Cook Robin Vector Minaccia Mortale

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     A Jean

    con affetto, stima e gratitudine

     R INGRAZIAMENTI

    Desidero ringraziare:il dottor Ken Alibek, a capo del Battelle Memorial Institute, Arlington,

    Virginia;il dottor Kanatjan Alibekov, ex vicedirettore del programma di offesa

    batteriologica dell'Unione Sovietica;il colonnello Edward M. Eitzen Jr., ufficiale medico presso l'istituto di

    ricerca dell'esercito americano per le malattie infettive, Fort Detrick, Mar-yland;

    Jerome M. Hauer, direttore dell'ufficio municipale gestione emergenzedi New York;

    il dottor Jacki Lee, sostituto del capo dell'ufficio di medicina legale diWashington,

    la dottoressa Raissa Rubenshteyn, primario del reparto di ginecologiapresso l'ospedale di Voronez, ex Unione Sovietica;

    e il dottor Charles Wetli, capo dell'ufficio di medicina legale della Suf-folk County, New York.

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    «Non scavare una buca per qualcun altro,potresti essere tu a cascarci dentro.»

    PROVERBIO RUSSO

    Vector, vettore: portatore di malattie infettive.

    P ROLOGOVenerdì 15 ottobre

    Jason Papparis commerciava in tappeti da quasi trent'anni. Aveva co-minciato ad Atene alla fine degli anni Sessanta, vendendo soprattutto pelli

    di capra e di pecora e tappeti di pelliccia ai turisti americani. Le cose gliandavano bene, e ci si divertiva pure, in particolare con le turiste giovani,per lo più studentesse, alle quali proponeva invariabilmente e con moltagrazia un assaggio della vita notturna nella sua amata città.

    Poi il fato ci aveva messo lo zampino. Un'afosa serata estiva era entratanel suo negozio Helen Herman di New York e aveva carezzato con ariaassente alcuni morbidi tappeti. Romantica com'era, si era lasciata catturaredall'irresistibile combinazione dei languidi occhi di Jason, delle sue fer-venti attenzioni e della mistica atmosfera greca.

    L'ardore di lui non era stato da meno. Dopo la partenza di Helen per gliStati Uniti, si era ritrovato inconsolabilmente solo. Aveva così avuto ini-zio un'appassionata corrispondenza, seguita da una visita. Il viaggio di Ja-son a New York aveva avuto l'effetto di attizzare ancora di più il fuoco deldesiderio. Alla fine era emigrato, aveva sposato Helen e aveva trasferito lasua attività commerciale a Manhattan.

    Gli affari andavano a gonfie vele. I vasti contatti che aveva stabilito nelcorso degli anni con i fabbricanti di tappeti in Grecia e in Turchia gli ga-rantivano una specie di monopolio nel settore. Anziché aprire un negozioal dettaglio a New York, aveva optato saggiamente per il commercio al-l'ingrosso. Questo gli consentiva snellezza di gestione. Non aveva dipen-denti. Tutto ciò che gli occorreva era un ufficio a Manhattan e un magaz-zino a Queens. Si occupava da solo degli acquisti all'estero e degli inven-tari e di tanto in tanto assumeva qualche impiegato con contratto a termi-ne.

    Non aveva contatti con la clientela: tutto si svolgeva grazie al telefonoe al fax e di conseguenza la porta del suo ufficio era sempre chiusa.

    Quel venerdì la posta venne infilata come sempre nell'apposita fessura,ma fra le altre cose c'era un pesante catalogo che atterrò sul parquet conun tonfo più forte del solito. Questo distrasse Jason dai conti in cui era

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    immerso. Si alzò, appoggiando l'onnipresente sigaretta in bilico sul porta-cenere, e andò a prendere la posta. Contava sull'arrivo di un buon numerodi assegni che avrebbero rimpolpato il suo bilancio. Tornò a sedere e smi-stò le buste, suddividendole in vari mucchi e gettando direttamente nel ce-

    stino la posta che non gli interessava. Prendendo in mano la penultima bu-sta, esitò. Era spessa e quadrata, anziché rettangolare, e tastandola indivi-duò al centro un rigonfiamento irregolare. Dando un'occhiata all'affranca-tura, notò che era da lettera e non da pacchetto. Nell'angolo inferiore sini-stro era stampigliato un avvertimento: AFFRANCARE A MANO. La spie-gazione era: CONTENUTO FRAGILE!

    Jason rigirò la busta fra le mani. Era carta di ottima qualità. Non la so-lita carta usata per gli opuscoli pubblicitari, eppure il mittente era: SERVI-ZI DI PULIZIA ACME: AFFIDATE A NOI LA VOSTRA POLVERE. La sede

    della ditta era nel Lower Broadway.La girò di nuovo e notò che era indirizzata a lui personalmente, non al-la Corinthian Rug Company. Sotto l'indirizzo c'era scritto PERSONALE ECONFIDENZIALE.

    Stringendola tra l'indice e il pollice, cercò di capire quale fosse la causadel gonfiore, ma non vi riuscì. Spinto dalla curiosità, prese il tagliacarte el'aprì. Sbirciò dentro e vide un biglietto piegato, della stessa carta pesantedella busta.

    «Che diavolo?...» esclamò ad alta voce. Non si trattava certo della soli-

    ta pubblicità. Estrasse il biglietto, meravigliandosi che qualche agenziapubblicitaria fosse riuscita a convincere una ditta di pulizie a inviare unqualcosa di così costoso. Il biglietto era sigillato con un adesivo e sul da-vanti portava scritta una sola parola: SORPRESA!

    Jason staccò l'adesivo e il biglietto gli si aprì di botto fra le mani, men-tre scattava una molla a spirale che diffondeva nell'aria una manciata dipolvere, mescolata a minuscole stelline lucenti.

    Dapprima Jason trasalì per il movimento inatteso, e starnutì parecchievolte a causa della polvere, ma poi le labbra gli si distesero in un sorriso.All'interno del biglietto c'era la scritta: CHIAMACI E PENSEREMO NOI APULIRE!

    Scosse la testa, stupito. Doveva ammettere che chiunque avesse esco-gitato quella pubblicità per l'ACME aveva avuto un'idea originale e intelli-gente, oltre che efficace. Si chiese addirittura se dovesse ingaggiarla, manon ne aveva bisogno, poiché il servizio di pulizia era fornito dal proprie-tario dello stabile.

    Gettò nel cestino biglietto e busta e si chinò a strofinare via dalla cami-

    cia le minuscole stelline luccicanti. Sentì di nuovo un pizzichìo nel naso efece una serie di starnuti talmente forti da fargli venire le lacrime agli oc-chi.

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    «Ne sono rimasti un po' dall'anno scorso. Sono nell'armadietto dei me-dicinali. Va' a prenderli! Non ho bisogno del medico!»

    Il sabato non fu una giornata positiva. Nel tardo pomeriggio Jason do-vette ammettere che, nonostante l'aspirina e gli antibiotici, stava decisa-

    mente peggio. L'oppressione che provava al petto si era trasformata in ve-ro e proprio dolore. La temperatura era salita a quaranta gradi e gli era ve-nuta la tosse. Ma ciò di cui si lamentava maggiormente era un mal di testatremendo, accompagnato da dolori ai muscoli.

    Ogni tentativo di raggiungere il dottor Goldstein fu vano, dato che ilmedico era andato nel Connecticut per il weekend. Il servizio di guardiamedica telefonica suggerì a Helen di rivolgersi al pronto soccorso più vi-cino, e lei seguì quel consiglio.

    Dopo una lunga attesa, Jason fu visitato da un medico che rimase col-

    pito dalle sue condizioni, soprattutto dopo una schermografia al torace,tanto che ordinò il ricovero immediato. Il caso fu assegnato al dottorHeitman, che fungeva da sostituto del dottor Goldstein. La diagnosi fu in-fluenza con polmonite secondaria, e vennero somministrati antibiotici pervia endovenosa.

    Jason non si era mai sentito così male in vita sua. Quando fu condottonella sua stanza, poco prima di mezzanotte, il dolore al petto era terribile,soprattutto se tossiva, e così pure il mal di testa. Passò a vederlo il dottorHeitman, che acconsentì alla sua richiesta di un antidolorifico.

    Trascorse circa mezz'ora prima che il farmaco facesse effetto e nel frat-tempo il medico se n'era andato. Jason era steso sul letto immobile, ma in-capace di dormire. Intuiva che all'interno del suo corpo infuriava una bat-taglia mortale. Girò la testa di lato a guardare Helen, nella penombra, e leafferrò una mano. Sua moglie era seduta accanto al letto, sveglia e silen-ziosa. Una lacrima rigò la guancia di Jason: ai suoi occhi, Helen era anco-ra la ragazza che era entrata per caso nel suo negozio ad Atene, tanti annifa.

    L'immagine della moglie cominciò a offuscarsi, mentre l'agognata in-sensibilità si impadroniva del suo corpo. A mezzanotte e trentacinque Ja-son Papparis si addormentò. Per sua fortuna, restò privo di sensi quandofu portato di corsa all'unità di terapia intensiva dal dottor Kevin Fowler,che intraprese un'inutile lotta per salvargli la vita.

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    Lunedì 18 ottobre, ore 4.30

    Il ronzio dei motori dell'aereo era irregolare. Un momento sembravanourlare mentre il velivolo puntava inesorabilmente verso terra, un attimodopo erano stranamente silenziosi, come se fossero stati spenti inavverti-tamente dal pilota.

    Jack Stapleton fissava la scena inorridito, sapendo che a bordo c'era lasua famiglia e che lui non poteva fare niente. L'aereo sarebbe precipitato!Gridò impotente: NO! NO! NO! 

    Il suo grido lo strappò dalle spire di quell'incubo ricorrente e si tirò sua sedere sul letto. Ansimava come se stesse giocando a basket, e il sudoregli rigava il volto. Restò disorientato, fin quando fece scorrere lo sguardo

    per la camera da letto. Il suono intermittente non proveniva da un aereo.Era il telefono di casa sua. Lo squillo rauco echeggiava implacabile nellanotte.

    Jack guardò automaticamente i numeri digitali della radiosveglia cherisplendevano nel buio: erano le quattro e mezzo del mattino! Non cono-sceva nessuno che lo avrebbe chiamato a quell'ora. Mentre allungava ilbraccio verso il telefono, si ricordò fin troppo bene la notte di otto anniprima, quando era stato svegliato da una telefonata con cui lo informavanoche sua moglie e le sue figlie erano perite in un incidente aereo.

    Afferrò il ricevitore e rispose con una voce stridula e venata di panico.«Oh, penso di averti svegliato», disse una voce di donna. La linea eradisturbata da un fruscio crepitante.

    «Non so proprio che cosa te lo faccia pensare», ribatté Jack, ormai ab-bastanza sveglio da essere sarcastico. «Chi parla?»

    «Sono Laurie. Mi spiace averti svegliato. Non potevo farne a meno.»Ridacchiò.

    Jack chiuse gli occhi, poi guardò di nuovo la radiosveglia, per assicu-rarsi di non avere visto male. Erano davvero le quattro e mezzo di matti-na!

    «Senti», continuò Laurie, «devo fare in fretta. Voglio cenare con te sta-sera.»

    «Dev'essere uno scherzo.»«Nessuno scherzo. È importante. Devo parlare con te, e vorrei farlo a

    cena. Ti invito io. Di' di sì!»«Suppongo», rispose Jack, riluttante a impegnarsi.«Lo prenderò per un sì. Ti dirò dove quando ci vedremo in ufficio,

    stamattina. Va bene?»«Immagino.» Jack non era poi così sveglio come aveva creduto. La suamente non lavorava con sufficiente rapidità.

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    «Perfetto», concluse Laurie. «Allora, ci vediamo.»Jack sbatté le palpebre, quando si rese conto che la sua interlocutrice

    aveva riattaccato. Riappese la cornetta e restò a fissare il buio. ConoscevaLaurie Montgomery da quattro anni, infatti era sua collega nell'ufficio di

    medicina legale della città di New York. Erano anche amici (in realtà, piùche amici) e in tutto quel tempo lei non lo aveva mai chiamato a un'orasimile. E c'era un valido motivo. Jack sapeva che non era un tipo mattinie-ro. Le piaceva leggere romanzi fino a notte fonda, il che trasformava l'al-zarsi mattutino in un'ardua impresa.

    Jack si lasciò ricadere sul guanciale con l'intenzione di dormire un'altraora e mezzo. A differenza di Laurie, lui invece era abituato ad alzarsi pre-sto, ma le quattro e mezzo erano un po' troppo presto, perfino per lui.

    Purtroppo gli divenne subito evidente che non se ne parlava proprio di

    farsi un'altra dormitina. Tra la telefonata e l'incubo, non riusciva a riad-dormentarsi. Dopo essersi girato e rigirato nel letto per circa mezz'ora,gettò via le coperte e si trascinò in bagno, ciabattando nelle pantofole inpelle d'agnello.

    Con la luce accesa, si guardò nello specchio mentre si passava una ma-no sul viso irsuto. Notò senza farci molto caso l'incisivo sinistro scheggia-to e la cicatrice sulla fronte, sotto l'attaccatura dei capelli, entrambi ricor-dini di un'indagine svolta al di fuori del lavoro, ma collegata a una serie dicasi di malattie infettive. La conseguenza inattesa era che ormai sul luogo

    di lavoro era diventato di fatto il guru delle malattie infettive.Sorrise alla propria immagine. Di recente si era ritrovato a pensare che,

    se otto anni prima avesse guardato in una sfera di cristallo e avesse vistose stesso com'era adesso, non si sarebbe certo riconosciuto. Allora vivevanel Midwest ed era un oftalmologo abbastanza corpulento, dall'abbiglia-mento classico. Adesso era un medico legale di New York, magro e scat-tante, dai capelli striati di grigio e rasati quasi a zero, un dente scheggiatoe una cicatrice sul viso. Per quanto riguardava i vestiti, dava la preferenzaa giubbotti, jeans scoloriti e camicie di cotone.

    Evitando di pensare alla propria famiglia, Jack rimuginò sul compor-tamento di Laurie, una vera sorpresa. Non era da lei. Era sempre riflessivae ci teneva all'etichetta. Non avrebbe mai telefonato a un'ora simile senzaun valido motivo. Jack si chiese quale fosse.

    Si fece la barba ed entrò nella doccia, cercando di immaginare comemai Laurie avesse chiamato nel cuore della notte per fissare un appunta-mento per la cena. Cenavano spesso insieme, ma di solito lo decidevano lìper lì. Perché questa volta aveva voluto fissarlo in anticipo, telefonando a

    un'ora talmente insolita?Mentre si asciugava, decise di richiamarla. Era ridicolo mettersi a in-dovinare che cosa le passava per la mente. Poiché lo aveva svegliato a

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    quel modo, era ragionevole chiederle di spiegarsi. Ma quando compose ilnumero trovò la segreteria telefonica. Pensando che fosse sotto la doccia,lasciò un messaggio in cui le chiedeva di richiamarlo.

    Ora che ebbe fatto colazione furono le sei. Dato che Laurie non lo ave-

    va ancora richiamato, rifece il suo numero. Rimase seccato nel sentire dinuovo la segreteria telefonica e riattaccò.Ormai faceva chiaro, quindi prese in considerazione l'idea di andare al

    lavoro presto. Fu a quel punto che gli venne in mente che forse Laurie loaveva chiamato dall'ufficio. Era sicuro che non fosse di turno, ma forsec'era un caso che la interessava in modo particolare.

    Chiamò l'ufficio di medicina legale e gli rispose Marjorie Zankowski,la centralinista del turno di notte. Gli disse di essere sicura al novanta percento che la dottoressa Laurie Montgomery non ci fosse. L'unico medico

    presente era quello di turno.Provando un senso di frustrazione che rasentava la collera, Jack si arre-se. Si ripromise di non spendere ulteriori energie a cercare di immaginareche cosa avesse in mente Laurie e andò in soggiorno, dove si rannicchiòsul divano con una delle molte riviste di argomento legale che non avevaancora letto.

    Alle sei e tre quarti si alzò, gettò da parte la rivista e staccò dalla paretedove stava appesa la sua mountain bike Cannondale. Tenendola in equili-brio su una spalla, scese i quattro piani del caseggiato in cui abitava. La

    mattina presto era l'unico momento della giornata in cui non si udivano ilitigi dell'appartamento 2B. Al piano terreno dovette circumnavigare laspazzatura che durante la notte era stata gettata giù dai piani superiori.

    Uscendo sulla 106esima Strada Ovest, inspirò a pieni polmoni l'aria ot-tobrina. Per la prima volta dall'inizio di quella strana giornata, si sentì rin-vigorito. Inforcò la bici viola e si diresse verso Central Park, oltrepassan-do, alla sua sinistra, il campo da pallacanestro del quartiere, completamen-te vuoto.

    Qualche anno prima, lo stesso giorno in cui aveva ricevuto il pugnoche gli aveva causato la scheggiatura dell'incisivo, gli avevano rubato lasua prima mountain bike. A quel punto aveva dato retta agli avvertimentidei colleghi, e in particolare di Laurie, sui rischi di usare la bicicletta incittà e non ne aveva comperata un'altra. Ma dopo essere stato rapinato nel-la metropolitana, era tornato alla sua idea originaria, mettendola in pratica.

    All'inizio, con la nuova bici, era stato un ciclista piuttosto prudente, macon il tempo era tornato alle vecchie abitudini. Quando andava avanti eindietro tra la casa e l'ufficio, dava libero sfogo alla sua vena autodistrutti-

    va lanciandosi a rotta di collo, una cosa da far rizzare i capelli in testa. Eraconvinto di non aver nulla da perdere. Quelle corse spericolate, una verasfida al fato, erano il suo modo di dire che, se era destino che la sua fami-

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    glia morisse, lui avrebbe dovuto morire con loro e forse avrebbe raggiuntosua moglie e le due figlie più prima che poi.

    Quando arrivò all'edificio che ospitava la sede centrale dell'ufficio dimedicina legale, sull'angolo della Prima Avenue con la 30esima Strada,

    aveva collezionato due belle discussioni con dei tassisti e un piccolo scon-tro con un autobus urbano. Come niente fosse, e senza nemmeno il fiato-ne, parcheggiò la bici al piano terreno, vicino al deposito delle bare per icadaveri che nessuno richiedeva, e si diresse verso la stanza delle identifi-cazioni. Qualcun altro si sarebbe sentito con i nervi a fior di pelle, dopo unviaggio così mozzafiato, ma non Jack. Gli scontri verbali e lo sforzo fisicolo calmavano, preparandolo agli invariabili ostacoli burocratici.

    Nel passare accanto a Vinnie Amendola diede un colpetto all'angolodel giornale che lui stava leggendo; il tecnico dell'obitorio era seduto alla

    scrivania che preferiva, quella subito all'interno della stanza. Jack gli lan-ciò anche un «ciao», ma Vinnie lo ignorò. Come al solito, era impegnato amandare a mente i risultati sportivi del giorno prima.

    Vinnie lavorava lì da più tempo di Jack. Era uno sgobbone, ma si eraritrovato per due volte sull'orlo del licenziamento per aver fatto trapelaredelle informazioni che avevano imbarazzato l'ufficio e avevano messo inpericolo Jack e Laurie. Il motivo per cui Vinnie era stato soltanto ammo-nito e sottoposto a un periodo di prova, anziché perdere il posto, era dovu-to alle circostanze attenuanti del suo comportamento. Un'indagine aveva

    determinato che era stato vittima di un'estorsione da parte di alcuni ripu-gnanti esponenti della malavita. Il padre di Vinnie era vagamente collega-to con la mafia.

    Jack salutò il dottor George Fontworth, un collega corpulento che ave-va un'anzianità maggiore di lui di ben sette anni. George stava iniziandoproprio allora a svolgere la mansione che gli sarebbe spettata per tutta lasettimana: controllare i decessi della notte precedente e decidere per qualifosse necessaria l'autopsia e a chi assegnarla. Era per quello che si trovavagià lì. Normalmente era l'ultimo ad arrivare.

    «Un bel benvenuto», mugugnò Jack nel vedere che anche George, co-me Vinnie, non rispondeva al suo saluto. Si riempì la tazza con il caffèche trovò già pronto, come al solito. Vinnie arrivava sempre prima deglialtri tecnici per assistere il medico di turno nel caso avesse bisogno. Unadelle sue incombenze era di preparare il caffè in un bricco che metteva adisposizione di tutti.

    Con la tazza in mano, Jack si avvicinò a George e diede un'occhiata dadietro le sue spalle ai fogli che teneva in mano.

    «Scusa, eh!» gli disse il collega in tono petulante, e piegò i fogli inmodo che lui non potesse guardarli. Una delle sue fobie era che la gentegli leggesse dietro le spalle.

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    Jack e George non erano mai andati molto d'accordo. Jack non eramolto tollerante verso la mediocrità e si rifiutava per principio di nascon-dere ciò che provava. George poteva anche possedere credenziali astro-nomiche (aveva fatto pratica con un gigante della medicina legale) ma, a

    parer suo, sul lavoro si comportava in modo superficiale. Jack non nutrivarispetto per lui.Sorrise alla reazione di George. Provava un piacere perverso nel pun-

    zecchiarlo. «Niente di particolarmente interessante?» gli domandò, e giròattorno alla scrivania, portandosi sul davanti. Cominciò a sfogliare conl'indice le varie cartellette, per leggere le diagnosi presunte.

    «Avevo tutto in ordine!» sbottò George. Gli spinse da parte la mano eristabilì l'integrità fisica della pila di cartellette. Le stava disponendo inbase alla causa e alle modalità del decesso.

    «Che cos'hai da darmi?» chiese ancora Jack. Una delle cose che glipiacevano maggiormente del suo lavoro era che ogni giorno non sapevamai di che cosa avrebbe dovuto occuparsi. Quando era oftalmologo nonera così. Sapeva che cosa doveva fare ogni singolo giorno con tre mesi dianticipo.

    «Ho un caso di malattia infettiva», gli rispose il collega. «Anche se noncredo che sia particolarmente interessante. Se lo vuoi, è tuo.»

    «Come mai lo hanno mandato qui? Niente diagnosi?»«Solo una diagnosi presunta: probabilmente influenza, con polmonite

    secondaria. Ma il paziente è morto prima che siano arrivati i risultati dellecolture. A complicare le cose c'è il fatto che non si è visto niente nella co-lorazione di Gram. E per di più il suo medico era via per il weekend.»

    Jack prese la cartelletta. Il nome era Jason Papparis. Estrasse la schedainformativa compilata da Janice Jaeger, l'investigatrice legale (chiamataanche assistente del medico) del turno di notte. Nel dare una rapida oc-chiata alla scheda, Jack annuì ammirato: Janice si era rivelata, come al so-lito, molto scrupolosa. Dalla volta in cui le aveva suggerito di chiedere in-formazioni sui viaggi all'estero e sui contatti con animali, per i casi infet-tivi, non aveva mai mancato di farlo.

    «Accidenti se era un'influenza potente!» commentò Jack. Aveva notatoche il deceduto era rimasto in ospedale meno di ventiquattr'ore. Osservòanche, però, che era un fumatore accanito e che nell'anamnesi erano pre-senti problemi alle vie respiratorie. Questo sollevava la questione se fossestato particolarmente potente l'agente infettivo o insolitamente predispostoil paziente.

    «Lo vuoi o no?» insisté George. «Stamattina abbiamo un sacco di casi.

    Te ne ho già assegnati degli altri, tra cui quello di un prigioniero mortodurante la custodia cautelare.»«Che seccatura!» borbottò Jack. Sapeva che tali casi avevano spesso

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    complicate ricadute di tipo politico e sociale. «Sei sicuro che Calvin, ilnostro intrepido sostituto del capo, non lo voglia fare lui?»

    «Mi ha telefonato prima e mi ha detto di assegnarlo a te», replicò Ge-orge. «Ha già tastato il polso su nelle alte sfere politiche e ha pensato che

    tu sei quello che può svolgere meglio questa incombenza.»«Questa sì che è bella», commentò Jack. Non aveva senso. Il sostitutodel capo, come pure il capo in persona, stavano sempre a lamentarsi per lasua mancanza di diplomazia e per il fatto che non teneva in considerazio-ne gli aspetti politici e sociali impliciti nella professione di un medico le-gale.

    «Se non vuoi il caso infettivo, ti darò un'overdose», gli propose Geor-ge.

    «Prendo l'infettivo», decise Jack. I casi di overdose non gli piacevano.

    Erano ripetitivi, e il loro ufficio ne era invaso. Non offrivano sfide intellet-tuali.«Bene», disse George, e fece un segno sul suo elenco.Desideroso di avvantaggiarsi sul tempo, Jack si avvicinò a Vinnie e gli

    piegò l'angolo del giornale. Il tecnico sollevò lo sguardo su di lui, immu-sonito, gli occhi neri come il carbone. Sapeva quello che sarebbe seguito,e non gli piaceva. Succedeva quasi tutti i giorni.

    «Non mi dirai che vuoi già cominciare?» gemette.«Chi dorme non piglia pesci», replicò Jack. Quel proverbio trito e ritri-

    to era la risposta automatica all'invariabile mancanza di entusiasmo cheVinnie mostrava ogni mattina. Quel commento non mancava mai di pro-vocarlo ulteriormente, anche se sapeva che lui lo avrebbe fatto.

    «Vorrei tanto sapere perché non potresti arrivare qui quando ci vengo-no tutti gli altri», borbottò Vinnie.

    Nonostante le apparenze, loro due andavano magnificamente d'accor-do. A causa della tendenza di Jack ad arrivare presto, lavoravano invaria-bilmente insieme e ormai avevano messo a punto un rituale che scorrevaliscio come l'olio. Fra tutti i tecnici, era Vinnie quello che Jack preferiva, eVinnie preferiva Jack. Secondo lui, Jack non «cazzeggiava».

    «Hai già visto la dottoressa Montgomery?» gli chiese Jack mentre sidirigevano verso l'ascensore.

    «È troppo intelligente per venire così presto», rispose il tecnico. «Ènormale, lei, mica come te.»

    Mentre attraversavano la stanza del centralino, Jack notò la luce accesanel cubicolo del sergente Murphy. Il sergente faceva parte del dipartimen-to di polizia di New York, sezione persone scomparse. Erano anni che era

    stato distaccato presso l'ufficio di medicina legale e non arrivava mai pri-ma delle nove.Curioso di verificare se il focoso irlandese fosse effettivamente nella

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    sua stanza, Jack fece una piccola deviazione e cacciò dentro la testa. Nonsoltanto Murphy c'era, ma non era solo. Seduto dall'altra parte della suascrivania c'era il tenente Lou Soldano, investigatore della squadra omicidi,un visitatore assiduo dell'obitorio. Jack lo conosceva abbastanza bene, in

    particolare perché era un buon amico di Laurie. Vicino a lui c'era un altrouomo in borghese che Jack non aveva mai visto.«Jack!» lo chiamò Lou appena lo vide. «Entra un minuto! Ti voglio

    presentare una persona.»Jack entrò nella minuscola stanzetta e Lou si alzò. Come al solito, ave-

    va l'aria di essere rimasto alzato tutta la notte. Non si era sbarbato (leguance sembravano imbrattate di fuliggine) e aveva profonde occhiaie.Inoltre, gli abiti erano stazzonati, la camicia aveva il bottone del collettoaperto e il nodo della cravatta era allentato.

    «Questo è l'agente speciale Gordon Tyrrell», disse Lou, indicandol'uomo seduto accanto a lui. Quello si alzò e tese la mano.«Significa FBI?» chiese Jack, mentre gliela stringeva.«Proprio così», rispose Gordon.Jack non aveva mai stretto la mano a un membro del Federal Bureau of

    Investigation. Non era decisamente l'esperienza che si immaginava. Lamano di Gordon era liscia, quasi effeminata, e la stretta debole ed esitante.L'agente era un uomo minuto, dai lineamenti delicati, di certo non lo ste-reotipo del macho di cui si era nutrito Jack. Indossava abiti classici, per-

    fettamente in ordine. La giacca era completamente abbottonata. Per certiaspetti era l'antitesi di Lou.

    «Che cosa sta succedendo?» chiese Jack. «Non riesco a ricordarmi l'ul-tima volta che ho visto qui Murphy così di buon'ora.»

    Murphy rise e fece per protestare, ma Lou lo interruppe.«La scorsa notte c'è stato un omicidio che preoccupa particolarmente

    l'FBI. Speriamo che l'autopsia possa far luce sulle sue dinamiche.»«Che genere di caso?» volle sapere Jack. «Arma da fuoco o pugnala-

    te?»«Un po' di tutto», rispose Lou. «Il cadavere è uno sfacelo. Tanto da ri-

    voltare lo stomaco anche a te.»«È già stata fatta l'identificazione?» chiese ancora Jack. A volte, quan-

    do i cadaveri erano molto danneggiati, l'identificazione era la parte piùdifficile.

    Aggrottando le sopracciglia, Lou guardò Gordon. Era evidente che nonsapeva quanto fosse riservato quel caso.

    «Va bene», concesse Gordon.

    «Sì, lo hanno identificato», rispose allora Lou. «Si chiamava Brad Cas-sidy. Un bianco di ventidue anni, uno skinhead.»«Vuoi dire uno di quei razzisti svitati con i tatuaggi nazi, il giubbotto

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    di pelle nera e gli stivali neri?» Jack ne aveva visto qualche esemplare, ditanto in tanto, che ciondolava per i parchi cittadini. Quando andava a tro-vare sua madre, nel Midwest, ne vedeva anche di più.

    «Ci sei», confermò Lou.

    «Gli skinhead non hanno tutti delle decorazioni nazi», osservò Gordon.«Sì, infatti», confermò Lou. «E alcuni di loro non hanno nemmeno piùle teste rasate. Il loro stile ha subito qualche modificazione.»

    «La musica no», intervenne di nuovo Gordon. «Quella è stata proba-bilmente la parte più consistente dell'intero movimento e di certo fa partedello stile.»

    «Questa è una cosa di cui io non so proprio niente», ammise Lou.«Non mi sono mai occupato di musica.»

    «Be', è importante rispetto agli skinhead americani», spiegò Gordon.

    «La musica ha fornito al movimento la sua ideologia di odio e violenza.»«Stai scherzando?» chiese Lou. «Solo a causa della musica?»«Non esagero. Qui negli Stati Uniti, a differenza che in Inghilterra, il

    movimento skinhead è iniziato semplicemente come uno stile, tipo ilpunk, con atteggiamenti offensivi e scioccanti nell'aspetto e nel compor-tamento. Ma la musica di gruppi come gli Screwdriver e i Brutal Attack eun mucchio di altri ha creato un cambiamento. I testi delle canzoni hannopromosso una filosofia esagitata di sopravvivenza e ribellione. Ecco dadove provengono l'odio e la violenza.»

    «Così, lei è una specie di esperto degli skinhead?» domandò Jack.«Solo per necessità», si schermì Gordon. «Il mio vero campo di inte-

    resse sono le milizie di estrema destra. Ma ho dovuto espandere il mioraggio di indagine. Purtroppo, la Resistenza Bianca Ariana si è messa areclutare skinhead per utilizzarli come una specie di truppe di attacco, at-tingendo a quel pozzo di odio e di violenza che la musica ha generato.Adesso un sacco di gruppi neofascisti hanno seguito l'esempio per le loromilizie, facendo fare ai ragazzi il lavoro sporco e interessandoli alla pro-paganda nazista.»

    «Di solito questi tipi non se la prendono con le minoranze?» chieseJack. «Che cosa è accaduto stavolta? Qualcuno ha reagito?»

    «Gli skinhead hanno la tendenza a combattersi fra loro, oltre che attac-care gli altri», spiegò Gordon. «E questo è proprio un caso simile.»

    «Come mai così tanto interesse per Brad Cassidy? Avrei pensato cheuno in meno di questi tizi non farebbe che rendervi più facile la vita.»

    Vinnie cacciò dentro la testa nella stanza, informando Jack che, se a-vesse continuato a dar fiato alla bocca, lui sarebbe tornato a leggere il New

    York Post. Jack lo scacciò via con un gesto della mano.«Brad Cassidy lo avevamo reclutato come potenziale informa tore», ri-velò Gordon. «Aveva ottenuto degli sconti di pena per diversi crimini, in

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    cambio della collaborazione. Stava cercando di scoprire una organizza-zione chiamata Esercito Ariano del Popolo.»

    «Non ne ho mai sentito parlare», commentò Jack.«Nemmeno io», ammise Lou.

    «È un gruppo piuttosto nebuloso», spiegò Gordon. «Tutto ciò che sap-piamo è quello che siamo riusciti a intercettare da Internet che, a proposi-to, è diventato il maggior mezzo di comunicazione di questi pazzoidi neo-fascisti. Sappiamo che l'Esercito Ariano del Popolo ha la sua collocazionenell'area metropolitana di New York e che ha reclutato alcuni skinheadlocali. Ma la parte più allarmante sono alcuni vaghi riferimenti a un im-minente avvenimento di grande importanza. Temiamo che abbiano inmente qualcosa di violento.»

    «Una cosa tipo il bombardamento del Murrah Building a Oklahoma»,

    aggiunse Lou. «Un atto terroristico in grande stile.»«Buon Dio!» esclamò Jack.«Non abbiamo idea del che cosa, del dove e del quando», ammise

    Gordon. «Speriamo che sia solo un atteggiamento, una vanteria: spessoper questi gruppi è così. Non vogliamo correre rischi. Poiché il contro-spionaggio è l'unica vera difesa contro il terrorismo, stiamo facendo delnostro meglio. Abbiamo avvisato dell'emergenza gli amministratori dellacittà, ma purtroppo sono poche le informazioni che siamo in grado di da-re.»

    «In questo momento l'unica traccia che abbiamo è uno skinhead mor-to», commentò Lou. «Ecco perché ci interessa così tanto l'autopsia. Spe-riamo in un indizio, qualsiasi indizio.»

    «Volete che ve la faccia subito?» si offrì Jack. «Stavo per dedicarmi aun caso infettivo, ma può aspettare.»

    «Ho chiesto a Laurie di farla», disse Lou, arrossendo quel tanto cheglielo permetteva l'incarnato scuro, da italiano del Sud. «E lei ha detto chele andava bene.»

    «Quando le hai parlato?» chiese Jack.«Stamattina.»«Davvero», commentò Jack. «Dove l'hai trovata? A casa?»«In realtà mi ha chiamato lei. Mi ha trovato al cellulare.»«Che ora era?»Lou esitò.«È stato verso le quattro e mezzo di mattina?» insisté Jack. Il mistero

    di Laurie si stava infittendo.«Più o meno», ammise Lou.

    Jack lo prese per il gomito. «Scusateci», disse a Gordon e al sergenteMurphy, e portò Lou nella stanza del centralino. Marjorie Zankowski ri-volse loro una rapida occhiata, prima di rimettersi a lavorare a maglia. Il

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    centralino era muto, in quel momento.«Laurie mi ha chiamato alle quattro e mezzo», disse Jack in un sussur-

    ro. «Mi ha svegliato. Non che mi stia lamentando. In realtà è stato un beneche mi abbia svegliato. Avevo un incubo. Ma so che erano esattamente le

    quattro e mezzo perché ho guardato la sveglia.»«Be', forse erano le quattro e trentacinque quando ha chiamato me»,disse Lou. «Non me lo ricordo esattamente. Ho avuto molto da fare, sta-notte.»

    «Per cosa ha chiamato?» chiese ancora Jack. «Era un'ora strana per fa-re una telefonata, non ti pare?»

    Lou gli piantò addosso i suoi occhi scuri. Era evidente che si stavachiedendo se fosse opportuno rivelargli il motivo della chiamata di Laurie.

    «Va bene, forse non era una domanda da farsi», ammise Jack, solle-

    vando le mani in uno scherzoso gesto di difesa. «Facciamo così, invece:sarò io a dirti perché mi ha telefonato. Voleva cenare con me, stasera. Hadetto che era importante, che voleva parlarmi. Questo spiega qualcosa,considerato ciò che ha detto a te?»

    Lou increspò le labbra ed emise un leggero soffio. «No. Mi ha detto lastessa cosa. Mi ha invitato a cena.»

    «Non mi stai prendendo in giro, vero?» Non c'era niente di razionale intutto ciò.

    Lou scosse la testa.

    «Che cosa le hai detto?» gli chiese Jack.«Che ci sarei andato.»«Di cosa pensi che ti volesse parlare?»Lou esitò. Era di nuovo evidente che si trovava a disagio. «Immagino

    che sperassi di sentirle dire che le mancavo. Sai, una cosa del genere.»Quella rivelazione era toccante. Gli sembrava evidente che Lou fosse

    innamorato di Laurie. Questo costituiva una complica zione, perché permolti versi anche lui provava la stessa cosa per lei, anche se era riluttantead ammetterlo.

    «Non devi dire niente», aggiunse Lou. «Lo so di essere un babbeo. So-lo che a volte mi sento solo, e apprezzo la sua compagnia. In più, si trovabene con i miei figli.»

    Jack gli mise una mano sulla spalla. «Non penso affatto che tu sia unbabbeo. Assolutamente. Speravo solo che potessi aiutami a far luce suquello che ha in mente.»

    «Non ci resta che chiederglielo. Ha detto che arriverà un po' tardi sta-mattina.»

    «Conoscendo Laurie, ci farà aspettare fino a stasera», commentò Jack.«Ha detto quanto avrebbe fatto tardi?»«No.»

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    «Anche questo è strano. Se alle quattro e mezzo era già in piedi, comemai farà tardi?»

    Lou si strinse nelle spalle.Jack ritornò nella stanza delle identificazioni, e intanto gli frullavano

    nella mente pensieri relativi a Laurie e al terrorismo Era una strana com-binazione. Rendendosi conto che al momento c'era poco che potesse fareper entrambe le cose, strappò per la seconda volta Vinnie dal suo giornale,deciso a dare inizio alla giornata di lavoro. Sentiva il bisogno di concen-trarsi su un problema che avesse una soluzione immediata.

    Nel passare davanti all'ufficio di Janice Jaeger, ficcò dentro la testa.«Ehi, hai fatto proprio un bel lavoro con il caso Papparis», si complimentòcon lei.

    Janice sollevò lo sguardo dalla scrivania. Le occhiaie erano molto evi-

    denti, come al solito. Jack non poté fare a meno di chiedersi se dormivaalmeno un po'.«Grazie», rispose Janice.«Faresti meglio a concederti un po' di riposo.»«Stacco appena avrò concluso questo caso.»«C'è niente di extra che dovremmo sapere riguardo Papparis?» le chie-

    se Jack.«Penso che sia tutto nella scheda. A parte il fatto che il medico con cui

    ho parlato era decisamente sconvolto. Mi ha detto di non aver mai visto

    un'infezione più aggressiva. Gli farebbe piacere che lo chiamassi, dopoaver fatto l'autopsia. Il suo nome e il numero di telefono sono sul retrodella scheda informativa.»

    «Gli telefonerò appena avremo scoperto qualcosa», promise Jack.Entrò in ascensore con Vinnie, che borbottò: «Questo caso mi fa venire

    la pelle d'oca. Mi ricorda il caso di peste che ci è capitato qualche anno fa.Spero che questo non sia l'inizio di qualche tipo di epidemia».

    «Lo spero anch'io», replicò Jack. «A me comunque ricorda di più uncaso di influenza che quello di peste. Dovremo stare attentissimi alla con-taminazione.»

    «Certo, non occorre nemmeno dirlo. Se fosse possibile, mi mettereiaddosso due scafandri, invece di uno.»

    Vinnie indossava già gli indumenti da lavoro e così, mentre Jack anda-va a spogliarsi, si infilò lo scafandro. Poi entrò nella sala delle autopsie, la«fossa», come la chiamavano scherzosamente, e intanto Jack passò in ras-segna tutto il materiale contenuto nella cartelletta, in particolare il rappor-to investigativo redatto da Janice Jaeger. Una lettura più attenta gli fece

    notare una cosa che gli era sfuggita la prima volta: il deceduto commer-ciava in tappeti. Jack si chiese che tipo di tappeti e da dove provenissero.Si ripromise di parlarne con gli investigatori legali.

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    Poi pose su un visore i raggi X di Papparis. Comprendevano tutto ilcorpo e quindi non erano tanto validi dal punto di vista diagnostico. Inparticolare, il dettaglio del petto era indistinto. Però c'erano due cose cheattirarono la sua attenzione: c'erano tracce scarsissime di polmonite (il che

    sembrava sorprendente, considerato il rapido deterioramento delle vie re-spiratorie) e la parte centrale del petto, compresa tra i due polmoni (il me-diastino) pareva più larga del solito.

    Infine si bardò in quello che veniva chiamato scafandro: una tuta anti-contaminazione che copriva anche la testa, con una visiera di plastica tra-sparente e fornita di un sistema di ventilazione a batterie che assicurava ilricambio d'aria, filtrando quella proveniente dall'esterno. Nel frattempoVinnie aveva sistemato il cadavere sul tavolo e aveva allineato tutti i reci-pienti per i campioni.

    «Che cosa diavolo hai fatto là fuori?» si lamentò, quando comparveJack. «A quest'ora potevamo aver già finito.»Jack rise.«E guarda un po' questo qui», aggiunse Vinnie, indicando il cadavere.

    «Non ha l'aria di uno che sta andando a ballare.»«Che memoria!» commentò Jack, riconoscendo una propria battuta.

    L'aveva fatta in occasione del caso di peste a cui si era riferito Vinnie po-co prima ed era entrata a far parte del loro umorismo macabro.

    «E non è la sola cosa che mi ricordo», aggiunse Vinnie. «Mentre tu eri

    lì a perdere tempo, ho cercato punture di artropodi e non ne ho trovate.»«Accidenti, sono impressionato!» commentò Jack. Durante il caso di

    peste aveva detto a Vinnie che gli artropodi, in particolare gli insetti e gliaracnidi, svolgevano un ruolo importante come vettori nella diffusione dimolte malattie infettive. Quando si eseguiva l'autopsia di uno di questi ca-si, era importantissimo cercarne eventuali tracce. «Prima o poi mi ruberaiil lavoro.»

    «Quello che mi piacerebbe sarebbe prendere il tuo stipendio», replicòVinnie. «Il lavoro te lo puoi tenere.»

    Jack eseguì l'esame esterno. Vinnie aveva ragione: non c'erano segni dipunture. Non si scorgevano nemmeno porpora o altri indizi di emorragiasottocutanea, anche se la pelle sembrava avere una tonalità leggermentescura.

    L'esame interno fu tutta un'altra storia. Appena Jack aprì il petto, la pa-tologia fu subito evidente. Sulla superficie dei polmoni c'era inequivoca-bilmente del sangue, una condizione chiamata effusione pleurica emorra-gica. Abbondante emorragia e segni di infiammazione erano visibili anche

    nelle strutture situate fra i polmoni, che comprendevano l'esofago, la tra-chea, i bronchi maggiori, i vasi sanguigni e una conglomerazione di nodilinfatici. Questo reperto veniva chiamato mediastinite emorragica, e spie-

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    gava l'ombra piuttosto larga che si notava nei raggi X.«Accidenti!» commentò Jack. «Con tutta questa emorragia non credo

    che sia stata l'influenza. Qualsiasi cosa fosse, si è diffusa come un incen-dio di sterpaglie.»

    Vinnie lo guardò dando segni di nervosismo. Faceva fatica a vedergli ilviso, a causa del riflesso delle luci fluorescenti sulla visiera di plastica, manon gli piaceva il tono della sua voce. Era difficile che Jack restasse im-pressionato da ciò che vedeva nella sala delle autopsie, ma in quel mo-mento lo sembrava proprio.

    «Che cosa pensi che sia?» gli chiese.«Non lo so», ammise Jack. «Ma la combinazione fra la mediastinite

    emorragica e l'effusione pleurica mi fa squillare un campanello in un an-golino della mente. Da qualche parte ho letto qualcosa al proposito, solo

    che non mi ricordo dove. Comunque, sia quel che sia, si tratta di una cosadavvero aggressiva.»Vinnie compì istintivamente un passo indietro.«Adesso non farmi il coniglio», lo ammonì Jack. «Torna qua e aiutami

    a tirar fuori gli organi addominali.»«Va be', ma promettimi di essere prudente. Certe volte vai un po' di

    fretta con quel coltello», borbottò Vinnie, accostandosi di nuovo al tavolo.«Io sono sempre prudente.»«Certo!» esclamò Vinnie con sarcasmo. «Ecco perché te ne vai in giro

    per la città con quella tua bici.»Mentre si concentravano sul loro caso, cominciarono ad arrivare altri

    cadaveri che vennero posti sui rispettivi tavoli dai tecnici dell'obitorio. Poiarrivarono uno dopo l'altro i vari medici legali. Prometteva di essere unagiornata con molto lavoro, nella fossa.

    «Che cosa ti è toccato?» chiese una voce, alle spalle di Jack.Lui si raddrizzò e si voltò, trovandosi davanti il dottor Chet McGovern,

    il collega con cui divideva l'ufficio. Erana stati assunti lì dentro a distanzadi un mese uno dall'altro e andavano d'accordissimo, soprattutto perchéentrambi si appassionavano al lavoro che facevano. Anche Chet avevasperimentato un altro campo della medicina, prima di dedicarsi alla pato-logia legale. Dal punto di vista della personalità, invece, erano alquantodiversi. Chet non era sarcastico come Jack e non gli capitava di avere pro-blemi con i superiori.

    Jack gli descrisse sommariamente il caso Papparis, indicandogli la pa-tologia del petto. Gli mostrò anche la superficie incisa dei polmoni, cherivelava una polmonite appena accennata.

    «Interessante», commentò Chet. «L'infezione doveva essere di quelleche si propagano nell'aria.»«Senz'altro. Ma perché solo qualche accenno di polmonite?»

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    «E che ne so? Sei tu l'esperto di malattie infettive.»«Vorrei che fosse vero», mormorò Jack, rimettendo con precauzione il

    polmone nella bacinella. «Sono sicuro di aver sentito parlare di questacombinazione di reperti, ma accidenti se mi ricordo di cosa si tratta!»

    «Scommetto che lo scoprirai», lo rincuorò Chet e fece per andarsene,ma Jack lo chiamò, chiedendogli se avesse visto Laurie.Lui scosse la testa. «Non ancora.»Jack sollevò lo sguardo verso l'orologio alla parete. Erano quasi le no-

    ve. Avrebbe dovuto essere lì già da un'ora. Alzò le spalle e continuò a la-vorare.

    Adesso doveva rimuovere il cervello. Poiché lui e Vinnie lavoravanospessissimo insieme, avevano stabilito una routine di incisioni nella testache non richiedeva parole. Anche se Vinnie si sobbarcava un bel po' di la-

    voro, era sempre Jack a sollevare la calotta cranica.«Accidenti!» commentò, appena il cervello fu visibile. Come i polmo-ni, aveva molto sangue sulla superficie. Quando questo si verifica in uncaso infettivo, in genere significa meningite emorragica, o un'infiamma-zione delle meningi talmente forte da causare emorragia.

    «Questo tizio doveva avere un mal di testa del diavolo», fu la supposi-zione di Vinnie.

    «Sì, e anche un dolore opprimente al petto», confermò Jack. «Il pove-rino probabilmente si sentiva come se fosse stato investito da un treno.»

    «Che cos'hai tra le mani, dottore?» chiese una voce profonda. «Un a-neurisma che è scoppiato o la vittima di un trauma?»

    «Nessuno dei due», rispose Jack. «È un caso infettivo.» Si voltò e si ri-trovò davanti la sagoma imponente del dottor Calvin Washington, il sosti-tuto del capo.

    «Proprio l'ideale», commentò quello. «Le malattie contagiose sono pa-ne per i tuoi denti. Hai fatto una diagnosi provvisoria?»

    Calvin si chinò sul tavolo per vedere meglio. Vicino a lui Jack, perquanto muscoloso, appariva minuto. Calvin, un vero gigante afroamerica-no con predisposizione per l'atletica, avrebbe potuto diventare un giocato-re di football professionista, se non avesse preferito la facoltà di medicina.Suo padre aveva esercitato a Filadelfia come chirurgo di tutto rispetto e luiera deciso a seguire la carriera paterna.

    «Fino a due secondi fa non ne avevo la più pallida idea», rispose Jack,«ma appena ho visto il sangue sulla superficie del cervello mi è venuta inmente una cosa. Mi ricordo di aver letto del carbonchio polmonare, unpaio di anni fa, quando sgobbavo sulle malattie infettive.»

    «Carbonchio?» Calvin si lasciò andare a una risatina di incredulità.Jack aveva la peculiarità di venirsene fuori con diagnosi esotiche. Anchese spesso finiva con l'aver ragione, il carbonchio, la malattia infettiva che

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    colpisce i ruminanti e occasionalmente trasmessa agli umani, sembravaandare oltre ogni possibile realtà. In tutti gli anni trascorsi come anatomo-patologo, ne aveva visto un solo caso, un allevatore di bestiame dell'Okla-homa, e non era polmonare. Era la forma più comune, quella cutanea.

    «A questo punto la mia supposizione è il carbonchio», disse Jack. «Sa-rà interessante vedere se il laboratorio lo confermerà. Naturalmente, po-trebbe saltar fuori che questo paziente aveva un sistema immunitariocompromesso, di cui nessuno era a conoscenza. Allora magari si trattereb-be di un agente patogeno che si trova in qualsiasi giardino.»

    «L'esperienza mi dice di non fare scommesse con te, ma hai scelto unamalattia davvero rara, qui negli Stati Uniti.»

    «Be', non mi ricordo quanto sia rara. Tutto ciò che mi ricordo è che vadi pari passo con la mediastinite emorragica e con la meningite.»

    «Che ne dici del meningococco?» propose Calvin. «Perché non sce-gliere qualcosa di più comune?»«Il meningococco è possibile», ammise Jack, «ma non lo metterei in

    cima alla lista, non con la mediastinite emorragica. Inoltre, non c'era por-pora, e con il meningococco mi aspetterei una maggiore purulenza sullasuperficie del cervello.»

    «Be', se salta fuori che è carbonchio fammelo sapere più prima chepoi», fu la richiesta di Calvin. «Sono certo che all'ufficiale sanitario inte-resserà. Quanto al prossimo caso, ti hanno informato che sono stato io a

    chiedere di assegnarlo a te?»«Sì, ma perché io? Tu e il capo vi lamentate sempre della mia mancan-

    za di diplomazia. Un decesso durante la custodia cautelare solleva sempreun vespaio politico. Sei sicuro di volere me?»

    «I tuoi servigi sono stati espressamente richiesti da persone al di fuoridi questa sede», gli rivelò Calvin. «Evidentemente la tua mancanza di di-plomazia è considerata un tratto positivo dalla comunità afroamericana.Puoi essere una spina nel fianco per me e per il capo, ma ti sei conquistatouna reputazione di integrità professionale presso certi leader di gruppi mi-noritari.»

    «Forse grazie ai miei exploit sul campo di basket del quartiere. Faccioraramente falli.»

    «Perché devi sempre buttare in vacca i complimenti?» Il tono di Calvinera irritato.

    «Magari perché mi mettono a disagio. Preferisco le critiche.»«Santa pazienza!» esclamò Calvin. «Senti, assegnando questo caso a te

    riusciremo forse a evitare qualsiasi contestazione sul fatto che questo uffi-

    cio si presti a un eventuale insabbiamento.»«La vittima è un afroamericano?»«Evidentemente. E l'agente è bianco. Ti sei fatto un'idea?»

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    «Me la sono fatta, sì.»«Bene», concluse Calvin. «Dammi una voce quando sarai pronto. Ti

    darò una mano. Di fatto, lo faremo insieme.»Quando Calvin se ne fu andato, Jack guardò Vinnie e gemette. «Ci vor-

    ranno tre ore! Calvin sarà anche scrupoloso, ma è più lento di una tartaru-ga.»«Quanto è contagioso il carbonchio?» domandò Vinnie.«Rilassati! Non ti beccherai niente. Da quanto mi ricordo, non si tra-

    smette da persona a persona.»«Non so mai quando crederti e quando no.»«A volte non lo so neppure io», ammise Jack scherzandoci sopra. «Ma

    stavolta puoi fidarti di me.»Portarono a termine il caso Papparis senza scambiare altre parole.

    Mentre Jack stava raccogliendo i campioni da portare in laboratorio, alpiano di sopra, entrò Laurie. La riconobbe dalla sua risata caratteristica;sembrava di splendido umore. Aveva il viso completamente coperto, datoche anche lei indossava lo scafandro, come pure le due persone che l'ac-compagnavano. Jack suppose che fossero Lou e l'agente dell'FBI.

    Appena poté, si avvicinò al tavolo attorno al quale si erano raggruppatii nuovi venuti. A quel punto non si sentivano più risate.

    «Mi state dicendo che questo tizio è stato crocifisso?» chiese Laurie,sollevando la mano destra del cadavere. Jack vide che dal palmo spuntava

    una grossa punta di metallo.«Sì, ti sto dicendo proprio questo», rispose Lou. «E non è che l'inizio.

    Hanno inchiodato la croce a un palo del telefono e poi ci hanno inchiodatosopra il ragazzo.»

    «Buon Dio!» esclamò Laurie.«Poi hanno cercato di scorticarlo. Per lo meno la parte davanti.»«Ma è tremendo!»«Pensa che fosse vivo mentre lo sottoponevano a questo trattamento?»

    domandò Gordon.«Temo di sì», rispose Laurie. «Lo si capisce dall'abbondanza dell'e-

    morragia. Non c'è dubbio che fosse vivo.»Jack si avvicinò per attirare l'attenzione di Laurie, volendo scambiare

    due parole con lei, ma vide il cadavere. Per quanto credesse di essersi as-suefatto all'immagine della morte, il corpo di Brad Cassidy lo fece restaresenza fiato. Il giovane era stato crocifisso e parzialmente spellato vivo, gliavevano cavato via gli occhi e tagliato i genitali. Il corpo era cosparso divarie ferite superficiali inferte con qualcosa di tagliente. La pelle del tora-

    ce era stata strappata e gli ricadeva sulle gambe. Su essa era visibile il ta-tuaggio di un vichingo, di notevoli dimensioni. Al centro della fronte eratatuata una piccola svastica.

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    «Perché un vichingo?» chiese Jack.«Ciao Jack, caro», lo salutò Laurie, con vivacità. «Hai già finito il tuo

    primo caso? Conosci l'agente Gordon Tyrrell? Com'è andata la tua pedala-ta, stamattina?»

    «Bene.» Le domande erano arrivate così in fretta che Jack aveva rispo-sto solo all'ultima.«Jack insiste ad andare in bici per la città», spiegò Laurie. «Dice che

    gli schiarisce la mente.»«Non credo che sia una cosa particolarmente sicura», commentò Gor-

    don.«No», convenne Lou. «Ma con il traffico dell'ora di punta, certe volte

    vorrei anch'io avere una bici.»«Oh, suvvia, Lou!» esclamò Laurie. «Non dici sul serio!»

    Jack provò una precisa sensazione di irrealtà, mentre la conversazionecontinuava. Gli sembravano assurde quelle chiacchiere mondane, mentrese ne stavano lì con le tute protettive davanti a un cadavere orrendamentemutilato. Interruppe la discussione sulla pericolosità di andare in biciclet-ta, tornando alla domanda iniziale sul tatuaggio che raffigurava un vichin-go.

    «Ha a che fare con il mito ariano», spiegò Gordon. «Come l'abbiglia-mento e gli stivali, l'immagine dei vichinghi è stata mutuata dal movimen-to skinhead in Inghilterra, dove tutto ha avuto inizio.»

    «Ma perché proprio un vichingo?» insisté Jack. «Pensavo che avesseropreso gli emblemi nazisti.»

    «Il loro interesse per i vichinghi deriva da un punto di vista storicomolto revisionista», spiegò ancora Gordon. «Gli skinhead ritengono che ivichinghi, dediti com'erano ai saccheggi e pronti a uccidere, rappresentinoil non plus ultra dell'onore virile.»

    «Secondo Gordon è per questo che gli hanno strappato via la pelle»,aggiunse Lou. «Chiunque l'abbia ucciso, pensava che non meritasse dimorire con l'immagine di un vichingo ancora addosso.»

    «Credevo che questo tipo di torture fosse finito con il Medioevo»,commentò Jack.

    «Ho visto numerosi casi altrettanto raccapriccianti», affermò Gordon.«Sono ragazzi violenti.»

    «E fanno paura», aggiunse Lou. «Sono dei veri psicopatici.»«Scusami, Laurie», disse Jack. «Posso parlarti un momento da solo?»«Certo.» Laurie si scusò con gli altri due e si spostò verso un angolo

    della stanza assieme a Jack.

    «Sei appena arrivata?» le chiese lui.«Qualche minuto fa», rispose. «Che cosa c'è?»«Mi chiedi che cosa c'è? Sei tu quella che si sta comportando in modo

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    bizzarro e ti dirò che il mistero mi sta mandando fuori di testa. Che cosasuccede? Di che cosa vuoi parlare a me e a Lou?»

    Jack intravide il sorriso di Laurie attraverso la visiera.«Buon Dio», commentò lei. «Non credo di averti mai visto così inte-

    ressato. Sono lusingata.»«Dai, Laurie! Smettila! Sputa il rospo!»«Ci vorrebbe troppo tempo.»«Potresti farmi un rapido riassunto, tenendo per dopo i dettagli più ag-

    ghiaccianti.»«No!» rispose lei decisa. «Dovrai aspettare fino a stasera, ammesso che

    sia ancora in piedi.»«Che cosa vuoi dire?»«Jack! Adesso non posso parlare. Ti parlerò stasera, come abbiamo de-

    ciso.»«Sei tu che lo hai deciso.»«Adesso devo mettermi al lavoro», tagliò corto Laurie. Si voltò e tornò

    al suo tavolo.Jack si sentì frustrato e irritato. Non riusciva a credere che Laurie si

    comportasse così. Borbottando tra sé, tornò ai campioni di Papparis. Vo-leva portarli ad Agnes Finn, in modo che li sottoponesse a un test allafluoresceina per la ricerca degli anticorpi del carbonchio.

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    Lunedì 18 ottobre, ore 9.30

    «Chert! Chert! Chert!» gridò Yuri Davidov e picchiò una manata sulvolante del suo taxi giallo, una Chevy Caprice. Quando andava in colleraparlava in russo, la sua madrelingua, e in quel momento era furibondo.Era incastrato in un ingorgo, immerso in una cacofonia di clacson. Davan-ti a lui si allungava una fila di taxi fermi, di cui scorgeva i fanalini rossidei freni, e il prossimo incrocio era ingombro di auto che andavano in di-rezione perpendicolare alla sua. Quindi, anche quando scattò il verde, luirimase bloccato.

    La giornata si era prospettata male fin dalla prima corsa: mentre Yuriscendeva per la Seconda Avenue, un ciclista aveva tirato un calcio allaportiera dal lato del passeggero, ammaccandola. Diceva che gli aveva ta-gliato la strada. Yuri era sceso dal taxi e lo aveva inondato di improperi inrusso. Avrebbe voluto passare all'aggressione fisica, ma aveva rapidamen-

    te cambiato idea: il ciclista era molto più robusto di lui. Era anche eviden-te che era adirato e che era in forma fisica migliore. Yuri aveva quaranta-quattro anni, ma si era lasciato andare. Era sovrappeso e giù di tono, e lo

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    sapeva.Un leggero tonfo proveniente dalla parte posteriore dell'auto lo fece

    sobbalzare. Si chinò ad aprire il finestrino, si sporse fuori, agitò il pugno econ il suo pesante accento maledisse il tassista che gli aveva dato una pic-

    cola botta all'auto.«Vacci tu!» gli gridò quello. «Muoviti!»«Dove vuoi che vada? Che diavolo vuoi?»Yuri si risistemò sul sedile e si passò una mano tra i folti capelli scuri,

    quasi corvini. Poi la sollevò per girare lo specchietto retrovisore, in mododa potercisi guardare. Aveva gli occhi iniettati di sangue e il viso arrossa-to. Sapeva di doversi calmare, altrimenti avrebbe avuto un attacco alle co-ronarie. Avrebbe avuto bisogno di un sorso di vodka.

    «Che bello scherzo!» borbottò irato in russo. Non si riferiva alla situa-

    zione del momento ma alla sua intera vita che, metaforicamente, avevamolto in comune con quell'ingorgo stradale. Era ferma, a un punto morto,e il risultato era che lui aveva perso ogni illusione. Ormai sapeva per tristeesperienza personale che l'allettante sogno americano da cui si era lasciatoattrarre era tutto un'impostura e il mondo intero se l'era bevuto per colpadei media dominati dagli ebrei americani.

    Davanti a lui le auto cominciarono a muoversi e anche Yuri mise inmovimento la sua, sperando di riuscire per lo meno a superare l'incrocio.Ma non fu così. Il taxi immediatamente davanti si fermò di botto, costrin-

    gendolo a fare altrettanto, e quello dietro gli diede un'altra botta. Era leg-gera come la prima e non aveva causato danni, ma per lui costituiva un'of-fesa.

    Cacciò di nuovo la testa fuori dal finestrino. «Che accidenti hai? È ilprimo giorno che guidi?»

    «Chiudi il becco, dannato straniero», gli gridò dietro l'altro tassista.«Perché non muovi il culo e non te ne torni a casa tua, dove diavolo sitrova?»

    Yuri fece per replicare, ma cambiò idea. Si rimise seduto sul sedile edespirò rumorosamente, come uno pneumatico che si sgonfia. Il commentodel collega aveva involontariamente suscitato un senso di toska che calòsu di lui come una pesante cappa di lana. Toska era una parola russa cheindicava malinconia, depressione, forte desiderio, angoscia, stanchezza enostalgia, vissute tutte assieme sotto forma di un profondo dolore fisico.

    Tenne lo sguardo fisso davanti a sé, senza vedere. Per il momento ladisillusione e la rabbia contro l'America vennero spazzate via da un ricor-do che comparve all'improvviso. Vide se stesso e suo fratello che andava-

    no a scuola, una gelida mattina, nella loro città natale, Sverdlovsk. Con gliocchi della mente vedeva la cucina comune, con la sua convivialità, e nelcuore riviveva l'orgoglio di far parte dell'impero sovietico.

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    Certo, sotto il regime comunista c'erano delle privazioni, come il fattoche di tanto in tanto le donne dovevano fare la fila per il latte o per altribeni di consumo. Ma non era poi tanto male come diceva la gente o comevolevano credere quegli sciocchi, lì in America. In realtà, l'eguaglianza

    per tutti (tranne gli alti papaveri del partito) aiutava a sentirsi uniti e facili-tava l'amicizia. C'erano di certo minori conflitti di classe che lì in Ameri-ca. All'epoca, Yuri non si era reso conto delle cose positive. Ma adesso sele ricordava, e sarebbe tornato a casa. Sarebbe tornato alla piccola madreRussia. Aveva preso quella decisione mesi prima.

    Ma non se ne sarebbe andato senza aver ottenuto la sua vendetta. Erastato ingannato e rifiutato. Adesso avrebbe restituito pan per focaccia, inun modo che avrebbe attirato l'attenzione di tutti quanti, in quel paese in-gannatore e arrogante. E, una volta in Russia, avrebbe offerto in dono la

    sua vendetta a Vladimir Zhirinovsky, il vero patriota della rodina, la ma-drepatria, che sicuramente l'avrebbe riportata alla gloria dell'URSS, segliene avessero dato l'opportunità.

    Le sue elucubrazioni vennero interrotte all'improvviso dallo spalancar-si di una portiera posteriore. Un passeggero gettò dentro una valigetta inpelle di struzzo e salì a sua volta.

    Yuri guardò irritato la sua faccia nello specchietto retrovisore. Era unuomo minuto, con i baffi, che indossava un costoso completo italiano,camicia bianca, cravatta di seta. Dal taschino gli spuntava un fazzoletto

    abbinato alla cravatta. Doveva essere un uomo d'affari o un banchiere.«Union Bank, all'820 della Quinta Avenue», ordinò l'uomo, poi si ada-

    giò sul sedile e aprì il cellulare.Yuri continuò a fissarlo e vide una cosa che non aveva notato in un

    primo momento: portava uno yarmulk.«Che cosa c'è?» gli chiese il cliente. «Non è in servizio?»«No, no, sono in servizio», rispose lui, cupo. Sollevò gli occhi al cielo,

    prima di avviare il tassametro e fissare di nuovo il traffico fermo. Gli cimancava proprio quello: un banchiere ebreo, uno di quei ladri patentatiche portavano il mondo alla rovina.

    Mentre quello faceva una telefonata, Yuri riuscì ad avanzare per lalunghezza di un'auto. Per lo meno, adesso era arrivato all'incrocio. Tam-burellò con le dita sul volante e accarezzò l'idea di dire all'ebreo di andareal diavolo e di scendere dal suo taxi. Ma non lo fece. Così lo avrebbe pa-gato per starsene lì seduto in mezzo al traffico.

    «Accidenti, che ingorgo!» esclamò l'uomo, dopo aver finito la telefo-nata. Si chinò in avanti e mise la testa nell'apertura del divisorio in plexi-

    glas. «A piedi avrei fatto prima.»«Faccia come vuole», replicò Yuri.«Ho tempo. Mi fa bene stare un po' seduto. Per fortuna, la prossima

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    riunione ce l'ho dopo le dieci e mezzo. Pensa di farcela a portarmi a desti-nazione entro quell'ora?»

    «Ci proverò», rispose Yuri in tono indifferente.«È un accento russo, il suo?»

    «Sì.» Yuri sospirò. Quello lì lo avrebbe tirato scemo.«Avrei dovuto immaginarlo dal nome scritto sulla licenza di tassista.Da che parte della Russia proviene, signor Davidov?»

    «Dalla Russia centrale.»«Molto lontano da Mosca?»«Quasi milletrecento chilometri a est. Nei Monti Urali.»«Mi chiamo Harvey Bloomburg.»Yuri sollevò lo sguardo verso lo specchietto e fece un cenno impercet-

    tibile con la testa. Restava sempre stupito dal modo in cui la gente come

    quel Bloomburg aveva voglia di spiattellare i fatti propri. A lui non glienepoteva fregar di meno di sapere come si chiamava.«Sono tornato da Mosca da una settimana circa», continuò Harvey.«Davvero?» A quel punto Yuri si rianimò. Era tantissimo che non ci

    andava. Si ricordava la gioia provata la prima volta nel visitare la PiazzaRossa, con la cattedrale di San Basilio luccicante come un gioiello. Nonaveva mai visto niente di più bello e più commovente.

    «Ci sono rimasto cinque giorni», aggiunse Harvey.«Lei è fortunato. Si è divertito?»

    «Ah!» il passeggero fece un gesto di diniego con la mano. «Non vede-vo l'ora di andarmene! Appena la riunione è finita sono volato a Londra.Mosca non è più sotto controllo, un po' per la delinquenza, un po' per lasituazione economica. Quel posto è un disastro.»

    Yuri provò una nuova fitta di rabbia, all'idea che i problemi che at-tualmente devastavano la Russia erano stati creati proprio da quelli comeHarvey Bloomburg e dal resto della cospirazione sionista internazionale.Sentiva di avere il viso in fiamme, ma tenne a freno la lingua. Adesso sìche aveva bisogno di un bicchiere di vodka.

    «Da quanto tempo è negli Stati Uniti?» gli chiese Harvey.«Dal 1994», bofonchiò lui in risposta. Erano solo cinque anni, ma gli

    sembravano dieci. Però si ricordava il giorno del suo arrivo come se fossestato ieri. Era arrivato in aereo da Toronto, in Canada, dopo tre giorni diproblemi con l'ufficio immigrazione degli Stati Uniti; avevano finito conil concedergli solo un visto temporaneo.

    La sua odissea per arrivare in America era stata estenuante ed era dura-ta quasi un anno. Era iniziata a Novosibirsk, in Siberia, dove lavorava per

    una società del governo, chiamata Vector. Ci lavorava da undici anni, maaveva perso il posto in seguito a una riduzione del personale. Per fortunagli erano rimasti un po' di rubli, prima di essere licenziato, ed era riuscito

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    ad arrivare a Mosca viaggiando con l'aereo, con il treno e ottenendo pas-saggi dai camionisti.

    A Mosca, il disastro: a causa della natura delicata del lavoro che avevasvolto, quando aveva fatto richiesta di un passaporto internazionale, qual-

    cuno aveva avvertito l'FSB (il successore del KGB). Lo avevano arrestato egettato nella prigione di Lefortovo. Dopo un po' di mesi era riuscito a ve-nir fuori accettando di lavorare per il governo a Zagorsk. Il problema erache non lo pagavano, per lo meno non in denaro. Al posto dei contanti glidavano carta igienica e vodka.

    Era fuggito a notte fonda, la vigilia di una vacanza invernale, e avevacoperto un po' a piedi e un po' in autostop i milleseicento chilometri fino aTallinn, in Estonia. Era stato un viaggio terribile, costellato di contrattem-pi, malattie, insulti, in cui aveva patito un freddo tremendo e aveva ri-

    schiato di morire di fame. Aveva subito lo stesso tipo di stenti sperimenta-ti dagli eserciti di Napoleone e di Hitler, con risultati disastrosi.Anche se gli estoni non gli avevano certo mostrato amicizia, a causa

    della sua appartenenza etnica, e alcuni giovani lo avevano perfino picchia-to, una notte, Yuri era riuscito a guadagnare abbastanza soldi da compe-rarsi dei documenti falsi con cui farsi assumere su una nave mercantileche solcava le acque del Baltico. In Svezia aveva abbandonato la nave eaveva chiesto asilo come rifugiato.

    Le autorità svedesi avevano messo in dubbio la validità del suo status

    di rifugiato, ma gli avevano permesso di restare temporaneamente e disvolgere lavori umili, con cui pagarsi un biglietto aereo per Toronto e poiper New York. Quando era finalmente arrivato sul suolo americano, si erachinato a baciare la terra come il papa.

    Durante il lungo e disperato tentativo di arrivare a New York c'eranostati tanti momenti in cui era stato sul punto di rinunciare, ma aveva tenu-to duro. Aveva superato quella prova tremenda attratto dalla promessadell'America: libertà, ricchezza e una vita gradevole.

    Gli venne spontanea una smorfia: altro che gradevole, era la sua vita!Guidava il taxi dodici, a volte quattordici ore al giorno, solo per sopravvi-vere. Tutti i soldi se ne andavano in tasse, affitto, cibo e assistenza sanita-ria per sé e per la grassa moglie che aveva dovuto sposare, per ottenere ilpermesso di soggiorno.

    «Deve ringraziare Dio Onnipotente per essere uscito dalla Russia nelmomento in cui lo ha fatto», gli disse Harvey, senza rendersi conto del suostato d'animo. «Non lo so come fa la gen te a tirare avanti.»

    Yuri non rispose. Voleva solo che Harvey chiudesse il becco All'im-

    provviso il traffico si diradò, allora strinse le mani sul volante e pigiò sul-l'acceleratore e il taxi scattò in avanti, mandando Harvey contro lo schie-nale del sedile. I pneumatici stridettero.

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    «Ehi, la mia riunione non è talmente importante da rischiare la vita»,gridò Harvey.

    Avvicinandosi al prossimo incrocio, che aveva il semaforo rosso, Yurifrenò di botto e l'auto fu sul punto di fare un testacoda, ma lui la manovrò

    con perizia, facendola passare tra un autobus e un furgone parcheggiato,fino a farla fermare dietro un camion dell'immondizia.«Mio Dio!» esclamò Harvey da dietro il plexiglas. «Che genere di la-

    voro faceva quando era in Russia? Non mi dica che faceva il pilota diformula uno!»

    Yuri non rispose.Harvey si chinò in avanti. «Mi interessa», insisté. «Che cosa faceva?

    La scorsa settimana ho conosciuto un tassista che insegnava matematicaprima di venire qua. Ha detto che era un ingegnere. Ci crede?»

    «Sì che ci credo», si decise a rispondere Yuri. «Anch'io sono un inge-gnere.» Sapeva di esagerare, dato che era solo un tecnico, ma non gli im-portava.

    «Che tipo di ingegneria?»«Biotecnologica.» Il semaforo divenne verde e Yuri premette di nuovo

    l'acceleratore. Appena poté, superò il camion dell'immondizia e si diresseverso la zona residenziale, cercando di mantenersi in sincronia con i sema-fori.

    «Davvero una preparazione impressionante», commentò Harvey.

    «Com'è che sta ancora alla guida di un taxi? Pensavo che ci fosse richiestadelle sue competenze. La biotecnologia è il ramo in maggiore espansionedi tutta l'industria.»

    «C'è un problema per dimostrare la mia preparazione. È quello che voiamericani chiamate un Comma Ventidue.»

    «Be', è un vero peccato. Il consiglio che le do è di continuare a tentare.Alla fine potrebbe valerne la pena.»

    Yuri non rispose. Non doveva più sottomettersi all'indegnità di tentare.Non sarebbe rimasto.

    «Ah, è una buona cosa che abbiamo vinto la guerra fredda», aggiunseHarvey. «Almeno il popolo russo ha l'occasione di accedere alla prosperi-tà e alla libertà fondamentali. Spero che ne faccia buon uso.»

    L'irritazione di Yuri si trasformò in rabbia. Lo mandava in bestia doverascoltare in continuazione la falsità che l'America aveva vinto la guerrafredda e aveva mandato in frantumi l'impero sovietico. L'Unione Sovieticaera stata tradita dall'interno: prima da Gorbaciov con la sua stupida gla-snost e la perestroika, e poi da Eltsin, per l'unica ragione di accontentare il

    proprio ego.Yuri cominciò ad andare a tutto gas, zigzagando in mezzo al traffico,passando con il rosso e intimidendo i pedoni.

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    «Ehi!» gridò Harvey. «Rallenti, per la miseria! Che cos'ha?»Yuri non rispose. Detestava la compiaciuta aria di superiorità del suo

    passeggero, gli abiti costosi, la valigetta di pelle di struzzo, e soprattuttoquel ridicolo copricapo che teneva appuntato ai capelli radi e scomposti.

    «Ehi!» gridò ancora Harvey, bussando sul divisorio. «Rallenti o chia-mo la polizia.»Quella minaccia penetrò attraverso la rabbia di Yuri. L'ultima cosa che

    voleva era trovarsi di fronte le autorità. Sollevò il piede dall'acceleratore erespirò a fondo per calmarsi. «Mi scusi», disse. «Cercavo solo di farla ar-rivare puntuale alla sua riunione.»

    «Preferisco arrivarci vivo», sbottò Harvey.Yuri mantenne la velocità nei limiti della norma, mentre proseguiva

    lungo la Quinta Avenue. Una volta lì si diresse a sud per due isolati. Fer-

    mò davanti alla Union Bank e spense il tassametro.Harvey non perse tempo nello scendere dal taxi. Una volta sul marcia-piede, contò i soldi fino all'ultimo penny e li ficcò nella mano di Yuri,pronta a riceverli.

    «Niente mancia?» chiese Yuri.«Lei si merita una mancia come io mi merito un bastone appuntito in

    un occhio», replicò Harvey. «È fortunato che la pago lo stesso.» Si voltò esi diresse verso la porta girevole dell'elegante edificio in vetro e granito.

    «Non mi aspettavo comunque la mancia da un porco sionista!» gli gri-

    dò dietro Yuri.Harvey gli mostrò il medio, prima di scomparire alla vista.Yuri chiuse gli occhi per un momento. Doveva controllarsi, prima di

    combinare qualcosa di stupido. Sperava che Harvey vivesse nell'UpperEast Side, perché quella era la parte della città che lui intendeva devastare.

    In quel momento qualcuno aprì la portiera posteriore e salì in macchi-na. Lui si girò di scatto.

    «Non sono in servizio!» sbottò. «Scenda!»«Il segnale non è acceso», replicò la donna in tono indignato. Aveva

    una valigetta Louis Vuitton da una parte e una custodia in pelle da compu-ter portatile nell'altra.

    Yuri toccò l'interruttore del segnale di fuori servizio e grugnì: «Adessoè acceso. Fuori!»

    «Oh, Cristo!» borbottò la donna. Afferrò valigetta e portatile e scesedal taxi dalla parte della strada. Come gesto vendicativo, lasciò aperta laportiera. Lanciò a Yuri un'occhiata condiscendente e fermò un altro taxi.

    Lui si sporse dal finestrino e diede una manata alla portiera rimasta a-

    perta, che si chiuse senza problemi. Poi si immise di nuovo nel traffico,nella direzione opposta al centro direzionale. Per il momento non era del-l'umore di avere a che fare con altra gente d'affari altezzosa, in particolare

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    con banchieri ebrei. Preferiva crogiolarsi nel gusto della sua vendetta, eper far questo aveva bisogno di assicurarsi che il suo agente patogeno eramortale come immaginava. Questo significava controllare com'erano an-date le cose per Jason Papparis.

    L'ufficio della Corinthian Rug Company si trovava in Walker Street, asud di Canal. Era situato in un locale al pianterreno che dava direttamentesulla strada e aveva in vetrina un paio di sbiaditi tappeti turchi dai disegnigeometrici e alcune pelli di capra. Nell'avvicinarsi, Yuri rallentò. Sullaporta il nome della ditta era scritto in lettere dorate. Era chiusa a chiave,ma lui sapeva che questo non significava niente. Agli inizi, quando erapassato e ripassato di lì per i suoi sopralluoghi, aveva sempre trovato laporta chiusa.

    Fermò l'auto in un tratto destinato al carico e allo scarico, dall'altra par-

    te della strada, da dove vedeva bene l'ingresso. Decise di aspettare, anchese non sapeva esattamente che cosa. In un modo o nell'altro doveva sco-prire com'era lo stato di salute di Jason Papparis. Era sicuro che aveva ri-cevuto la busta dell'impresa di pulizie ACME al più tardi venerdì.

    L'attesa lo calmò, e il pensiero del prossimo passo da compiere permettere a punto il suo grandioso progetto lo eccitò. Sarebbe stato in gradodi dire a Curt Rogers che il carbonchio era potente. Questo avrebbe signi-ficato che l'unica altra cosa che restava da provare era la tossina del botu-lino. Per il giorno fatidico, Yuri aveva deciso di fare affidamento su due

    agenti patogeni, anziché su uno solo. Voleva escludere qualsiasi possibili-tà di fallimento. I due agenti uccidevano in modi completamente diversi,anche se entrambi dovevano essere nebulizzati.

    Ficcò una mano sotto il sedile, spinse da una parte il crick, che tenevacome arma difensiva, e tirò fuori la sua fiaschetta piatta. Un goccio di vo-dka se lo meritava. Si assicurò che nessuno vedesse, e ne ingurgitò unarapida sorsata. Emise un sospiro di sollievo, mentre per tutto il corpo sidiffondeva una deliziosa sensazione di calore. Adesso si sentiva ancorapiù calmo. Era perfino in grado di riconoscere che di recente nella sua vitac'erano stati alcuni momenti positivi.

    Una delle cose più fortunate che gli erano capitate dal suo arrivo negliStati Uniti era stato aver fatto conoscenza con Curt Rogers e con il suoamico Steve Henderson. Proprio il rapporto con loro gli aveva permessodi mettere in pratica la sua fantasia di vendetta. Li aveva incontrati per pu-ro caso. Dopo una lunghissima giornata di lavoro nel caldo estivo, si erafermato in un buco di bar chiamato White Pride a Bensonhurst, Brooklyn.La sua fiaschetta era all'asciutto già da un bel po' e lui aveva talmente bi-

    sogno di un sorso di vodka che non poteva aspettare di rientrare in casa, aBrighton Beach.Erano le undici passate e il locale era affollato, buio e rumorosissimo,

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    infatti il ritmo heavy-metal degli Screwdriver rimbombava per le pareti.Gli avventori erano principalmente giovani bianchi appartenenti alla clas-se operaia, con le teste rasate, le Tshirt senza maniche e una profusione ditatuaggi. Yuri avrebbe dovuto immaginare il tipo di clientela che avrebbe

    incontrato lì dentro, infatti all'esterno aveva notato un buon numero diHarley lucenti, decorate con decalcomanie nazi, parcheggiate con il musocontro il marciapiede, proprio davanti alla porta aperta del bar.

    Yuri si ricordò di aver esitato, una volta sulla soglia, chiedendosi se en-trare o no. L'intuito gli diceva che lì dentro il pericolo stava sospeso nell'a-ria come i miasmi sopra una palude. La gente lo guardava con ostilità.Dopo un momento di indecisione, aveva deciso di correre il rischio, perdue motivi. Uno era il timore che andarsene avrebbe scatenato un inse-guimento, proprio come fuggire davanti a un cane cattivo ma indeciso.

    L'altro era che aveva davvero bisogno di vodka e in tutti gli altri bar diBensonhurst ci sarebbe stata con ogni probabilità la stessa atmosfera diminaccia.

    Si era seduto su uno sgabello vuoto e si era appoggiato al bancone,senza allargarvi sopra i gomiti e tenendo gli occhi fissi davanti a sé.Quando aveva ordinato da bere, il suo accento aveva subito suscitato unareazione. Un certo numero di giovani dall'espressione sprezzante gli si e-rano raggruppati attorno ma, proprio quando lui temeva di passare deiguai, si erano fatti da parte per lasciar passare un uomo dall'aspetto tutto

    per bene, sulla quarantina, che sembrava godere del rispetto di quei gio-vani.

    Il nuovo arrivato era alto e snello e aveva i capelli biondo-scuri tagliaticortissimi, ma non rasati. Lo stile faceva pensare a un militare. Anche luiindossava una Tshirt, ma era pulita, con le maniche corte, e sembrava sti-rata; nella parte superiore sinistra vi era stampata in piccolo l'immagine diun elmetto da pompiere rosso. Sotto il disegno c'era la scritta VIGILI DELFUOCO – REPARTO N.7. In forte contrasto con gli skinhead, sembrava a-vere un solo tatuaggio, una piccola bandiera americana sul braccio destro.

    «Non lo so se sei coraggioso o stupido per entrare qua senza essere in-vitato, amico», gli aveva detto. «Questo è un club privato.»

    «Scusate», aveva borbottato Yuri, e aveva fatto per alzarsi. Il biondo,però, gli aveva posato una mano sulla spalla, facendolo restare seduto.

    «Sembri russo», aveva commentato.«Sì, infatti.»«Sei ebreo?»«No!» aveva risposto con enfasi. «Proprio per niente!» La domanda lo

    aveva stupito.«Vivi su a Brighton Beach?»«Sì», aveva risposto nervosamente Yuri. Non sapeva dove sarebbe an-

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    data a parare quella conversazione.«Credevo che tutti i russi lassù fossero ebrei.»«Io no.» Quell'uomo conosceva la situazione. La maggioranza degli

    emigrati russi a Brighton Beach era costituita effettivamente da ebrei. Era

    uno dei motivi per cui Yuri aveva pochi amici. C'era tutta una serie di or-ganizzazioni ebraiche che davano il benvenuto ai loro correligionari. Gliebrei erano stati gli unici a cui veniva concessa l'autorizzazione a usciredalla Russia, durante il regime comunista, e quindi, al momento della ca-duta dell'Unione Sovietica, lì si era già formata una comunità di notevolidimensioni. A causa della sua mancanza di affiliazione religiosa, Yuri erastato ignorato.

    «Mi sembra di cogliere un atteggiamento negativo verso gli ebrei», a-veva osservato il biondo.

    Lo sguardo di Yuri era dardeggiato qua e là, sugli slogan che ornavanoalcune Tshirt degli skinhead. C'erano scritte come L'OLOCAUSTO È UNMITO SIONISTA e ABBASSO IL GOVERNO AMERICANO OCCUPATODAI SIONISTI. Gli era parso saggio confessare le sue tendenze antisemite.

    Yuri non si era mai dato la pena di pensare tanto agli ebrei, fino alle ul-time elezioni presidenziali in Russia. Era stato allora che si era lasciatocatturare dalla retorica del neofascista Vladimir Zhirinovsky e del neoco-munista Gennedy Zyuganov. A causa della sua toska e dell'orgoglio na-zionalistico ferito, era un facile bersaglio per le teorie demagogiche di en-

    trambi i leader, ormai trite e ritrite e basate sulla necessità di un capro e-spiatorio.

    «Sai, credo che ti abbiamo giudicato male, amico», aveva replicato ilbiondo in risposta alla sua ammissione di razzismo, e gli aveva dato unapacca sulla schiena. «Non solo sei il benvenuto in questo locale, ma il se-condo bicchiere te lo offro io.»

    Poi aveva schioccato le dita verso il barista, che all'inizio si era allon-tanato ai primi segni di una possibile rissa. Quello aveva portato la botti-glia di vodka, riempiendo il bicchiere di Yuri fino all'orlo.

    «Mi chiamo Curt Rogers», si era presentato il biondo, accomodandosisullo sgabello accanto a quello di Yuri. «E questo è Steve Henderson.»Nel dir così, aveva indicato un tipo dalla chioma rossa, che si stava seden-do sullo sgabello dall'altra parte di Yuri. Steve era molto più muscoloso diCurt, ma gli assomigliava molto nel modo di vestire. La sua Tshirt recavalo stesso emblema.

    Dopo quel primo incontro ce n'erano stati numerosi altri, infatti i treavevano scoperto di condividere molte altre opinioni, oltre quelle antise-

    mite. In particolare, si trovavano d'accordissimo nei giudizi sull'attualegoverno degli Stati Uniti.«Non è che un gran casino, illegale, oppressivo e incostituzionale», a-

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    veva sussurrato Curt la prima volta che era saltato fuori quell'argomento.«E c'è soltanto una soluzione. Il governo americano dev'essere rovesciatocon le armi. Non ci sono altri modi. E bisogna farlo subito, perché i sioni-sti stanno diventando ogni giorno più forti.»

    «Davvero?» Yuri era rimasto scioccato nello scoprire che c'erano degliamericani che non approvavano il loro governo. E secondo Curt, che erauna vera autorità per quanto riguardava tutti gli aspetti del governo e dellastoria americana, gli scontenti non erano un'esigua minoranza. I patrioti,come li chiamava Curt, erano sparsi per tutto il paese. Erano tutti benearmati e aspettavano il segnale della rivolta.

    «Ascolta bene le mie parole», aveva sussurrato Curt in un'altra occa-sione. «Ho saputo da fonte irrefutabile che il governo sta addestrando del-le truppe gurkha nel Montana, con migliaia e migliaia di elicotteri. A me-

    no che non si intervenga contro questo governo rinnegato, nel prossimofuturo usciranno fuori dalla loro base e porteranno via ogni singola pistolaa ogni singolo dannato patriota del paese. Allora resteremo indifesi controi sionisti di tutto il mondo.»

    Allora Yuri non sapeva che cosa volesse dire «irrefutabile», ma non siera dato la pena di chiedere, poiché aveva colto il succo del discorso. Ilgoverno degli Stati Uniti era molto più perverso e pericoloso di quanto siimmaginava lui. Era anche divenuto chiaro che lui e Curt volevano farequalcosa al riguardo, e potevano aiutarsi davvero, dato che ognuno dei

    due sapeva fare cose che l'altro non sapeva. Yuri aveva l'esperienza tecno-logica e il know-how necessari a mettere a punto un'arma batteriologicaper la distruzione di massa, mentre Curt aveva le persone in grado di otte-nere i materiali e le attrezzature necessarie. Curt aveva fondato una miliziadi skinhead chiamata Esercito Ariano del Popolo, e sosteneva che le suetruppe avrebbero obbedito a qualsiasi ordine avesse loro impartito.

    «Un nebulizzatore per pesticidi? Nessun problema!» aveva rispostoCurt a una delle prime richieste di Yuri. «Possiamo rubarne uno a LongIsland, quando ne avremo bisogno. Li usano nei campi di patate. Stannoquasi sempre lì a far niente, in attesa che qualcuno se li pigli.»

    Diverse settimane dopo, davanti a bicchierini di vodka ghiacciata,Curt, Yuri e Steve si erano stretti la mano brindando all'inizio di ciò chechiamavano Operazione Volverina. Yuri non sapeva che cosa fosse unavolverina, così Curt gli aveva spiegato che si trattava di un animaletto sel-vatico furbo e aggressivo. Intanto, aveva strizzato un occhio a Steve, infat-ti quel nome si riferiva a un gruppo di giovani in un classico dei film sur-vivalisti, Alba rossa. Era il film preferito di Steve e di Curt, e faceva vede-

    re che le «volverine» avevano respinto l'intero esercito d'invasione russo.Yuri avrebbe voluto chiamarla Operazione Vendetta, ma si arrese nelvedere quanto gli altri due fossero inflessibili su «volverina». Curt aveva

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    spiegato che quel nome avrebbe avuto un significato immediato per tuttal'estrema destra clandestina.

    Ingurgitata la vodka, erano tutti e tre eccitatissimi. Il legame che li uni-va era, secondo le parole di Curt, un matrimonio fatto in paradiso.

    «Ho la sensazione che questa sarà la scintilla che farà esplodere la con-flagrazione», aveva affermato Curt. «Una cosa enorme come questa, cheaccade qui a New York, è destinata a dare inizio alla rivolta generale. Inconfronto a questo, ciò che è accaduto a Oklahoma sembrerà uno scher-zetto da bambini.»

    Che l'Operazione Vendetta desse inizio o no a una rivolta generale, aYuri non importava. Lui voleva solo dare una bella sberla su quella facciacompiaciuta degli Stati Uniti. La gloria che avrebbe conquistato l'avrebbevolentieri donata al movimento di Zhirinovsky e al ritorno dell'impero so-

    vietico.Un improvviso bussare sul paraurti lo riscosse dalle sue fantasticherie.Si voltò e vide un'addetta ai parcheggi.

    «Deve muoversi di qua», lo avvisò. «Qui è riservato al carico e alloscarico.»

    «Scusi», disse Yuri. Mise in moto e partì, ma non andò lontano. Fecesemplicemente il giro dell'isolato e tornò al posto di prima. La donna siera allontanata.

    Accese le luci d'emergenza, per far credere che stava aspettando un

    cliente, e scese di macchina. Nella mezz'ora in cui era stato lì a guardare lavetrina della Corinthian Rug Company, non era entrato né uscito nessuno.Attraversò la strada e, tenendosi le mani attorno al viso, si appoggiò allaporta di vetro e guardò dentro. Il posto era vuoto, le luci spente. Saggiò lamaniglia della porta: era chiusa a chiave.

    Fece qualche passo verso ovest ed entrò in un negozio. Stando sedutonel taxi, aveva notato un certo andirivieni. Si trattava di un posto dovevendevano materiale per collezionisti di francobolli. All'interno era silen-zioso come una tomba, dopo che i campanelli appesi alla porta avevanosmesso di suonare. Dal retro comparve il proprietario, con gli occhialiniappoggiati sulla punta di un naso a patata. Sulla testa calva portava unoyarmulk che secondo Yuri doveva essere incollato.

    «Ho ricevuto una chiamata per prendere un certo signor Papparis allaCorinthian Rug Company»,