]).

205 Le teorie scientifiche alle quali il D. accenna si fondano sullatesi che la materia è una realtà estesa e che tutti i mutamentidel mondo fisico consistono nel movimento delle sue parti (=figure). Ora queste proposizioni sono incluse nelle Regulae,che non le deducono dalla filosofia generale riassunta nel Di-

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parlassi di molte questioni controverse tra i dotti, coiquali non desidero di venire in urto206, credo che saràmeglio che me ne astenga e che dica solamente in gene-rale quali sono, per lasciar giudicare ai più saggi se sa-rebbe utile che il pubblico ne fosse più particolarmenteinformato. Sono sempre rimasto fermo nella risoluzione

scorso, ma le giustificano col criterio dell’intuizione (infatti,l’estensione, la figura e il movimento sono le nature sempliciche si intuiscono nei corpi); anche nel Mondo il D. le legitti-ma dichiarando che sono conoscenze chiare e distinte. Mentrenegli scritti ora citati il D. non dà per fondamento alle dottrinecentrali della sua fisica alcuna teoria filosofica generale, nelleopere posteriori (il Discorso e i Principî: IV, 203), in cui sem-pre ricorre al criterio delle idee chiare e distinte, è capace digiustificare questo con la veridicità di Dio. Anche nel Mondoderiva la costanza delle leggi della natura (= leggi del movi-mento) dalla immutabilità di Dio; ma questa proposizione me-tafisica vi rimane isolata. Negli scritti posteriori ripresenta lastessa tesi (v. Introd., p. XL [pag. 59 di questa edizione Manu-zio]), ma essa può ora fondarsi sulla assoluta perfezione divi-na. Si deve poi osservare che, come riconosce il Discorso (v.parte III, p. 50 [pag. 141 di questa edizione Manuzio]), primadi scrivere il Mondo, aveva compiuto ricerche di fisica mate-matica; e più volte abbiamo ricordato studi anche più antichisugli stessi argomenti. Ma si trattava di ricerche fisiche parti-colari, che soltanto nel Mondo trovarono una sistemazione;poi, negli scritti posteriori, il D., che ormai aveva costruitouna metafisica, potè dare un fondamento filosofico a teorieprecedentemente presentate senza di esso.

Le espressioni di cui si serve qui il D., che fanno pensare a unprocedimento deduttivo, non debbono far dimenticare che laricerca naturalistica trovava nell’esperienza (che presentava il

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parlassi di molte questioni controverse tra i dotti, coiquali non desidero di venire in urto206, credo che saràmeglio che me ne astenga e che dica solamente in gene-rale quali sono, per lasciar giudicare ai più saggi se sa-rebbe utile che il pubblico ne fosse più particolarmenteinformato. Sono sempre rimasto fermo nella risoluzione

scorso, ma le giustificano col criterio dell’intuizione (infatti,l’estensione, la figura e il movimento sono le nature sempliciche si intuiscono nei corpi); anche nel Mondo il D. le legitti-ma dichiarando che sono conoscenze chiare e distinte. Mentrenegli scritti ora citati il D. non dà per fondamento alle dottrinecentrali della sua fisica alcuna teoria filosofica generale, nelleopere posteriori (il Discorso e i Principî: IV, 203), in cui sem-pre ricorre al criterio delle idee chiare e distinte, è capace digiustificare questo con la veridicità di Dio. Anche nel Mondoderiva la costanza delle leggi della natura (= leggi del movi-mento) dalla immutabilità di Dio; ma questa proposizione me-tafisica vi rimane isolata. Negli scritti posteriori ripresenta lastessa tesi (v. Introd., p. XL [pag. 59 di questa edizione Manu-zio]), ma essa può ora fondarsi sulla assoluta perfezione divi-na. Si deve poi osservare che, come riconosce il Discorso (v.parte III, p. 50 [pag. 141 di questa edizione Manuzio]), primadi scrivere il Mondo, aveva compiuto ricerche di fisica mate-matica; e più volte abbiamo ricordato studi anche più antichisugli stessi argomenti. Ma si trattava di ricerche fisiche parti-colari, che soltanto nel Mondo trovarono una sistemazione;poi, negli scritti posteriori, il D., che ormai aveva costruitouna metafisica, potè dare un fondamento filosofico a teorieprecedentemente presentate senza di esso.

Le espressioni di cui si serve qui il D., che fanno pensare a unprocedimento deduttivo, non debbono far dimenticare che laricerca naturalistica trovava nell’esperienza (che presentava il

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presa di non supporre nessun altro principio207, salvoquello di cui mi sono servito per dimostrare l’esistenzadi Dio e dell’anima, e di non accettare per vera nessunacosa che non mi sembrasse più chiara e più certa di quelche mi fossero sembrate prima le dimostrazioni dei geo-metri. E tuttavia, oso dire che non soltanto ho trovatomodo di soddisfarmi in poco tempo su tutte le principalidifficoltà che si ha l’abitudine di trattare nella filoso-fia208, ma anche di notare certe leggi209, che Dio ha cosìstabilite nella natura, e di cui ha impresso tali nozioninelle nostre anime, che, dopo avere sufficientemente ri-flettuto su di esse, non potremmo dubitare che siano

problema da risolvere), sia il punto di partenza che quello diarrivo (Cfr. Introd., p. XLII-XLIII [pagg. 62-65 di questa edizioneManuzio]).

206 Il D. temeva che i dotti (= i seguaci della filosofia aristote-lico-scolastica) rimanessero feriti dalla presentazione di dottri-ne opposte a quelle tradizionali, e soprattutto paventava che laChiesa, che aveva condannato Galileo, colpisse lui pure, qualesostenitore del movimento della terra (Cfr. Introd., p. XII[pag. 15 di questa edizione Manuzio]).

207 Si deve pensare non al cogito, come ritiene il Gilson, ma alcriterio dell’evidenza, cioè delle idee chiare e distinte.

208 La filosofia scolastica, che includeva la filosofia della natura.209 Sono le leggi del movimento, di cui è autore Dio, che ha

creato il mondo fisico, che si riduce a una pluralità di corpi (=parti di estensione) in movimento. Tali leggi, che nel D. vo-gliono avere carattere puramente geometrico, presuppongonoi principî delle matematiche (Cfr. Introd., p. XLI [pag. 60 diquesta edizione Manuzio]). La conoscenza di quelle leggi, perla sua chiarezza e la sua distinzione, è innata.

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presa di non supporre nessun altro principio207, salvoquello di cui mi sono servito per dimostrare l’esistenzadi Dio e dell’anima, e di non accettare per vera nessunacosa che non mi sembrasse più chiara e più certa di quelche mi fossero sembrate prima le dimostrazioni dei geo-metri. E tuttavia, oso dire che non soltanto ho trovatomodo di soddisfarmi in poco tempo su tutte le principalidifficoltà che si ha l’abitudine di trattare nella filoso-fia208, ma anche di notare certe leggi209, che Dio ha cosìstabilite nella natura, e di cui ha impresso tali nozioninelle nostre anime, che, dopo avere sufficientemente ri-flettuto su di esse, non potremmo dubitare che siano

problema da risolvere), sia il punto di partenza che quello diarrivo (Cfr. Introd., p. XLII-XLIII [pagg. 62-65 di questa edizioneManuzio]).

206 Il D. temeva che i dotti (= i seguaci della filosofia aristote-lico-scolastica) rimanessero feriti dalla presentazione di dottri-ne opposte a quelle tradizionali, e soprattutto paventava che laChiesa, che aveva condannato Galileo, colpisse lui pure, qualesostenitore del movimento della terra (Cfr. Introd., p. XII[pag. 15 di questa edizione Manuzio]).

207 Si deve pensare non al cogito, come ritiene il Gilson, ma alcriterio dell’evidenza, cioè delle idee chiare e distinte.

208 La filosofia scolastica, che includeva la filosofia della natura.209 Sono le leggi del movimento, di cui è autore Dio, che ha

creato il mondo fisico, che si riduce a una pluralità di corpi (=parti di estensione) in movimento. Tali leggi, che nel D. vo-gliono avere carattere puramente geometrico, presuppongonoi principî delle matematiche (Cfr. Introd., p. XLI [pag. 60 diquesta edizione Manuzio]). La conoscenza di quelle leggi, perla sua chiarezza e la sua distinzione, è innata.

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esattamente osservate in tutto ciò che esiste o si fa nelmondo. Poi, considerando la concatenazione di questeleggi, mi sembra d’avere scoperto molte verità più utilie più importanti di tutto quel che avevo imparato prima,o anche sperato d’imparare.

Ma siccome ho cercato di spiegarne le principali inun trattato210, che alcune considerazioni m’impedisconodi pubblicare211, non saprei meglio farle conoscere chedicendo qui sommariamente ciò che esso contiene. Ebbil’intenzione di comprendervi tutto ciò che credevo di sa-pere, prima di scriverlo, su la natura delle cose materia-li. Ma proprio come i pittori, che non potendo rappre-sentare egualmente bene in un quadro piano tutte le di-verse facce d’un corpo solido, ne scelgono una delleprincipali, che sola mettono in luce, e ombreggiando lealtre, non le fanno apparire se non nella misura in cui sipossono vedere guardando la prima: così, temendo dinon poter mettere nel mio discorso tutto quel che avevonel pensiero, cominciai a esporvi soltanto molto ampia-mente quel che pensavo della luce; poi, a proposito diessa, aggiungervi qualcosa del sole e delle stelle fisse,poichè essa ne deriva quasi interamente212; dei cieli, per-chè la trasmettono; dei pianeti, delle comete e della terraperchè la fanno riflettere, e in particolare di tutti i corpiche sono sulla terra, perchè sono o colorati, o trasparen-ti, o luminosi; e infine dell’uomo, perchè ne è lo spetta-210 Lo scritto Il Mondo o Trattato della Luce.211 V. n. 1 della p. 69 [nota 204 di questa edizione Manuzio].212 Un’altra sorgente della luce è il fuoco.

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esattamente osservate in tutto ciò che esiste o si fa nelmondo. Poi, considerando la concatenazione di questeleggi, mi sembra d’avere scoperto molte verità più utilie più importanti di tutto quel che avevo imparato prima,o anche sperato d’imparare.

Ma siccome ho cercato di spiegarne le principali inun trattato210, che alcune considerazioni m’impedisconodi pubblicare211, non saprei meglio farle conoscere chedicendo qui sommariamente ciò che esso contiene. Ebbil’intenzione di comprendervi tutto ciò che credevo di sa-pere, prima di scriverlo, su la natura delle cose materia-li. Ma proprio come i pittori, che non potendo rappre-sentare egualmente bene in un quadro piano tutte le di-verse facce d’un corpo solido, ne scelgono una delleprincipali, che sola mettono in luce, e ombreggiando lealtre, non le fanno apparire se non nella misura in cui sipossono vedere guardando la prima: così, temendo dinon poter mettere nel mio discorso tutto quel che avevonel pensiero, cominciai a esporvi soltanto molto ampia-mente quel che pensavo della luce; poi, a proposito diessa, aggiungervi qualcosa del sole e delle stelle fisse,poichè essa ne deriva quasi interamente212; dei cieli, per-chè la trasmettono; dei pianeti, delle comete e della terraperchè la fanno riflettere, e in particolare di tutti i corpiche sono sulla terra, perchè sono o colorati, o trasparen-ti, o luminosi; e infine dell’uomo, perchè ne è lo spetta-210 Lo scritto Il Mondo o Trattato della Luce.211 V. n. 1 della p. 69 [nota 204 di questa edizione Manuzio].212 Un’altra sorgente della luce è il fuoco.

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tore213. Anzi, per lasciare un po’ nell’ombra tutte questecose, e poter dire più liberamente quel che ne pensavo,senza essere obbligato nè a seguire nè a confutare leopinioni accettate tra i dotti, risolsi di lasciare tutto que-sto mondo alle loro dispute, e di parlare soltanto di quel-lo che succederebbe in un mondo nuovo, se Dio oracreasse in qualche posto, negli spazi imaginari, abba-stanza materia per comporlo, e agitasse diversamente esenz’ordine le diverse parti di questa materia, in modotale da comporre un caos tanto confuso quanto i poetipossono imaginarlo, e, dopo, non facesse altro che pre-stare il suo concorso ordinario alla natura, lasciandolaagire secondo le leggi da Lui stabilite214. Così, in primoluogo, descrissi questa materia e cercai di rappresentarlacosì, che non vi è, mi sembra, niente al mondo di piùchiaro nè di più intelligibile, salvo ciò che è stato dettopoco fa di Dio e dell’anima; perchè, anzi, supposi persi-no espressamente, che non ci fosse in essa alcuna diquelle forme o qualità di cui si disputa nelle scuole, nè,in generale, alcuna cosa, la cui conoscenza non fossecosì naturale alle nostre anime da non potersi neppurfingere d’ignorarla215.

213 Così lo studio della luce costituiva il centro di una teoria ge-nerale del mondo della natura.

214 Il D. presenta come una pura finzione il processo genetico diformazione del mondo per non essere accusato di contraddirela narrazione della Genesi: V. la nota 2 della p. 75 [nota 224 diquesta edizione Manuzio].

215 Per le forme sostanziali, che nella filosofia scolastica costi-

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tore213. Anzi, per lasciare un po’ nell’ombra tutte questecose, e poter dire più liberamente quel che ne pensavo,senza essere obbligato nè a seguire nè a confutare leopinioni accettate tra i dotti, risolsi di lasciare tutto que-sto mondo alle loro dispute, e di parlare soltanto di quel-lo che succederebbe in un mondo nuovo, se Dio oracreasse in qualche posto, negli spazi imaginari, abba-stanza materia per comporlo, e agitasse diversamente esenz’ordine le diverse parti di questa materia, in modotale da comporre un caos tanto confuso quanto i poetipossono imaginarlo, e, dopo, non facesse altro che pre-stare il suo concorso ordinario alla natura, lasciandolaagire secondo le leggi da Lui stabilite214. Così, in primoluogo, descrissi questa materia e cercai di rappresentarlacosì, che non vi è, mi sembra, niente al mondo di piùchiaro nè di più intelligibile, salvo ciò che è stato dettopoco fa di Dio e dell’anima; perchè, anzi, supposi persi-no espressamente, che non ci fosse in essa alcuna diquelle forme o qualità di cui si disputa nelle scuole, nè,in generale, alcuna cosa, la cui conoscenza non fossecosì naturale alle nostre anime da non potersi neppurfingere d’ignorarla215.

213 Così lo studio della luce costituiva il centro di una teoria ge-nerale del mondo della natura.

214 Il D. presenta come una pura finzione il processo genetico diformazione del mondo per non essere accusato di contraddirela narrazione della Genesi: V. la nota 2 della p. 75 [nota 224 diquesta edizione Manuzio].

215 Per le forme sostanziali, che nella filosofia scolastica costi-

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Di più, feci vedere quali erano le leggi della natura; e,fondando le mie ragioni sull’unico principio delle perfe-zioni infinite di Dio,216 cercai di dimostrare tutte quelledi cui si fosse potuto avere qualche dubbio, e di far ve-dere che quelle leggi sono tali che se anche Dio avessecreato molti mondi, non ve ne potrebbe esser alcuno, incui non fossero osservate. Dopo questo, mostrai come lamaggior parte della materia di quel caos doveva, in con-seguenza di queste leggi, disporsi e ordinarsi in unmodo tale che la rendesse simile ai nostri cieli: come,per altro, alcune delle sue parti dovevano comporre unaterra, altre dei pianeti e delle comete, e altre ancora unsole e delle stelle fisse. E qui, diffondendomi sull’argo-mento della luce, spiegai molto ampiamente qual’era217

la luce che si doveva trovare nel sole e nelle stelle, ecome di là essa traversasse in un istante218 gli immensi

tuiscono l’essenza delle cose v. la nota 1 della p. 6 [nota 28 diquesta edizione Manuzio]. Esse costituivano il principio diazione di tutte le cose, e quindi anche dei corpi. Ne proveniva-no in questi le qualità avvertite con le percezioni sensibili, cheerano considerate proprietà reali dei corpi stessi. Il D. (prece-duto, del resto, da Galileo e da F. Bacone) ritiene puramentesoggettive tali qualità, elimina le forme sostanziali e identificala materia alla sostanza estesa; così, spogliandola di quei ca-ratteri sensibili che il pensiero trova oscuri, la interpreta permezzo di nozioni matematiche chiare e distinte: l’estensione ele sue modalità, figura e movimento.

216 Soprattutto, sull’immutabilità divina.217 Nella versione latina: quale dovesse essere.218 Per il D., la luce è un’azione o un movimento delle parti dei

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Di più, feci vedere quali erano le leggi della natura; e,fondando le mie ragioni sull’unico principio delle perfe-zioni infinite di Dio,216 cercai di dimostrare tutte quelledi cui si fosse potuto avere qualche dubbio, e di far ve-dere che quelle leggi sono tali che se anche Dio avessecreato molti mondi, non ve ne potrebbe esser alcuno, incui non fossero osservate. Dopo questo, mostrai come lamaggior parte della materia di quel caos doveva, in con-seguenza di queste leggi, disporsi e ordinarsi in unmodo tale che la rendesse simile ai nostri cieli: come,per altro, alcune delle sue parti dovevano comporre unaterra, altre dei pianeti e delle comete, e altre ancora unsole e delle stelle fisse. E qui, diffondendomi sull’argo-mento della luce, spiegai molto ampiamente qual’era217

la luce che si doveva trovare nel sole e nelle stelle, ecome di là essa traversasse in un istante218 gli immensi

tuiscono l’essenza delle cose v. la nota 1 della p. 6 [nota 28 diquesta edizione Manuzio]. Esse costituivano il principio diazione di tutte le cose, e quindi anche dei corpi. Ne proveniva-no in questi le qualità avvertite con le percezioni sensibili, cheerano considerate proprietà reali dei corpi stessi. Il D. (prece-duto, del resto, da Galileo e da F. Bacone) ritiene puramentesoggettive tali qualità, elimina le forme sostanziali e identificala materia alla sostanza estesa; così, spogliandola di quei ca-ratteri sensibili che il pensiero trova oscuri, la interpreta permezzo di nozioni matematiche chiare e distinte: l’estensione ele sue modalità, figura e movimento.

216 Soprattutto, sull’immutabilità divina.217 Nella versione latina: quale dovesse essere.218 Per il D., la luce è un’azione o un movimento delle parti dei

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spazi dei cieli, e si riflettesse dai pianeti e dalle cometeverso la terra. Vi aggiunsi anche molte cose su la sostan-za, la posizione, i movimenti e tutte le diverse qualità diquei cieli e di quegli astri: di modo che pensavo di aver-ne detto abbastanza per far conoscere che non si osservaalcuna cosa nei cieli e negli astri di questo mondo, chenon debba, o almeno non possa apparire del tutto similein quelli del mondo che descrivevo. Da qui venni a par-lare in particolare della terra: come, sebbene avessiespressamente supposto che Dio non avesse messo nes-sun peso219 nella materia di cui essa era composta, tuttele sue parti non cessassero di tendere esattamente versoil suo centro; come, essendovi acqua e aria sulla sua su-perficie, la disposizione dei cieli e degli astri, special-mente della luna, dovesse causarvi un flusso e riflusso,simile, in tutti i suoi particolari, a quello che si osservanei nostri mari, e inoltre un certo corso, tanto dell’acquaquanto dell’aria, da levante a ponente, quale si osservaanche tra i tropici; come le montagne, i mari, le sorgenti

corpi luminosi che premono sui nostri occhi. Essa si deve tra-smettere istantaneamente, perchè avviene in un mondo fisicoche non ammette il vuoto (Cfr. Introd., p. XXXIX [pag. 58 diquesta edizione Manuzio]). (Come è noto, questa credenza delD. è stata abbandonata dalla scienza, che però, con la teoriadella relatività, ha ammesso che la velocità della luce è supe-riore a tutte le altre).

219 Secondo la versione latina: gravitas. Per il D., il peso, cheper gli scolastici era una qualità reale inerente ai corpi graviche li fa tendere verso il centro della terra, deve essere spiega-to meccanicamente.

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spazi dei cieli, e si riflettesse dai pianeti e dalle cometeverso la terra. Vi aggiunsi anche molte cose su la sostan-za, la posizione, i movimenti e tutte le diverse qualità diquei cieli e di quegli astri: di modo che pensavo di aver-ne detto abbastanza per far conoscere che non si osservaalcuna cosa nei cieli e negli astri di questo mondo, chenon debba, o almeno non possa apparire del tutto similein quelli del mondo che descrivevo. Da qui venni a par-lare in particolare della terra: come, sebbene avessiespressamente supposto che Dio non avesse messo nes-sun peso219 nella materia di cui essa era composta, tuttele sue parti non cessassero di tendere esattamente versoil suo centro; come, essendovi acqua e aria sulla sua su-perficie, la disposizione dei cieli e degli astri, special-mente della luna, dovesse causarvi un flusso e riflusso,simile, in tutti i suoi particolari, a quello che si osservanei nostri mari, e inoltre un certo corso, tanto dell’acquaquanto dell’aria, da levante a ponente, quale si osservaanche tra i tropici; come le montagne, i mari, le sorgenti

corpi luminosi che premono sui nostri occhi. Essa si deve tra-smettere istantaneamente, perchè avviene in un mondo fisicoche non ammette il vuoto (Cfr. Introd., p. XXXIX [pag. 58 diquesta edizione Manuzio]). (Come è noto, questa credenza delD. è stata abbandonata dalla scienza, che però, con la teoriadella relatività, ha ammesso che la velocità della luce è supe-riore a tutte le altre).

219 Secondo la versione latina: gravitas. Per il D., il peso, cheper gli scolastici era una qualità reale inerente ai corpi graviche li fa tendere verso il centro della terra, deve essere spiega-to meccanicamente.

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e i fiumi potessero naturalmente formarvisi, e i metallitrovarsi nelle miniere, e le piante crescervi nelle campa-gne, e in generale tutti i corpi che si dicono misti e com-posti220 generarvisi. E tra l’altro, poichè dopo gli astriconosco al mondo solo il fuoco che produca luce, mistudiai di fare intendere molto chiaramente tutto quelche appartiene alla sua natura, come si forma, come sinutre; come talvolta ha soltanto calore senza luce221 etalvolta soltanto luce senza calore222; come può introdur-re diversi colori in diversi corpi, e diverse altre qualità;come ne fonde alcuni e ne indurisce altri; come puòconsumarli quasi tutti o convertirli in cenere e fumo; einfine, come da questa cenere, con la sola forza dellasua azione, forma il vetro; e siccome questa trasforma-zione della cenere in vetro mi sembrava più meraviglio-sa di ogni altra che s’operi nella natura, presi un partico-lare piacere nel descriverla.

Tuttavia non volevo inferire da tutto ciò, che questomondo223 sia stato creato nel modo che proponevo: per-chè è molto più verosimile che, fin dall’inizio, Diol’abbia reso tale quale doveva essere. Ma è certo, ed èun’opinione comunemente accettata tra i teologi, chel’azione con cui ora lo conserva, è proprio la stessa concui l’ha creato: di modo che se non gli avesse dato, in

220 Il D. conserva la concezione aristotelico-scolastica dei corpimisti, risultanti di più elementi.

221 Ad es. la calce viva.222 Ad es., le stelle cadenti.223 Il mondo reale distinto da quello immaginato dal D.

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e i fiumi potessero naturalmente formarvisi, e i metallitrovarsi nelle miniere, e le piante crescervi nelle campa-gne, e in generale tutti i corpi che si dicono misti e com-posti220 generarvisi. E tra l’altro, poichè dopo gli astriconosco al mondo solo il fuoco che produca luce, mistudiai di fare intendere molto chiaramente tutto quelche appartiene alla sua natura, come si forma, come sinutre; come talvolta ha soltanto calore senza luce221 etalvolta soltanto luce senza calore222; come può introdur-re diversi colori in diversi corpi, e diverse altre qualità;come ne fonde alcuni e ne indurisce altri; come puòconsumarli quasi tutti o convertirli in cenere e fumo; einfine, come da questa cenere, con la sola forza dellasua azione, forma il vetro; e siccome questa trasforma-zione della cenere in vetro mi sembrava più meraviglio-sa di ogni altra che s’operi nella natura, presi un partico-lare piacere nel descriverla.

Tuttavia non volevo inferire da tutto ciò, che questomondo223 sia stato creato nel modo che proponevo: per-chè è molto più verosimile che, fin dall’inizio, Diol’abbia reso tale quale doveva essere. Ma è certo, ed èun’opinione comunemente accettata tra i teologi, chel’azione con cui ora lo conserva, è proprio la stessa concui l’ha creato: di modo che se non gli avesse dato, in

220 Il D. conserva la concezione aristotelico-scolastica dei corpimisti, risultanti di più elementi.

221 Ad es. la calce viva.222 Ad es., le stelle cadenti.223 Il mondo reale distinto da quello immaginato dal D.

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principio, altra forma che quella del caos, purchè, stabi-lite le leggi della natura, le avesse prestato il suo con-corso per farla agire come suole, si può credere, senzafar torto al miracolo della creazione, che, con ciò solo,tutte le cose puramente materiali avrebbero potuto, coltempo, rendersi tali quali noi ora le vediamo. E la loronatura si può concepire molto più facilmente, quando siveggono nascere a poco a poco in questo modo, chequando si considerano belle e fatte224.

Dalla descrizione dei corpi inanimati e delle piante,passai a quella degli uomini. Ma, siccome non ne avevoancora abbastanza conoscenza per parlarne nello stessostile del resto, cioè dimostrando gli effetti per mezzodelle cause, e facendo vedere da quali semi e in qual

224 L’opinione del D. che identifica la conservazione divina dellecose a una creazione continua (v. Intr., p. XXXVII [pag. 54 diquesta edizione Manuzio]) trova effettivamente i suoi prede-cessori nella scolastica, che però non considera il tempo comediscontinuo.

Sia in questo passo, sia nei Principî, il D. dichiara di considerareil processo genetico di formazione del mondo come un’ipotesifalsa, destinata a far comprendere meglio la natura delle cose;però, come risulta da testi citati dal Gilson, è chiaro che quan-do scriveva il Mondo egli, effettivamente, la riteneva vera; esiccome uno di quei testi è posteriore al Discorso, si deve ri-petere la stessa cosa per questo. Se le dichiarazioni dei Princi-pî, molto più energiche di quelle dell’opera precedente, sianostate dettate da pari motivi di prudenza o derivino da un muta-mento delle convinzioni dell’autore, è questione che non sipuò decidere con certezza.

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principio, altra forma che quella del caos, purchè, stabi-lite le leggi della natura, le avesse prestato il suo con-corso per farla agire come suole, si può credere, senzafar torto al miracolo della creazione, che, con ciò solo,tutte le cose puramente materiali avrebbero potuto, coltempo, rendersi tali quali noi ora le vediamo. E la loronatura si può concepire molto più facilmente, quando siveggono nascere a poco a poco in questo modo, chequando si considerano belle e fatte224.

Dalla descrizione dei corpi inanimati e delle piante,passai a quella degli uomini. Ma, siccome non ne avevoancora abbastanza conoscenza per parlarne nello stessostile del resto, cioè dimostrando gli effetti per mezzodelle cause, e facendo vedere da quali semi e in qual

224 L’opinione del D. che identifica la conservazione divina dellecose a una creazione continua (v. Intr., p. XXXVII [pag. 54 diquesta edizione Manuzio]) trova effettivamente i suoi prede-cessori nella scolastica, che però non considera il tempo comediscontinuo.

Sia in questo passo, sia nei Principî, il D. dichiara di considerareil processo genetico di formazione del mondo come un’ipotesifalsa, destinata a far comprendere meglio la natura delle cose;però, come risulta da testi citati dal Gilson, è chiaro che quan-do scriveva il Mondo egli, effettivamente, la riteneva vera; esiccome uno di quei testi è posteriore al Discorso, si deve ri-petere la stessa cosa per questo. Se le dichiarazioni dei Princi-pî, molto più energiche di quelle dell’opera precedente, sianostate dettate da pari motivi di prudenza o derivino da un muta-mento delle convinzioni dell’autore, è questione che non sipuò decidere con certezza.

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modo la natura li deve produrre225, mi contentai di sup-porre che Dio formasse il corpo d’un uomo interamentesimile ad uno dei nostri, tanto nella figura esteriore dellesue membra quanto nella conformazione interna deisuoi organi, senza comporlo d’altra materia che di quel-la che avevo descritta, e senza mettere in esso, in princi-pio, alcuna anima razionale o alcuna altra cosa che gliservisse da anima vegetativa226 o sensitiva, limitandosiad eccitare nel suo cuore uno di quei fuochi senza luce,che avevo già spiegato, e che non concepivo di naturadiversa da quello che riscalda il fieno, quando è statochiuso prima che fosse secco, o che fa bollire i vini nuo-vi, quando si lasciano fermentare nella vinaccia. Infatti,esaminando le funzioni che potevano in conseguenza di

225 Il D. potè spiegare geneticamente la formazione degli animalisoltanto nel 1648.

226 Secondo S. Tommaso, nell’uomo l’anima razionale compie,insieme alle funzioni proprie, quelle esercitate negli animalidall’anima sensitiva e nei vegetali dalla vegetativa. Il D. cercadi mostrare che l’organismo umano si può, al pari di quellodegli altri esseri viventi, spiegare meccanicamente, sicchè nonoccorre ricorrere a qualche cosa che superi il meccanismo perdar ragione delle funzioni della vita vegetativa ed animale,che includono il moto e il senso, in quanto processi fisiologi-ci. Ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi è la so-stanza pensante (cioè cosciente); il moto e il senso, in quantocoscienti, sono pensieri. Così nell’uomo l’anima non compiepiù le funzioni della vita e sono eliminate l’anima vegetativa equella sensitiva, che la Scolastica concepiva come forme so-stanziali dei vegetali e degli animali.

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modo la natura li deve produrre225, mi contentai di sup-porre che Dio formasse il corpo d’un uomo interamentesimile ad uno dei nostri, tanto nella figura esteriore dellesue membra quanto nella conformazione interna deisuoi organi, senza comporlo d’altra materia che di quel-la che avevo descritta, e senza mettere in esso, in princi-pio, alcuna anima razionale o alcuna altra cosa che gliservisse da anima vegetativa226 o sensitiva, limitandosiad eccitare nel suo cuore uno di quei fuochi senza luce,che avevo già spiegato, e che non concepivo di naturadiversa da quello che riscalda il fieno, quando è statochiuso prima che fosse secco, o che fa bollire i vini nuo-vi, quando si lasciano fermentare nella vinaccia. Infatti,esaminando le funzioni che potevano in conseguenza di

225 Il D. potè spiegare geneticamente la formazione degli animalisoltanto nel 1648.

226 Secondo S. Tommaso, nell’uomo l’anima razionale compie,insieme alle funzioni proprie, quelle esercitate negli animalidall’anima sensitiva e nei vegetali dalla vegetativa. Il D. cercadi mostrare che l’organismo umano si può, al pari di quellodegli altri esseri viventi, spiegare meccanicamente, sicchè nonoccorre ricorrere a qualche cosa che superi il meccanismo perdar ragione delle funzioni della vita vegetativa ed animale,che includono il moto e il senso, in quanto processi fisiologi-ci. Ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi è la so-stanza pensante (cioè cosciente); il moto e il senso, in quantocoscienti, sono pensieri. Così nell’uomo l’anima non compiepiù le funzioni della vita e sono eliminate l’anima vegetativa equella sensitiva, che la Scolastica concepiva come forme so-stanziali dei vegetali e degli animali.

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ciò essere in questo corpo, vi trovavo esattamente tuttequelle che possono essere in noi senza che noi vi pensia-mo, senza, per conseguenza, che la nostra anima – cioèquella parte distinta dal corpo, la cui natura, si è dettosopra, consiste soltanto nel pensiero – vi contribuisca:esse sono tutte uguali; in ciò si può dire che gli animalisenza ragione ci rassomigliano227: tuttavia io non poteiperciò trovarne alcuna di quelle che, dipendendo dalpensiero, sono le sole che ci appartengano in quanto uo-mini, mentre ve le trovavo tutte in seguito, avendo sup-posto che Dio creasse un’anima razionale e la congiun-gesse a quel corpo in un certo modo che descrivevo.

Ma perchè si possa vedere in quale modo vi trattavoquell’argomento, voglio mettere qui la spiegazione delmovimento del cuore e delle arterie, il quale, essendo ilprimo e il più generale che si osservi negli animali, per-metterà di giudicare facilmente ciò che si deve pensaredi tutti gli altri. E perchè si abbia minor difficoltà a in-tendere quello che ne dirò, vorrei che coloro i quali nonsono versati nell’anatomia si prendessero la briga, primadi leggere questo, di far tagliar davanti a sè il cuore diqualche grosso animale che abbia polmoni perchè in tut-ti è abbastanza simile a quello dell’uomo, e si facesseromostrare le due camere o cavità che vi sono.228 In primoluogo, quella che è nel suo lato destro, alla quale corri-

227 Per il D., gli animali sono puri automi: (V. Introd. p XLI[pag. 60 di questa edizione Manuzio]).

228 I ventricoli.

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ciò essere in questo corpo, vi trovavo esattamente tuttequelle che possono essere in noi senza che noi vi pensia-mo, senza, per conseguenza, che la nostra anima – cioèquella parte distinta dal corpo, la cui natura, si è dettosopra, consiste soltanto nel pensiero – vi contribuisca:esse sono tutte uguali; in ciò si può dire che gli animalisenza ragione ci rassomigliano227: tuttavia io non poteiperciò trovarne alcuna di quelle che, dipendendo dalpensiero, sono le sole che ci appartengano in quanto uo-mini, mentre ve le trovavo tutte in seguito, avendo sup-posto che Dio creasse un’anima razionale e la congiun-gesse a quel corpo in un certo modo che descrivevo.

Ma perchè si possa vedere in quale modo vi trattavoquell’argomento, voglio mettere qui la spiegazione delmovimento del cuore e delle arterie, il quale, essendo ilprimo e il più generale che si osservi negli animali, per-metterà di giudicare facilmente ciò che si deve pensaredi tutti gli altri. E perchè si abbia minor difficoltà a in-tendere quello che ne dirò, vorrei che coloro i quali nonsono versati nell’anatomia si prendessero la briga, primadi leggere questo, di far tagliar davanti a sè il cuore diqualche grosso animale che abbia polmoni perchè in tut-ti è abbastanza simile a quello dell’uomo, e si facesseromostrare le due camere o cavità che vi sono.228 In primoluogo, quella che è nel suo lato destro, alla quale corri-

227 Per il D., gli animali sono puri automi: (V. Introd. p XLI[pag. 60 di questa edizione Manuzio]).

228 I ventricoli.

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spondono due tubi molto larghi: cioè la vena cava,229 cheè il principale ricettacolo del sangue, e come il troncodell’albero, di cui tutte le altre vene del corpo sono irami, e la vena arteriosa230, malamente chiamata così,perchè è un’arteria che, prendendo origine dal cuore, sidivide, dopo esserne uscita, in parecchi rami che vannoa spandersi dappertutto nei polmoni. Poi, quella che ènel suo lato sinistro, alla quale corrispondono nello stes-so modo due tubi, altrettanto o più larghi dei precedenti:cioè l’arteria venosa,231 che del pari è stata malamentechiamata così, perchè non è altro che una vena, la qualeviene dai polmoni, dove è divisa in molti rami, intrec-ciati con quelli della vena arteriosa e quelli di quel con-dotto che si chiama il fischietto,232 per dove entra l’ariadella respirazione; e la grande arteria233 che, uscendo dalcuore, invia i suoi rami per tutto il corpo. Vorrei ancheche fossero loro mostrate con cura le undici pellicoleche, come altrettante porticine, aprono e chiudono lequattro aperture che sono in quelle due cavità: cioè treall’entrata della vena cava, dove sono disposte in talmodo, che non possono in nessuna maniera impedireche il sangue da essa contenuto scorra nella cavità de-stra del cuore, e tuttavia impediscono assolutamente che

229 La valvola tricuspide.230 L’arteria polmonare.231 Cioè, le vene polmonari.232 Sifflet. La trachea arteria.233 L’arteria aorta.

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spondono due tubi molto larghi: cioè la vena cava,229 cheè il principale ricettacolo del sangue, e come il troncodell’albero, di cui tutte le altre vene del corpo sono irami, e la vena arteriosa230, malamente chiamata così,perchè è un’arteria che, prendendo origine dal cuore, sidivide, dopo esserne uscita, in parecchi rami che vannoa spandersi dappertutto nei polmoni. Poi, quella che ènel suo lato sinistro, alla quale corrispondono nello stes-so modo due tubi, altrettanto o più larghi dei precedenti:cioè l’arteria venosa,231 che del pari è stata malamentechiamata così, perchè non è altro che una vena, la qualeviene dai polmoni, dove è divisa in molti rami, intrec-ciati con quelli della vena arteriosa e quelli di quel con-dotto che si chiama il fischietto,232 per dove entra l’ariadella respirazione; e la grande arteria233 che, uscendo dalcuore, invia i suoi rami per tutto il corpo. Vorrei ancheche fossero loro mostrate con cura le undici pellicoleche, come altrettante porticine, aprono e chiudono lequattro aperture che sono in quelle due cavità: cioè treall’entrata della vena cava, dove sono disposte in talmodo, che non possono in nessuna maniera impedireche il sangue da essa contenuto scorra nella cavità de-stra del cuore, e tuttavia impediscono assolutamente che

229 La valvola tricuspide.230 L’arteria polmonare.231 Cioè, le vene polmonari.232 Sifflet. La trachea arteria.233 L’arteria aorta.

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ne possa uscire; tre all’entrata della vena arteriosa234, lequali, disposte in senso completamente opposto, permet-tono al sangue che è in questa cavità di passare nei pol-moni, ma non a quello che è nei polmoni, di ritornarvi; ecosì altre due235 all’entrata dell’arteria venosa, le qualilasciano scorrere il sangue dai polmoni verso la cavitàsinistra del cuore, ma s’oppongono al suo ritorno; e treall’entrata della grande arteria236, le quali gli permettonod’uscire dal cuore, ma gli impediscono di ritornarvi. Enon c’è affatto bisogno di cercare altra ragione del nu-mero di quelle pellicole, se non che l’apertura dell’arte-ria venosa, essendo ovale per il posto dove si trova, puòessere comodamente chiusa con due pellicole, mentre lealtre, essendo rotonde, possono esser chiuse meglio contre. Inoltre, vorrei che si facesse loro considerare che lagrande arteria e la vena arteriosa sono d’una composi-zione molto più dura e più robusta che non l’arteria ve-nosa e la vena cava; e che queste due ultime s’allarganoprima d’entrare nel cuore e vi fanno come due borse,chiamate le orecchie237 del cuore, le quali sono compo-ste d’una carne simile alla sua; e che v’è sempre più ca-lore nel cuore che in ogni altra parte del corpo238; e infi-

234 Valvole sigmoidi.235 La valvola mitrale o bicuspide.236 Altre valvole sigmoidi.237 Le orecchiette, che il D. considerava semplici dilatazioni del-

le vene che mettono capo al cuore.238 Questa opinione errata, che il D. riceve dalla scienza tradizio-

nale, gli impedisce di accettare la spiegazione che della circo-

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ne possa uscire; tre all’entrata della vena arteriosa234, lequali, disposte in senso completamente opposto, permet-tono al sangue che è in questa cavità di passare nei pol-moni, ma non a quello che è nei polmoni, di ritornarvi; ecosì altre due235 all’entrata dell’arteria venosa, le qualilasciano scorrere il sangue dai polmoni verso la cavitàsinistra del cuore, ma s’oppongono al suo ritorno; e treall’entrata della grande arteria236, le quali gli permettonod’uscire dal cuore, ma gli impediscono di ritornarvi. Enon c’è affatto bisogno di cercare altra ragione del nu-mero di quelle pellicole, se non che l’apertura dell’arte-ria venosa, essendo ovale per il posto dove si trova, puòessere comodamente chiusa con due pellicole, mentre lealtre, essendo rotonde, possono esser chiuse meglio contre. Inoltre, vorrei che si facesse loro considerare che lagrande arteria e la vena arteriosa sono d’una composi-zione molto più dura e più robusta che non l’arteria ve-nosa e la vena cava; e che queste due ultime s’allarganoprima d’entrare nel cuore e vi fanno come due borse,chiamate le orecchie237 del cuore, le quali sono compo-ste d’una carne simile alla sua; e che v’è sempre più ca-lore nel cuore che in ogni altra parte del corpo238; e infi-

234 Valvole sigmoidi.235 La valvola mitrale o bicuspide.236 Altre valvole sigmoidi.237 Le orecchiette, che il D. considerava semplici dilatazioni del-

le vene che mettono capo al cuore.238 Questa opinione errata, che il D. riceve dalla scienza tradizio-

nale, gli impedisce di accettare la spiegazione che della circo-

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ne che questo calore è capace di far sì, che se entra qual-che goccia di sangue nelle sue cavità, essa si gonfi pron-tamente e si dilati, come fanno in generale tutti i liquidi,quando si lasciano cadere a goccia a goccia in un vasomolto caldo.

Certamente, dopo questo, non ho bisogno di dire altroper spiegare il movimento del cuore se non che, quandole sue cavità non sono piene di sangue, ne scorre neces-sariamente dalla vena cava nella cavità destra, e

lazione del sangue aveva data il medico e scienziato ingleseGuglielmo Harvey (1578-1657) nell’opera Exercitatio anato-mica de motu cordis et sanguinis in animalibus, stampata aFrancoforte nel 1628, che il pensatore francese dovette cono-scere indirettamente, per mezzo del P. Mersenne, poco dopo lasua pubblicazione. (Ambedue, però, ignoravano che nel 1571,uno scienziato e filosofo italiano, Andrea Cesalpino d’Arezzo[1519-1603], aveva descritto la circolazione polmonare nelleQuaestiones peripateticae). L’Harvey spiegò la circolazionedel sangue per mezzo dei movimenti di sistole e di diastoledel cuore che contraendosi diffonde il sangue che contienenelle arterie e dilatandosi attira a sè quello delle vene. Il D.,che (come si vedrà poco oltre) ammirava assai l’Harvey, alquale attribuiva la scoperta della circolazione sanguigna, e chefaceva propria la descrizione che ne aveva dato, non potevaaccettare la spiegazione offerta dallo scienziato inglese perchè(come osserva il Gilson) vedeva nella contrattilità del cuoreda lui ammessa una facoltà oscura e inesplicabile. La scienzaposteriore ha accettato la teoria dell’Harvey e abbandonatoquella del D.: una conoscenza anche elementare dell’argo-mento permette al lettore di rendersi conto degli errori parti-colari che questa contiene.

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ne che questo calore è capace di far sì, che se entra qual-che goccia di sangue nelle sue cavità, essa si gonfi pron-tamente e si dilati, come fanno in generale tutti i liquidi,quando si lasciano cadere a goccia a goccia in un vasomolto caldo.

Certamente, dopo questo, non ho bisogno di dire altroper spiegare il movimento del cuore se non che, quandole sue cavità non sono piene di sangue, ne scorre neces-sariamente dalla vena cava nella cavità destra, e

lazione del sangue aveva data il medico e scienziato ingleseGuglielmo Harvey (1578-1657) nell’opera Exercitatio anato-mica de motu cordis et sanguinis in animalibus, stampata aFrancoforte nel 1628, che il pensatore francese dovette cono-scere indirettamente, per mezzo del P. Mersenne, poco dopo lasua pubblicazione. (Ambedue, però, ignoravano che nel 1571,uno scienziato e filosofo italiano, Andrea Cesalpino d’Arezzo[1519-1603], aveva descritto la circolazione polmonare nelleQuaestiones peripateticae). L’Harvey spiegò la circolazionedel sangue per mezzo dei movimenti di sistole e di diastoledel cuore che contraendosi diffonde il sangue che contienenelle arterie e dilatandosi attira a sè quello delle vene. Il D.,che (come si vedrà poco oltre) ammirava assai l’Harvey, alquale attribuiva la scoperta della circolazione sanguigna, e chefaceva propria la descrizione che ne aveva dato, non potevaaccettare la spiegazione offerta dallo scienziato inglese perchè(come osserva il Gilson) vedeva nella contrattilità del cuoreda lui ammessa una facoltà oscura e inesplicabile. La scienzaposteriore ha accettato la teoria dell’Harvey e abbandonatoquella del D.: una conoscenza anche elementare dell’argo-mento permette al lettore di rendersi conto degli errori parti-colari che questa contiene.

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dall’arteria venosa nella sinistra; in quanto che questidue vasi ne sono sempre pieni e le loro aperture cheguardano verso il cuore, non possono allora esser chiu-se; ma, appena sono così entrate due gocce di sangue,una in ciascuna delle sue cavità, queste gocce, le qualinon possono essere che grossissime, perchè le apertureda cui entrano sono molto larghe e i vasi da cui proven-gono sono pieni di sangue, si rarefanno e si dilatano pelcalore che vi trovano, per mezzo del quale facendo gon-fiare tutto il cuore, spingono e chiudono le cinque porti-cine che sono alle entrate dei due vasi da cui provengo-no, impedendo così che scenda altro sangue nel cuore; econtinuando a rarefarsi sempre più, spingono e apronole altre sei porticine, che sono alle entrate degli altri duevasi da cui esse escono, facendo così gonfiare tutti irami della vena arteriosa e della grande arteria, quasinello stesso istante del cuore; il quale subito dopo sisgonfia, come fanno anche quelle arterie, perchè il san-gue che vi è entrato vi si raffredda, e le loro sei porticinesi richiudono, e le cinque della vena cava e dell’arteriavenosa si riaprono, e permettono il passaggio ad altredue gocce di sangue che fanno da capo gonfiare il cuoree le arterie, proprio come le precedenti. E siccome ilsangue, che entra così nel cuore, passa per quelle dueborse che si chiamano le sue orecchie, da ciò segue cheil loro movimento è contrario al suo e che esse si sgon-fiano quando il cuore si gonfia. Del resto, affinchè quelliche non conoscono la forza delle dimostrazioni matema-tiche, e non sono abituati a distinguere le ragioni vere

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dall’arteria venosa nella sinistra; in quanto che questidue vasi ne sono sempre pieni e le loro aperture cheguardano verso il cuore, non possono allora esser chiu-se; ma, appena sono così entrate due gocce di sangue,una in ciascuna delle sue cavità, queste gocce, le qualinon possono essere che grossissime, perchè le apertureda cui entrano sono molto larghe e i vasi da cui proven-gono sono pieni di sangue, si rarefanno e si dilatano pelcalore che vi trovano, per mezzo del quale facendo gon-fiare tutto il cuore, spingono e chiudono le cinque porti-cine che sono alle entrate dei due vasi da cui provengo-no, impedendo così che scenda altro sangue nel cuore; econtinuando a rarefarsi sempre più, spingono e apronole altre sei porticine, che sono alle entrate degli altri duevasi da cui esse escono, facendo così gonfiare tutti irami della vena arteriosa e della grande arteria, quasinello stesso istante del cuore; il quale subito dopo sisgonfia, come fanno anche quelle arterie, perchè il san-gue che vi è entrato vi si raffredda, e le loro sei porticinesi richiudono, e le cinque della vena cava e dell’arteriavenosa si riaprono, e permettono il passaggio ad altredue gocce di sangue che fanno da capo gonfiare il cuoree le arterie, proprio come le precedenti. E siccome ilsangue, che entra così nel cuore, passa per quelle dueborse che si chiamano le sue orecchie, da ciò segue cheil loro movimento è contrario al suo e che esse si sgon-fiano quando il cuore si gonfia. Del resto, affinchè quelliche non conoscono la forza delle dimostrazioni matema-tiche, e non sono abituati a distinguere le ragioni vere

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dalle verisimili non s’azzardino a negare ciò che ho det-to senza esaminarlo, voglio avvertirli che questo movi-mento che ora ho spiegato proviene così necessariamen-te dalla sola disposizione degli organi che si può vederea colpo d’occhio nel cuore, e dal calore che vi si puòsentire con le dita, e dalla natura del sangue che si puòconoscere con l’esperienza, come il movimento d’unorologio dalla forza, dalla posizione, e dalla figura deisuoi contrappesi e delle sue ruote239.

Ma se si domanda come il sangue delle vene non siesaurisca, scorrendo così continuamente nel cuore, ecome le arterie non ne siano troppo piene, poichè tuttoquello che passa per il cuore va a finire in esse, a questadomanda non ho bisogno di rispondere altro che quelloche è stato già scritto da un medico d’Inghilterra,240 alquale bisogna concedere la lode d’aver rotto il ghiacciosu questo punto e d’essere stato il primo ad insegnareche ci sono molti piccoli passaggi all’estremità delle ar-terie, attraverso i quali il sangue che esse ricevono dalcuore entra nei piccoli rami delle vene, donde ritorna dinuovo al cuore, di modo che il suo corso non è altro cheuna circolazione perpetua. Questo egli prova benissimocon l’esperienza abituale dei chirurghi che, avendo lega-to il braccio non molto forte, al disopra del posto dove

239 Il D. ha spiegato la circolazione del sangue meccanicamente,cioè geometricamente, perchè la sua meccanica è riducibilealla geometria.

240 Vedi nota 3 della p. 78 [nota 238 di questa edizione Manu-zio].

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dalle verisimili non s’azzardino a negare ciò che ho det-to senza esaminarlo, voglio avvertirli che questo movi-mento che ora ho spiegato proviene così necessariamen-te dalla sola disposizione degli organi che si può vederea colpo d’occhio nel cuore, e dal calore che vi si puòsentire con le dita, e dalla natura del sangue che si puòconoscere con l’esperienza, come il movimento d’unorologio dalla forza, dalla posizione, e dalla figura deisuoi contrappesi e delle sue ruote239.

Ma se si domanda come il sangue delle vene non siesaurisca, scorrendo così continuamente nel cuore, ecome le arterie non ne siano troppo piene, poichè tuttoquello che passa per il cuore va a finire in esse, a questadomanda non ho bisogno di rispondere altro che quelloche è stato già scritto da un medico d’Inghilterra,240 alquale bisogna concedere la lode d’aver rotto il ghiacciosu questo punto e d’essere stato il primo ad insegnareche ci sono molti piccoli passaggi all’estremità delle ar-terie, attraverso i quali il sangue che esse ricevono dalcuore entra nei piccoli rami delle vene, donde ritorna dinuovo al cuore, di modo che il suo corso non è altro cheuna circolazione perpetua. Questo egli prova benissimocon l’esperienza abituale dei chirurghi che, avendo lega-to il braccio non molto forte, al disopra del posto dove

239 Il D. ha spiegato la circolazione del sangue meccanicamente,cioè geometricamente, perchè la sua meccanica è riducibilealla geometria.

240 Vedi nota 3 della p. 78 [nota 238 di questa edizione Manu-zio].

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aprono la vena, fanno sí che il sangue ne esca più ab-bondantemente che se non l’avessero legato. E avver-rebbe tutto il contrario, se lo legassero al disotto, tra lamano e l’apertura, o anche, se lo legassero molto forte aldisopra. Infatti è chiaro che il nodo non molto stretto,potendo impedire che il sangue che è già nel braccio ri-torni al cuore per mezzo delle vene, non impedisce perquesto che ve ne arrivi sempre del nuovo per mezzo del-le arterie, perchè sono poste sotto le vene, e perchè leloro pelli241, essendo più dure, si comprimono meno fa-cilmente; e anche perchè il sangue che viene dal cuoretende con maggior forza a passare a traverso di esse ver-so la mano, che a ritornare di là verso il cuore attraversole vene. E poichè quel sangue esce dal braccio perl’apertura che è in una delle vene, deve necessariamenteesservi qualche passaggio al disotto del legaccio, cioèverso le estremità del braccio, donde possa giungervidalle arterie. Egli prova anche molto bene quello chedice del sangue, per mezzo di alcune pellicole le qualisono disposte in diversi luoghi lungo le vene in modotale da non permettergli di passarvi dal mezzo del corpoverso le estremità, ma solo di ritornare dalle estremitàverso il cuore; e inoltre, mediante l’esperienza che mo-stra come tutto il sangue che è nel corpo ne può uscirein pochissimo tempo a traverso una sola arteria, quandoè tagliata, anche se sia strettamente legata molto vicinoal cuore, e tagliata tra esso e il legaccio, in modo che

241 Pareti.

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aprono la vena, fanno sí che il sangue ne esca più ab-bondantemente che se non l’avessero legato. E avver-rebbe tutto il contrario, se lo legassero al disotto, tra lamano e l’apertura, o anche, se lo legassero molto forte aldisopra. Infatti è chiaro che il nodo non molto stretto,potendo impedire che il sangue che è già nel braccio ri-torni al cuore per mezzo delle vene, non impedisce perquesto che ve ne arrivi sempre del nuovo per mezzo del-le arterie, perchè sono poste sotto le vene, e perchè leloro pelli241, essendo più dure, si comprimono meno fa-cilmente; e anche perchè il sangue che viene dal cuoretende con maggior forza a passare a traverso di esse ver-so la mano, che a ritornare di là verso il cuore attraversole vene. E poichè quel sangue esce dal braccio perl’apertura che è in una delle vene, deve necessariamenteesservi qualche passaggio al disotto del legaccio, cioèverso le estremità del braccio, donde possa giungervidalle arterie. Egli prova anche molto bene quello chedice del sangue, per mezzo di alcune pellicole le qualisono disposte in diversi luoghi lungo le vene in modotale da non permettergli di passarvi dal mezzo del corpoverso le estremità, ma solo di ritornare dalle estremitàverso il cuore; e inoltre, mediante l’esperienza che mo-stra come tutto il sangue che è nel corpo ne può uscirein pochissimo tempo a traverso una sola arteria, quandoè tagliata, anche se sia strettamente legata molto vicinoal cuore, e tagliata tra esso e il legaccio, in modo che

241 Pareti.

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non vi sia nessun motivo d’immaginare che il sangueche ne esce venga da altra parte242.

Ma vi sono molte altre cose le quali testimoniano chela vera causa di questo movimento del sangue è quellache ho detto. Così, in primo luogo, la differenza che siosserva tra il sangue che esce dalle vene e quello cheesce dalle arterie, può derivare soltanto da questo che,essendo rarefatto, e quasi distillato, passando per il cuo-re, è più sottile e più vivo e più caldo subito dopo esser-ne uscito, cioè, quando è nelle arterie, di quel che sia unpo’ prima d’entrarvi, cioè quand’è nelle vene243. E se visi fa attenzione, si troverà che questa differenza apparebene soltanto verso il cuore, e non altrettanto nelle partipiù lontane. E poi la durezza delle pelli di cui la vena ar-teriosa e la grande arteria sono composte, dimostra asufficienza che il sangue batte contro di esse con mag-giore forza che contro le vene. E perchè la cavità sini-stra del cuore e la grande arteria sarebbero più ampie epiù larghe della cavità destra e della vena arteriosa, se

242 Come osserva il Gilson, il paragrafo seguente vuole mostrareche la spiegazione che l’Harvey ha dato della circolazione delsangue non è soddisfacente e che invece quella proposta dalD. è la vera.

243 L’Harvey aveva riconosciuto che esiste una differenza fra ilsangue arterioso e quello venoso, ma non l’aveva spiegata; ilD. credette erroneamente di poterne dar ragione ricorrendoall’azione riscaldatrice del cuore. Ma la vera soluzione delladifficoltà fu data quando nel 1777 il Lavoisier mostrò che gra-zie alla respirazione polmonare il sangue venoso si trasformain arterioso.

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non vi sia nessun motivo d’immaginare che il sangueche ne esce venga da altra parte242.

Ma vi sono molte altre cose le quali testimoniano chela vera causa di questo movimento del sangue è quellache ho detto. Così, in primo luogo, la differenza che siosserva tra il sangue che esce dalle vene e quello cheesce dalle arterie, può derivare soltanto da questo che,essendo rarefatto, e quasi distillato, passando per il cuo-re, è più sottile e più vivo e più caldo subito dopo esser-ne uscito, cioè, quando è nelle arterie, di quel che sia unpo’ prima d’entrarvi, cioè quand’è nelle vene243. E se visi fa attenzione, si troverà che questa differenza apparebene soltanto verso il cuore, e non altrettanto nelle partipiù lontane. E poi la durezza delle pelli di cui la vena ar-teriosa e la grande arteria sono composte, dimostra asufficienza che il sangue batte contro di esse con mag-giore forza che contro le vene. E perchè la cavità sini-stra del cuore e la grande arteria sarebbero più ampie epiù larghe della cavità destra e della vena arteriosa, se

242 Come osserva il Gilson, il paragrafo seguente vuole mostrareche la spiegazione che l’Harvey ha dato della circolazione delsangue non è soddisfacente e che invece quella proposta dalD. è la vera.

243 L’Harvey aveva riconosciuto che esiste una differenza fra ilsangue arterioso e quello venoso, ma non l’aveva spiegata; ilD. credette erroneamente di poterne dar ragione ricorrendoall’azione riscaldatrice del cuore. Ma la vera soluzione delladifficoltà fu data quando nel 1777 il Lavoisier mostrò che gra-zie alla respirazione polmonare il sangue venoso si trasformain arterioso.

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non fosse perchè il sangue dell’arteria venosa, essendostato solo nei polmoni dopo esser passato a traverso ilcuore, è più sottile e si rarefà di più e più facilmente diquello che viene immediatamente dalla vena cava? Eche cosa i medici possono indovinare tastando il polsose non sanno che, secondo che il sangue cambia di natu-ra, può essere rarefatto dal calore del cuore di più o dimeno, e più o meno rapidamente di prima244? E se siesamina come questo calore si comunica alle altre mem-bra, non occorre confessare che questo avviene per mez-zo del sangue, il quale, passando a traverso il cuore, visi riscalda, e si spande di là per tutto il corpo? Dondederiva che, se si toglie il sangue da qualche parte, se netoglie, con lo stesso mezzo, il calore; e anche se il cuorefosse ardente come un ferro arroventato, non basterebbea riscaldare i piedi e le mani come fa, se non vi inviassecontinuamente nuovo sangue. Poi da questo si conoscealtresì che il vero ufficio della respirazione è di portareabbastanza aria fresca nel polmone, perchè il sangue,che vi giunge dalla cavità destra del cuore, dove è statorarefatto e quasi cambiato in vapori, vi si ispessisca econverta in sangue da capo, prima di ricadere nella cavi-tà destra, senza di che non potrebbe essere adatto a ser-vire di nutrimento al fuoco che è in esso. La qual cosa è

244 Il D., ritiene che la febbre sia prodotta da umori che, mesco-landosi al sangue, ne alterano la natura, sicchè esso, entrandonel cuore, da prima ne diminuisce il calore e poi lo accresce,sicchè la sua circolazione, dopo essere stata più lenta, diventain seguito più rapida.

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non fosse perchè il sangue dell’arteria venosa, essendostato solo nei polmoni dopo esser passato a traverso ilcuore, è più sottile e si rarefà di più e più facilmente diquello che viene immediatamente dalla vena cava? Eche cosa i medici possono indovinare tastando il polsose non sanno che, secondo che il sangue cambia di natu-ra, può essere rarefatto dal calore del cuore di più o dimeno, e più o meno rapidamente di prima244? E se siesamina come questo calore si comunica alle altre mem-bra, non occorre confessare che questo avviene per mez-zo del sangue, il quale, passando a traverso il cuore, visi riscalda, e si spande di là per tutto il corpo? Dondederiva che, se si toglie il sangue da qualche parte, se netoglie, con lo stesso mezzo, il calore; e anche se il cuorefosse ardente come un ferro arroventato, non basterebbea riscaldare i piedi e le mani come fa, se non vi inviassecontinuamente nuovo sangue. Poi da questo si conoscealtresì che il vero ufficio della respirazione è di portareabbastanza aria fresca nel polmone, perchè il sangue,che vi giunge dalla cavità destra del cuore, dove è statorarefatto e quasi cambiato in vapori, vi si ispessisca econverta in sangue da capo, prima di ricadere nella cavi-tà destra, senza di che non potrebbe essere adatto a ser-vire di nutrimento al fuoco che è in esso. La qual cosa è

244 Il D., ritiene che la febbre sia prodotta da umori che, mesco-landosi al sangue, ne alterano la natura, sicchè esso, entrandonel cuore, da prima ne diminuisce il calore e poi lo accresce,sicchè la sua circolazione, dopo essere stata più lenta, diventain seguito più rapida.

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confermata dal fatto che gli animali che non hanno pol-moni, hanno anche una sola cavità nel cuore, e che ibambini i quali non possono servirsi di essi mentre sonochiusi nel ventre delle loro madri, hanno un’apertura atraverso cui scorre sangue dalla vena cava nella cavitàsinistra del cuore, e un condotto a traverso il quale neviene dalla vena arteriosa nella grande arteria, senzapassare a traverso il polmone. Inoltre245, come si farebbenello stomaco la cozione246 se il cuore non vi inviassecalore a traverso le arterie, e con esso alcune delle partipiù fluide del sangue le quali aiutano a sciogliere i cibiche vi sono stati messi? E l’azione che converte il succodi questi cibi in sangue, non si comprende facilmente sesi considera che esso si distilla, passando e ripassandoper il cuore, forse più di cento o duecento volte ognigiorno? E s’ha bisogno d’altro per spiegare la nutrizionee la produzione dei diversi umori che sono nel corpo247,se non di dire che la forza, con cui il sangue rarefacen-dosi passa dal cuore verso le estremità delle arterie, fa sìche alcune delle sue parti si fermino tra quelle membradove si trovano, e vi prendano il posto di alcune altreche ne cacciano; e che secondo la posizione, o la figura,o la piccolezza dei pori che incontrano, le une vanno a

245 Il calore del cuore è la causa non soltanto della circolazionedel sangue, ma anche delle altre funzioni dell’organismo.

246 La digestione, considerata effetto del calore del cuore.247 La saliva, l’orina, il sudore, che, al pari degli escrementi,

sono residui che il processo di cozione del materiale nutritizioelimina dal sangue.

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confermata dal fatto che gli animali che non hanno pol-moni, hanno anche una sola cavità nel cuore, e che ibambini i quali non possono servirsi di essi mentre sonochiusi nel ventre delle loro madri, hanno un’apertura atraverso cui scorre sangue dalla vena cava nella cavitàsinistra del cuore, e un condotto a traverso il quale neviene dalla vena arteriosa nella grande arteria, senzapassare a traverso il polmone. Inoltre245, come si farebbenello stomaco la cozione246 se il cuore non vi inviassecalore a traverso le arterie, e con esso alcune delle partipiù fluide del sangue le quali aiutano a sciogliere i cibiche vi sono stati messi? E l’azione che converte il succodi questi cibi in sangue, non si comprende facilmente sesi considera che esso si distilla, passando e ripassandoper il cuore, forse più di cento o duecento volte ognigiorno? E s’ha bisogno d’altro per spiegare la nutrizionee la produzione dei diversi umori che sono nel corpo247,se non di dire che la forza, con cui il sangue rarefacen-dosi passa dal cuore verso le estremità delle arterie, fa sìche alcune delle sue parti si fermino tra quelle membradove si trovano, e vi prendano il posto di alcune altreche ne cacciano; e che secondo la posizione, o la figura,o la piccolezza dei pori che incontrano, le une vanno a

245 Il calore del cuore è la causa non soltanto della circolazionedel sangue, ma anche delle altre funzioni dell’organismo.

246 La digestione, considerata effetto del calore del cuore.247 La saliva, l’orina, il sudore, che, al pari degli escrementi,

sono residui che il processo di cozione del materiale nutritizioelimina dal sangue.

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finire in certi luoghi piuttosto che le altre, nello stessomodo che ognuno può aver visto diversi crivelli, che,essendo diversamente bucati, servono a separare diversigrani gli uni dagli altri? E infine quello che è più note-vole in tutto questo è la generazione degli spiriti anima-li248, che sono come un vento molto sottile, o piuttostocome una fiamma purissima e vivissima, la quale, salen-do continuamente in grande abbondanza dal cuore nelcervello, di là si porta, a traverso i nervi, nei muscoli, edà il movimento a tutte le membra; e non occorre imma-ginare altra causa, che faccia sì che le parti del sangueche, essendo le più agitate e penetranti, sono le più adat-te a comporre questi spiriti, vadano piuttosto verso ilcervello che altrove, se non che le arterie che ve le por-tano sono quelle che vengono dal cuore più direttamentedi tutte; e che, secondo le regole della meccanica, lequali sono le stesse di quelle della natura, quando piùcose tendono insieme a muoversi verso uno stesso lato,dove non c’è abbastanza posto per tutte, come è il casodelle parti del sangue che escono dalla cavità sinistra delcuore e tendono verso il cervello, le più deboli e menoagitate ne debbono essere allontanate dalle più forti, cheper questo mezzo vanno a finirvi sole.

Avevo spiegato abbastanza in particolare tutte queste

248 Gli spiriti animali sono costituiti dalle parti più sottili delsangue, che il calore del cuore ha rarefatto, le quali si muovo-no assai rapidamente. Essi dal cuore salgono al cervello e daquesto, attraversando i nervi, si recano ai muscoli e li mettonoin movimento, determinando così tutti i moti dell’organismo.

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finire in certi luoghi piuttosto che le altre, nello stessomodo che ognuno può aver visto diversi crivelli, che,essendo diversamente bucati, servono a separare diversigrani gli uni dagli altri? E infine quello che è più note-vole in tutto questo è la generazione degli spiriti anima-li248, che sono come un vento molto sottile, o piuttostocome una fiamma purissima e vivissima, la quale, salen-do continuamente in grande abbondanza dal cuore nelcervello, di là si porta, a traverso i nervi, nei muscoli, edà il movimento a tutte le membra; e non occorre imma-ginare altra causa, che faccia sì che le parti del sangueche, essendo le più agitate e penetranti, sono le più adat-te a comporre questi spiriti, vadano piuttosto verso ilcervello che altrove, se non che le arterie che ve le por-tano sono quelle che vengono dal cuore più direttamentedi tutte; e che, secondo le regole della meccanica, lequali sono le stesse di quelle della natura, quando piùcose tendono insieme a muoversi verso uno stesso lato,dove non c’è abbastanza posto per tutte, come è il casodelle parti del sangue che escono dalla cavità sinistra delcuore e tendono verso il cervello, le più deboli e menoagitate ne debbono essere allontanate dalle più forti, cheper questo mezzo vanno a finirvi sole.

Avevo spiegato abbastanza in particolare tutte queste

248 Gli spiriti animali sono costituiti dalle parti più sottili delsangue, che il calore del cuore ha rarefatto, le quali si muovo-no assai rapidamente. Essi dal cuore salgono al cervello e daquesto, attraversando i nervi, si recano ai muscoli e li mettonoin movimento, determinando così tutti i moti dell’organismo.

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cose nel trattato che avevo precedentemente avuto in-tenzione di pubblicare. E dopo vi avevo mostrato qualedeve essere la struttura dei nervi e dei muscoli del corpoumano, per far sì che gli spiriti animali, che vi sono in-clusi, abbiano la forza di muovere le sue membra, cosìcome si vede che le teste, un poco dopo tagliate, si muo-vono ancora, e mordono la terra, nonostante che nonsiano più animate; quali cangiamenti si debbano produr-re nel cervello, per causare la veglia, e il sonno e i so-gni; come la luce, i suoni, gli odori, i gusti, il calore, etutte le altre qualità degli oggetti esterni vi possano im-primere diverse idee,249 pel tramite dei sensi; come lafame, la sete e le altre passioni interne250 vi possano an-che inviare le loro; che cosa deve intendersi per il sensocomune251, dove queste idee sono accolte; per la memo-ria, che le conserva: e per la fantasia, che le può diversa-mente cambiare, e comporne delle nuove, e con lo stes-so mezzo, distribuendo gli spiriti animali nei muscoli,far muovere le membra di questo corpo, in tante diversemaniere, sia a proposito degli oggetti che si presentanoai suoi sensi, sia a proposito delle passioni interne che

249 Nel senso di impronte nel cervello, non di pensieri, cioè dicontenuti della coscienza.

250 Le passioni propriamente dette che formano l’oggetto di untrattato composto più tardi dall’A.

251 Anche il senso comune deve intendersi come una realtà cor-porea, cioè come la glandola pineale, posta verso il centro delcervello, nella quale si raccolgono le impressioni ricevute dal-le diverse parti di esso.

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cose nel trattato che avevo precedentemente avuto in-tenzione di pubblicare. E dopo vi avevo mostrato qualedeve essere la struttura dei nervi e dei muscoli del corpoumano, per far sì che gli spiriti animali, che vi sono in-clusi, abbiano la forza di muovere le sue membra, cosìcome si vede che le teste, un poco dopo tagliate, si muo-vono ancora, e mordono la terra, nonostante che nonsiano più animate; quali cangiamenti si debbano produr-re nel cervello, per causare la veglia, e il sonno e i so-gni; come la luce, i suoni, gli odori, i gusti, il calore, etutte le altre qualità degli oggetti esterni vi possano im-primere diverse idee,249 pel tramite dei sensi; come lafame, la sete e le altre passioni interne250 vi possano an-che inviare le loro; che cosa deve intendersi per il sensocomune251, dove queste idee sono accolte; per la memo-ria, che le conserva: e per la fantasia, che le può diversa-mente cambiare, e comporne delle nuove, e con lo stes-so mezzo, distribuendo gli spiriti animali nei muscoli,far muovere le membra di questo corpo, in tante diversemaniere, sia a proposito degli oggetti che si presentanoai suoi sensi, sia a proposito delle passioni interne che

249 Nel senso di impronte nel cervello, non di pensieri, cioè dicontenuti della coscienza.

250 Le passioni propriamente dette che formano l’oggetto di untrattato composto più tardi dall’A.

251 Anche il senso comune deve intendersi come una realtà cor-porea, cioè come la glandola pineale, posta verso il centro delcervello, nella quale si raccolgono le impressioni ricevute dal-le diverse parti di esso.

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sono in esso, quante sono quelle con cui le nostre mem-bra possono muoversi senza che la volontà le condu-ca252. Ciò che non sembrerà in nessun modo strano a co-loro i quali, sapendo quanti diversi automi, o macchinemobili, l’industria degli uomini può fare, impiegandovisoltanto pochissime parti a paragone della grande quan-tità delle ossa, dei muscoli, dei nervi, delle arterie, dellevene, e di tutte le altre parti che sono nel corpo di cia-scun animale, considereranno questo corpo come unamacchina che, essendo stata fatta dalle mani di Dio, èincomparabilmente meglio ordinata, e ha in sè movi-menti più mirabili di ognuna di quelle che possono esse-re inventate dagli uomini.

E io m’ero qui particolarmente fermato253 a far vedere252 La traduzione si allontana leggermente dal testo francese, che

non è chiarissimo: la versione latina spiega meglio il pensierodel D. il quale intende dire che la fantasia, in quanto altera leidee (= impressioni) conservate nella memoria, agisce suglispiriti animali che si distribuiscono nei muscoli e così deter-mina tutti quei movimenti che le membra possono compiereindipendentemente dalla volontà, sia per rispondere all’azioneche oggetti esterni esercitano sui sensi, sia sotto l’impulso dieccitamenti interni. Tutti i processi e le azioni di cui si parlahanno carattere esclusivamente meccanico e non implicano al-cun grado di consapevolezza.

253 La trattazione seguente, che mira a distinguere radicalmentel’organismo animale, concepito come una macchina priva dicoscienza, dall’uomo che possiede un’anima ragionevole cheha per attributo (cioè per determinazione essenziale) il pensie-ro, ossia la consapevolezza, manca nel Mondo. Sviluppando lasua tesi che gli animali sono puri e semplici automi, il D. po-

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sono in esso, quante sono quelle con cui le nostre mem-bra possono muoversi senza che la volontà le condu-ca252. Ciò che non sembrerà in nessun modo strano a co-loro i quali, sapendo quanti diversi automi, o macchinemobili, l’industria degli uomini può fare, impiegandovisoltanto pochissime parti a paragone della grande quan-tità delle ossa, dei muscoli, dei nervi, delle arterie, dellevene, e di tutte le altre parti che sono nel corpo di cia-scun animale, considereranno questo corpo come unamacchina che, essendo stata fatta dalle mani di Dio, èincomparabilmente meglio ordinata, e ha in sè movi-menti più mirabili di ognuna di quelle che possono esse-re inventate dagli uomini.

E io m’ero qui particolarmente fermato253 a far vedere252 La traduzione si allontana leggermente dal testo francese, che

non è chiarissimo: la versione latina spiega meglio il pensierodel D. il quale intende dire che la fantasia, in quanto altera leidee (= impressioni) conservate nella memoria, agisce suglispiriti animali che si distribuiscono nei muscoli e così deter-mina tutti quei movimenti che le membra possono compiereindipendentemente dalla volontà, sia per rispondere all’azioneche oggetti esterni esercitano sui sensi, sia sotto l’impulso dieccitamenti interni. Tutti i processi e le azioni di cui si parlahanno carattere esclusivamente meccanico e non implicano al-cun grado di consapevolezza.

253 La trattazione seguente, che mira a distinguere radicalmentel’organismo animale, concepito come una macchina priva dicoscienza, dall’uomo che possiede un’anima ragionevole cheha per attributo (cioè per determinazione essenziale) il pensie-ro, ossia la consapevolezza, manca nel Mondo. Sviluppando lasua tesi che gli animali sono puri e semplici automi, il D. po-

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che, se vi fossero macchine tali che avessero gli organi ela figura d’una scimmia, o di qualche altro animale sen-za ragione, non avremmo mezzo alcuno per riconoscereche non fossero in tutto della stessa natura di quegli ani-mali, mentre che, se ve ne fossero che assomigliasseroai nostri corpi, e imitassero le nostre azioni tanto, quan-to moralmente fosse possibile, avremmo sempre duemezzi certissimi per riconoscere che non sarebbero perquesto dei veri uomini. Il primo di essi è che mai essepotrebbero servirsi di parole, nè d’altri segni, compo-nendoli, come noi facciamo per manifestare agli altri inostri pensieri. Perchè si può concepire che una macchi-na sia fatta in modo tale da proferire parole, e anzi chene proferisca alcune a proposito delle azioni corporeeche causino qualche cambiamento nei suoi organi:come, se la si tocca in qualche posto, che essa domandiche cosa le si vuol dire; se in un altro, che gridi che le sifa male, e simili; ma non che le ordini diversamente perrispondere al senso di tutto quel che si dirà in sua pre-senza, come gli uomini più ebeti possono fare. E il se-condo è che, se anche facessero molte cose altrettantobene o forse meglio di uno di noi, sbaglierebbero infalli-bilmente in alcune altre, mediante le quali si scoprirebbeche non agiscono per conoscenza, ma solo per la dispo-sizione dei loro organi. Perchè, mentre la ragione è uno

lemizza contro il Montaigne che nell’Apologia di RaimondoSebond (Essais, II, 12) aveva cercato di avvicinare gli animaliall’uomo e di mostrare che non mancano di ragione, ma neposseggono una inferiore alla nostra.

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che, se vi fossero macchine tali che avessero gli organi ela figura d’una scimmia, o di qualche altro animale sen-za ragione, non avremmo mezzo alcuno per riconoscereche non fossero in tutto della stessa natura di quegli ani-mali, mentre che, se ve ne fossero che assomigliasseroai nostri corpi, e imitassero le nostre azioni tanto, quan-to moralmente fosse possibile, avremmo sempre duemezzi certissimi per riconoscere che non sarebbero perquesto dei veri uomini. Il primo di essi è che mai essepotrebbero servirsi di parole, nè d’altri segni, compo-nendoli, come noi facciamo per manifestare agli altri inostri pensieri. Perchè si può concepire che una macchi-na sia fatta in modo tale da proferire parole, e anzi chene proferisca alcune a proposito delle azioni corporeeche causino qualche cambiamento nei suoi organi:come, se la si tocca in qualche posto, che essa domandiche cosa le si vuol dire; se in un altro, che gridi che le sifa male, e simili; ma non che le ordini diversamente perrispondere al senso di tutto quel che si dirà in sua pre-senza, come gli uomini più ebeti possono fare. E il se-condo è che, se anche facessero molte cose altrettantobene o forse meglio di uno di noi, sbaglierebbero infalli-bilmente in alcune altre, mediante le quali si scoprirebbeche non agiscono per conoscenza, ma solo per la dispo-sizione dei loro organi. Perchè, mentre la ragione è uno

lemizza contro il Montaigne che nell’Apologia di RaimondoSebond (Essais, II, 12) aveva cercato di avvicinare gli animaliall’uomo e di mostrare che non mancano di ragione, ma neposseggono una inferiore alla nostra.

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strumento universale, che può servire in ogni specie dioccasioni, quegli organi hanno bisogno di qualche parti-colare disposizione per ogni azione particolare; dondederiva che è moralmente impossibile254 che ve ne sianoin una macchina tanti quanti bastino per farla agire intutte le occorrenze della vita, come la nostra ragione cifa agire.

Ora, con questi due stessi mezzi si può anche cono-scere la differenza che c’è tra gli uomini e le bestie. Per-chè è una cosa molto notevole che non ci siano uominicosì ebeti e così stupidi, senza eccettuarne neppure gliinsensati, che non siano capaci di combinare insieme di-verse parole e di comporre un discorso con cui possanofare intendere i loro pensieri: e che, al contrario, non cisia altro animale, per quanto perfetto e felicemente natopossa essere, che faccia lo stesso. E questo non accadeperchè manchino d’organi, perchè si vede che le gazze ei pappagalli possono proferir parole come noi, e tuttavianon possono parlare come noi, cioè mostrando di pensa-re quel che dicono; mentre gli uomini che, essendo natisordi e muti, sono privi degli organi che servono agli al-tri per parlare, altrettanto o più delle bestie, sogliono in-ventare essi stessi qualche segno, con cui si fanno capireda quelli che, essendo ordinariamente con loro, hannoagio d’apprendere la loro lingua. E questo non testimo-nia soltanto che le bestie hanno minor ragione degli uo-

254 La cosa, sebbene non impossibile in sè, è però, come chiari-sce la versione latina, affatto inverosimile.

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strumento universale, che può servire in ogni specie dioccasioni, quegli organi hanno bisogno di qualche parti-colare disposizione per ogni azione particolare; dondederiva che è moralmente impossibile254 che ve ne sianoin una macchina tanti quanti bastino per farla agire intutte le occorrenze della vita, come la nostra ragione cifa agire.

Ora, con questi due stessi mezzi si può anche cono-scere la differenza che c’è tra gli uomini e le bestie. Per-chè è una cosa molto notevole che non ci siano uominicosì ebeti e così stupidi, senza eccettuarne neppure gliinsensati, che non siano capaci di combinare insieme di-verse parole e di comporre un discorso con cui possanofare intendere i loro pensieri: e che, al contrario, non cisia altro animale, per quanto perfetto e felicemente natopossa essere, che faccia lo stesso. E questo non accadeperchè manchino d’organi, perchè si vede che le gazze ei pappagalli possono proferir parole come noi, e tuttavianon possono parlare come noi, cioè mostrando di pensa-re quel che dicono; mentre gli uomini che, essendo natisordi e muti, sono privi degli organi che servono agli al-tri per parlare, altrettanto o più delle bestie, sogliono in-ventare essi stessi qualche segno, con cui si fanno capireda quelli che, essendo ordinariamente con loro, hannoagio d’apprendere la loro lingua. E questo non testimo-nia soltanto che le bestie hanno minor ragione degli uo-

254 La cosa, sebbene non impossibile in sè, è però, come chiari-sce la versione latina, affatto inverosimile.

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mini, ma che non ne hanno affatto. Perchè si vede chece ne vuole molto poca per poter parlare; e siccome siosserva una certa disuguaglianza tra gli animali d’unastessa specie, come anche tra gli uomini, e che gli unisono più facili ad ammaestrare degli altri, non è credibi-le che una scimmia o un pappagallo, che fosse tra i piùperfetti della propria specie, non riuscisse pari in questoa un bambino tra i più stupidi, o almeno a un bambinoche avesse il cervello sconvolto, se la loro anima nonfosse d’una natura del tutto diversa dalla nostra. E nonsi debbono confondere le parole coi movimenti naturali,i quali attestano le passioni, e possono essere imitati damacchine, non meno che dagli animali; nè si deve pen-sare, come alcuni antichi255, che le bestie parlino, benchènoi non intendiamo il loro linguaggio: che, se ciò fossevero, siccome hanno molti organi che rassomigliano ainostri, potrebbero farsi intendere tanto bene da noiquanto dai loro simili. È anche una cosa molto notevoleche, benchè vi siano molti animali i quali manifestanomaggiore abilità di noi in alcune delle loro azioni, sivede tuttavia che gli stessi animali non ne mostrano af-fatto in molte altre: di modo che ciò ch’essi fanno me-glio di noi non prova ch’essi posseggano ragione256: per-chè, in tal caso, ne avrebbero più di ciascuno di noi eagirebbero meglio in ogni cosa: ma prova piuttosto che

255 Il D. allude a Lucrezio (De rerum natura V, vv.1056-1090)citato del Montaigne, nel passo ricordato precedentemente.

256 Il testo porta esprit; la versione latina determina il significatodi questa parola, con l’espressione ratio.

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mini, ma che non ne hanno affatto. Perchè si vede chece ne vuole molto poca per poter parlare; e siccome siosserva una certa disuguaglianza tra gli animali d’unastessa specie, come anche tra gli uomini, e che gli unisono più facili ad ammaestrare degli altri, non è credibi-le che una scimmia o un pappagallo, che fosse tra i piùperfetti della propria specie, non riuscisse pari in questoa un bambino tra i più stupidi, o almeno a un bambinoche avesse il cervello sconvolto, se la loro anima nonfosse d’una natura del tutto diversa dalla nostra. E nonsi debbono confondere le parole coi movimenti naturali,i quali attestano le passioni, e possono essere imitati damacchine, non meno che dagli animali; nè si deve pen-sare, come alcuni antichi255, che le bestie parlino, benchènoi non intendiamo il loro linguaggio: che, se ciò fossevero, siccome hanno molti organi che rassomigliano ainostri, potrebbero farsi intendere tanto bene da noiquanto dai loro simili. È anche una cosa molto notevoleche, benchè vi siano molti animali i quali manifestanomaggiore abilità di noi in alcune delle loro azioni, sivede tuttavia che gli stessi animali non ne mostrano af-fatto in molte altre: di modo che ciò ch’essi fanno me-glio di noi non prova ch’essi posseggano ragione256: per-chè, in tal caso, ne avrebbero più di ciascuno di noi eagirebbero meglio in ogni cosa: ma prova piuttosto che

255 Il D. allude a Lucrezio (De rerum natura V, vv.1056-1090)citato del Montaigne, nel passo ricordato precedentemente.

256 Il testo porta esprit; la versione latina determina il significatodi questa parola, con l’espressione ratio.

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non ne hanno affatto, e che in essi agisce la natura, se-condo la disposizione dei loro organi; così si vede cheun orologio, che è composto soltanto di ruote e di molle,può contare le ore, e misurare il tempo, più precisamen-te di noi con tutta la nostra prudenza.

Avevo descritto, dopo questo257, l’anima ragionevole,e fatto vedere che non può in nessun modo essere trattadalla potenza della materia, come le altre cose di cuiavevo parlato, ma che essa deve esser creata espressa-mente e che non basta che sia alloggiata nel corpo uma-no, come un pilota nella sua nave,258 se non forse permuovere le sue membra, ma che occorre che sia con-

257 Questa trattazione, annunciata dal D. all’inizio del Trattatodell’uomo (ossia nell’ultima parte del Mondo), manca nel te-sto che ce ne resta.

258 Questo paragone si trova in un testo di Aristotele (De anima,II, 4, 413 a, 8-9) che suscita difficoltà di interpretazione; infat-ti occorre trovarne una spiegazione conforme alla teoria fon-damentale del suo autore che considera l’anima come la formadel corpo che si unisce ad esso per costituire una sostanza uni-taria. S. Tommaso attribuisce invece quel paragone a Platonee vi trova l’espressione della dottrina di questo (da lui critica-ta) che, vedendo nel corpo umano uno strumento dell’anima,concepisce la loro unione come accidentale e così fadell’uomo un ens per accidens, non un ens per se. Nello stes-so modo il D. si serve di quel paragone tradizionale per op-porre a tale dottrina la propria, che, pure considerando etero-genee la sostanza pensante e l’estesa, afferma che essenell’uomo si uniscono realiter et substantialiter. (Per i proble-mi che questa concezione fa sorgere entro il sistema cartesia-no cf. Introd., p. XL [pag. 59 di questa edizione Manuzio]).

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non ne hanno affatto, e che in essi agisce la natura, se-condo la disposizione dei loro organi; così si vede cheun orologio, che è composto soltanto di ruote e di molle,può contare le ore, e misurare il tempo, più precisamen-te di noi con tutta la nostra prudenza.

Avevo descritto, dopo questo257, l’anima ragionevole,e fatto vedere che non può in nessun modo essere trattadalla potenza della materia, come le altre cose di cuiavevo parlato, ma che essa deve esser creata espressa-mente e che non basta che sia alloggiata nel corpo uma-no, come un pilota nella sua nave,258 se non forse permuovere le sue membra, ma che occorre che sia con-

257 Questa trattazione, annunciata dal D. all’inizio del Trattatodell’uomo (ossia nell’ultima parte del Mondo), manca nel te-sto che ce ne resta.

258 Questo paragone si trova in un testo di Aristotele (De anima,II, 4, 413 a, 8-9) che suscita difficoltà di interpretazione; infat-ti occorre trovarne una spiegazione conforme alla teoria fon-damentale del suo autore che considera l’anima come la formadel corpo che si unisce ad esso per costituire una sostanza uni-taria. S. Tommaso attribuisce invece quel paragone a Platonee vi trova l’espressione della dottrina di questo (da lui critica-ta) che, vedendo nel corpo umano uno strumento dell’anima,concepisce la loro unione come accidentale e così fadell’uomo un ens per accidens, non un ens per se. Nello stes-so modo il D. si serve di quel paragone tradizionale per op-porre a tale dottrina la propria, che, pure considerando etero-genee la sostanza pensante e l’estesa, afferma che essenell’uomo si uniscono realiter et substantialiter. (Per i proble-mi che questa concezione fa sorgere entro il sistema cartesia-no cf. Introd., p. XL [pag. 59 di questa edizione Manuzio]).

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giunta e unita più strettamente con esso, per avere, inol-tre, sentimenti e appetiti simili ai nostri,259 e così com-porre un vero uomo260. Del resto, mi sono qui un po’ dif-fuso sull’argomento dell’anima, perchè è tra i più im-portanti; infatti, dopo l’errore di quelli che negano Dio,che penso d’avere precedentemente confutato abbastan-za, non ve n’è alcuno che allontani gli spiriti deboli dal-la retta via della virtù, più dell’immaginare che l’animadelle bestie sia della stessa natura della nostra, e che, perconseguenza, non abbiamo nulla nè da temere, nè dasperare, dopo questa vita, più delle mosche e delle for-miche; mentre, quando si sa quanto differiscono, sicomprendono molto meglio le ragioni, le quali provanoche la nostra è d’una natura interamente indipendentedal corpo e, che, per conseguenza, non è soggetta a mo-rire con esso261: e poi, in quanto non si veggono altre

259 I sentimenti (= sensazioni) e gli appetiti (= passioni) in quan-to stati coscienti, sono pensieri e appartengono all’anima; mail loro contenuto è privo di chiarezza c di distinzione, e perciònon può provenire dall’intimo della sostanza pensante. Perspiegare la presenza di quelli stati nell’uomo occorre ammet-tere l’unione reale e sostanziale dell’anima e del corpo; infattisi può dar ragione della confusione di tali stati per mezzodell’azione esercitata da questo su quella.

260 Cioè un ens per se, in cui anima e corpo sono uniti realiter etsubstantialiter.

261 Dell’immortalità dell’anima il D. tratta sempre brevemente edi solito si limita a dire (come fa nel Discorso) che dalla di-stinzione di natura dell’anima e del corpo deriva la conse-guenza che la corruzione del secondo non implica la morte

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giunta e unita più strettamente con esso, per avere, inol-tre, sentimenti e appetiti simili ai nostri,259 e così com-porre un vero uomo260. Del resto, mi sono qui un po’ dif-fuso sull’argomento dell’anima, perchè è tra i più im-portanti; infatti, dopo l’errore di quelli che negano Dio,che penso d’avere precedentemente confutato abbastan-za, non ve n’è alcuno che allontani gli spiriti deboli dal-la retta via della virtù, più dell’immaginare che l’animadelle bestie sia della stessa natura della nostra, e che, perconseguenza, non abbiamo nulla nè da temere, nè dasperare, dopo questa vita, più delle mosche e delle for-miche; mentre, quando si sa quanto differiscono, sicomprendono molto meglio le ragioni, le quali provanoche la nostra è d’una natura interamente indipendentedal corpo e, che, per conseguenza, non è soggetta a mo-rire con esso261: e poi, in quanto non si veggono altre

259 I sentimenti (= sensazioni) e gli appetiti (= passioni) in quan-to stati coscienti, sono pensieri e appartengono all’anima; mail loro contenuto è privo di chiarezza c di distinzione, e perciònon può provenire dall’intimo della sostanza pensante. Perspiegare la presenza di quelli stati nell’uomo occorre ammet-tere l’unione reale e sostanziale dell’anima e del corpo; infattisi può dar ragione della confusione di tali stati per mezzodell’azione esercitata da questo su quella.

260 Cioè un ens per se, in cui anima e corpo sono uniti realiter etsubstantialiter.

261 Dell’immortalità dell’anima il D. tratta sempre brevemente edi solito si limita a dire (come fa nel Discorso) che dalla di-stinzione di natura dell’anima e del corpo deriva la conse-guenza che la corruzione del secondo non implica la morte

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cause che la distruggono, si è naturalmente portati a giu-dicare da questo che è immortale.

della prima. L’argomento trova qualche ulteriore sviluppo nelRiassunto delle Meditazioni (che è premesso a queste), e nelleRisposte alle 2e Obbiezioni, in cui il D., per spiegare la brevitàdella propria trattazione in quell’opera, afferma che per dimo-strare pienamente l’immortalità occorrerebbe partire da duepremesse che richiedono la conoscenza completa della fisica:1ª tutte le sostanze sono incorruttibili e soltanto Dio può an-nientarle, 2ª il corpo in generale, cioè la somma totale dei cor-pi particolari, è una sostanza e perciò non perisce, mentresono perituri questi ultimi, (incluso l’organismo umano), chenon sono sostanze, ma soltanto composizioni di parti e diven-tano diversi da quello che erano quando cambiano le figure dialcune di esse. Invece l’anima è una pura sostanza e, anche secambiano tutte le sue idee, le sue volontà ecc., rimane semprela stessa. (Queste dichiarazioni sorprendono alquanto, sia per-chè, il principio della indistruttibilità della sostanza sembrapiuttosto metafisico che fisico, sia perchè il D., anche dopoavere nel 1644 esposto nei Principî la propria teoria della na-tura, non aggiunse novi sviluppi a quanto aveva dettosull’immortalità. Nelle Risposte alle 2e Obbiezioni il D. ag-giunse che la ragione umana non può escludere la possibilitàche Dio abbia creato le anime umane di tale natura da non esi-stere più quando sono distrutti i corpi ai quali sono uniti. Laquestione può essere risolta soltanto dalla rivelazione, la qualeinsegna che ciò non accadrà. In conclusione, il D. ritiene che,se non si considera una possibilità che oltrepassa i limiti della

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cause che la distruggono, si è naturalmente portati a giu-dicare da questo che è immortale.

della prima. L’argomento trova qualche ulteriore sviluppo nelRiassunto delle Meditazioni (che è premesso a queste), e nelleRisposte alle 2e Obbiezioni, in cui il D., per spiegare la brevitàdella propria trattazione in quell’opera, afferma che per dimo-strare pienamente l’immortalità occorrerebbe partire da duepremesse che richiedono la conoscenza completa della fisica:1ª tutte le sostanze sono incorruttibili e soltanto Dio può an-nientarle, 2ª il corpo in generale, cioè la somma totale dei cor-pi particolari, è una sostanza e perciò non perisce, mentresono perituri questi ultimi, (incluso l’organismo umano), chenon sono sostanze, ma soltanto composizioni di parti e diven-tano diversi da quello che erano quando cambiano le figure dialcune di esse. Invece l’anima è una pura sostanza e, anche secambiano tutte le sue idee, le sue volontà ecc., rimane semprela stessa. (Queste dichiarazioni sorprendono alquanto, sia per-chè, il principio della indistruttibilità della sostanza sembrapiuttosto metafisico che fisico, sia perchè il D., anche dopoavere nel 1644 esposto nei Principî la propria teoria della na-tura, non aggiunse novi sviluppi a quanto aveva dettosull’immortalità. Nelle Risposte alle 2e Obbiezioni il D. ag-giunse che la ragione umana non può escludere la possibilitàche Dio abbia creato le anime umane di tale natura da non esi-stere più quando sono distrutti i corpi ai quali sono uniti. Laquestione può essere risolta soltanto dalla rivelazione, la qualeinsegna che ciò non accadrà. In conclusione, il D. ritiene che,se non si considera una possibilità che oltrepassa i limiti della

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PARTE SESTAQUALI COSE SONO RICHIESTE PER PROGREDIRE NELLA RICERCA

DELLA NATURA

Tre anni or sono262 ero giunto alla fine del trattato checontiene tutte queste cose, e cominciavo a rivederlo permetterlo nelle mani di uno stampatore, quando seppi chealcune persone263, alle quali sono deferente e la cui auto-rità non ha sulle mie azioni minore potenza della miapropria ragione sui miei pensieri, avevano disapprovatoun’opinione di fisica, pubblicata un po’ prima da altri,alla quale non voglio dire che io aderissi,264 ma nella

ragione naturale, si può ritenere razionalmente dimostrabilel’immortalità dell’anima.

262 Il Discorso, pubblicato nel 1637, venne portato a termine nelmarzo del 1636; perciò il Mondo era stato finito nel 1633.

263 I membri del tribunale dell’Inquisizione, che nel 1632 aveva-no condannato Galileo perchè nel Dialogo sopra i due massi-mi sistemi del mondo aveva sostenuto la teoria eliocentrica diCopernico. Cfr. nota 2 della p. 69 e Intr., p. XII [nota 205 epag. 15 di questa edizione Manuzio].

264 In una lettera al P. Mersenne (fine novembre 1633) il D., par-lando della condanna di Galileo, osservava: «confesso che seè falso [il movimento della terra], tutti i fondamenti della miafilosofia sono pure tali, perchè per mezzo di essi si dimostraassai evidentemente. Ed è collegato talmente con tutte le partidel mio Trattato, che non saprei separarnelo senza rendere ilresto completamente difettoso». Il Gilson spiega le parole deltesto osservando che il D. (il quale pubblicava il Discorsosperando di potere con esso determinare a Roma un mutamen-

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PARTE SESTAQUALI COSE SONO RICHIESTE PER PROGREDIRE NELLA RICERCA

DELLA NATURA

Tre anni or sono262 ero giunto alla fine del trattato checontiene tutte queste cose, e cominciavo a rivederlo permetterlo nelle mani di uno stampatore, quando seppi chealcune persone263, alle quali sono deferente e la cui auto-rità non ha sulle mie azioni minore potenza della miapropria ragione sui miei pensieri, avevano disapprovatoun’opinione di fisica, pubblicata un po’ prima da altri,alla quale non voglio dire che io aderissi,264 ma nella

ragione naturale, si può ritenere razionalmente dimostrabilel’immortalità dell’anima.

262 Il Discorso, pubblicato nel 1637, venne portato a termine nelmarzo del 1636; perciò il Mondo era stato finito nel 1633.

263 I membri del tribunale dell’Inquisizione, che nel 1632 aveva-no condannato Galileo perchè nel Dialogo sopra i due massi-mi sistemi del mondo aveva sostenuto la teoria eliocentrica diCopernico. Cfr. nota 2 della p. 69 e Intr., p. XII [nota 205 epag. 15 di questa edizione Manuzio].

264 In una lettera al P. Mersenne (fine novembre 1633) il D., par-lando della condanna di Galileo, osservava: «confesso che seè falso [il movimento della terra], tutti i fondamenti della miafilosofia sono pure tali, perchè per mezzo di essi si dimostraassai evidentemente. Ed è collegato talmente con tutte le partidel mio Trattato, che non saprei separarnelo senza rendere ilresto completamente difettoso». Il Gilson spiega le parole deltesto osservando che il D. (il quale pubblicava il Discorsosperando di potere con esso determinare a Roma un mutamen-

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quale non avevo nulla notato, prima della loro censura,che potessi immaginare pregiudizievole nè alla Religio-ne nè allo Stato, nè, per conseguenza, nulla che avessepotuto impedirmi di scriverla, se la ragione me ne aves-se persuaso; e questo mi fece temere che se ne trovasseegualmente tra le mie qualcuna, in cui mi fossi sbaglia-to, nonostante la grande cura che ho sempre avuto dinon accoglierne delle nuove tra le mie credenze, di cuinon avessi dimostrazioni certissime, e di non scrivernenessuna che potesse volgersi a danno di qualcuno. Ciò èbastato ad obbligarmi a cambiare la risoluzione che ave-vo preso di pubblicarle. Perchè, sebbene le ragioni, percui prima l’avevo presa, fossero fortissime, la mia ten-denza naturale, che mi ha sempre fatto odiare il mestiere

to di opinioni che gli avesse permesso di dare alle stampe ilMondo) non poteva ancora dichiararsi fautore della teoria co-pernicana. Questa tesi però da una parte (accettando troppo in-condizionatamente certe dichiarazioni del Discorso) discono-sce l’esigenza che il D. provava di fondare razionalmente lascienza matematica della natura per mezzo di una ricerca gno-seologica e metafisica e così accorda al Discorso un valorepuramente strumentale, e dall’altra non libera l’autoredall’accusa di poca sincerità. Giustamente invece lo stessostudioso ricorda che la morale provvisoria accettata dal D. gliprescriveva di obbedire alle leggi e al costume del sue paese edi conservare costantemente la religione in cui era nato (v. p.42 [pag. 131 di questa edizione Manuzio]): perciò, non profes-sando pubblicamente una opinione conclamata dalla Chiesa,poteva ritenere di compiere il suo dovere di credente e di cit-tadino. Però, è difficile escludere l’azione di motivi personalidi prudenza.

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quale non avevo nulla notato, prima della loro censura,che potessi immaginare pregiudizievole nè alla Religio-ne nè allo Stato, nè, per conseguenza, nulla che avessepotuto impedirmi di scriverla, se la ragione me ne aves-se persuaso; e questo mi fece temere che se ne trovasseegualmente tra le mie qualcuna, in cui mi fossi sbaglia-to, nonostante la grande cura che ho sempre avuto dinon accoglierne delle nuove tra le mie credenze, di cuinon avessi dimostrazioni certissime, e di non scrivernenessuna che potesse volgersi a danno di qualcuno. Ciò èbastato ad obbligarmi a cambiare la risoluzione che ave-vo preso di pubblicarle. Perchè, sebbene le ragioni, percui prima l’avevo presa, fossero fortissime, la mia ten-denza naturale, che mi ha sempre fatto odiare il mestiere

to di opinioni che gli avesse permesso di dare alle stampe ilMondo) non poteva ancora dichiararsi fautore della teoria co-pernicana. Questa tesi però da una parte (accettando troppo in-condizionatamente certe dichiarazioni del Discorso) discono-sce l’esigenza che il D. provava di fondare razionalmente lascienza matematica della natura per mezzo di una ricerca gno-seologica e metafisica e così accorda al Discorso un valorepuramente strumentale, e dall’altra non libera l’autoredall’accusa di poca sincerità. Giustamente invece lo stessostudioso ricorda che la morale provvisoria accettata dal D. gliprescriveva di obbedire alle leggi e al costume del sue paese edi conservare costantemente la religione in cui era nato (v. p.42 [pag. 131 di questa edizione Manuzio]): perciò, non profes-sando pubblicamente una opinione conclamata dalla Chiesa,poteva ritenere di compiere il suo dovere di credente e di cit-tadino. Però, è difficile escludere l’azione di motivi personalidi prudenza.

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di fare libri, me ne fece subito trovar altre sufficienti aesimermene. E queste ragioni pro e contro sono tali chenon soltanto io ho qui qualche interesse a dirle, ma forseanche il pubblico ne ha a saperle.

Non ho mai fatto molto conto delle cose che proveni-vano dalla mia intelligenza265, e finchè non ho raccoltodal metodo di cui mi servo altri frutti, se non che misono soddisfatto risolvendo alcune difficoltà che appar-tengono alle scienze speculative, e ho cercato di regola-re i miei costumi secondo le ragioni che esso m’inse-gnava, non ho creduto d’essere obbligato a scrivernenulla. Perchè, per quello che riguarda i costumi, ciascu-no esagera tanto nella propria opinione, che si potrebbe-ro trovare tanti riformatori quante teste, se fosse per-messo ad altri che a quelli che Dio ha posto come sovra-ni sui suoi popoli, o a coloro cui ha dato grazia e zelosufficienti per essere profeti, di intraprendere di cam-biarvi qualcosa; e benchè le mie speculazioni mi piaces-sero molto, ho creduto che anche gli altri ne avesseroche piacessero loro forse di più. Ma, appena che ebbiacquistato alcune nozioni generali su la fisica, e avendocominciato a metterle alla prova in diverse difficoltàparticolari, ho osservato fin dove possono condurre, e

265 Si può avere qualche dubbio sulla sincerità di questa dichia-razione, se si tiene conto del modo con cui il D. respinge leobbiezioni dei suoi critici e dei giudizi che ne dà nelle lettereprivate. E si può dubitare anche del valore della dichiarazioneseguente, che con le proprie ricerche egli pensava soltanto asoddisfare sè stesso.

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di fare libri, me ne fece subito trovar altre sufficienti aesimermene. E queste ragioni pro e contro sono tali chenon soltanto io ho qui qualche interesse a dirle, ma forseanche il pubblico ne ha a saperle.

Non ho mai fatto molto conto delle cose che proveni-vano dalla mia intelligenza265, e finchè non ho raccoltodal metodo di cui mi servo altri frutti, se non che misono soddisfatto risolvendo alcune difficoltà che appar-tengono alle scienze speculative, e ho cercato di regola-re i miei costumi secondo le ragioni che esso m’inse-gnava, non ho creduto d’essere obbligato a scrivernenulla. Perchè, per quello che riguarda i costumi, ciascu-no esagera tanto nella propria opinione, che si potrebbe-ro trovare tanti riformatori quante teste, se fosse per-messo ad altri che a quelli che Dio ha posto come sovra-ni sui suoi popoli, o a coloro cui ha dato grazia e zelosufficienti per essere profeti, di intraprendere di cam-biarvi qualcosa; e benchè le mie speculazioni mi piaces-sero molto, ho creduto che anche gli altri ne avesseroche piacessero loro forse di più. Ma, appena che ebbiacquistato alcune nozioni generali su la fisica, e avendocominciato a metterle alla prova in diverse difficoltàparticolari, ho osservato fin dove possono condurre, e

265 Si può avere qualche dubbio sulla sincerità di questa dichia-razione, se si tiene conto del modo con cui il D. respinge leobbiezioni dei suoi critici e dei giudizi che ne dà nelle lettereprivate. E si può dubitare anche del valore della dichiarazioneseguente, che con le proprie ricerche egli pensava soltanto asoddisfare sè stesso.

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quanto differiscono dai principî di cui ci si è serviti fino-ra, ho creduto di non poterle tener nascoste, senza pec-care grandemente contro la legge che ci obbliga a pro-curare, per quanto è in noi, il bene generale di tutti gliuomini. Poichè esse mi hanno fatto vedere che è possi-bile giungere a conoscenze utilissime alla vita, e che in-vece di quella filosofia speculativa che s’insegna nellescuole, se ne può trovare una pratica, per mezzo dellaquale, conoscendo la forza e le azioni del fuoco,dell’acqua, dell’aria, degli astri, dei cieli, e di tutti gli al-tri corpi che ci circondano, così distintamente come co-nosciamo le diverse arti dei nostri artigiani, potremmoimpiegarle nello stesso modo in tutti gli usi a cui sonoadatte, e renderci così come padroni e possessori dellanatura. Ciò che non si deve soltanto desiderare perl’invenzione d’un’infinità di congegni, i quali ci fareb-bero, senza difficoltà alcuna, godere dei frutti della ter-ra, e di tutti i vantaggi che vi si trovano, ma principal-mente anche per la conservazione della salute, che èsenza dubbio il primo bene e il fondamento di tutti glialtri beni di questa vita: perchè anche lo spirito dipendetanto dal temperamento, e dalla disposizione degli orga-ni del corpo che, se è possibile trovare qualche mezzoche renda comunemente gli uomini più saggi e più abiliche non siano stati finora, io credo si debba cercarlo nel-la medicina. È vero che quella che è ora in uso contienepoche cose la cui utilità sia così notevole; ma, senz’avernessuna intenzione di disprezzarla, sono sicuro che nonc’è nessuno, anche fra coloro che ne fanno professione,

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quanto differiscono dai principî di cui ci si è serviti fino-ra, ho creduto di non poterle tener nascoste, senza pec-care grandemente contro la legge che ci obbliga a pro-curare, per quanto è in noi, il bene generale di tutti gliuomini. Poichè esse mi hanno fatto vedere che è possi-bile giungere a conoscenze utilissime alla vita, e che in-vece di quella filosofia speculativa che s’insegna nellescuole, se ne può trovare una pratica, per mezzo dellaquale, conoscendo la forza e le azioni del fuoco,dell’acqua, dell’aria, degli astri, dei cieli, e di tutti gli al-tri corpi che ci circondano, così distintamente come co-nosciamo le diverse arti dei nostri artigiani, potremmoimpiegarle nello stesso modo in tutti gli usi a cui sonoadatte, e renderci così come padroni e possessori dellanatura. Ciò che non si deve soltanto desiderare perl’invenzione d’un’infinità di congegni, i quali ci fareb-bero, senza difficoltà alcuna, godere dei frutti della ter-ra, e di tutti i vantaggi che vi si trovano, ma principal-mente anche per la conservazione della salute, che èsenza dubbio il primo bene e il fondamento di tutti glialtri beni di questa vita: perchè anche lo spirito dipendetanto dal temperamento, e dalla disposizione degli orga-ni del corpo che, se è possibile trovare qualche mezzoche renda comunemente gli uomini più saggi e più abiliche non siano stati finora, io credo si debba cercarlo nel-la medicina. È vero che quella che è ora in uso contienepoche cose la cui utilità sia così notevole; ma, senz’avernessuna intenzione di disprezzarla, sono sicuro che nonc’è nessuno, anche fra coloro che ne fanno professione,

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il quale non confessi che tutto quello che in essa si sa èquasi niente a paragone di quello che rimane da sapere,e che ci si potrebbe preservare da un’infinità di malattie,tanto del corpo quanto dello spirito, e perfino, forse,dall’indebolimento della vecchiaia, se si avesse cono-scenza sufficiente delle loro cause, e di tutti i rimedi dicui la natura ci ha provvisti266.

Ora, avendo intenzione d’impiegare tutta la mia vitaalla ricerca d’una scienza così necessaria,267 ed essendo-mi imbattuto in una via tale, mi sembra, che seguendolala si debba infallibilmente trovare a meno che non se nesia impediti o dalla brevità della vita o dalla mancanzad’esperienze, giudicai che non c’era miglior rimediocontro questi due impedimenti, che comunicare fedel-

266 Per confronti che si possono fare con l’utilitarismo umanisti-co di F. Bacone, v. Introd. pp. XX-XXI e pp. XLIII-XLIV[pagg. 28-29 e 65-66di questa edizione Manuzio].

267 Effettivamente il D., dal 1630 in poi, si interessò sempre del-la medicina, sebbene limitasse in misura crescente le propriesperanze; ma si può sospettare che nel Discorso egli abbia al-quanto esagerato parlando della sua intenzione di consacraretutta la vita allo studio di essa. Forse, il D. ha accentuato inquest’opera le proprie preoccupazioni utilitaristiche in genera-le (che certamente esistevano ed erano molto forti) per attirarepiù facilmente l’attenzione del pubblico sulle proprie ricerche.È certo in ogni modo che in seguito (come risulta dalla prefa-zione ai Principî) egli da una parte continuava a mettere inevidenza la finalità utilitaria del sapere mentre dall’altra loesaltava per il suo valore interiore. (Cfr. Introd. p. XLIV [pag.66 di questa edizione Manuzio]).

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il quale non confessi che tutto quello che in essa si sa èquasi niente a paragone di quello che rimane da sapere,e che ci si potrebbe preservare da un’infinità di malattie,tanto del corpo quanto dello spirito, e perfino, forse,dall’indebolimento della vecchiaia, se si avesse cono-scenza sufficiente delle loro cause, e di tutti i rimedi dicui la natura ci ha provvisti266.

Ora, avendo intenzione d’impiegare tutta la mia vitaalla ricerca d’una scienza così necessaria,267 ed essendo-mi imbattuto in una via tale, mi sembra, che seguendolala si debba infallibilmente trovare a meno che non se nesia impediti o dalla brevità della vita o dalla mancanzad’esperienze, giudicai che non c’era miglior rimediocontro questi due impedimenti, che comunicare fedel-

266 Per confronti che si possono fare con l’utilitarismo umanisti-co di F. Bacone, v. Introd. pp. XX-XXI e pp. XLIII-XLIV[pagg. 28-29 e 65-66di questa edizione Manuzio].

267 Effettivamente il D., dal 1630 in poi, si interessò sempre del-la medicina, sebbene limitasse in misura crescente le propriesperanze; ma si può sospettare che nel Discorso egli abbia al-quanto esagerato parlando della sua intenzione di consacraretutta la vita allo studio di essa. Forse, il D. ha accentuato inquest’opera le proprie preoccupazioni utilitaristiche in genera-le (che certamente esistevano ed erano molto forti) per attirarepiù facilmente l’attenzione del pubblico sulle proprie ricerche.È certo in ogni modo che in seguito (come risulta dalla prefa-zione ai Principî) egli da una parte continuava a mettere inevidenza la finalità utilitaria del sapere mentre dall’altra loesaltava per il suo valore interiore. (Cfr. Introd. p. XLIV [pag.66 di questa edizione Manuzio]).

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mente al pubblico tutto il poco che io avrei trovato, e diinvitare i buoni ingegni a cercar di andar oltre, contri-buendo ciascuno secondo la propria disposizione natura-le e la propria possibilità, alle esperienze che occorre-rebbe fare, e comunicando anche al pubblico tutte lecose che essi apprenderebbero, affinchè, cominciandogli ultimi dove i precedenti avessero finito, e così unen-do le vite e le fatiche di molti, andassimo tutti insiememolto più lontano di quel che ciascuno in particolare po-trebbe fare268.

Osservavo anzi, riguardo alle esperienze, che sonotanto più necessarie quanto più si è progrediti nella co-noscenza. Perchè, per cominciare, è preferibile servirsisolo di quelle che si presentano da sè ai nostri sensi, eche non potremmo ignorare se soltanto riflettessimo unpoco su di esse, anzichè cercarne di più rare e studia-te269: e la ragione di questo è che le più rare ingannanospesso quando non si conoscono ancora le cause delle

268 Sulla necessità della collaborazione fra i ricercatori insistettefortemente prima del D. F. Bacone, specialmente nella NuovaAtlantide (New Atlantis: 1627).

269 Étudiées. Nella versione latina Abstrusiores = più difficili daspiegare.

Anche F. Bacone aveva affermato che le esperienze familiari ecomuni sono utili per interpretare la natura quanto e più dellemeno frequenti (De Dignitate et Augmentis Scientiarum, II,2). Le affinità di pensiero che abbiamo osservato fra i due fi-losofi fanno supporre che in questa parte del Discorso il D.abbia subito l’influsso del suo predecessore inglese che egliconosceva e ricordava con lode.

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mente al pubblico tutto il poco che io avrei trovato, e diinvitare i buoni ingegni a cercar di andar oltre, contri-buendo ciascuno secondo la propria disposizione natura-le e la propria possibilità, alle esperienze che occorre-rebbe fare, e comunicando anche al pubblico tutte lecose che essi apprenderebbero, affinchè, cominciandogli ultimi dove i precedenti avessero finito, e così unen-do le vite e le fatiche di molti, andassimo tutti insiememolto più lontano di quel che ciascuno in particolare po-trebbe fare268.

Osservavo anzi, riguardo alle esperienze, che sonotanto più necessarie quanto più si è progrediti nella co-noscenza. Perchè, per cominciare, è preferibile servirsisolo di quelle che si presentano da sè ai nostri sensi, eche non potremmo ignorare se soltanto riflettessimo unpoco su di esse, anzichè cercarne di più rare e studia-te269: e la ragione di questo è che le più rare ingannanospesso quando non si conoscono ancora le cause delle

268 Sulla necessità della collaborazione fra i ricercatori insistettefortemente prima del D. F. Bacone, specialmente nella NuovaAtlantide (New Atlantis: 1627).

269 Étudiées. Nella versione latina Abstrusiores = più difficili daspiegare.

Anche F. Bacone aveva affermato che le esperienze familiari ecomuni sono utili per interpretare la natura quanto e più dellemeno frequenti (De Dignitate et Augmentis Scientiarum, II,2). Le affinità di pensiero che abbiamo osservato fra i due fi-losofi fanno supporre che in questa parte del Discorso il D.abbia subito l’influsso del suo predecessore inglese che egliconosceva e ricordava con lode.

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più comuni, e che le circostanze da cui dipendono sonoquasi sempre così particolari e così piccole, che è diffi-cile rilevarle. Ma l’ordine da me tenuto è stato questo.In primo luogo ho cercato di trovare in generale i princi-pî, o le prime cause, di tutto ciò che è, o può essere nelmondo, senza considerare nulla, a questo scopo, se nonDio solo, il quale l’ha creato, e senza ricavarli da altroche da certi semi di verità che sono naturalmente nellenostre anime270. In seguito ho esaminato quali erano iprimi e più ordinari effetti che si potevano dedurre daquelle cause e mi sembra, per quella via, d’aver trovatodei cieli, degli astri, una terra, e anche, sulla terra, ac-qua, aria, fuoco, minerali, e alcune altre cose simili, chesono le più comuni di tutte e le più semplici, e, per con-seguenza, le più facili a conoscere. Poi, quando ho volu-to discendere a quelle che erano più particolari, tante di-verse se ne sono presentate a me, che non ho credutofosse possibile all’intelligenza umana nè distinguere leforme o specie di corpi che sono sulla terra, da un’infi-nità di altre che potrebbero esservi, se Dio avesse avutola volontà di mettervele, nè, per conseguenza, rivolgerlea nostro vantaggio, se non si passasse dagli effetti alle

270 I principî della realtà fisica sono l’estensione e le sue modali-tà (figura e movimento) e l’immutabilità della volontà di Dio,fondamento della costanza e della natura delle leggi del movi-mento; la conoscenza di quei principî è innata. Si osservi che,così intesa, l’affermazione del D. è esatta, perchè non signifi-ca che egli abbia fondato la sua interpretazione dei fenomenifisici su una filosofia generale (gnoseologia e metafisica).

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più comuni, e che le circostanze da cui dipendono sonoquasi sempre così particolari e così piccole, che è diffi-cile rilevarle. Ma l’ordine da me tenuto è stato questo.In primo luogo ho cercato di trovare in generale i princi-pî, o le prime cause, di tutto ciò che è, o può essere nelmondo, senza considerare nulla, a questo scopo, se nonDio solo, il quale l’ha creato, e senza ricavarli da altroche da certi semi di verità che sono naturalmente nellenostre anime270. In seguito ho esaminato quali erano iprimi e più ordinari effetti che si potevano dedurre daquelle cause e mi sembra, per quella via, d’aver trovatodei cieli, degli astri, una terra, e anche, sulla terra, ac-qua, aria, fuoco, minerali, e alcune altre cose simili, chesono le più comuni di tutte e le più semplici, e, per con-seguenza, le più facili a conoscere. Poi, quando ho volu-to discendere a quelle che erano più particolari, tante di-verse se ne sono presentate a me, che non ho credutofosse possibile all’intelligenza umana nè distinguere leforme o specie di corpi che sono sulla terra, da un’infi-nità di altre che potrebbero esservi, se Dio avesse avutola volontà di mettervele, nè, per conseguenza, rivolgerlea nostro vantaggio, se non si passasse dagli effetti alle

270 I principî della realtà fisica sono l’estensione e le sue modali-tà (figura e movimento) e l’immutabilità della volontà di Dio,fondamento della costanza e della natura delle leggi del movi-mento; la conoscenza di quei principî è innata. Si osservi che,così intesa, l’affermazione del D. è esatta, perchè non signifi-ca che egli abbia fondato la sua interpretazione dei fenomenifisici su una filosofia generale (gnoseologia e metafisica).

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cause e non ci si servisse di molte esperienze particolari.Dopo ciò, ripercorrendo colla mia mente tutti gli oggettiche si erano precedentemente presentati ai miei sensi,oso dire di non avervi notato alcuna cosa che non potes-si abbastanza comodamente spiegare coi principî da metrovati. Ma debbo anche confessare che la potenza dellanatura è così ampia e così vasta, e che quei principî sonocosì semplici e così generali, che io non osservo quasipiù nessun effetto particolare, che subito non conoscaesserne deducibile in molti modi diversi, e che la miapiù grande difficoltà consiste, di solito, nel trovare inquale di questi modi esso ne dipenda. Giacchè a questoscopo non conosco altro espediente se non quello di cer-care, da capo, alcune esperienze tali che il loro esito nonsia lo stesso, se lo si deve spiegare in uno di quei modipiuttosto che nell’altro271. Del resto, io sono ora giuntoal punto da vedere, mi pare, abbastanza bene in qualemodo si debba fare la maggior parte di quelle esperienzeche possono servire a questo scopo; ma vedo anche chesono tali, e in così gran numero, che nè le mie mani nèla mia rendita, anche se ne avessi mille volte più diquanto ne ho, potrebbero bastare per tutte; di modo che,secondo che avrò ormai la possibilità di farne più omeno, progredirò anche più o meno nella conoscenzadella natura. Questo mi ripromettevo di far conoscere,col trattato che avevo scritto, e di mostrarvi così chiara-271 Per queste pagine e per l’ufficio che il D. assegnava all’espe-

rienza, cfr. Intr., pp. XLII-XLIII [pagg. 62-65 di questa edizio-ne Manuzio].

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cause e non ci si servisse di molte esperienze particolari.Dopo ciò, ripercorrendo colla mia mente tutti gli oggettiche si erano precedentemente presentati ai miei sensi,oso dire di non avervi notato alcuna cosa che non potes-si abbastanza comodamente spiegare coi principî da metrovati. Ma debbo anche confessare che la potenza dellanatura è così ampia e così vasta, e che quei principî sonocosì semplici e così generali, che io non osservo quasipiù nessun effetto particolare, che subito non conoscaesserne deducibile in molti modi diversi, e che la miapiù grande difficoltà consiste, di solito, nel trovare inquale di questi modi esso ne dipenda. Giacchè a questoscopo non conosco altro espediente se non quello di cer-care, da capo, alcune esperienze tali che il loro esito nonsia lo stesso, se lo si deve spiegare in uno di quei modipiuttosto che nell’altro271. Del resto, io sono ora giuntoal punto da vedere, mi pare, abbastanza bene in qualemodo si debba fare la maggior parte di quelle esperienzeche possono servire a questo scopo; ma vedo anche chesono tali, e in così gran numero, che nè le mie mani nèla mia rendita, anche se ne avessi mille volte più diquanto ne ho, potrebbero bastare per tutte; di modo che,secondo che avrò ormai la possibilità di farne più omeno, progredirò anche più o meno nella conoscenzadella natura. Questo mi ripromettevo di far conoscere,col trattato che avevo scritto, e di mostrarvi così chiara-271 Per queste pagine e per l’ufficio che il D. assegnava all’espe-

rienza, cfr. Intr., pp. XLII-XLIII [pagg. 62-65 di questa edizio-ne Manuzio].

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mente l’utilità che il pubblico può riceverne, da obbliga-re tutti coloro che desiderano in generale il bene degliuomini, cioè tutti coloro che sono effettivamente virtuo-si, e non per falsa apparenza o soltanto per fama, sia acomunicarmi quelle che hanno già fatte, sia ad aiutarminella ricerca di quelle che restano da fare.

Ma ho avuto, dopo d’allora, altre ragioni, le quali mihanno fatto cambiare opinione, e pensare che dovevoproprio continuare a scrivere tutte le cose che giudicassidi qualche importanza, a misura che ne scoprissi la veri-tà, e curarle così, come se volessi farle stampare: sia peravere maggiori occasioni di esaminarle bene, perchèsenza dubbio si considera sempre più da vicino quelloche si crede debba essere visto da molti, che quello chesi fa solo per sè stessi, e spesso le cose che mi sonosembrate vere quando ho cominciato a concepirle, misono apparse false, quando ho voluto metterle sulla car-ta; sia per non perdere nessun’occasione di giovare alpubblico, se ne sono capace; e sia perchè, se i miei scrit-ti valgono qualche cosa, coloro che li avranno dopo lamia morte, possano servirsene come sarà più opportuno:ma che non dovevo in nessun modo consentire che fos-sero pubblicati durante la mia vita, affinchè nè le oppo-sizioni e controversie, alle quali sarebbero stati forsesoggetti, e nemmeno la qualsiasi reputazione che essipotessero procurarmi, mi dessero alcuna occasione diperdere il tempo che ho intenzione d’impiegare

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mente l’utilità che il pubblico può riceverne, da obbliga-re tutti coloro che desiderano in generale il bene degliuomini, cioè tutti coloro che sono effettivamente virtuo-si, e non per falsa apparenza o soltanto per fama, sia acomunicarmi quelle che hanno già fatte, sia ad aiutarminella ricerca di quelle che restano da fare.

Ma ho avuto, dopo d’allora, altre ragioni, le quali mihanno fatto cambiare opinione, e pensare che dovevoproprio continuare a scrivere tutte le cose che giudicassidi qualche importanza, a misura che ne scoprissi la veri-tà, e curarle così, come se volessi farle stampare: sia peravere maggiori occasioni di esaminarle bene, perchèsenza dubbio si considera sempre più da vicino quelloche si crede debba essere visto da molti, che quello chesi fa solo per sè stessi, e spesso le cose che mi sonosembrate vere quando ho cominciato a concepirle, misono apparse false, quando ho voluto metterle sulla car-ta; sia per non perdere nessun’occasione di giovare alpubblico, se ne sono capace; e sia perchè, se i miei scrit-ti valgono qualche cosa, coloro che li avranno dopo lamia morte, possano servirsene come sarà più opportuno:ma che non dovevo in nessun modo consentire che fos-sero pubblicati durante la mia vita, affinchè nè le oppo-sizioni e controversie, alle quali sarebbero stati forsesoggetti, e nemmeno la qualsiasi reputazione che essipotessero procurarmi, mi dessero alcuna occasione diperdere il tempo che ho intenzione d’impiegare

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nell’istruirmi272. Perchè, sebbene sia vero che ogni uomoè obbligato a procurare, per quanto è in lui, il bene deglialtri, e che non vale niente chi non è utile ad alcuno, tut-tavia è anche vero che le nostre preoccupazioni debbonoestendersi oltre il tempo presente e che è bene ometterele cose che potrebbero forse arrecare qualche profitto aiviventi, quando così si ha lo scopo di farne altre che nearrechino uno maggiore ai propri nipoti. Così di fatti vo-glio che si sappia273 che il poco che ho imparato fin qui,è quasi nulla, a paragone di quello che ignoro, e che nondispero di poter imparare; perchè a coloro che scopronoa poco a poco la verità nelle scienze, accade quasi lostesso che a coloro i quali, cominciando a diventar ric-chi, stentano meno a fare grandi acquisti, di quel chestentassero prima, quand’erano più poveri, a farne dimolto minori. Ovvero si possono paragonare ai capi de-gli eserciti, le cui forze sogliono crescere in proporzionedelle loro vittorie, e che hanno bisogno di maggiore abi-lità, per sostenersi dopo la perdita di una battaglia, di

272 Le stesse cose scrive il D. nelle sue lettere private; però cercòobbiezioni alle sue Meditazioni e si impegnò in lunghe e spes-so aspre controversie coi suoi critici. È questo un esempio de-gli ondeggiamenti e delle incertezze messe in rilievo dal Can-tecor, che vi scorge l’effetto di un senso troppo vivo che il D.aveva della propria personalità, ossa di una suscettibilità chelo incitava, da una parte, a desiderare le lodi, dall’altra, a sfug-gire tutto quello che potesse in qualche mode arrecargli diffi-coltà e fastidi e che lo mettesse alla dipendenza di altri, anchese ciò fosse avvenuto per mezzo di favori e di aiuti dei singoli.

273 Nella versione latina: Dissimulare nolo.

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nell’istruirmi272. Perchè, sebbene sia vero che ogni uomoè obbligato a procurare, per quanto è in lui, il bene deglialtri, e che non vale niente chi non è utile ad alcuno, tut-tavia è anche vero che le nostre preoccupazioni debbonoestendersi oltre il tempo presente e che è bene ometterele cose che potrebbero forse arrecare qualche profitto aiviventi, quando così si ha lo scopo di farne altre che nearrechino uno maggiore ai propri nipoti. Così di fatti vo-glio che si sappia273 che il poco che ho imparato fin qui,è quasi nulla, a paragone di quello che ignoro, e che nondispero di poter imparare; perchè a coloro che scopronoa poco a poco la verità nelle scienze, accade quasi lostesso che a coloro i quali, cominciando a diventar ric-chi, stentano meno a fare grandi acquisti, di quel chestentassero prima, quand’erano più poveri, a farne dimolto minori. Ovvero si possono paragonare ai capi de-gli eserciti, le cui forze sogliono crescere in proporzionedelle loro vittorie, e che hanno bisogno di maggiore abi-lità, per sostenersi dopo la perdita di una battaglia, di

272 Le stesse cose scrive il D. nelle sue lettere private; però cercòobbiezioni alle sue Meditazioni e si impegnò in lunghe e spes-so aspre controversie coi suoi critici. È questo un esempio de-gli ondeggiamenti e delle incertezze messe in rilievo dal Can-tecor, che vi scorge l’effetto di un senso troppo vivo che il D.aveva della propria personalità, ossa di una suscettibilità chelo incitava, da una parte, a desiderare le lodi, dall’altra, a sfug-gire tutto quello che potesse in qualche mode arrecargli diffi-coltà e fastidi e che lo mettesse alla dipendenza di altri, anchese ciò fosse avvenuto per mezzo di favori e di aiuti dei singoli.

273 Nella versione latina: Dissimulare nolo.

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quanto non ne abbiano, dopo averla vinta, per prenderecittà e province. Perchè il cercar di vincere tutte le diffi-coltà e gli errori che ci impediscono di giungere alla co-noscenza della verità, è davvero dar battaglia, ed è per-derne una l’accettare qualche falsa opinione su un argo-mento un po’ generale e importante: occorre, dopo, mol-to maggior abilità, per rimettersi nella stessa condizionedi prima, che non ne occorra per fare grandi progressi,quando si hanno già dei principî certi. Quanto a me, seho prima d’ora trovato alcune verità nelle scienze (e iospero che le cose che sono contenute in questo volu-me274 faranno giudicare che ne ho trovata qualcuna),posso dire che sono soltanto conseguenze e dipendenzedi cinque o sei principali difficoltà che ho superate, eche considero altrettante battaglie in cui ho avuto la for-tuna dalla mia parte. Anzi non avrò paura di dire checredo di aver bisogno di vincerne soltanto due o tre altresimili, per venire interamente a capo dei miei disegni; eche la mia età non è così avanzata che, secondo il corsoordinario della natura, non possa ancora avere temposufficiente a questo scopo. Ma credo d’essere tanto piùobbligato a risparmiare il tempo che mi resta, quanto piùho speranza di poterlo impiegare bene; e avrei senzadubbio molte occasioni di perderlo, se pubblicassi i fon-damenti della mia fisica. Perchè, sebbene siano quasitutti così evidenti, che occorre soltanto capirli per crede-re in essi, e non ve ne sia nessuno, di cui io non pensi di

274 La Diottrica, le Meteore e la Geometria.

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quanto non ne abbiano, dopo averla vinta, per prenderecittà e province. Perchè il cercar di vincere tutte le diffi-coltà e gli errori che ci impediscono di giungere alla co-noscenza della verità, è davvero dar battaglia, ed è per-derne una l’accettare qualche falsa opinione su un argo-mento un po’ generale e importante: occorre, dopo, mol-to maggior abilità, per rimettersi nella stessa condizionedi prima, che non ne occorra per fare grandi progressi,quando si hanno già dei principî certi. Quanto a me, seho prima d’ora trovato alcune verità nelle scienze (e iospero che le cose che sono contenute in questo volu-me274 faranno giudicare che ne ho trovata qualcuna),posso dire che sono soltanto conseguenze e dipendenzedi cinque o sei principali difficoltà che ho superate, eche considero altrettante battaglie in cui ho avuto la for-tuna dalla mia parte. Anzi non avrò paura di dire checredo di aver bisogno di vincerne soltanto due o tre altresimili, per venire interamente a capo dei miei disegni; eche la mia età non è così avanzata che, secondo il corsoordinario della natura, non possa ancora avere temposufficiente a questo scopo. Ma credo d’essere tanto piùobbligato a risparmiare il tempo che mi resta, quanto piùho speranza di poterlo impiegare bene; e avrei senzadubbio molte occasioni di perderlo, se pubblicassi i fon-damenti della mia fisica. Perchè, sebbene siano quasitutti così evidenti, che occorre soltanto capirli per crede-re in essi, e non ve ne sia nessuno, di cui io non pensi di

274 La Diottrica, le Meteore e la Geometria.

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poter dare qualche dimostrazione, tuttavia, poichè è im-possibile che siano in accordo con tutte le diverse opi-nioni degli altri uomini, prevedo che sarei spesso di-stratto dalle opposizioni che farebbero nascere.

Si può dire che queste opposizioni sarebbero utili,tanto per farmi conoscere i miei errori, quanto perchè,se avessi qualcosa di buono, gli altri ne avessero, conquesto mezzo, maggiore intelligenza275, e siccome moltipossono vedere più d’uno solo, perchè, cominciando finda ora a servirsene, m’aiutassero anche con le loro in-venzioni. Ma, sebbene io mi riconosca estremamentesoggetto a sbagliare, e non mi fidi quasi mai dei primipensieri che mi vengono, tuttavia l’esperienza che hodelle obbiezioni che mi si possono fare, m’impedisce disperarne alcun profitto; perchè ho già spesso provato igiudizi, tanto di quelli che ho ritenuto miei amici, quan-to di alcuni altri ai quali pensavo di essere indifferente, eperfino di alcuni altri, dei quali sapevo che la malignitàe l’invidia si sarebbe sforzata abbastanza a mettere inluce quello che l’affetto avrebbe nascosto ai miei amici;ma è di rado accaduto che mi si sia obbiettata qualchecosa ch’io non avessi per niente previsto, a meno chefosse stata molto lontana dal mio argomento; di modoche non ho quasi mai incontrato alcun censore delle mieopinioni che non mi sembrasse o meno rigoroso o menoequo di me stesso. E non ho neppure mai osservato che,

275 Comprensione.

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poter dare qualche dimostrazione, tuttavia, poichè è im-possibile che siano in accordo con tutte le diverse opi-nioni degli altri uomini, prevedo che sarei spesso di-stratto dalle opposizioni che farebbero nascere.

Si può dire che queste opposizioni sarebbero utili,tanto per farmi conoscere i miei errori, quanto perchè,se avessi qualcosa di buono, gli altri ne avessero, conquesto mezzo, maggiore intelligenza275, e siccome moltipossono vedere più d’uno solo, perchè, cominciando finda ora a servirsene, m’aiutassero anche con le loro in-venzioni. Ma, sebbene io mi riconosca estremamentesoggetto a sbagliare, e non mi fidi quasi mai dei primipensieri che mi vengono, tuttavia l’esperienza che hodelle obbiezioni che mi si possono fare, m’impedisce disperarne alcun profitto; perchè ho già spesso provato igiudizi, tanto di quelli che ho ritenuto miei amici, quan-to di alcuni altri ai quali pensavo di essere indifferente, eperfino di alcuni altri, dei quali sapevo che la malignitàe l’invidia si sarebbe sforzata abbastanza a mettere inluce quello che l’affetto avrebbe nascosto ai miei amici;ma è di rado accaduto che mi si sia obbiettata qualchecosa ch’io non avessi per niente previsto, a meno chefosse stata molto lontana dal mio argomento; di modoche non ho quasi mai incontrato alcun censore delle mieopinioni che non mi sembrasse o meno rigoroso o menoequo di me stesso. E non ho neppure mai osservato che,

275 Comprensione.

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per mezzo delle dispute che si praticano nelle scuole,276

si sia scoperta alcuna verità che prima si ignorasse; per-chè, mentre ciascuno cerca di vincere, ci si esercita mol-to più a far valere la verosimiglianza che a pesare le ra-gioni da una parte e dall’altra; e coloro che sono stati alungo buoni avvocati, non sono per questo, dopo, mi-gliori giudici.

Quanto all’utilità che gli altri riceverebbero dalla co-municazione dei miei pensieri, non potrebbe esserenemmeno essa molto grande, in quanto non li ho ancoracondotti così lontano che non ci sia bisogno d’aggiun-gervi molte cose, prima d’applicarli praticamente. Epenso di poter dire senza vanità che, se c’è qualcuno chene sia capace, debbo essere io piuttosto che alcun altro;non perchè, non possano esservi al mondo molti ingegniincomparabilmente migliori del mio; ma perchè, quandosi apprende una cosa da qualche altro, non la si può con-cepire e rendere propria così bene come quando las’inventa da sè. E ciò è così vero, in questo argomento,che, sebbene io abbia spesso spiegato alcune mie opi-nioni a persone d’ottima intelligenza e sebbene, mentreparlavo loro, sembrassero intenderle molto distintamen-te, tuttavia, quando le hanno ripetute, ho osservato chele hanno cambiate quasi sempre in tal modo che io nonpotevo più riconoscerle per mie. A proposito di ciò,sono molto lieto di pregar qui i nostri nipoti, di non cre-276 Discussioni in uso fra gli scolastici (sia nell’ambito delle

scuole che fra gli studiosi), che si svolgevano per mezzo disillogismi.

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per mezzo delle dispute che si praticano nelle scuole,276

si sia scoperta alcuna verità che prima si ignorasse; per-chè, mentre ciascuno cerca di vincere, ci si esercita mol-to più a far valere la verosimiglianza che a pesare le ra-gioni da una parte e dall’altra; e coloro che sono stati alungo buoni avvocati, non sono per questo, dopo, mi-gliori giudici.

Quanto all’utilità che gli altri riceverebbero dalla co-municazione dei miei pensieri, non potrebbe esserenemmeno essa molto grande, in quanto non li ho ancoracondotti così lontano che non ci sia bisogno d’aggiun-gervi molte cose, prima d’applicarli praticamente. Epenso di poter dire senza vanità che, se c’è qualcuno chene sia capace, debbo essere io piuttosto che alcun altro;non perchè, non possano esservi al mondo molti ingegniincomparabilmente migliori del mio; ma perchè, quandosi apprende una cosa da qualche altro, non la si può con-cepire e rendere propria così bene come quando las’inventa da sè. E ciò è così vero, in questo argomento,che, sebbene io abbia spesso spiegato alcune mie opi-nioni a persone d’ottima intelligenza e sebbene, mentreparlavo loro, sembrassero intenderle molto distintamen-te, tuttavia, quando le hanno ripetute, ho osservato chele hanno cambiate quasi sempre in tal modo che io nonpotevo più riconoscerle per mie. A proposito di ciò,sono molto lieto di pregar qui i nostri nipoti, di non cre-276 Discussioni in uso fra gli scolastici (sia nell’ambito delle

scuole che fra gli studiosi), che si svolgevano per mezzo disillogismi.

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dere mai che le cose che si diranno loro provengano dame, se io stesso non le ho divulgate. E non mi meravi-glio in nessun modo delle stravaganze che si attribuisco-no a tutti quegli antichi filosofi di cui non abbiamo gliscritti, e non giudico, per questo, che i loro pensieri sia-no stati molto irragionevoli, visto che erano tra i miglio-ri ingegni del loro tempo, ma, soltanto, che ci sono statimale riferiti. Così pure si vede che quasi mai è avvenutoche alcuno dei loro seguaci li abbia superati; e sono si-curo che i più appassionati tra coloro che seguono oraAristotele, si stimerebbero felici se avessero tanta cono-scenza della natura quanta egli ne ha avuto, anche acondizione di non averne mai di più. Sono come l’ederache non mira a salire più in alto degli alberi che la so-stengono, e che anzi spesso ridiscende, dopo che è giun-ta alla loro cima; perchè mi sembra che ridiscendano,cioè che si rendano in qualche modo meno sapienti chese si astenessero dallo studiare, anche coloro che, noncontenti di sapere tutto quel che è intelligibilmente spie-gato nel loro autore, vogliono inoltre trovarvi la soluzio-ne di molte difficoltà, delle quali egli non dice nulla ealle quali forse non ha mai pensato. Tuttavia, la loro ma-niera di filosofare è molto comoda per coloro che hannosoltanto ingegni mediocrissimi perchè l’oscurità delledistinzioni e dei principî di cui si servono, fa ch’essipossono parlare di tutte le cose così arditamente comese le sapessero, e sostenere tutto ciò che ne dicono con-tro i più sottili e i più abili, senza che si abbia il modo di

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dere mai che le cose che si diranno loro provengano dame, se io stesso non le ho divulgate. E non mi meravi-glio in nessun modo delle stravaganze che si attribuisco-no a tutti quegli antichi filosofi di cui non abbiamo gliscritti, e non giudico, per questo, che i loro pensieri sia-no stati molto irragionevoli, visto che erano tra i miglio-ri ingegni del loro tempo, ma, soltanto, che ci sono statimale riferiti. Così pure si vede che quasi mai è avvenutoche alcuno dei loro seguaci li abbia superati; e sono si-curo che i più appassionati tra coloro che seguono oraAristotele, si stimerebbero felici se avessero tanta cono-scenza della natura quanta egli ne ha avuto, anche acondizione di non averne mai di più. Sono come l’ederache non mira a salire più in alto degli alberi che la so-stengono, e che anzi spesso ridiscende, dopo che è giun-ta alla loro cima; perchè mi sembra che ridiscendano,cioè che si rendano in qualche modo meno sapienti chese si astenessero dallo studiare, anche coloro che, noncontenti di sapere tutto quel che è intelligibilmente spie-gato nel loro autore, vogliono inoltre trovarvi la soluzio-ne di molte difficoltà, delle quali egli non dice nulla ealle quali forse non ha mai pensato. Tuttavia, la loro ma-niera di filosofare è molto comoda per coloro che hannosoltanto ingegni mediocrissimi perchè l’oscurità delledistinzioni e dei principî di cui si servono, fa ch’essipossono parlare di tutte le cose così arditamente comese le sapessero, e sostenere tutto ciò che ne dicono con-tro i più sottili e i più abili, senza che si abbia il modo di

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convincerli.277 In questo mi sembrano simili a un cieco,il quale, per battersi senza svantaggio contro un veggen-te, l’avesse fatto scendere nel fondo di qualche cantinaoscurissima; e posso dire che costoro hanno interessech’io mi astenga dal pubblicare i principî della filosofiadi cui mi servo: perchè, essendo essi semplicissimi edevidentissimi, farei quasi lo stesso, pubblicandoli, che seaprissi qualche finestra, e facessi entrare luce in quellacantina, dov’essi son discesi per battersi. Ma nemmeno imigliori ingegni hanno motivo d’augurarsi di conoscer-li: perchè, se vogliono saper parlare d’ogni cosa, e ac-quistare la reputazione di dotti, vi perverranno più age-volmente contentandosi della verosimiglianza che puòtrovarsi senza grande fatica in ogni specie d’argomenti,che cercando la verità, la quale si scopre solo a poco apoco in alcuni, e che, quando si tratta di parlare degli al-tri, obbliga a confessare francamente d’ignorarli. Che sepreferiscono la conoscenza di qualche po’ di verità allavanità di non apparire ignoranti di niente, come senzadubbio essa è assai preferibile, e vogliono seguire un di-segno simile al mio, non hanno bisogno, per questo,ch’io dica loro niente di più di quel che ho già detto inquesto discorso. Chè, se son capaci d’andare più in là diquel che io non abbia fatto, saranno anche capaci, a piùforte ragione, di trovare da sè stessi tutto quello che iopenso d’aver trovato. Poichè, avendo sempre tutto esa-minato in ordine, è certo che quello che mi resta ancora

277 Questa critica colpisce gli scolastici.

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convincerli.277 In questo mi sembrano simili a un cieco,il quale, per battersi senza svantaggio contro un veggen-te, l’avesse fatto scendere nel fondo di qualche cantinaoscurissima; e posso dire che costoro hanno interessech’io mi astenga dal pubblicare i principî della filosofiadi cui mi servo: perchè, essendo essi semplicissimi edevidentissimi, farei quasi lo stesso, pubblicandoli, che seaprissi qualche finestra, e facessi entrare luce in quellacantina, dov’essi son discesi per battersi. Ma nemmeno imigliori ingegni hanno motivo d’augurarsi di conoscer-li: perchè, se vogliono saper parlare d’ogni cosa, e ac-quistare la reputazione di dotti, vi perverranno più age-volmente contentandosi della verosimiglianza che puòtrovarsi senza grande fatica in ogni specie d’argomenti,che cercando la verità, la quale si scopre solo a poco apoco in alcuni, e che, quando si tratta di parlare degli al-tri, obbliga a confessare francamente d’ignorarli. Che sepreferiscono la conoscenza di qualche po’ di verità allavanità di non apparire ignoranti di niente, come senzadubbio essa è assai preferibile, e vogliono seguire un di-segno simile al mio, non hanno bisogno, per questo,ch’io dica loro niente di più di quel che ho già detto inquesto discorso. Chè, se son capaci d’andare più in là diquel che io non abbia fatto, saranno anche capaci, a piùforte ragione, di trovare da sè stessi tutto quello che iopenso d’aver trovato. Poichè, avendo sempre tutto esa-minato in ordine, è certo che quello che mi resta ancora

277 Questa critica colpisce gli scolastici.

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da scoprire, è, per sè, più difficile e più nascosto di quel-lo che ho potuto trovare fin qui, ed essi avrebbero piace-re molto minore ad apprenderlo da me che da sè stessi;inoltre l’abitudine che acquisteranno, ricercando da pri-ma cose facili e passando a poco a poco, per gradi, adaltre più difficili, servirà loro più di quel che tutte le mieistruzioni potrebbero fare. Così, per quello che mi ri-guarda, sono convinto che se mi avessero insegnato, findalla giovinezza, tutte le verità di cui ho cercato dopo ledimostrazioni, e non avessi fatto nessuna fatica ad ap-prenderle, non ne avrei forse mai sapute altre, o che al-meno non avrei mai acquistato l’abitudine e la facilità,che penso d’avere, di trovarne sempre delle nuove, amisura che m’applico a ricercarle. E, in una parola, sev’è al mondo qualche lavoro, il quale non possa esserefinito da nessuno così bene come da quello stesso che loha cominciato, è quello a cui io attendo.

È vero che, per ciò che riguarda le esperienze chepossono servire a questo lavoro, un uomo solo non puòbastare a farle tutte; ma non potrebbe neppure impiegar-vi utilmente altre mani che le sue, tranne quelle deglioperai, o di gente simile, ch’egli potesse pagare, e allaquale la speranza del guadagno, che è mezzo efficacissi-mo, farebbe fare esattamente tutto quello ch’egli loroprescriverebbe. Chè, quanto ai volonterosi che per cu-riosità o desiderio d’apprendere, s’offrirebbero forsed’aiutarlo, oltre che di solito fanno più promesse chefatti, e fanno soltanto bei progetti, di cui nessuno mairiesce, essi vorrebbero, senza fallo, essere pagati con la

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da scoprire, è, per sè, più difficile e più nascosto di quel-lo che ho potuto trovare fin qui, ed essi avrebbero piace-re molto minore ad apprenderlo da me che da sè stessi;inoltre l’abitudine che acquisteranno, ricercando da pri-ma cose facili e passando a poco a poco, per gradi, adaltre più difficili, servirà loro più di quel che tutte le mieistruzioni potrebbero fare. Così, per quello che mi ri-guarda, sono convinto che se mi avessero insegnato, findalla giovinezza, tutte le verità di cui ho cercato dopo ledimostrazioni, e non avessi fatto nessuna fatica ad ap-prenderle, non ne avrei forse mai sapute altre, o che al-meno non avrei mai acquistato l’abitudine e la facilità,che penso d’avere, di trovarne sempre delle nuove, amisura che m’applico a ricercarle. E, in una parola, sev’è al mondo qualche lavoro, il quale non possa esserefinito da nessuno così bene come da quello stesso che loha cominciato, è quello a cui io attendo.

È vero che, per ciò che riguarda le esperienze chepossono servire a questo lavoro, un uomo solo non puòbastare a farle tutte; ma non potrebbe neppure impiegar-vi utilmente altre mani che le sue, tranne quelle deglioperai, o di gente simile, ch’egli potesse pagare, e allaquale la speranza del guadagno, che è mezzo efficacissi-mo, farebbe fare esattamente tutto quello ch’egli loroprescriverebbe. Chè, quanto ai volonterosi che per cu-riosità o desiderio d’apprendere, s’offrirebbero forsed’aiutarlo, oltre che di solito fanno più promesse chefatti, e fanno soltanto bei progetti, di cui nessuno mairiesce, essi vorrebbero, senza fallo, essere pagati con la

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spiegazione di qualche difficoltà, o almeno con compli-menti e conversazioni inutili, che non potrebbero costar-gli così poco tempo che egli non ci perdesse. E quantoalle esperienze già fatte dagli altri, quando anche glielevolessero comunicare, cosa che coloro che le chiamanosegreti non farebbero mai, esse sono, per la maggiorparte, composte di tante circostanze o ingredienti super-flui, che gli sarebbe molto difficile ricavarne la verità;oltre che egli le troverebbe quasi tutte così male spiega-te, o perfino così false – perchè quelli che le han fatte sisono sforzati di farle sembrare conformi ai loro principî– che, se ve ne fossero alcune che gli servissero, non po-trebbero, neppure esse, valere il tempo che egli dovreb-be impiegare nello sceglierle. Di modo che, se vi fosseal mondo qualcuno, di cui si sapesse in modo certo cheè capace di trovare le più grandi cose, e le più utili alpubblico che ci possono essere, e che, per questo moti-vo, gli altri uomini si sforzassero, in tutti i modi, di aiu-tarlo a venire a capo dei suoi piani, non credo ch’essipotrebbero fare altro per lui, se non contribuire alle spe-se delle esperienze che gli sarebbero necessarie, e per ilresto, impedire che il suo tempo gli fosse toltodall’importunità di alcuno. Ma oltre che non presumotanto di me stesso da voler promettere qualcosa distraordinario, nè mi pasco di pensieri così vani da im-maginare che il pubblico278 si debba molto interessaredei miei piani, non ho neppure l’anima così bassa da vo-

278 Lo Stato, come risulta dalla versione latina (res publica).

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spiegazione di qualche difficoltà, o almeno con compli-menti e conversazioni inutili, che non potrebbero costar-gli così poco tempo che egli non ci perdesse. E quantoalle esperienze già fatte dagli altri, quando anche glielevolessero comunicare, cosa che coloro che le chiamanosegreti non farebbero mai, esse sono, per la maggiorparte, composte di tante circostanze o ingredienti super-flui, che gli sarebbe molto difficile ricavarne la verità;oltre che egli le troverebbe quasi tutte così male spiega-te, o perfino così false – perchè quelli che le han fatte sisono sforzati di farle sembrare conformi ai loro principî– che, se ve ne fossero alcune che gli servissero, non po-trebbero, neppure esse, valere il tempo che egli dovreb-be impiegare nello sceglierle. Di modo che, se vi fosseal mondo qualcuno, di cui si sapesse in modo certo cheè capace di trovare le più grandi cose, e le più utili alpubblico che ci possono essere, e che, per questo moti-vo, gli altri uomini si sforzassero, in tutti i modi, di aiu-tarlo a venire a capo dei suoi piani, non credo ch’essipotrebbero fare altro per lui, se non contribuire alle spe-se delle esperienze che gli sarebbero necessarie, e per ilresto, impedire che il suo tempo gli fosse toltodall’importunità di alcuno. Ma oltre che non presumotanto di me stesso da voler promettere qualcosa distraordinario, nè mi pasco di pensieri così vani da im-maginare che il pubblico278 si debba molto interessaredei miei piani, non ho neppure l’anima così bassa da vo-

278 Lo Stato, come risulta dalla versione latina (res publica).

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lere accettare da chiunque alcun favore, che si potessecredere da me non meritato.

Tutte queste considerazioni unite insieme fecero, treanni fa, ch’io non volessi divulgare il trattato che avevotra le mani, e anzi che io risolvessi di non farne vedere,durante la mia vita279, nessun altro che fosse ugualmentegenerale, o dal quale si potessero capire i fondamentidella mia fisica. Ma vi sono state dopo, di nuovo, altredue ragioni, le quali mi hanno obbligato a mettere quialcuni saggi particolari, e a rendere al pubblico qualcheconto delle mie azioni e dei miei piani. La prima è che,se non lo facessi, molti, i quali hanno saputo l’intenzio-

279 Dalle lettere del D. risulta che intendeva di mutare la sua de-cisione se fossero cambiate le circostanze; ma dichiarando inuna di esse che avrebbe volentieri pubblicato il suo trattato difisica se il pubblico lo avesse desiderato e se in ciò egli avessetrovato la propria convenienza e la propria sicurezza (cioè, senon avesse dovuto temere pericoli), riconosce di avere ascol-tato soprattutto la voce della prudenza, ossia di avere temutodi essere involto nella sorte di Galileo. Del resto, che la noti-zia della condanna di questo lo abbia deciso a non dare allaluce il Mondo è affermato esplicitamente dal D., in lettere chenon ammettono discussione. Ciò non esclude che gli altri mo-tivi che egli ricorda nelle pagine precedenti si siano presentatialla sue mente; ma si può pensare che non avrebbero, da soli,determinato la sua decisione. In complesso, poi, la sesta partedel Discorso (e non soltanto su questo punto) rivela in modoben chiaro quella incertezza e inquietudine, frutto di eccessivasuscettibilità, sulle quali ha insistito il Cantecor. Leggendo ciòche egli vi scrive, si ha l’impressione che talvolta non sapessecon precisione ciò che volesse.

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lere accettare da chiunque alcun favore, che si potessecredere da me non meritato.

Tutte queste considerazioni unite insieme fecero, treanni fa, ch’io non volessi divulgare il trattato che avevotra le mani, e anzi che io risolvessi di non farne vedere,durante la mia vita279, nessun altro che fosse ugualmentegenerale, o dal quale si potessero capire i fondamentidella mia fisica. Ma vi sono state dopo, di nuovo, altredue ragioni, le quali mi hanno obbligato a mettere quialcuni saggi particolari, e a rendere al pubblico qualcheconto delle mie azioni e dei miei piani. La prima è che,se non lo facessi, molti, i quali hanno saputo l’intenzio-

279 Dalle lettere del D. risulta che intendeva di mutare la sua de-cisione se fossero cambiate le circostanze; ma dichiarando inuna di esse che avrebbe volentieri pubblicato il suo trattato difisica se il pubblico lo avesse desiderato e se in ciò egli avessetrovato la propria convenienza e la propria sicurezza (cioè, senon avesse dovuto temere pericoli), riconosce di avere ascol-tato soprattutto la voce della prudenza, ossia di avere temutodi essere involto nella sorte di Galileo. Del resto, che la noti-zia della condanna di questo lo abbia deciso a non dare allaluce il Mondo è affermato esplicitamente dal D., in lettere chenon ammettono discussione. Ciò non esclude che gli altri mo-tivi che egli ricorda nelle pagine precedenti si siano presentatialla sue mente; ma si può pensare che non avrebbero, da soli,determinato la sua decisione. In complesso, poi, la sesta partedel Discorso (e non soltanto su questo punto) rivela in modoben chiaro quella incertezza e inquietudine, frutto di eccessivasuscettibilità, sulle quali ha insistito il Cantecor. Leggendo ciòche egli vi scrive, si ha l’impressione che talvolta non sapessecon precisione ciò che volesse.

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ne che avevo avuto precedentemente, di far stampare al-cuni scritti, potrebbero immaginare che le cause per cuime ne astengo, fossero più a mio svantaggio di quel chenon siano. Perchè, sebbene non ami eccessivamente lagloria, o anche, se oso dirlo, la odii, in quanto la giudicocontraria alla pace, che pregio sopra ogni cosa, tuttavianon ho nemmeno mai cercato di nascondere le mie azio-ni come delitti, nè ho usato molte precauzioni per resta-re sconosciuto; sia perchè avrei creduto di farmi torto,sia perchè questo mi avrebbe dato una specie d’inquie-tudine, che sarebbe stata, essa pure, contraria alla perfet-ta pace dell’animo ch’io cerco. E poichè, essendomisempre tenuto così indifferente tra la preoccupazioned’esser conosciuto e quella di non esserlo, non ho potutoimpedire che acquistassi una qualche reputazione, hopensato di dover fare del mio meglio per impedire, al-meno, di averla cattiva. L’altra ragione, che m’ha obbli-gato a scrivere questo discorso, è che, vedendo tutti igiorni sempre più l’indugio che subisce il mio disegnod’istruirmi, per un’infinità d’esperienze di cui ho biso-gno, e che è impossibile che io faccia senza l’aiuto di al-tri, benchè non mi lusinghi tanto da sperare che il pub-blico prenda gran parte ai miei interessi, tuttavia non vo-glio neppure mancar tanto a me stesso, da dare argo-mento a coloro che mi sopravviveranno, di rimproverar-mi, un giorno, che avrei potuto lasciare loro diversecose assai migliori, che non abbia fatto, se non avessitroppo trascurato di far loro capire in che cosa essi pote-van contribuire ai miei disegni.

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ne che avevo avuto precedentemente, di far stampare al-cuni scritti, potrebbero immaginare che le cause per cuime ne astengo, fossero più a mio svantaggio di quel chenon siano. Perchè, sebbene non ami eccessivamente lagloria, o anche, se oso dirlo, la odii, in quanto la giudicocontraria alla pace, che pregio sopra ogni cosa, tuttavianon ho nemmeno mai cercato di nascondere le mie azio-ni come delitti, nè ho usato molte precauzioni per resta-re sconosciuto; sia perchè avrei creduto di farmi torto,sia perchè questo mi avrebbe dato una specie d’inquie-tudine, che sarebbe stata, essa pure, contraria alla perfet-ta pace dell’animo ch’io cerco. E poichè, essendomisempre tenuto così indifferente tra la preoccupazioned’esser conosciuto e quella di non esserlo, non ho potutoimpedire che acquistassi una qualche reputazione, hopensato di dover fare del mio meglio per impedire, al-meno, di averla cattiva. L’altra ragione, che m’ha obbli-gato a scrivere questo discorso, è che, vedendo tutti igiorni sempre più l’indugio che subisce il mio disegnod’istruirmi, per un’infinità d’esperienze di cui ho biso-gno, e che è impossibile che io faccia senza l’aiuto di al-tri, benchè non mi lusinghi tanto da sperare che il pub-blico prenda gran parte ai miei interessi, tuttavia non vo-glio neppure mancar tanto a me stesso, da dare argo-mento a coloro che mi sopravviveranno, di rimproverar-mi, un giorno, che avrei potuto lasciare loro diversecose assai migliori, che non abbia fatto, se non avessitroppo trascurato di far loro capire in che cosa essi pote-van contribuire ai miei disegni.

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E ho pensato che m’era facile scegliere alcuni argo-menti, i quali, senza essere soggetti a molte controver-sie, nè obbligarmi a dichiarare i miei principî più ch’ionon desideri, lasciassero vedere abbastanza chiaramentequello che io posso, o non posso fare nelle scienze. Nonpotrei dire se vi sono riuscito, e non voglio prevenire igiudizi di nessuno, parlando io stesso dei miei scritti:ma sarò ben lieto che siano esaminati, e per offrirnemaggiori occasioni, supplico tutti coloro che avrannoqualche obbiezione da farmi, di prendersi la brigad’inviarla al mio libraio280, avvertito dal quale, cercheròdi unirvi nello stesso tempo la mia risposta281; e così ilettori, vedendo insieme l’una e l’altra, giudicherannopiù facilmente della verità. Perchè non prometto di daremai lunghe risposte, ma soltanto di confessare i miei er-rori molto francamente, se li riconosco, ovvero, se nonposso scorgerli, di dire semplicemente quel che crederòoccorrere alla difesa delle cose che ho scritto, senza ag-giungervi la spiegazione di nessun nuovo argomento,per non dover passare senza fine dall’uno nell’altro.

Che se alcuni di quelli di cui ho parlato al principiodella Diottrica e delle Meteore, urtano da principio, per-chè li chiamo supposizioni e non sembra che desidero diprovarli, si abbia la pazienza di leggere il tutto con at-tenzione, e spero se ne resterà soddisfatti. Perchè misembra che le ragioni vi si seguano tra loro in modo tale280 Jan Maire di Leida.281 Di pubblicare contemporaneamente l’obbiezione e la risposta

(Gilson).

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E ho pensato che m’era facile scegliere alcuni argo-menti, i quali, senza essere soggetti a molte controver-sie, nè obbligarmi a dichiarare i miei principî più ch’ionon desideri, lasciassero vedere abbastanza chiaramentequello che io posso, o non posso fare nelle scienze. Nonpotrei dire se vi sono riuscito, e non voglio prevenire igiudizi di nessuno, parlando io stesso dei miei scritti:ma sarò ben lieto che siano esaminati, e per offrirnemaggiori occasioni, supplico tutti coloro che avrannoqualche obbiezione da farmi, di prendersi la brigad’inviarla al mio libraio280, avvertito dal quale, cercheròdi unirvi nello stesso tempo la mia risposta281; e così ilettori, vedendo insieme l’una e l’altra, giudicherannopiù facilmente della verità. Perchè non prometto di daremai lunghe risposte, ma soltanto di confessare i miei er-rori molto francamente, se li riconosco, ovvero, se nonposso scorgerli, di dire semplicemente quel che crederòoccorrere alla difesa delle cose che ho scritto, senza ag-giungervi la spiegazione di nessun nuovo argomento,per non dover passare senza fine dall’uno nell’altro.

Che se alcuni di quelli di cui ho parlato al principiodella Diottrica e delle Meteore, urtano da principio, per-chè li chiamo supposizioni e non sembra che desidero diprovarli, si abbia la pazienza di leggere il tutto con at-tenzione, e spero se ne resterà soddisfatti. Perchè misembra che le ragioni vi si seguano tra loro in modo tale280 Jan Maire di Leida.281 Di pubblicare contemporaneamente l’obbiezione e la risposta

(Gilson).

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che, come le ultime sono dimostrate dalle prime, chesono le loro cause, così queste prime lo sono reciproca-mente dalle ultime, che sono i loro effetti. E non biso-gna immaginare che io commetta in questo l’errorechiamato dai logici un circolo282: perchè, siccomel’esperienza rende la maggior parte di questi effetti cer-tissimi, le cause da cui li deduco non servono tanto aprovarli, quanto a spiegarli; ma, tutt’al contrario, sonoesse che sono provate da quelli283. E io li ho chiamatisupposizioni solo perchè si sappia che io credo di poterlidedurre da quelle prime verità che ho spiegato prece-dentemente, ma che ho voluto espressamente non farlo,per impedire che certi ingegni i quali immaginano di sa-pere in un giorno tutto ciò che un altro ha pensato inventi anni, appena ne ha detto loro soltanto due o tre pa-role; e che sono tanto più soggetti a errare, e tanto menocapaci della verità, quanto più sono penetranti e vivaci,possano da ciò prendere l’occasione di costruire qualchefilosofia stravagante su quelli che crederanno i mieiprincipî, e che di ciò sia a me attribuita la colpa. Poichè,282 Il circolo vizioso è il sofisma, o ragionamento errato, che di-

mostra una conseguenza deducendola da premesse che poi di-mostra per mezzo di quella conseguenza.

283 I principî servono a spiegare, non a provare i fatti che l’espe-rienza presenta, in quanto questi sono gli effetti di cui i primisono le cause. Siccome il D. nei suoi Saggi non aveva provatoquei principî derivandoli dalle loro premesse metafisiche (di-mostrazione a priori), li chiamava supposizione (o ipotesi);ma riteneva che l’esperienza fosse capace di provarli suffi-cientemente (dimostrazione a posteriori).

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che, come le ultime sono dimostrate dalle prime, chesono le loro cause, così queste prime lo sono reciproca-mente dalle ultime, che sono i loro effetti. E non biso-gna immaginare che io commetta in questo l’errorechiamato dai logici un circolo282: perchè, siccomel’esperienza rende la maggior parte di questi effetti cer-tissimi, le cause da cui li deduco non servono tanto aprovarli, quanto a spiegarli; ma, tutt’al contrario, sonoesse che sono provate da quelli283. E io li ho chiamatisupposizioni solo perchè si sappia che io credo di poterlidedurre da quelle prime verità che ho spiegato prece-dentemente, ma che ho voluto espressamente non farlo,per impedire che certi ingegni i quali immaginano di sa-pere in un giorno tutto ciò che un altro ha pensato inventi anni, appena ne ha detto loro soltanto due o tre pa-role; e che sono tanto più soggetti a errare, e tanto menocapaci della verità, quanto più sono penetranti e vivaci,possano da ciò prendere l’occasione di costruire qualchefilosofia stravagante su quelli che crederanno i mieiprincipî, e che di ciò sia a me attribuita la colpa. Poichè,282 Il circolo vizioso è il sofisma, o ragionamento errato, che di-

mostra una conseguenza deducendola da premesse che poi di-mostra per mezzo di quella conseguenza.

283 I principî servono a spiegare, non a provare i fatti che l’espe-rienza presenta, in quanto questi sono gli effetti di cui i primisono le cause. Siccome il D. nei suoi Saggi non aveva provatoquei principî derivandoli dalle loro premesse metafisiche (di-mostrazione a priori), li chiamava supposizione (o ipotesi);ma riteneva che l’esperienza fosse capace di provarli suffi-cientemente (dimostrazione a posteriori).

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quanto alle opinioni che sono completamente mie, nonne scuso la novità, in quanto che, se se ne consideranobene le ragioni, sono sicuro che si troveranno così sem-plici e così conformi al senso comune284 che sembreran-no meno straordinarie e meno strane di qualunque altrasi possa avere sugli stessi argomenti. E non mi vantoneppure d’essere il primo inventore di nessuna di esse,bensì di non averle mai accettate, nè perchè erano stateesposte da altri, nè perchè non lo erano state, ma soltan-to perchè la ragione me ne ha convinto.

Che se gli artigiani non possono tanto presto eseguirel’invenzione che è spiegata nella Diottrica285, non credosi possa dire, per questo, che sia cattiva: perchè, inquanto occorre abilità e abitudine per costruire e aggiu-stare le macchine da me descritte senza che vi manchialcun elemento, non mi meraviglierei meno, se riuscis-sero fin dal primo tentativo, che se alcuno potesse impa-rare, in un giorno, a suonare eccellentemente il liuto, peril solo fatto che gli fosse stata data una buona partizionemusicale. E se scrivo in francese, che è la lingua del mio284 La fisica cartesiana, fondata su nozioni chiare e distinte che

tutte le menti includono e confermata continuamentedall’esperienza sensibile, è conforme al senso comune, intesosia come bon sens (= luce naturale), sia come modo di pensarefondato su quella esperienza. Invece la scienza scolastica si al-lontanava dal senso comune in ambedue queste forme, perchèsi valeva di costruzioni astrattissime e arbitrarie (forme so-stanziali, qualità occulte...), oscurissime per il pensiero e com-pletamente remote dall’esperienza.

285 Una macchina per tagliare lenti di superficie iperbolica.

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quanto alle opinioni che sono completamente mie, nonne scuso la novità, in quanto che, se se ne consideranobene le ragioni, sono sicuro che si troveranno così sem-plici e così conformi al senso comune284 che sembreran-no meno straordinarie e meno strane di qualunque altrasi possa avere sugli stessi argomenti. E non mi vantoneppure d’essere il primo inventore di nessuna di esse,bensì di non averle mai accettate, nè perchè erano stateesposte da altri, nè perchè non lo erano state, ma soltan-to perchè la ragione me ne ha convinto.

Che se gli artigiani non possono tanto presto eseguirel’invenzione che è spiegata nella Diottrica285, non credosi possa dire, per questo, che sia cattiva: perchè, inquanto occorre abilità e abitudine per costruire e aggiu-stare le macchine da me descritte senza che vi manchialcun elemento, non mi meraviglierei meno, se riuscis-sero fin dal primo tentativo, che se alcuno potesse impa-rare, in un giorno, a suonare eccellentemente il liuto, peril solo fatto che gli fosse stata data una buona partizionemusicale. E se scrivo in francese, che è la lingua del mio284 La fisica cartesiana, fondata su nozioni chiare e distinte che

tutte le menti includono e confermata continuamentedall’esperienza sensibile, è conforme al senso comune, intesosia come bon sens (= luce naturale), sia come modo di pensarefondato su quella esperienza. Invece la scienza scolastica si al-lontanava dal senso comune in ambedue queste forme, perchèsi valeva di costruzioni astrattissime e arbitrarie (forme so-stanziali, qualità occulte...), oscurissime per il pensiero e com-pletamente remote dall’esperienza.

285 Una macchina per tagliare lenti di superficie iperbolica.

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paese, piuttosto che in latino, che è quella dei miei pre-cettori, si è perchè spero che coloro i quali si servonosolo della loro ragione naturale del tutto pura, giudiche-ranno delle mie opinioni meglio di quelli che credonosolo a libri antichi286. E, quanto a quelli che uniscono ilbuon senso287 allo studio, i quali soli desidero mi sianogiudici, non saranno, sono sicuro, tanto partigiani del la-tino da rifiutar d’udire le mie ragioni, perchè le espongoin lingua volgare.

Del resto, non voglio parlar qui, in particolare, deiprogressi che ho speranza di fare in avvenire nellescienze, nè impegnarmi verso il pubblico con nessunapromessa, che io non sia sicuro di mantenere; ma diròsoltanto d’aver risolto di non usare il tempo che mi restada vivere in altro che a cercare d’acquistare qualche co-noscenza della natura, che sia tale da poterne ritrarredelle regole per la medicina, più sicure di quelle che sisono avute finora; e che la mia disposizione naturale miallontana tanto da ogni specie d’altri disegni, principal-mente da quelli che potrebbero essere utili agli uni solonuocendo agli altri,288 che, se qualche occasione mi co-

286 La lingua tradizionalmente adoperata nelle opere scientificheera il latino, sicchè l’uso del francese in lavori di tal generedoveva apparire una novità; il D. dichiara di rivolgersi allepersone colte della buona società che non facevano professio-ne di filosofia (e quindi, anche, di scienza), non ai dotti (cioè,principalmente, ai seguaci della Scolastica).

287 Bon sens ha il significato ricordato precedentemente.288 Uffici militari.

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paese, piuttosto che in latino, che è quella dei miei pre-cettori, si è perchè spero che coloro i quali si servonosolo della loro ragione naturale del tutto pura, giudiche-ranno delle mie opinioni meglio di quelli che credonosolo a libri antichi286. E, quanto a quelli che uniscono ilbuon senso287 allo studio, i quali soli desidero mi sianogiudici, non saranno, sono sicuro, tanto partigiani del la-tino da rifiutar d’udire le mie ragioni, perchè le espongoin lingua volgare.

Del resto, non voglio parlar qui, in particolare, deiprogressi che ho speranza di fare in avvenire nellescienze, nè impegnarmi verso il pubblico con nessunapromessa, che io non sia sicuro di mantenere; ma diròsoltanto d’aver risolto di non usare il tempo che mi restada vivere in altro che a cercare d’acquistare qualche co-noscenza della natura, che sia tale da poterne ritrarredelle regole per la medicina, più sicure di quelle che sisono avute finora; e che la mia disposizione naturale miallontana tanto da ogni specie d’altri disegni, principal-mente da quelli che potrebbero essere utili agli uni solonuocendo agli altri,288 che, se qualche occasione mi co-

286 La lingua tradizionalmente adoperata nelle opere scientificheera il latino, sicchè l’uso del francese in lavori di tal generedoveva apparire una novità; il D. dichiara di rivolgersi allepersone colte della buona società che non facevano professio-ne di filosofia (e quindi, anche, di scienza), non ai dotti (cioè,principalmente, ai seguaci della Scolastica).

287 Bon sens ha il significato ricordato precedentemente.288 Uffici militari.

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stringesse a dedicarmi ad essi, non credo che sarei capa-ce di riuscirvi. Di ciò faccio qui una dichiarazione cheso bene non potrà servire a rendermi degno di conside-razione nel mondo, ma io non ho neppure alcun deside-rio d’esserlo; e mi riterrò sempre più obbligato a coloropel cui favore godrò senza impedimento del mio tempo,che a coloro che mi offrissero gli impieghi più onorevolidella terra.

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stringesse a dedicarmi ad essi, non credo che sarei capa-ce di riuscirvi. Di ciò faccio qui una dichiarazione cheso bene non potrà servire a rendermi degno di conside-razione nel mondo, ma io non ho neppure alcun deside-rio d’esserlo; e mi riterrò sempre più obbligato a coloropel cui favore godrò senza impedimento del mio tempo,che a coloro che mi offrissero gli impieghi più onorevolidella terra.

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